Stati Generali dell’esecuzione penale: il diritto all’affettività di Barbara Alessandrini L’Opinione, 4 febbraio 2016 È tempo di un primo bilancio per gli Stati Generali dell’esecuzione penale. In assenza di soluzioni strutturali, i vari rimedi messi in campo dal governo (sia il rimedio preventivo che quello compensativo) si sono rivelati inefficaci dopo le scudisciate che la Corte di Strasburgo ha assestato all’Italia per l’emergenza del sovraffollamento carcerario, per la mancanza nel nostro ordinamento giuridico di strumenti adeguati a dare un taglio alle violazioni ai danni dei detenuti e per la mancata possibilità di risarcirli del danno da inumana detenzione. Rimane, dunque, l’urgenza di ricondurre la pena nel solco che la nostra Costituzione, l’Ordinamento penitenziario e la Cedu le attribuiscono affinché l’esercizio della detenzione non seguiti a tradursi in quel trattamento inumano e degradante che Strasburgo e la giurisprudenza internazionale considera tortura. In attesa di conoscere per quali vie la legge delega sulla riforma penitenziaria e l’esecuzione penale esterna intenda restituire effettività alla funzione rieducativa del condannato e traghettare il sistema penitenziario italiano verso il pieno rispetto dell’umanità della pena e dei diritti fondamentali dei detenuti, gli Stati generali voluti dal ministro Andrea Orlando restano al momento l’unico presidio della volontà, come più volte detto dal ministro, di "definire un nuovo modello di esecuzione della pena ed una nuova fisionomia del carcere più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto". Diciotto tavoli che, avvalendosi del lavoro di chi opera nel mondo penitenziario - educatori, magistrati, avvocati, psicologi, architetti, docenti universitari ed esponenti della società civile e del volontariato - si sono assunti un lavoro ciclopico i cui risultati tuttavia non sono ancora chiari. Unica eccezione per il tavolo coordinato da Rita Bernardini e dedicato al "riconoscimento ed esercizio del diritto all’affettività del detenuto", il primo ad aver elaborato, con tempismo radicale, una relazione complessiva e proposte di cui il governo dovrebbe tener conto. L’impegno dei partecipanti, il professor Paolo Renon, la dottoressa Maria Gabriella Gaspari, il dottor Carmelo Cantone, l’avvocato Giuseppe Cherubino, la dottoressa Lia Sacerdote e il dottor Gustavo Imbellone e la dottoressa Silvana Sergi ha individuato sbocchi concreti alle finalità che si era prefissato il team. Riunitosi 12 volte, senza mai gravare sulle casse del ministero della Giustizia, nemmeno in occasione delle visite e degli incontri nelle carceri visitate, il tavolo è riuscito a portare a casa un’ottima percentuale di risposte dai direttori degli istituti penitenziari (113 su 198 questionari inviati) ed a fornire una serie di indicazioni di cui il governo deciderà se servirsi nell’esercizio della delega. Il tavolo, che ha seguito i due criteri direttivi della legge delega in cui si parla di collegamenti audiovisivi per favorire le relazioni familiari (non si è occupato dell’indegno uso delle videoconferenze nei processi) e riconoscimento all’affettività delle persone detenute, ha considerato amputato il diritto all’affettività sotto tre principali profili: la territorializzazione della pena, i permessi e i colloqui e le relazioni tra detenuti e figli minorenni. Motore di tutte le proposte, un cambio di impostazione che sposta il punto di osservazione anche sull’altra parte del mondo dei detenuti: i familiari e i minori. Perno su cui si è svolto il confronto è il principio che quello all’affettività rappresenta un diritto umano fondamentale e per questo meritevole di strumenti di tutela ad hoc, da assicurare anche alle famiglie che, senza aver ricevuto la condanna, si trovano nella condizione di subire la medesima pena di chi è recluso. Condizione tanto più gravosa se vissuta dai minori privati del rapporto con i propri genitori. Anche a loro il tavolo di lavoro si è dedicato con l’obiettivo di radicare nelle istituzioni il dovere di trasformarne i bisogni in diritti e di rispettarli. E quello alla continuità del legame affettivo è indispensabile per un corretto sviluppo psicofisico. È stata formulata la proposta che il diritto all’affettività sia riconosciuto a tutti i detenuti senza discriminazioni relative alla durata o al regime di detenzione, anche se la stessa Bernardini riconosce quanto il cammino sia in salita: "A legislazione vigente - spiega - il diritto all’affettività non può essere garantito a tutti i detenuti fino a quando il legislatore non interverrà riformando le norme dell’Ordinamento penitenziario che escludono dai benefici categorie di detenuti che prevedono il regime speciale di detenzione al 41 bis". Si avrà il coraggio di affrontare un tema così impopolare come le modifiche al 41 bis? Forse qualcosa si muove: alcuni senatori hanno presentato sul tema un atto di sindacato ispettivo ad Orlando. Resta la consapevolezza che in materia di carcere ostativo e 41 bis la sfida è ancor più titanica date le resistenze ad affrancarsi da una gestione degli istituti penitenziari come strumenti di baratto e di pressione alla collaborazione con l’autorità giudiziaria. La Scuola di magistratura di Scandicci fa marcia indietro sull’invito a Faranda e Bonisoli di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 febbraio 2016 I nomi fanno ancora paura, lo "scandalo" ancora di più. E così, dopo le proteste di Ambra Minervini, figlia del magistrato ucciso dalle Br nel 1980, e sotto la pressione del comitato di presidenza del Csm, la scuola di magistratura di Scandicci ci ripensa e fa marcia indietro sull’invito rivolto ad Adriana Faranda e Stefano Bonisoli. Non che i due ex brigatisti fossero stati chiamati per raccontare alle aspiranti toghe i loro tristi trascorsi di terroristi. Piuttosto invece il precedente Consiglio direttivo della scuola in carica fino all’8 gennaio scorso aveva inserito nel programma del seminario la testimonianza diretta di un’esperienza concreta di "giustizia riparativa". Questo è l’oggetto del corso che si conclude domani a Scandicci e di questo avrebbero dovuto parlare Faranda e Bonisoli, inseriti otto anni fa in un percorso "rigenerativo" che prevede il confronto diretto con i parenti di alcune vittime delle Br - nello specifico Manlio Milani, Agnese Moro e Sabina Rossa - sotto la guida di tre mediatori tra cui il criminologo Adolfo Ceretti. Un’esperienza che è stata raccontata in un volume edito dal Saggiatore, "Il libro dell’incontro". "Si è persa un’occasione formativa", commenta l’ex presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida che presiedeva il precedente Consiglio direttivo della scuola. Dopo il "dissenso" espresso in una nota comune dal vice presidente del Csm Giovanni Legnini, dal primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio e dal procuratore generale Pasquale Ciccolo - un intervento giudicato da Onida "extra ordinem, irrituale, che mi ha stupito" - il nuovo direttivo della scuola, presieduto da Gaetano Silvestri, anche lui emerito della Consulta, ha preso le distanze dall’iniziativa "interamente programmata e definita nei suoi particolari dal precedente Comitato direttivo". E ha deciso di annullare l’incontro previsto nella sessione del corso, "ritenendolo inopportuno", "pur dovendo precisare che l’incontro non configurava un’attività didattica di Bonisoli e Faranda, ma solo la testimonianza di un percorso riparativo, i cui protagonisti sono le vittime dei reati, e pur riconfermando la volontà della Scuola di investire nella formazione della giustizia riparativa". Una decisione scaturita da quella che Onida definisce "una reazione violenta e in gran parte ingiustificata" ma considerata invece "saggia e ragionevole" dalla Pd Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera, e "giusta e doverosa" dall’Ncd Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia. Del motivo reale dell’invito rivolto al gruppo di cui fanno parte i due ex terroristi, nessuno ne parla. Piuttosto per Ferranti la formazione dei magistrati non deve essere sottoposta a "forzature e rischi di strumentalizzazione", e per Ferri l’insegnamento in "un luogo istituzionale" quale la scuola superiore di Scandicci, per quanto multidisciplinare non può che "svolgersi secondo i criteri della didattica come disciplina pedagogica". Qualunque cosa voglia dire. Di tutt’altra opinione invece Manlio Milani, presidente dell’Associazione dei caduti di piazza della Loggia, che definisce "sconcertante" e "del tutto triste" la "polemica su un corso di formazione di magistrati". "Storie maledette", scoppia la polemica. Franca Leosini: "studio gli atti dalla A alla Z" di Silvia Fumarola La Repubblica, 4 febbraio 2016 Il Pd chiede di non trasmettere l’intervista a Luca Varani su RaiTre. Con la nuova edizione di Storie maledette su RaiTre in prima serata è la regina della stagione televisiva. In vent’anni ha intervistato tutti; da Angelo Izzo, uno dei massacratori del Circeo, a Patrizia Gucci a Pino Pelosi. Il ciclo si chiude oggi, tra le polemiche, col Pd (Vinicio Peluffo e Michele Anzaldi e la vice presidente del Gruppo Dem alla Camera, Alessia Morani) che chiede di non trasmettere l’intervista a Luca Varani, condannato in Appello a 20 anni come mandante dell’aggressione con l’acido alla sua ex Fidanzata, l’avvocatessa Lucia Annibali. "La correttezza della Leosini è indiscussa. La nostra richiesta - spiega Alessia Morani - è stata fatta alla luce dell’intervento della Procura di Pesaro. Varani è stato condannato in primo grado il 29 marzo 2014 e la sentenza è stata confermata nel gennaio del 2015, ma ancora manca il giudizio della Cassazione, la prima udienza è prevista per il 10 maggio". "La verità processuale non sarà condizionata dall’intervista" dice l’avvocato della Annibali, Francesco Coli, a Rtv San Marino. "Ma conoscendo il soggetto non credo che confesserà o chiederà scusa". In Rai confermano che la puntata andrà in onda e che sono stati chiesti tutti i permessi al Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Napoletana, marito direttore di banca, due figlie, laurea in Lettere, ex collaboratrice all’espresso, ex direttrice di Cosmopolitan, Franca Leosini viene chiamata a RaiTre da Angelo Guglie-mi che legge i suoi commenti sui processi sul Tempo, Nel 1988 è autrice di Telefono giallo, dal 1994 gira le carceri a caccia di storie. Chioma a profiterole che resiste alle mode, giacche firmate ("le compro io, sia chiaro") voce modulata, flautata e perentoria, conoscenza dei processi dalle virgole alle parentesi, ipnotizza pubblico e criminali. Signora Leosini, che pensa della polemica su Varani? "No, su questo non faccio commenti. Chieda alla Rai. Mi risulta che l’intervista andrà in onda. Però mi scusi, una cosa". Dica. "Non voglio essere chiamata signora, le signore stanno in salotto e le giornaliste stanno sul marciapiede. Signora mai". Va bene. Come prepara le puntate? "Non ho pregiudizi, cerco risposte. Studio gli atti dalla prima all’ultima pagina. Vado a incontrare persone che sono come me e come lei, ma che sono cadute nel vuoto di una maledetta storia. Per questo ho intitolato il programma "Storie maledette". Fosse per me, lì inviterei tutti a casa". È sicura? "Mah. Forse. Tutte le persone con cui ho parlato, però, non rifarebbero quello che hanno fatto, hanno avuto modo di elaborare. M’interessa ascoltare, l’intervista è quasi una seduta di analisi. Dico sempre che rubo l’anima per poi restituirla". Quali sono le regole? "Devono essere persone che non hanno mai parlato prima e non parleranno dopo. Non rivelo mai in anticipo le domande. Mi rifiutai d’intervistare Bozano, ero arrivata all’isola d’Elba dovevo andare a Porto Azzurro, e lui pose come condizione di sapere cosa avrei chiesto. Chiamai il dirigente Rai Giovanni Tantillo: "Mi dispiace, riparto le domande non le do". Vent’anni dì "Storie maledette": che ha capito? "La lettura del paese attraverso i delitti è interessante; c’è la tipologia del nord. Il caso Olindo e Rosa, a Napoli, la mia città sfigurata dalla camorra, non si verificherebbe mai: da noi c’è la "vicoleria", la solidarietà del vicolo, una reciprocità per cui il tuo pianto mi appartiene". Le donne vengono uccise ovunque. "La violenza sul e donne è peggiorata: fa più notizia e c’è maggiore sensibilità. L’uomo non accetta che la donna decida il destino della coppia, non sopporta l’indipendenza economica. È la memoria amniotica ed è trasversale: riguarda tutte le classi sociali". Si è mai posta il problema di essere strumentalizzata? "È impossibile, c’è un lavoro enorme dietro ogni incontro, e ringrazio la mia redazione per questo. Studio le carte, la psicologia, l’ambiente in cui la storia si verifica. Ci vuole fiducia reciproca, ma mi aspetto sincerità". Si fida sempre? "Dubito sempre. Quelli che parlano con me si affidano, sanno che non giudico. I miei verbi sono: capire, dubitare, raccontare. Voglio capire cosa abbia portato i miei interlocutori dalla quotidianità al delitto". Usa un lessico forbito, arcaico. "Non scelgo le parole, le possiedo. Il mio vocabolario è frutto di letture. Mi gratifica essere seguita dall’intellighenzia - Garrone per L’imbalsamatore e Primo amore si è ispirato a due storie maledette - e dal grande pubblico. Il verduraio ha la mia foto sul carretto, veleggio tra zucchine e peperoni". E un’icona gay, i "leosines" sono scatenati: il segreto? "Sono come mi si vede. In carcere vado col tailleur, non mi travesto. Sono me stessa". Caso Stacchio, la Procura chiederà l’archiviazione per il benzinaio che uccise un rapinatore di Roberta Russo Il Fatto Quotidiano, 4 febbraio 2016 Entro alcuni giorni sarà chiesto il rinvio a giudizio per tentata rapina e omicidio in concorso di Oriano Derlesi, uno dei ladri della banda della gioielleria e "se c’è il tentato omicidio" ha spiegato il procuratore "non può esserci eccesso di legittima difesa". Stacchio era diventato uno dei simboli dei sostenitori della legittima difesa armata, tra cui la Lega Nord. Sparò a un nomade che stava tentando di rapinare una gioielleria a Ponte di Nanto, in provincia di Vicenza. Adesso, a un anno esatto dal giorno che gli cambiò la vita, il procuratore di Vicenza, Antonio Cappelleri, annuncia che sarà presentata la richiesta di archiviazione delle accuse contro Graziano Stacchio. Il benzinaio vicentino, considerato da molti un eroe, potrebbe presto lasciarsi alle spalle l’indagine per eccesso colposo di legittima difesa. Entro alcuni giorni infatti sarà chiesto il rinvio a giudizio, per tentata rapina e omicidio in concorso, di Oriano Derlesi, uno dei rapinatori della banda della gioielleria, arrestato a luglio dello scorso anno. E "se c’è il tentato omicidio" ha spiegato il procuratore "non può esserci eccesso di legittima difesa". Non ci sono invece novità sugli altri due complici rimangono sconosciuti, così come rimane nell’ombra l’uomo ripreso in volto dalle telecamere di sorveglianza. Il gioielliere adesso non nasconde di volersi costituire parte civile in un futuro processo, per chiedere i danni materiali e morali patiti. Il pomeriggio del 3 febbraio 2015 Stacchio era lavoro alla pompa di benzina, di fronte alla gioielleria dell’amico Roberto Zancan già presa di mira altre volte, quando una banda cercò di rapinarla. Per fermare i banditi il benzinaio sparò in aria, scatenando una raffica di mitra da parte dei rapinatori. Stacchio allora sparò un altro colpo, stavolta in direzione dei ladri, ferendo alla gamba Albano Cassol, recidendogli l’arteria femorale e uccidendolo. Da allora la vita di Stacchio e Zancan è cambiata: entrambi sono finiti sotto scorta per le continue minacce accompagnate da buste da lettera contenenti proiettili e il benzinaio è passato da iscritto al registro degli indagati a beniamino della legittima difesa per l’opinione pubblica e, in primis, per la Lega Nord. Il diritto alla legittima difesa in Veneto è alla base di una polemica che non accenna a placarsi. Dopo l’annuncio della richiesta di archiviazione per il benzinaio vicentino il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha sottolineato la "necessità di ripensare il concetto di legittima difesa, estendendone i confini senza ideologizzare e senza andare appresso alla Lega". Stacchio infatti non è il primo ad essere stato considerato, suo malgrado, eroe dai difensori della legittima difesa armata: il primo tra tutti fu Ermes Mattielli, il vicentino di 62 anni, che il 13 giugno 2006 sparò 14 colpi di pistola contro due ladri sorpresi a rubare nel suo deposito. Nove anni dopo, Mattielli fu condannato a cinque anni e quattro mesi di reclusione e a risarcire i due ladri con 135mila euro, scatenando lo sdegno di chi, come Matteo Salvini chiede la cancellazione del reato di eccesso di legittima difesa. Pochi giorni fa su internet gli abitanti di Padova si sono invece scagliati contro la giudice Beatrice Bergamasco, "colpevole" di aver condannato a 2 anni e 8 mesi Franco Birolo, il tabaccaio che nel 2012 a Civè di Correzzola, nel Padovano, uccise un ladro di origine moldava che nel cuore della notte si era introdotto nel suo negozio. La Bergamasco ha inoltre stabilito un risarcimento di 325mila euro alla famiglia del bandito. A causa delle minacce ricevute la giudice è stata messa sotto scorta. Infine, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha concesso la grazia parziale a Antonio Monella, l’imprenditore edile che sparò dal balcone a una banda che, dopo un’intrusione in casa, cercava di rubargli l’auto: un 19enne perse la vita. Essere corrotti non basta, il giudice reintegra il politico dipendente in Regione di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 4 febbraio 2016 Salvo il posto dell’ex presidente dell’Autobrennero Silvano Grisenti. Era stato condannato a un anno per corruzione, tentata violenza privata e truffa. L’allora presidente dell’Autobrennero, Silvano Grisenti, era stato condannato - tra le altre cose - anche per aver dirottato un appalto verso un’impresa in cambio di lavori di progettazione al fratello ingegnere. Una condanna definitiva per corruzione, truffa aggravata e tentata violenza privata non basta a giustificare il licenziamento di un dipendente pubblico. Lo sostiene il giudice che ha reintegrato il lavoratore, sostenendo che il cambio di mansioni salva il rapporto di fiducia. La vicenda si svolge in Trentino e ha come protagonista Silvano Grisenti, un importante politico molto vicino al deputato Lorenzo Dellai che ha affiancato in una carriera ventennale, prima nella Dc poi nella Margherita e infine in un autonomo partito autonomista. Consigliere e assessore comunale, consigliere e assessore provinciale grazie a 11 mila preferenze, nel 2007 Grisenti viene nominato presidente dell’Autobrennero, ricca società a controllo pubblico. Un anno dopo, quando si dimette per un’indagine giudiziaria, torna al suo originario posto di lavoro in Regione. Passano gli anni e, mentre si svolgono i processi, Grisenti continua a lavorare in Regione. Ma non molla la politica. Nel 2012 viene rieletto in Consiglio provinciale, rimettendosi in aspettativa dal suo posto in Regione. Ma nel 2015 la sentenza definitiva della Cassazione lo giudica colpevole di tre reati. Corruzione per aver chiesto e ottenuto da un imprenditore la promessa di un incarico per il fratello ingegnere; tentata violenza privata per aver provato a costringere una coop a rinunciare a un ricorso al Tar che avrebbe penalizzato l’Autobrennero, paventando in caso contrario conseguenze negative su altri appalti; truffa per aver organizzato e pagato con la carta di credito aziendale "pranzi di natura politica" con "esponenti del suo partito" spacciandoli per incontri di rappresentanza, per circa mille euro. Grisenti viene condannato a un anno di reclusione. Ricevuta notizia, il Consiglio provinciale delibera la sua decadenza dalla carica elettiva, come prevede la legge Severino. Grisenti torna a lavorare ma per poco, perché la Regione lo licenzia. Grisenti, che si è sempre professato innocente, ricorre al giudice del lavoro. E ottiene ragione. Sostiene il giudice Giorgio Flaim che la condanna penale riguarda un periodo in cui Grisenti era "presidente di una Spa e non poteva dirsi pubblico impiegato". Ma omette di ricordare che la Autobrennero Spa è a controllo pubblico (83%), la Regione ne è prima azionista (32%) e ne nomina i vertici. Né si può sostenere, dice il giudice, che la condanna per quei reati contro la pubblica amministrazione sia sufficiente a far venire meno il rapporto di fiducia tra pubblica amministrazione e dipendente. Fu corrotto e truffatore, ma difficilmente lo sarà in futuro. Le sue nuove mansioni (controllo di regolarità su associazioni impegnate in progetti internazionali) sono diverse da quelle che lo fecero cadere in tentazione. Non avendo poteri di rappresentanza della Regione, "verosimilmente mai si troverà a gestire in prima persona i contatti diretti con imprese appaltatrici o con esponenti di altre istituzioni. Ed essendo sprovvisto di poteri di spesa, verosimilmente mai si troverà a poter chiedere rimborsi all’ente datore per spese assunte nell’ambito di iniziative da lui stesso promosse". Invano obietta la Regione che "non è possibile ridurre a bagatella la condanna definitiva per alcuni reati particolarmente gravi. "La giusta causa di licenziamento è radicalmente insussistente", conclude il giudice condannando la Regione a reintegrare Grisenti nel suo posto, oltre a versare un risarcimento pari a un anno di stipendio più contributi previdenziali e interessi. Un precedente non basta per negare la messa alla prova di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 3 febbraio 2016 n. 4526. Il giudice non può negare la sospensione del processo con messa alla prova solo sulla base di un precedente penale. La Cassazione, con la sentenza 4526 depositata ieri, accoglie un ricorso contro l’ordinanza con la quale il Tribunale, anche il virtù del parere contrario del Pubblico ministero, rigettava la richiesta di messa alla prova (legge 67/2014). Un no motivato dall’esistenza di "una recidiva specifica infra-quinquennale" che, secondo i giudici di primo grado, rendeva impossibile dare il via libera all’utilizzo del nuovo istituto. La Suprema corte però la pensa diversamente. La Cassazione ricorda i tratti salienti della norma che, ai sensi dell’articolo 167 bis del codice penale, si può applicare ai reati con un tetto di pena di 4 anni, o ai delitti citati dall’articolo 550 del codice di rito:?dalla rissa aggravata al furto aggravato, dalla resistenza al pubblico ufficiale alla violazione di sigilli. Il via libera alla sospensione del procedimento, in vista dell’affidamento al servizio sociale e dello svolgimento di un lavoro di pubblica utilità, è disposto dal giudice che "in base ai parametri dettati dall’articolo 133 del codice civile, reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere altri reati". L’articolo 133 del codice penale elenca gli indici rivelatori della gravità del reato che il giudice deve valutare per aprire o meno alla messa alla prova. Fra questi ci sono la natura del crimine commesso, la gravità del danno arrecato alla vittima, il grado di colpa o l’intensità del dolo. Sempre lo stesso articolo sposta poi l’attenzione sulla capacità di delinquere, che va desunta: dal carattere del reo, dai motivi che lo hanno spinto a "trasgredire", dalle sue condizioni di vita familiare e sociale e dai precedenti penali e giudiziari. Nel caso esaminato il Tribunale - sottolinea la Cassazione - ha respinto la richiesta dell’imputato prendendo in considerazione solo il precedente penale. Ma il riferimento ad uno solo dei molteplici indici previsti dal codice non basta a legittimare il no. Arresti domiciliari, è evasione l’uscire per fare la spesa di Andrea A. Moramarco Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2016 Corte d’appello di Taranto, sezione penale, sentenza 18 luglio 2015, n. 478. Chi si trova agli arresti domiciliari non può assolutamente allontanarsi dall’abitazione in assenza di autorizzazione da parte del giudice, nemmeno per andare a fare la spesa al supermercato. Lo ha deciso la Corte d’appello di Taranto che ha confermato la condanna per un detenuto agli arresti domiciliari, sorpreso dai Carabinieri in prossimità della propria casa con in mano buste contenenti generi alimentari. A nulla è valsa come giustificazione la necessità di comprare alimenti per la sua sopravvivenza. I reati tributari al capolinea di Claudia Marinozzi Italia Oggi, 4 febbraio 2016 Niente penale per le condotte dei contribuenti che non integrano le fattispecie di reato così come oggi "revisionate". La sezione penale della Corte di cassazione, infatti, sta pronunciando le prime sentenze con le quali esclude la configurazione dei reati per condotte integranti i reati come delineati dalla vecchia normativa. Le decisioni della Corte di cassazione. Con la revisione del sistema penal-tributario, tra l’altro, sono state innalzate le soglie di rilevanza penale per i reati di dichiarazione infedele (art. 4 dlgs 74/2000) e di omesso versamento dell’Iva (art. 10-ter dlgs 74/2000). Prima dell’entrata in vigore del dlgs 158/2015 le fattispecie delittuose in commento si configuravano qualora, oltre ad altri specifici elementi richiesti da ciascuna norma, il contribuente rispettivamente evadesse imposte per un importo superiore a euro 50 mila o omettesse di versare l’Iva per euro 50 mila. Dal 22 ottobre 2015, invece, tali reati si configurano qualora il contribuente evada imposte per il maggior importo di euro 150 mila e ometta il versamento dell’Iva per euro 250 mila. In virtù dell’operare del principio del favor rei la Corte di cassazione ha escluso che le condotte dei contribuenti, seppure integranti le fattispecie di reato in ragione delle norme in vigore al momento della commissione del fatto, abbiano oggi rilevanza penale alla luce delle nuove disposizioni, ciò in quanto le condotte tenute non superano le soglie attualmente rilevanti ai fini dell’integrazione del reato (Cass. 891/2016 e 3098/2016). Anche con riferimento al reato di dichiarazione infedele conseguente a comportamenti ritenuti abusivi/elusivi, ascritti al contribuente per condotte tenute prima dell’entrata in vigore del nuovo art. 10-bis dello Statuto del contribuente, la Corte di cassazione ha affermato che questo non può essere oggi contestato all’imputato in quanto per espressa previsione normativa è esclusa la rilevanza penale delle fattispecie di abuso/elusione (Cass. 3876/2016 e 40272/2015). Le linee guida della revisione del sistema penal-tributario. L’art. 8 della legge 23/2014 ha "delegato (il governo) a procedere alla revisione del sistema sanzionatorio penal-tributario secondo criteri di predeterminazione e proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti". Con tale disposizione, inoltre, il governo è stato chiamato "all’individuazione dei confini fra la fattispecie di elusione ed evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie". Con il titolo I del dlgs 158/2015 da un lato è stata rafforzata la tutela verso comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa (punibili con la pena detentiva da un minimo di sei mesi a un massimo di sei anni) dall’altro sono state mitigate le risposte sanzionatorie penali per i fatti privi di connotati di fraudolenza in senso oggettivo. Con il dlgs 128/2015, e in particolare con l’art. 1, è stata introdotta la nuova fattispecie di abuso/elusione e con riferimento agli aspetti sanzionatori è stato previsto che "le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie" ferma restando l’applicazione delle sanzioni amministrative. Il favor rei. L’art. 2 del codice penale, prevede tra l’altro, che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore non costituisce reato". Ciò sta a significare che qualora un contribuente fosse stato incriminato sulla base delle vecchie disposizioni del dlsg 74/2000 per condotte oggi non più integranti reato questo non può più essere perseguito penalmente. Il Riesame deve ridurre il sequestro se eccede il profitto di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 4567/2016. Il decreto che dispone il giudizio penale non ha efficacia preclusiva sulla determinazione della somma da sottoporre a sequestro preventivo. Pertanto se il giudice ha sbagliato la quantificazione del prezzo o del profitto del reato, il Riesame ha il potere/dovere di rettificare il perimetro del provvedimento ablativo. Con la sentenza 4567/16 - depositata ieri - la Quarta penale della Cassazione è tornata per la seconda volta a esprimersi sull’indagine per frode fiscale contro una Srl unipersonale di Perugia. Nel maggio scorso il Gip umbro aveva sequestrato, a fini di confisca, beni per il controvalore di circa 650mila euro, somma corrispondente alle contestazioni della procura relative a operazioni soggettivamente e oggettivamente false. Dopo un primo ricorso di legittimità contro l’ordinanza confermativa del Riesame, i magistrati perugini avevano dissequestrato un conto corrente e due vetture dell’azienda, mantenendo però sostanzialmente inalterato l’impianto del provvedimento, nuovamente impugnato davanti alla Cassazione. Secondo i giudici di merito, in sostanza, in questa fase cautelare "il profitto dei reati deve essere individuato (...) con riferimento agli importi indicati nei capi di imputazione, perché l’individuazione degli importi, e quindi anche il superamento della soglia di punibilità, sono strettamente collegati al fumus". Motivazione che il Riesame, tra l’altro, lega indissolubilmente alla decisione "presa nel contraddittorio delle parti nel giudizio di merito" e pertanto "il decreto che dispone il giudizio ha la stessa efficacia preclusiva". Per la Quarta penale, però, questa motivazione contiene un errore di diritto. Se è pur vero che il Riesame "non deve accertare, ai fini del rispetto del principio di proporzionalità, l’esatta corrispondenza tra profitto del reato e "quantum" sottoposto a vincolo cautelare", è allo stesso tempo doveroso che in questa sede sia valutata la "non esorbitanza del valore dei beni sequestrati rispetto al credito garantito". E, considerando poi che in tema di reati tributari il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente (articolo 1 comma 143 legge 244/2007) va riferito all’ammontare dell’imposta evasa - riconducibile alla nozione di "profitto del reato" - il giudice di appello avrebbe dovuto tenere in miglior considerazione le argomentazioni della difesa che, calcolando l’imposta evasa compresi interessi e sanzioni, aveva disegnato un perimetro ablativo cautelare ridotto del 50% rispetto alla misura per due volte adottata a Perugia. Annullando nuovamente l’ordinanza di sequestro, la Quarta sezione penale sottolinea inoltre che il giudice del rinvio dovrà operare una diligente valutazione sul valore dei beni sequestrati, appunto per verificare il rispetto del principio di proporzionalità tra il credito fiscale garantito e il patrimonio assoggettato a vincolo cautelare, ed evitare così che la misura si riveli "eccessiva nei confronti del destinatario". Inps, "indebita percezione" e non "truffa" per la falsa compensazione dei contributi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 3 febbraio 2016 n. 4404. Non scatta il reato di "truffa" bensì quello più lieve di "indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato" per il datore di lavoro che inganni l’Inps dichiarando di aver corrisposto ai propri dipendenti somme a titolo di indennità per malattia, assegni familiari e Cigs, al solo fine di compensarle con i contributi previdenziali e assistenziali dovuti. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 4404/2016, accogliendo il ricorso di un imprenditore di L’Aquila. In appello, il ricorrente, amministratore unico di una Srl, era stato invece condannato per truffa per avere posto in essere "artifizi e raggiri" conguagliando indebitamente i contributi con le somme dovute per trattamenti previdenziali ed assistenziali, in realtà mai corrisposte, così inducendo in errore l’Inps e procurandosi un ingiusto profitto di 4.453 euro. Nella propria difesa l’imprenditore aveva sostenuto di essere caduto in un "mero errore" avendo esposto nella denuncia contributiva non già le somme corrisposte ma quelle ancora da corrispondere. Tuttavia, trattandosi di un credito effettivamente esistente ed avendo egli l’obbligo di anticipare ai lavoratori quanto ad essi dovuto per conto dell’Inps, non vi sarebbe stato alcun raggiro né danno patrimoniale per l’Ente. In passato la giurisprudenza è stata oscillante: rubricando la fattispecie ora come truffa ora come appropriazione indebita; tuttavia nel 2007 le Sezioni unite (sentenza n. 16568) hanno ascritto all’articolo 316-ter "le condotte alle quali non consegua un’induzione in errore per l’ente erogatore". E nel 2010, sempre le S.U. (n. 7537) hanno chiarito che l’indebita percezione "punisce condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa, caratterizzate (oltre che dal silenzio antidoveroso) da false dichiarazioni o dall’uso di atti o documenti falsi, ma nelle quali l’erogazione non discende da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’ente pubblico erogatore, che non viene indotto in errore perché in realtà si rappresenta correttamente solo l’esistenza della formale attestazione del richiedente". E fra di esse "rientrano tutte le attività di contribuzione ascrivibili a tali enti, non soltanto attraverso l’elargizione di una somma di danaro ma pure attraverso la concessione dell’esenzione dal pagamento di una somma agli stessi dovuta", nel caso si trattava dell’esenzione dal ticket per prestazioni sanitarie. Dunque, prosegue la sentenza, ciò che è richiesto "è l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere (ovvero l’omissione di informazioni dovute) da cui derivi il conseguimento indebito di erogazioni da parte dello Stato o di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, da cui derivi cioè il conseguimento di erogazioni cui non si ha diritto". E questo sia che si tratti dell’ottenimento di una somma che dell’esenzione da un pagamento. Infine, precisa la Corte, il reato si è consumato nel momento in cui il datore di lavoro ha versato all’Inps (sulla base dei dati indicati sui modelli DM10) i contributi ridotti per effetto del conguaglio cui non aveva diritto, "venendo così - tramite il mancato pagamento di quanto altrimenti dovuto - a percepire indebitamente l’erogazione dell’ente pubblico". Altra cosa, conclude la Corte, è invece il reato di "indebita compensazione" previsto dall’articolo 10 quater del Dlgs 74/2000, riguardando esso esclusivamente l’ambito tributario. Utilizzabili le intercettazioni anche su nuove schede e su utenze estere di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 3 febbraio 2016 n. 4484. Sono utilizzabili le intercettazioni "spostate" su altre utenze telefoniche, su automobili diverse e anche quelle effettuate, attraverso i ponti telefonici, in altro Stato. La Cassazione, con la sentenza 4484 depositata ieri, respinge un ricorso teso ad affermare la non utilizzabilità dei risultati probatori frutto di intercettazioni ambientali diverse da quella autorizzate in origine. Il ricorrente lamentava che, senza un nuovo provvedimento, erano state fatte intercettazioni su utenze mobili che utilizzavano non solo Sim differenti ma anche diversi codici Imei. Contestate anche le registrazioni disposte su autovetture noleggiate o di nuovo acquisto e quelle effettuate "estero su estero" senza rogatoria. Per la Cassazione però il primo provvedimento del giudice basta ad estendere l’intercettazione su tutte le schede utilizzate dalla medesima persona e lo stesso vale per le registrazioni ambientali nelle autovetture. Non comporta infine la violazione delle norme sulle rogatorie internazionali, la procedura dell’"istradamento" che consente la captazione di telefonate che transitano dalle centrali poste nel territorio italiano. Risarcimento del danno tanatologico. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2016 Danno - Morte di un congiunto - Decesso avvenuto immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni subite - Danno tanatologico - Risarcibilità - Esclusione. Il momento centrale del sistema della responsabilità civile è rappresentato dal danno, inteso come perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva. E poiché una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l’irrisarcibilità deriva (non dalla natura personalissima del diritto leso, poiché ciò di cui si discute è il credito risarcitorio, certamente trasmissibile, ma) dall’assenza di un soggetto al quale sia collegabile, nel momento in cui si verifica, la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità, a tal fine, di uno spazio di vita brevissimo. • Corte di Cassazione, sezioni Unite, sentenza 22 luglio 2015 n. 15350. Responsabilità civile - Danno - Risarcimento del danno - Danno tanatologico - liquidazione - Trasmissibilità iure heriditatis. In tema di risarcimento dei danni da morte, l’ammontare del c.d. danno biologico deve essere calcolato non con riferimento alla durata probabile della vita del defunto, ma alla sua durata effettiva. La risarcibilità di tale danno si trasmette agli eredi iure heriditatis. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 8 luglio 2014 n. 15491. Danno e risarcimento - Risarcimento del danno da fatto illecito - Danno da perdita della vita - Risarcibilità - Danno evento diverso dal danno conseguenza - Configurabilità. Costituisce danno non patrimoniale il danno da perdita della vita, quale bene supremo dell’individuo, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile garantito in via primaria da parte dell’ordinamento e che è altro e diverso dal danno alla salute e dal danno biologico terminale e dal danno morale terminale della vittima. Il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce istantaneamente al momento della lesione mortale e quindi anteriormente all’exitus, costituendo ontologica, imprescindibile eccezione al principio dell’irrisarcibilità del danno evento e della risarcibilità dei soli danni conseguenza. • Corte di Cassazione, sezione 3, sentenza 23 gennaio 2014 n. 1361. Risarcimento del danno - Danno morale - Danno "tanatologico" - Riconducibilità al danno biologico - Esclusione. In tema di risarcimento del danno non patrimoniale, quando all’estrema gravità delle lesioni, segua, dopo un intervallo temporale brevissimo, la morte, non può essere risarcito il danno biologico "terminale" connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute, ma esclusivamente il danno morale, dal primo ontologicamente distinto, fondato sull’intensa sofferenza d’animo conseguente alla consapevolezza delle condizioni cliniche seguite al sinistro. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 20 settembre 2011 n. 19133. Risarcimento del danno - Morte di un congiunto - Morte non immediata della vittima - Danno tanatologico - Riconducibilità al danno morale - Diritto al risarcimento - Trasmissibilità agli eredi. In caso di morte che segua le lesioni fisiche dopo breve tempo, il danno c.d. tanatologico, consistente nella sofferenza patita dalla vittima che sia rimasta lucida durante l’agonia, in consapevole attesa della fine, dev’essere ricondotto nella dimensione del danno morale, inteso nella sua più ampia accezione, ed il diritto al relativo risarcimento è trasmissibile agli eredi. • Corte di Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 7 giugno 2010 n. 13672. Risarcimento del danno - Danno morale - Danno "tanatologico" - Autonoma voce di danno - Esclusione - Ricomprensione nel danno morale - Liquidazione. Il danno tanatologico o da morte avvenuta a breve distanza di tempo da lesioni personali, deve essere ricondotto nella dimensione dei danni morali e concorre alla liquidazione degli stessi da configurare in modo unitario ed onnicomprensivo, procedendosi alla personalizzazione della somma complessiva che tenga conto, perciò, anche della suddetta voce di danno, ove i danneggiati ne abbiano fatto specifica e motivata richiesta e sempre che le circostanze del caso concreto nel giustifichino la rilevanza. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 8 aprile 2010 n. 8360. Risarcimento del danno - Danno morale - Danno cosiddetto "tanatologico" - Autonoma voce di danno - Esclusione - Inclusione nel danno morale nella sua più ampia accezione. Il danno "tanatologico" o da morte immediata va ricondotto nella dimensione del danno morale, inteso nella sua più ampia accezione, come sofferenza della vittima che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 13 gennaio 2009 n. 458 Trentino Alto Adige: al via i Disegni di legge sul Garante dei detenuti e dei minori lavocedeltrentino.it, 4 febbraio 2016 Tre i disegni di legge, tutti sulla modifica della legge sul difensore civico, aperti ieri pomeriggio in Prima Commissione: il primo di Nerio Giovanazzi, già depositato due legislature fa, ha l’obiettivo di rendere rieleggibile il difensore civico. Anche per dare la possibilità al Consiglio, ha ricordato il consigliere di Amministrare il Trentino, di rinnovare un ombudsman che ha lavorato bene. Mattia Civico (Pd) ha detto che i suoi due ddl mirano a rafforzare la difesa civica con l’istituzione di due garanti, uno dei detenuti e uno dell’infanzia. Due ambiti particolari diversi dai rapporti tra cittadino e amministrazione di cui si occupa tradizionalmente il difensore civico. Soffermandosi soprattutto sul garante del detenuto il consigliere ha ricordato che la detenzione, troppo spesso, non toglie solo la possibilità di movimento alle persone ma intacca diritti come quello all’istruzione e anche il dettato costituzionale della pena come rieducazione. Il ddl, ha ricordato, viene presentato oggi perché presto ci sarà un garante dei detenuti nazionale, il prof. Mauro Palma. Molte regioni, inoltre, hanno già istituto questa figura e quindi si tratterebbe di entrare in una rete nazionale. La Pat ha speso molto, ha affermato inoltre Civico, per il nuovo carcere ed è una nostra responsabilità garantire che entro quelle mura ci sia la possibilità di riscatto per i detenuti. Una scelta a favore anche della società, perché, ha aggiunto, l’unica alternativa alla reiterazione dei reati è la rieducazione. Quella del carcere, ha affermato ancora Civico, è un pezzo di comunità che non può essere isolata. Quindi l’obiettivo del ddl, in sintesi, è di rivedere l’ambito del difensore civico con altri due garanti: quello dei detenuti e dei minori. Sul garante dei minori Civico ha ricordato che si tratta di una figura già consolidata in molte regioni e avrebbe anche lo scopo di acquisire il punto di vista delle giovani generazioni. Un punto di vista che manca troppo spesso, anche su temi che interessano direttamente i minorenni. Borga, il garante dei detenuti non è una priorità. Rodolfo Borga (Civica Trentina) ha affermato ironicamente che, dopo quello che è successo in Consiglio regionale sabato notte, si dovrebbe fare un garante del consigliere regionale. Sul ddl Giovanazzi, ha dichiarato, ci sarà un voto positivo, mentre rimangono le perplessità sugli altri. "C’è ddl omofobia, le quote rosa, ora arriva garante detenuti - ha detto - e la maggioranza dovrà trovare un accordo con l’opposizione". Comunque, ha aggiunto, il garante dei detenuti non è una priorità, visto anche l’aggravarsi della situazione della sicurezza. "Se non si manda in galera chi ti ruba in casa di notte - ha concluso - si va verso la legge della jungla. Prima di istituire un garante dei detenuti si dovrebbe ripristinare la giusta funzione deterrente rappresentata dal carcere". Donata Borgonovo Re, unire i tre ddl per riformare il difensore civico. Donata Borgonovo Re (Pd) ha ricordato che c’è stato, in passato, un lungo dibattito se assegnare al difensore civico anche le competenze di garante dei detenuti e minori, come ha fatto la Lombardia, o se istituire figure separate. La consigliera ha ricordato una raccomandazione del Consiglio d’Europa di non moltiplicare queste figure anche se accentrare le funzioni di garante dei minori e dei detenuti crea inevitabili problemi di competenza e professionali. Si è chiesta, infine, se si riuscirà a unire i tre testi presentati oggi per riscrivere la legge sulla difesa civica che si voleva cambiare già negli anni 90. Civico, nessun contrasto con la polizia carceraria. Civico ha concluso ricordando che, in sintesi, l’obiettivo è quello di ridefinire la difesa civica, potenziando la figura del difensore civico, affiancandolo con due figure di difesa dei minori e dei detenuti. Se il tema è quello dei costi, ha ricordato inoltre, è possibile trovare persone disposte a lavorare per spirito di servizio. Inoltre, il consigliere del Pd e presidente della Prima, ha ricordato che il garante non sarebbe in contrasto con le strutture penitenziarie, anzi. Anche perché spesso le condizioni di difficoltà dei detenuti sono quelle degli agenti di custodia. Campania: stilata con l’Icat di Eboli intesa sperimentale per i tossicodipendenti detenuti Askanews, 4 febbraio 2016 La Giunta regionale della Campania, su proposta dell’assessore alle Politiche sociali Lucia Fortini, ha approvato lo schema di Protocollo di intesa con l’Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento delle Tossicodipendenze (Icat) di Eboli. Il protocollo ha come obiettivo la creazione di un modello sperimentale di collaborazione istituzionale tra Regione e Amministrazione penitenziaria. La Casa di Reclusione di Eboli - spiega una nota - è un Istituto a Custodia Attenuata, ossia un istituto penitenziario che ospita detenuti in esecuzione di pene conseguenti a reati connessi al loro particolare status di tossicodipendenti, con un’intensa attività diretta al recupero e all’inclusione sociale di questa particolare utenza. Per l’assessore "È necessario, nel rispetto delle rispettive competenze istituzionali, realizzare interventi che possano, nel breve e medio periodo, migliorare le condizioni di vivibilità degli istituti penitenziari della Campania in cui spesso le condizioni di sovraffollamento peggiorano le condizioni di vita sia per la popolazione detenuta sia per le figure professionali che vi prestano servizio". Fortini ha ringraziato per il lavoro svolto il presidente della VI Commissione (Politiche Sociali) Tommaso Amabile. Camerino (Mc): "carcere affollato e pericoloso", il Sappe propone la chiusura cronachemaceratesi.it, 4 febbraio 2016 Carcere di Camerino, manca lo spazio vitale per i detenuti. A denunciarlo è il Sappe - sindacato autonomo polizia penitenziaria. "La capienza è di 40 posti letto regolamentari, ma la realtà è un’altra - spiega Nicando Silvestri, segretario regionale del sindacato - Alla data del 31 gennaio c’erano 48 detenuti presenti, dei quali 42 uomini e 6 donne. 24 gli imputati e 24 i condannati mentre, complessivamente, gli stranieri tra le sbarre sono 25. Tutti "stipati" nelle sole sette celle del penitenziario, alcune senza finestre, che calpestano le condizioni minime di vivibilità e che costringono i poliziotti penitenziari a svolgere i quotidiani compiti istituzionali con grande professionalità e umanità ma grande stress, viste anche le oggettive carenze organiche". L’interrogativo che pone il sindacato è sul senso di mantenere aperte delle strutture detentive come quella camerte. "La situazione di Camerino deve fare seriamente - aggiunge Donato Capece segretario generale del Sappe - tenere i detenuti a non far nulla, anche nei momenti previsti di socialità, può essere grave e pericoloso. Ma deve fare seriamente riflettere anche sulle pericolose condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari, che ogni giorno di più rischiano la propria vita nelle carceri italiane". Quello che il Sappe chiede è più personale: "Le carceri sono più sicure assumendo gli agenti che mancano - continua Capece - finanziando gli interventi per far funzionare i sistemi anti scavalcamento, potenziando i livelli di sicurezza. La vigilanza dinamica invece vorrebbe i detenuti fuori dalla cella ma senza fare nulla. Invece è necessario che svolgano attività lavorative che il personale sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo a un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più agenti, a discapito della sicurezza. Le idee e i progetti dell’amministrazione penitenziaria sono fallimentari e sbagliati". Capece e Silvestri concludono sostenendo che "la Polizia Penitenziaria di Camerino continua a tenere botta, nonostante le quotidiane criticità e la grave carenza di poliziotti. Ma è necessario chiedersi se ha ancora senso tenere aperto il carcere di Camerino, considerata la sua palese anti-economicità". Firenze: rissa tra detenuti nel carcere di Sollicciano, botte nel campo di calcio di Massimo Mugnaini La Repubblica, 4 febbraio 2016 Ancora tensione nel carcere fiorentino di Sollicciano. Una rissa è scoppiata nel campo sportivo dell’istituto di pena di via Minervini tra un gruppo di detenuti marocchini e alcuni reclusi albanesi, durante una partita di calcio. "Senza l’intervento dei poliziotti penitenziari le conseguenze sarebbero state peggiori" afferma Pasquale Salemme, segretario regionale del Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria). Nessun ferito grave dunque, mentre non è ancora chiaro cosa abbia scatenato le violenze. "Forse il pretesto della rissa tra reclusi, tutti della sesta sezione detentiva, è l’incapacità di convivere con persone di nazionalità differente. O forse si tratta di screzi di vita penitenziaria o sgarbi avvenuti fuori" sostiene il Sappe. "Gli agenti penitenziari rischiano ogni giorno la vita - prosegue il sindacato - in un carcere che sarebbe più sicuro assumendo gli agenti che mancano, finanziando gli interventi per far funzionare i sistemi anti scavalcamento e potenziando i livelli di sicurezza". Secondo il garante dei detenuti della Toscana Franco Corleone tuttavia "le risse durante le partite di calcio avvengono anche e soprattutto fuori dal carcere, tra cittadini liberi, allo stadio". Corleone non condivide la reazione del sindacato dopo la rissa i ieri: "È sbagliato ingigantire ogni episodio che avviene in carcere per far passare l’idea che Sollicciano sia ingovernabile. Risse durante le partite di calcio ci sono state recentemente in altri istituti di pena, come a Udine. Bisogna evitare le strumentalizzazioni, siamo di fronte a due date molto importanti per il futuro del carcere: il 10 febbraio c’è la visita del capo del Dap Santi Consolo, il 16 febbraio è prevista una riunione ai massimi livelli dal guardasigilli Orlando. Quel giorno al ministero, insieme a me ci saranno il garante comunale Eros Cruccolini, i magistrati di sorveglianza e il presidente del Tribunale, Marilena Rizzo". Milano: la Biblioteca Vivente del carcere di Bollate raccontata in un volume di racconti di Aura Tiralongo Il Fatto Quotidiano, 4 febbraio 2016 Scrittori emergenti e giornalisti firmano la raccolta di storie degli ospiti del penitenziario modello in Lombardia. Al centro il metodo nato in Danimarca oltre 20 anni fa per far cadere stereotipi e pregiudizi sociali. Una biblioteca nella quale non si sfogliano pagine di carta, ma si selezionano "libri umani", appartenenti a minoranze, vittime di pregiudizi e generalizzazioni. Si chiama Biblioteca vivente e lì dentro il lettore non legge i libri, ma ci parla, sedendosi a un tavolo per mezz’ora. Ogni storia fa parte di un catalogo di titoli, custoditi da bibliotecari dedicati. Esiste anche nel carcere di Bollate e questa esperienza ha dato ora vita a un libro, questa volta vero, di carta. Si intitola Biblioteca Vivente: narrazioni fuori e dentro il carcere. È una raccolta di racconti e di saggi - pubblicata a cura dell’associazione ABcittà - a firma di scrittori emergenti e giornalisti, che è il risultato di un progetto di inclusione che ha coinvolto i detenuti del carcere di Bollate. A firmare il libro Gianni Biondillo, Stefania Arru, Matteo Ferrario, Paola Meardi, Massimiliano Maestrello, Martina Fragale, con contributi critici di Cristian Zanelli e Ulderico Maggi. La prima Biblioteca Vivente è nata nel 1993 in Danimarca, come reazione di una onlus a un episodio di discriminazione razziale. A riassumere il metodo lo slogan "Non si giudica un libro dalla copertina". Riconosciuta dal Consiglio d’Europa come "buona prassi interculturale", ha l’obiettivo di favorire l’incontro tra persone di diversa età, sesso, stili di vita, background culturale, stimolando il racconto del vissuto negli spazi di una particolare biblioteca interattiva di "libri a cuore battente". Per il lettore che si siede a parlare con il "libro vivente", l’unica raccomandazione è di lasciare a casa timidezze e tabù. Vale la pena sentirsi liberi di fare domande sulla vita e le esperienze di chi si ha di fronte, sfruttando l’opportunità di parlare con persone che raramente si possono incontrare negli spazi della vita quotidiana. L’idea è stata rielaborata a Milano dalla cooperativa sociale ABCittà che l’ha adattata a numerosi contesti, pubblici e tematici. Diverse realtà, stesso obiettivo: contrastare gli stereotipi e i pregiudizi sociali attraverso lo strumento più di ogni altro adatto a superare barriere fisiche e mentali. Ovvero la narrazione. La pubblicazione del volume, così, è l’ultimo risultato di un progetto che fin dal 2011 coinvolge minoranze sociali di diverso tipo: dai rom ai migranti, da pazienti di strutture psichiatriche a persone che soffrono condizioni di marginalità. Nell’ultima edizione a cadere sono state le sbarre del carcere, coinvolgendo 60 detenuti e attirando un pubblico di diverse centinaia di cittadini. "Così la detenzione diventa anche e soprattutto un’esperienza di senso: sia per chi la vive da dentro che per chi la percepisce dall’esterno" spiega lo scrittore Gianni Biondillo. "Si aprono spontaneamente canali di comunicazione profondi - prosegue - e alla potenza dei preconcetti si sostituiscono le sfumature dei vissuti. Quando il lettore prende in mano una storia capisce che sta prendendo in mano una vita". Julian, detenuto a Bollate dal 2010, è il "titolare" della storia Da bullo a secchione: dalle leggi della strada ai banchi dell’Università Statale di Milano. "Ne sono nati incontri molto toccanti, spesso gioiosi - racconta - a volte accompagnati da qualche lacrima. In fondo il nostro desiderio è solo quello di potervi dimostrare che siamo come voi". A celebrare il successo dell’iniziativa è anche il direttore del penitenziario, Massimo Parisi: "Biblioteca Vivente è stata una delle esperienze più significative sperimentate dalla nostra realtà carceraria. Mai come in questo caso si è riusciti a mettere in comunicazione mondi distanti. Si è davvero dimostrato che è possibile smettere di identificare una persona con gli errori che ha commesso e proprio nell’ambiente in cui il peso dei pregiudizi è più rilevante". Livorno: rugby in carcere, domenica partita fra i detenuti e gli Old Lions Amaranto sportiamoci.it, 4 febbraio 2016 "Le Pecore Nere" vanno in meta. Domenica 7 febbraio, dalle ore 9, all’interno del carcere livornese delle Sughere, la formazione dei detenuti (che con grande autoironia si sono battezzati, appunto, "Le Pecore Nere") effettueranno un allenamento congiunto con gli Old dei Lions Amaranto Livorno (i Rino..Cerotti). La seduta si concluderà, sotto gli occhi del presidente dei Lions Amaranto Livorno, Mauro Fraddanni, con una partitella a ranghi contrapposti. A dirigere la sfida, un arbitro federale, il livornese Marco Antonazzo. Al termine, sempre sul campo, ci sarà spazio per un piccolo banchetto, uno speciale "terzo tempo" di inconfondibile stampo rugbistico. L’iniziativa, che si concluderà alle 11,30, è resa possibile grazie alla sensibilità della direzione della casa circondariale livornese ed all’opera degli stessi Lions, da sempre attenti a questioni legate al sociale. Da un anno e mezzo, grazie in particolare al lavoro degli ex giocatori Manrico Soriani e Michele Niccolai, all’interno delle Sughere, si svolgono, ogni domenica, allenamenti riservati ad una trentina di detenuti, di età compresa fra i 25 e i 40 anni. Ora, mentre sta per terminare la detenzione di uno dei giocatori delle Pecore Nere (l’atleta, della zona di Milano, farà presto parte di una squadra di rugby lombarda?), si è deciso di organizzare, all’interno della struttura, una partita "vera". In vista di tale incontro - nel quale ovviamente il numero delle marcature avrà un valore del tutto relativo, i Lions hanno regalato un paradenti a ciascuno dei componenti delle Pecore Nere. La condizione fisico-atletica dei rugbisti-detenuti è invidiabile. Proficui gli allenamenti settimanali. Ora, però, per crescere anche a livello tecnico serve confrontarsi sul campo con rugbisti veri (anche se non più giovanissimi) e studiare, con la presenza di un arbitro, le regole del gioco. Presto gli atleti saranno divisi in un lavoro più specifico, relativo ai ruoli propri di un quindici: da decidere chi sarà impiegato in mischia, chi nel reparto mediano, chi nella linea arretrata. Poi chissà, la speranza è quella, in futuro, di far effettuare a questo team, grazie a deroghe speciali, anche campionati federali. L’esperienza della palla ovale all’interno delle Sughere è iniziata nel settembre del 2014, quando 22 giocatori Lions (delle varie categorie) dettero vita, sul terreno di gioco del carcere, ad un allenamento piuttosto sostenuto, con tanto di partitella in famiglia. La seduta fu seguita da cento detenuti, che fin da subito mostrarono entusiasmo e grande partecipazione. Dopo il (riuscitissimo) approccio, la società amaranto ha dunque dato continuità all’iniziativa del "rugby in carcere". La partita di questa prima domenica di febbraio rappresenta un traguardo di tutto rispetto, ma non è certo considerato un punto d’arrivo. Padova: senza scorta ma con la pistola, la difesa "fai da te" del sindaco leghista di Amedeo La Mattina La Stampa, 4 febbraio 2016 Massimo Bitonci ha ottenuto il porto d’armi e va al poligono a sparare, parla del diritto di tutelarsi: "La gente ha paura". In origine c’era a Treviso Giancarlo Gentilini, il sindaco sceriffo con la pistola giocattolo. Ora a Padova c’è il sindaco con la pistola vera, Massimo Bitonci. Sempre di leghisti stiamo parlando, di voglia di sicurezza e di autodifesa come negli Stati Uniti dove il possesso diffuso delle armi è diventato motivo di grandi polemiche a causa degli omicidi e delle stragi compiute. Ma quella è sicuramente un’altra storia. Eppure Bitonci, che alcuni giorni fa ha ottenuto il porto d’armi e va al poligono a sparare, parla del diritto di difendersi, racconta che molte persone che conosce tengono un’arma a casa. A maggior ragione un sindaco esposto come lui, che non le manda a dire, spesso al centro delle polemiche. È di poche settimane la sua decisione di annullare il Festival delle parole perché troppo di sinistra e ha messo in mano a Vittorio Sgarbi l’organizzazione di qualcosa di diverso, magari più di destra. Si era presentato senza preavviso alle Cucine popolari della Caritas per verificare se le sue suore distribuissero da magiare anche ai migranti clandestini, cosa da non fare a suo giudizio: solo a italiani. La tensione è cresciuta: molti cittadini hanno protestato contro il bivacco che si crea attorno alle Cucine popolari. Bivacco, sporcizia e spaccio di stupefacenti, dicono quei padovani che si sono costituiti in comitato e chiedono che la struttura venga spostata in periferia. E hanno il sostegno esplicito del sindaco con la pistola. E, appunto, veniamo al perché Bitonci ha preso il porto d’armi. Spiega: "Come sindaco, per le cose che faccio e che dico, sono esposto a rischi. E una persona esposta a rischi ha il diritto di chiedere il porto d’armi per difendersi. L’ok l’ha dato il prefetto". Il primo cittadino di Padova ricorda le minacce di morte ricevute, la busta con i proiettili dopo la fusione della municipalizzata dei trasporti Aps con Busitalia Veneto. Due mesi fa all’Arcella (quartiere multietnico di Padova) un magrebino ubriaco in bicicletta gli urlò "Bitonci, noi del Califfato te la faremo pagare!". Non vuole la scorta per non pesare economicamente sui cittadini e per lasciare i poliziotti in strada. Vive a Cittadella e va in auto a Padova e si porta dietro la pistola. "Come molti abitanti della zona - osserva Bitonci. Sono tante le persone che conosco che tengono l’arma in casa, soprattutto quelle che abitano in campagna. Tornano dal lavoro e la tirano fuori dalla cassaforte. Di notte la tengono pronta in camera". Autodifesa, legittima. La scorsa settima Bitonci si è presentato al sit-in a Correzzola per Franco Birolo, il tabaccaio condannato a due anni e otto mesi per avere ucciso un moldavo che stava rubando nel suo negozio. E ha detto che se uno viene a casa sua con cattive intenzioni entra in piedi e può uscirne disteso. "Ho detto quello che pensa, credo, la maggior parte dei cittadini". Secondo il sindaco la legge sulla legittima difesa va modificata perché chi delinquere deve sapere che rischia. Non si tratta di liberalizzare i permessi del porto d’armi e chi lo attiene deve addestrarsi. Cosa che fanno in molti al poligono di Padova. "La gente ha paura ed è giusto che si difenda". Schengen, l’addio costa 100 miliardi di Ettore Livini La Repubblica, 4 febbraio 2016 Bloccare il libero scambio di persone e merci nell’Ue avrebbe un impatto pari allo 0,8% del Pil europeo. Per Germania, Francia e Italia le "tasse" più alte. Ma ripristinare le frontiere per fermare i migranti è già un peso. L’addio a Schengen potrebbe costare all’Europa fino a 100 miliardi l’anno. A calcolare i danni economici di un ripristino delle frontiere legato alla crisi-rifugiati è stato France Strategie, autorevole think-tank governativo francese: un intervento soft e ridotto nel tempo - spiega lo studio - avrebbe effetti relativamente "limitati" e colpirebbe soprattutto il turismo giornaliero e dei week-end (previsti in calo del 5 e del 2,5%), i lavoratori transfrontalieri e il trasporto merci. Se i controlli al confine durassero nel tempo, invece, le conseguenze rischiano di essere pesantissime: gli scambi commerciali all’interno dell’Unione calerebbero del 10-20%, un danno pari all’imposizione di una tassa del 3% su tutti i beni trasportati. Mandando in fumo - al netto dei mancati investimenti esteri - lo 0,8% del Pil continentale. Percentuale pari a 28 miliardi per la Germania, 13 per l’Italia, 10 per la Spagna e 6 per l’Olanda. I problemi, in qualche caso, sono già ben visibili sul campo. I pendolari sul ponte tra Danimarca e Svezia hanno allungato di circa 45 minuti il loro viaggio da quando Copenaghen ha ripristinato - costo circa 150mila euro al giorno - la verifica dei documenti. L’attesa di auto e Tir alla dogana tra Francia e Belgio, dove fino a poco fa si transitava senza staccare il piede dall’acceleratore, si sono allungate fino a mezz’ora. L’aeroporto di Helsinki dovrà aggiungere 15 addetti ai varchi dell’immigrazione per smaltire le code bibliche che si sono formate dopo la decisione di controllare l’identità anche ai passeggeri in arrivo dalla Ue. Quanto costano questi tappi di bottiglia? Una coda di 10 minuti al confine per gli 1,7 milioni di transfrontalieri vale un buco da 1,2 miliardi in dodici mesi per l’economia europea. Un’ora di attesa per i camion alla frontiera - dicono gli autotrasportatori olandesi - comporterebbe un pedaggio da 600 milioni per Amsterdam. In Europa circolano 60 milioni di mezzi pesanti l’anno, in Germania ne entrano 54mila al giorno. E bloccarli ad ogni valico significherebbe ingolfare il motore della crescita continentale. Senza contare che il semplice riposizionamento di due agenti (il minimo sindacale) ad ognuno dei 3.100 posti di confine cancellati da Schengen, comporterebbe un onere di almeno 300 milioni. Tanti soldi. Briciole però rispetto ai danni potenziali causati da uno stop prolungato al Trattato di libera circolazione. A pagare il conto più salato, in questo caso, sarebbero i paesi più piccoli e più dipendenti dagli scambi interni all’Unione. Il 70% dell’economia della Slovacchia, per dire, dipende dai rapporti commerciali con gli altri paesi continentali. Merci che oggi viaggiano da uno Stato all’altro senza difficoltà e che nell’Europa prossima ventura - separata di nuovo dalle frontiere - aumenterebbero di molto tempi e costi di trasporto. Il ritorno dei confini costerebbe moltissimo anche all’Italia. Nei primi undici mesi del 2015 il nostro paese ha esportato verso l’Unione beni per 208 miliardi, importandone per 197. Nel 2014 sono arrivati da noi 17 milioni di turisti Ue. Numeri destinati inevitabilmente a ridimensionarsi. Lotta al terrorismo, gli intellettuali contro Hollande di Anais Ginori La Repubblica, 4 febbraio 2016 Da Piketty a Cohn-Bendit appello su "Le Monde". "Parlamentari, non cambiate la Costituzione". Parlamentari, in nome delle libertà, rifiutate questo testo". La mobilitazione contro la revisione costituzionale voluta da Hollande cresce di giorno in giorno. L’ultimo attacco viene da un gruppo di intellettuali di sinistra che ha pubblicato un appello su Le Monde. "Pensate all’interesse supremo dei francesi prima di votare" chiedono, tra gli altri, l’economista Piketty, lo scrittore Attali, l’ex europarlamentare Cohn-Bendit e il sociologo Rosanvallon. La riforma, in discussione all’Assemblée Nationale da qualche giorno, sta spaccando la Francia. Annunciata subito dopo gli attentati del 13 novembre, la legge costituzionale propone di inserire lo stato di emergenza nella Carta e di revocare la nazionalità ai cittadini colpevoli di reati di terrorismo. È su questa cittadinanza "usa-e-getta" che si concentrano le critiche. Il governo aveva deciso di applicare la norma solo alle persone con doppio passaporto, salvo poi fare retromarcia per non essere accusato di discriminazione tra francesi. Il riferimento alla binazionalità è scomparso ma rimane il problema di come fare per non creare apolidi. Se l’attuazione pratica di questa misura rimane vaga, è il simbolo che fa discutere. "Cosa sarebbe il mondo se ogni paese decidesse di espellere i suoi connazionali giudicati indesiderabili?", si domanda l’ex ministro della Giustizia, Christiane Taubira, nel pamphlet che ha appena pubblicato dopo le sue dimissioni causate proprio dalla riforma costituzionale. Sono tante le voci che si stanno levando contro il testo che dovrebbe essere votato in prima battuta la settimana prossima, per poi passare al Senato. "Il progetto del governo tratta in modo impari i francesi, apre la strada alla creazione di apolidi e soprattutto inserisce nella Costituzione una minaccia per le nostre libertà politiche, fondamento stesso della democrazia", scrivono i promotori dell’appello. A preoccupare sono anche le condizioni per cui si potrebbe togliere la cittadinanza: non solo reati contro la sicurezza dello Stato ma anche "l’attacco grave alla vita della Nazione". Una definizione ambigua, secondo i firmatari dell’appello: "Significa aprire la porta alla revoca di nazionalità anche per reati di opinione, attività sindacale o per l’opposizione a un potere autoritario". La legge costituzionale dovrà essere approvata da deputati e senatori, per poi essere presentata davanti al Congresso, ovvero le Camere riunite. Hollande dovrà ottenere due terzi dei voti per far passare la riforma. Ma la fronda a sinistra aumenta. Anche a destra, dove alcuni esponenti avevano invocato le misure proposte dal leader socialista, si cominciano a levare voci di dissenso. François Fillon ha annunciato che non sosterrà il progetto di revisione costituzionale perché "le leggi ci sono già". E il favorito alla primarie a destra, Alain Juppé, si è schierato contro: "La lotta al terrorismo - ha detto - si fa aumentando le forze dell’ordine e dando più potere all’intelligence". "Adotta un danese", l’ironia africana contro le politiche europee sui migranti di walter passerini La Stampa, 4 febbraio 2016 Un video di grande successo reagisce alle decisioni della Danimarca sulla confisca dei beni. "Migliaia di anziani danesi hanno bisogno di una nuova casa, Africa apri il tuo cuore". È l’appello del fondatore della fantomatica Adopt-a-Dane-Foundation, nel video prodotto dalla radio danese DR-P3 e dall’organizzazione umanitaria Danmarks Indsamling, e diventato virale in pochi giorni. Come rivela l’agenzia Redattore sociale, il fondatore della fantomatica Fondazione, Jackson Nouwah, spiega come è nata l’idea. "Migliaia di danesi hanno scritto su Facebook che si spendono un sacco di soldi per l’Africa, invece di usarli per le persone anziane in Danimarca. Quando lo abbiamo saputo, abbiamo pensato che avremmo dovuto fare qualcosa". L’iniziativa ha l’obiettivo di rispondere in modo ironico alle politiche di molti Paesi europei, Danimarca in primis, sui migranti. Il 26 gennaio, infatti, il Parlamento danese ha approvato la riforma del diritto di asilo che prevede, tra le varie misure, la confisca dei beni di valore superiore a 10 mila corone (1.350 euro) ai rifugiati che entrano nel Paese, con l’obiettivo di rifarsi dei costi dell’accoglienza. La misura ha suscitato molte polemiche. Da qui l’iniziativa ironica. Conclude Nouwah: "Gli anziani non sono un peso ma un dono meraviglioso, noi in Africa amiamo i nostri vecchi, perché noi possiamo anche avere acque contaminate, epidemie ed essere senza energia elettrica ma, dai commenti su Facebook, sembra che gli anziani danesi se la passino peggio. Lasciate che ci prendiamo cura di loro". Il video contiene anche immagini di danesi arrivati in Africa e commenta: "I primi sono già qui e si stanno divertendo"; e infine lancia l’appello: "Africa apri il tuo cuore e adotta un danese". Incostituzionale è non dare i diritti di Felice Casson Il Manifesto, 4 febbraio 2016 Sono uno dei primi firmatari del disegno di legge sulle unioni civili, cosiddetto Cirinnà, all’esame del Senato. Desidero però precisare di averlo sottoscritto a fatica, perché costituisce un compromesso, il terzo o forse addirittura il quarto compromesso al ribasso rispetto alla proposta normativa originaria. Meno di così, francamente, non mi parrebbe proprio possibile discutere di unioni civili o di convivenze di fatto e tanto meno votarle. Nel tentativo di venire incontro alle necessità sociali e istituzionali di persone ancora oggi discriminate per ragioni sessuali e di bambini cui vengono ancora oggi negati diritti fondamentali, abbiamo accettato di riscrivere il testo del disegno di legge, smorzandone alcuni toni, pur ribadendone i capisaldi imprescindibili. Motivi per cui voterò questo testo, ma pure tutti gli emendamenti estensivi a favore del pieno riconoscimento delle unioni omosessuali. Si continua a parlare di presunta incostituzionalità del disegno di legge, ma incostituzionale è semmai l’assenza di alcuna tutela nei confronti delle coppie dello stesso sesso e dei loro bambini. Lo ha chiarito la Consulta che, con la sentenza-monito n. 138 del 2010 e con la n. 170 del 2014 sul cosiddetto "divorzio imposto", rilevando appunto un vuoto normativo in materia, ha imposto al legislatore di intervenire con la "massima sollecitudine" per introdurre una disciplina che tuteli queste formazioni sociali in cui, secondo l’articolo 2 della Costituzione, si sviluppa la personalità umana. E la Corte europea dei diritti dell’uomo a luglio scorso ha condannato l’Italia proprio per l’assenza di una disciplina che garantisca adeguata tutela per le unioni non matrimoniali. Dunque il ddl Cirinnà, lungi dall’essere incostituzionale, dà invece attuazione, seppur tardiva, all’articolo 2 e pone semmai fine alla violazione del principio di non discriminazione sancito dall’articolo 3 (così come si dovrebbe fare per quelle formazioni sociali quali, in primo luogo, partiti e sindacati, le cui garanzie costituzionali non hanno ancora trovato compiuta attuazione). Il limbo giuridico che caratterizza oggi le unioni omosessuali è, peraltro, incompatibile anche con l’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che garantisce a chiunque il diritto di sposarsi e costituire una famiglia a prescindere dall’orientamento sessuale. Ed è proprio questa situazione (incostituzionale) di vuoto normativo, di indifferenza giuridica (persino per le convivenze di fatto), che vogliono mantenere coloro che si oppongono a questo disegno di legge, utilizzando motivazioni del tutto strumentali. Come quella secondo cui l’adozione co-parentale legittimerebbe la surrogazione di maternità. Non c’è in alcuna parte del disegno di legge qualcosa che minimamente consenta una tale lettura o interpretazione: il cosiddetto "utero in affitto" resta un reato e chi propone di inasprirne le pene, estendendole anche a chi ricorra alla gestazione per altri, non fa che negare il carattere laico che fonda la nostra democrazia. Qui si tratta invece, molto semplicemente, di prendere atto di tante situazioni di fatto di coppie che si amano; e di tanti bimbi e bimbe che già esistono e che hanno diritto a veder riconosciuto giuridicamente un rapporto essenziale per la loro crescita in condizioni serene. Sono queste le situazioni che il legislatore ha il dovere, sociale etico e giuridico, di regolamentare, tenendo ben presente il faro della uguaglianza, della dignità e della solidarietà. Considerazioni analoghe andrebbero svolte per i milioni di persone che hanno deciso per una convivenza di fatto, che qualcuno, obnubilato, ha persino proposto di stralciare. Non resta dunque che rivolgersi al Presidente della Repubblica per chiedere conferma di una attenzione speciale verso il rispetto della nostra Costituzione, violata non certo da questa legge ma dall’attuale condizione di vuoto normativo che circonda queste realtà, umane e sociali. Tale illegalità, sostanziale e giuridica, deve essere assolutamente sanata, venendo incontro alle esigenze e ai diritti di tutti, anche delle minoranze, dei più deboli e dei meno tutelati, senza far loro pagare responsabilità che di certo non hanno, nell’alveo dei princìpi di uguaglianza e solidarietà sanciti dagli articoli 2 e 3 della Costituzione. Negli Usa esplode il grande business della marijuana legale (e il relativo gettito fiscale) di Enrico Marro Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2016 È stata fuorilegge per quasi ottant’anni. Tra il 2001 e il 2010, solo negli Usa, ha portato a 8,2 milioni di arresti. Ma oggi la marijuana, sdoganata da 23 Stati dell’Unione per uso terapeutico e in alcuni di essi anche per scopi "ricreativi", sembra essere diventata la terra promessa:?una delle industrie americane con il più veloce tasso di crescita. Un po’ di dati, per capire. Secondo il centro studi New Frontier and Arcview Market Research, l’anno scorso la vendita di cannabis a "scopi ricreativi" - resa legale in Colorado, Washington, Oregon, Alaska e nel District of Columbia - ha generato 998 milioni di dollari di fatturato, in crescita del 284% rispetto ai 351 milioni del 2014. Lo studio stima che il business della marijuana nel 2015 abbia toccato a livello nazionale 5,4 miliardi di dollari, con un incremento annuale di circa il 30%, e con la prospettiva di toccare i 6,7 miliardi quest’anno per poi entrare in orbita, nel 2020, a quota 28,1 miliardi di dollari. Ovviamente il giro d’affari della "cannabis libera" sta ingrossando anche le casse dei vari Stati. Nel Colorado, che ha legalizzato dal gennaio 2014 anche le vendite a scopo "ricreativo", per il 2015 si stima un gettito fiscale di 135 milioni di dollari, in aumento del 77% rispetto all’anno precedente. Mentre lo Stato di Washington ha incassato 70 milioni di dollari di "tasse da cannabis". Qualche paletto c’è. Sia in Colorado che nello Stato di Washington la marijuana può essere venduta solo ai maggiori di 21 anni, con il divieto di consumarla in pubblico o alla guida. In Colorado i residenti possono acquistare sino a un’oncia (poco più di 28 grammi) di qualsiasi prodotto contenente cannabis; nell’area di Washington ci sono limiti differenti a seconda della modalità di consumo, attraverso il fumo o con pastiglie o liquidi. Tutto questo mentre a livello federale il possesso e l’uso di marijuana resta illegale esattamente come accade per LSD ed eroina (tutte classificate come Schedule I drugs). Tuttavia negli States, almeno stando ai sondaggi, aumenta il consenso per una liberalizzazione generalizzata. Un’indagine Gallup dello scorso ottobre rivela che il 58% degli americani è favorevole alla marijuana "ricreativa", percentuale che s’innalza all’81% per quella a scopo terapeutico (secondo il sondaggio Harris del maggio 2015). E l’ondata della cannabis libera potrebbe continuare a dilagare anche quest’anno: Florida, Ohio, Missouri e Pennsylvania voteranno per decidere se introdurne l’uso medico, mentre California, Nevada, Arizona, Massachusetts, Maine, Rhode Island e Vermont dovranno decidere se legalizzare la marijuana "ricreativa". Con un occhio alle polemiche e l’altro alle casse pubbliche. Egitto: trovato morto in un fosso il ricercatore friulano Giulio Regeni, è stato torturato La Repubblica, 4 febbraio 2016 Si è risolta in tragedia la scomparsa al Cairo del ricercatore friulano Giulio Regeni: in un fosso della periferia della capitale egiziana è stato rinvenuto un corpo che è ormai certo sia del giovane ucciso in circostanze tutte da chiarire. E, secondo quanto scrive il sito del quotidiano Al Watan, sul cadavere del giovane italiano vi sarebbero dei "segni di tortura". Il giornale egiziano riporta la notizia del ritrovamento del "corpo di un giovane uomo di circa 30 anni, totalmente nudo nella parte inferiore, con tracce di tortura e ferite su tutto il corpo", nella zona di Hazem Hassan della Città del 6 Ottobre. "Il Governo italiano ha appreso del probabile tragico epilogo della vicenda del nostro connazionale" al Cairo, ha annunciato la Farnesina. E, nonostante in serata si fosse ancora in "attesa di conferme ufficiali da parte delle autorità egiziane", il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha espresso "il profondo cordoglio personale e del governo ai familiari" che erano giunti al Cairo per seguire le ricerche del giovane friulano scomparso il 25 gennaio, anniversario della rivoluzione anti Mubarak. "Il Governo italiano ha richiesto alle autorità egiziane il massimo impegno per l’accertamento della verità e dello svolgimento dei fatti, anche con l’avvio immediato di un’indagine congiunta con la partecipazione di esperti italiani", ha fatto sapere la Farnesina. L’esito tragico della vicenda del giovane di Fiumicello, il secondo studioso italiano morto in modo cruento all’estero dopo Valeria Solesin, uccisa al Bataclan a Parigi dai terroristi dell’Is, ha causato la sospensione di una missione di una sessantina di aziende italiane in corso al Cairo e guidata dal ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi. L’annuncio è stato fatto nell’ambasciata italiana. Proprio al ministro Guidi, in un incontro riservato avuto in mattinata, il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi aveva assicurato la propria "personale attenzione" al caso di Regeni. Finora non c’è nessuna ipotesi ufficiale sulla matrice del delitto di cui è stato vittima il dottorando di Cambridge che, da settembre, abitava in un appartamento del Cairo per scrivere una tesi sull’economia egiziana presso l’American University. A far temere il peggio erano state martedì scorso fonti del Cairo che avevano escluso l’ipotesi della scomparsa del ragazzo per un errore dei servizi di sicurezza egiziani. Si pensava che il ragazzo potesse essere incappato in una retata durante una manifestazione anti-regime svoltasi proprio il giorno della scomparsa. Ipotesi smentita con forza dai servizi di sicurezza egiziani. Resta dunque in piedi l’ipotesi di un rapimento: a sfondo economico, in caso di criminalità comune; o "politico", qualora fossero entrati in azione estremisti islamici (l’Isis è attivo soprattutto in una frazione settentrionale della penisola del Sinai ma gli vengono attribuite rivendicazioni di attentati al Cairo). Per non azzardare conclusioni affrettate, una fonte della sicurezza locale aveva sostenuto che la scomparsa sarebbe potuta essere legata a non meglio precisati "motivi personali". Visto il luogo del ritrovamento del cadavere è verosimile, ma siamo nel campo delle possibilità, ipotizzare anche l’esito di una rapina andata male. Scarne le informazioni sugli ultimi minuti, poco prima delle 20 di quel lunedì, in cui Regeni era sicuramente vivo, come riportato da alcune fonti: il giovane stava andando a trovare amici per un compleanno (circostanza confermata da un suo amico, Omar Aassad). Si stava spostando a piedi tra il quartiere di El Dokki, sulla sponda sinistra del Nilo, e il centro che è su quella destra, diretto dalla stazione della metropolitana di Bohoot a quella di Bab Al Louq, circa 5 km in linea d’aria più a ovest, nei pressi di piazza Tahrir. "Siamo sgomenti", ha affermato la presidente del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, commentando l’"evento tragico, che - ha detto - abbiamo sperato con forza non avesse l’esito che ha avuto". Saltano i negoziati di pace per la Siria di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 4 febbraio 2016 La linea di Mosca "Non termineremo le incursioni aree sino a quando non avremo sconfitto il terrorismo". L’opposizione: "Assad se ne deve andare". Blocco dei negoziati a Ginevra solo due giorni dopo il loro inizio. "Una pausa temporanea", come l’ha definita ieri sera il loro architetto maggiore, l’inviato Onu per la Siria, Staffan de Mistura. "Non è la fine, non si tratta di un fallimento", ha cercato di schermirsi. In realtà al loro posto trionfa la guerra, in una delle sue fasi più dure e cruente. Soprattutto prevale l’offensiva del fronte legato al regime di Bashar Assad protetto e garantito dalla Russia e dai militari iraniani assieme alla milizia sciita libanese dell’Hezbollah contro l’universo dei gruppi ribelli sunniti. È questa in poche parole la situazione che dai campi di battaglia nella Siria insanguinata condiziona, sino a stravolgere e paralizzare, gli sforzi della diplomazia. Nelle intenzioni di de Mistura in questi giorni nella città svizzera avrebbero dovuto porsi le basi per i colloqui tra regime e opposizioni volti ad avviare il processo di pace e porre fine a cinque anni di conflitto, già costato oltre 250.000 morti e 11 milioni di profughi. Ma proprio in queste ore dalla regione di Aleppo giungono notizie di "offensive senza precedenti" da parte delle forze lealiste, intensificatesi a partire da lunedì. Così ieri il portavoce del principale gruppo d’opposizione, Riad Hijab, ha detto che tornerà al tavolo solo se la situazione sul campo cambierà e ha aggiunto che si potrà parlare di un cessate il fuoco solo quando ci sarà una transizione senza il presidente Assad; da parte sua, invece, la delegazione del governo di Damasco ha dichiarato che non è scontato che tornerà a negoziare, accusando l’opposizione di ritirarsi perché sta perdendo sul campo. Duro il ministro degli Esteri francese Fabius che ha accusato la Siria e i suoi alleati di far saltare i colloqui con l’offensiva di Aleppo. Ieri sera, dopo una lunga serie di raid dell’aviazione russa assieme a quella di Damasco, il fronte lealista (formato da soldati siriani, forze paramilitari, uomini dell’Hezbollah, unità scelte iraniane e mercenari sciiti afghani) ha conquistato Nubul e Zahraa, due villaggi sciiti nelle regioni settentrionali che erano sotto assedio da circa tre anni. Migliaia di nuovi profughi sono in fuga. Ma il confine con la Turchia da alcune settimane è stato praticamente serrato. Chi fugge è costretto a trovare sistemazioni di fortuna nelle campagne, le strade sono insicure. Combattimenti investono varie altre cittadine. "In questo modo le milizie sunnite asserragliate dentro Aleppo rischiano forte. Potrebbero venire facilmente circondate in pochi giorni. Se così fosse, sarebbe una vittoria molto importante per Assad", confermano al Corriere alti esponenti del fronte dell’opposizione a nord di Aleppo. Le conseguenze sono evidenti: il rombo delle armi prevale sul linguaggio del dialogo. "Come è possibile pensare al negoziato, se una delle due parti ne approfitta per conquistare territori e uccidere gli avversari?", denunciano "diplomatici occidentali" citati dalle agenzie internazionali a Ginevra. Tutto lascia credere che l’offensiva del regime durerà. Nessun cessate il fuoco e nessuna fine degli assedi alle città sunnite, così come chiesto dalle milizie ribelli. "Non termineremo le incursioni aree sino a quando non avremo sconfitto il terrorismo", sostiene lo stesso ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov. Ad Aleppo le forze di Isis sono irrisorie. I quartieri in mano ai ribelli sono invece presidiati dalle milizie di Al Nusra, Ahrar al Sham e Jaba al Shamiah. I loro militanti parlano adesso di "resistenza ad oltranza". Stati Uniti: la Georgia giustizia un 73enne, ha trascorso 36 anni di "braccio della morte" di Marina Catucci Il Manifesto, 4 febbraio 2016 Ucciso con iniezione letale Brandon Astor Jones, dopo 36 anni di "braccio della morte". Il settantatreenne Brandon Astor Jones ha affrontato la sentenza ed è stato ucciso con un’iniezione letale in Georgia, dove era nel braccio della morte da trentasei anni per aver ucciso, nel 1979, il proprietario di un minimarket. Jones era il condannato più anziano alla pena capitale della Georgia; il suo caso è passato attraverso 11 appelli e fino all’ultimo istante si è sperato in una commutazione della pena in quanto, secondo gli avvocati della difesa, ci sono diversi punti non chiari nella ricostruzione dei fatti e la sentenza era ritenuta sproporzionata al crimine commesso. Secondo la ricostruzione dei fatti era stato stabilito che a compiere la rapina al minimarket non era stato il solo Jones ma due persone e che quindi Jones aveva un complice, Van Roosvelt Solomon, anche lui condannato alla pena capitale e morto nel 1985 sulla sedia elettrica. Jones ha sempre dichiarato di non aver mai sparato, e quindi di non essere un omicida e l’accusa non ha mai stabilito chi dei due l’avesse fatto; nonostante questi elementi la sentenza è stata confermata e a nulla sono valsi gli appelli alla corte suprema da parte dei suoi avvocati, che pur ritardando l’iniezione letale fin a poche ore prima, non sono riusciti a fermare l’esecuzione. Questa condanna riporta nuovamente il tema della pena di morte nell’attualità americana, non solo per i tempi di attesa di questo caso e per una pena ritenuta ingiusta e spropositata, ma proprio perché la pena di morte non viene percepita con lo stesso spirito a destra e a sinistra o anche solo in tutti gli Stati uniti. Solo pochi mesi fa, durante il suo viaggio in America, il papa si era espresso chiaramente e senza mezzi termini condannando, davanti al congresso americano, questa pratica che va contro ogni valore etico e che più dei due terzi degli stati del mondo ha abolito o per consuetudine o per legge. Il discorso del papa era stato accolto con molta freddezza da buona parte dei repubblicani, che sull’opportunità di preservare la pena di morte hanno idee molto chiare. Oltre a ciò, nel caso di Jones era presente un altro problema legale legato ai farmaci usati nell’esecuzione. In America esistono diverse leggi a tutela delle aziende che producono i farmaci per le condanne a morte. Si tratta di company che per via di questa produzione temono boicottaggi e ritorsioni. Gli avvocati di Jones avevano impugnato la legge particolarmente rigida della Georgia per mantenere segreto il nome della casa di produzione del farmaco usato in questo stato. "Esistono certamente leggi sul segreto e la tutela delle aziende farmaceutiche in altri stati, ma nulla raggiunge il livello della Georgia", ha detto Megan McCracken, esperto di pena di morte presso l’Università di Berkeley. Sempre in Georgia a marzo era stata sospesa un’esecuzione letale a causa di un problema con il Pentobarbital, barbiturico usato nelle iniezioni letali. Il video reso disponibile dal carcere, mostrava un liquido che dovrebbe essere trasparente, ammassarsi invece in solidi pezzetti bianchi e cadere contro lo stantuffo della siringa rendendo particolarmente violenta l’iniezione. Gli avvocati di Jones avevano sostenuto che il metodo di esecuzione della Georgia comporta "un rischio sostanziale di danni significativi", e ciò viola il diritto costituzionale contro pene crudeli e spropositate. A causa della legge per la tutela ed il segreto delle case farmaceutiche, però, non avevano potuto raccogliere le informazioni sufficienti per portare avanti la causa con successo. Le loro argomentazioni sono state respinte per tre volte, creando un precedente vincolante. Afghanistan: ucciso con due colpi Wasil, il bimbo soldato eroe anti-talebani di Michele Farina Corriere della Sera, 4 febbraio 2016 Per gli estremisti afghani era un "miliziano traditore". Hanno ucciso Wasil Ahmad sulla porta di casa, mentre andava al mercato. A Tirin Kot, capoluogo della provincia di Oruzgan, terra natale del defunto capo di tutti i talebani, il mullah Omar. Un killer in moto, due proiettili in testa. Ucciso per vendetta, perché era un eroe della polizia, perché era tornato a scuola? Nella rivendicazione si parla di quel reduce di 10 anni come di un miliziano traditore, un tirapiedi dei governativi. Ma comunque miliziano. Offesa e riconoscimento. Un’aberrazione che nel mondo di Wasil, il mondo dei bambini in armi, appare quasi una medaglia al valore. Il sigillo della condanna fa il paio con le celebrazioni, quelle del piccolo soldato che combatte per la patria. Quando era tornato vivo dall’assedio del distretto di Khas Uruzgan, l’estate scorsa, i capi della polizia l’avevano immortalato in divisa, con ghirlande di plastica al collo. Le immagini diffuse sui social mostrano Wasil con l’elmetto gigante e la divisa immensa, il fucile così grande nelle sue mani da sembrare finto. La tradizione delle armi, il marchio di un Afghanistan antico appena scalfito se non tirato a lucido da quindici anni di missione internazionale, da una guerra a bassa intensità che di alto ha solo il bilancio delle vittime (più di diecimila nel 2015). Via i soldati stranieri, largo ai bambini soldato. Malgrado le leggi afghane (l’ultima nel febbraio scorso) che espressamente proibiscono l’impiego di minori nelle forze armate. Un rapporto Onu del 2015 ne contava oltre 100 (specie nella polizia). Mentre i talebani continuano a reclutare miliziani in erba: spie, messaggeri, kamikaze. Chi riveste di esplosivo bambine di 5 anni può farsi problemi a uccidere un veterano di 10, capace di sparare razzi da un fortino assediato? È stato Abdul Samad a raccontare al New York Times le gesta eroiche del nipote-martire, che dopo il ferimento dello zio avrebbe addirittura preso il comando del gruppo, guidando per 44 giorni il drappello degli agenti asserragliati nella "qala" (la casa-fortino). Lo zio Samad, ex capo talebano che quattro anni fa è passato con i governativi. Nominato capo della polizia nel distretto settentrionale di Khas, con una forte presenza talebana e un incerto equilibrio etnico tra pashtun e hazara. Un rapporto dell’autorevole "Ann" (Afghanistan Analysts Network) ha raccontato nei dettagli quei mesi di violenze. Sottolineando che gli agenti guidati da Samad e dal fratello Wali, il padre di Wasil, avrebbero commesso violenze ai danni di una parte della popolazione accusata di appoggiare i talebani. Dal taglio della barba tra gli anziani (grave offesa) agli atti di disonore (bi namusi, espressione che comprende gli abusi sessuali). Una macchia che, secondo "Ann", avrebbe riguardato proprio il padre del bambino-soldato. Ad agosto, l’assedio finale. Muore il papà di Wasil. I talebani scavano un tunnel sotto le mura. Solo l’intervento aereo delle forze speciali afghane salva i sopravvissuti (una ventina), tra cui lo zio ferito, le due mogli e diversi nipoti. La guerra ai talebani come affare di famiglia. Per Wasil è un ritorno da eroe: le foto, le ghirlande. La ripresa degli studi. In quarta elementare. Un ulteriore affronto per i talebani, che ogni anno attaccano centinaia di scuole? Un bambino-soldato che ridiventa un bambino-scolaro. Non che gli piacesse granché, ma Wasil ci stava provando a tornare bambino-bambino. Dicono fosse bravo in inglese, la lingua di quelli che se ne sono andati. L’Australia chiude le frontiere, migranti confinati nelle isole del Pacifico di Riccardo Pelliccetti Il Giornale, 4 febbraio 2016 L’Alta Corte di Canberra dà ragione al governo, confinare gli immigrati non vìola la Costituzione. Quando si parla d’immigrazione e di Australia si aprono sempre spazi alle polemiche. E anche l’ultima decisione, presa dall’Alta Corte di Canberra, rinfocolerà le critiche alla politica del governo australiano sui migranti. I giudici, infatti, hanno stabilito che confinare a tempo indefinito i richiedenti asilo in Paesi stranieri, come le isole di Nauru e Manu, in Papua Nuova Guinea, e sulla Christmas Island, è legale e non vìola la costituzione. La sentenza, emessa ieri dall’Alta corte in seduta plenaria, spiana la strada al governo conservatore che vuole rispedire a Nauru 267 migranti che hanno chiesto asilo, i quali erano in Australia per delle cure mediche impraticabili nell’isola. Il governo dell’ex premier Tony Abbott, infatti, ha stabilito che chiunque tenti di raggiungere il Paese via mare per chiedere asilo venga trasferito su una delle isole, Stati autonomi con cui sono in vigore degli accordi, e non possa vivere in Australia. Una politica duramente criticata dalle Nazioni Unite e da molte organizzazioni dei diritti umani. La sentenza, che crea un precedente secondo il diritto anglosassone, è la risposta alla causa avviata dal Centro Legale per i diritti umani, che rappresenta una donna del Bangladesh sbarcata in Australia e poi confinata sull’isola di Nauru che ha denunciato un’assistenza sanitaria inadeguata e condizioni di vita pessime. I suoi avvocati hanno sostenuto che il governo non era autorizzato dalla legge a limitare la libertà dei richiedenti asilo e a sottoscrivere contratti con Paesi stranieri che acconsentono alla loro detenzione. La Corte ha però respinto queste motivazioni. "Studieremo i dettagli prima di prendere una decisione sui passi legali da intraprendere per conto di queste persone molto vulnerabili", ha detto il legale della donna Daniel Webb, il quale ha rilevato che la sentenza non obbliga comunque il governo a rispedire il gruppo di migranti a Nauru. "È fondamentalmente immorale condannare queste persone a una vita da limbo su una piccolissima isola", ha aggiunto Webb. Ondata di critiche al governo anche da moltissime organizzazioni internazionali dei diritti umani, ma il governo conservatore tira dritto, forte dei risultati ottenuti nell’arginare gli sbarchi di profughi. Molti ricorderanno le polemiche sollevate quando nel 2013 l’Australia introdusse leggi durissime sull’immigrazione, seguita da una campagna mediatica in cui imperava un videomessaggio, in televisione e su internet, del generale Angus Campbell, comandante delle operazioni sulla sovranità dei confini. "No way! You will not make Australia home". Il messaggio era chiaro: chiunque arrivi nel Paese senza visto, non sarà accettato. "La legge si applica a tutti: famiglie, bambini, minori non accompagnati, non ci sono eccezioni". Di fatto l’Australia ha adottato un vero e proprio piano militare per risolvere l’emergenza immigrazione. Le navi della Marina militare intercettavano i barconi dei profughi sul limite delle acque territoriali, prestavano soccorso fornendo acqua e cibo e poi li allontanavano dalle acque australiane. I risultati di quest’operazione denominata Sovereign Borders (Confini sovrani) parlano da soli: fino al 2013 sbarcavano illegalmente almeno 20mila immigrati all’anno, nel 2014 solo 147. Gran Bretagna: l’Onu dà ragione ad Assange "la sua detenzione è illegale" di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 4 febbraio 2016 Il leader di Wikileaks, chiuso nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, si era detto pronto a consegnarsi alle autorità britanniche se il ricorso fosse stato respinto. L’Onu dà ragione a Julian Assange, il 44enne australiano fondatore di Wikileaks che dal giugno 2012 è rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Secondo indiscrezioni riferite dalla Bbc il gruppo di lavoro sulle detenzioni arbitrarie, ha stabilito che i tre anni passati da Assange nella ambasciata dell’Ecuador a Londra sono da considerare alla stregua di una detenzione illegale. La decisione ufficiale sarà annunciata venerdì ma non sarà vincolante né per le Svezia né per la Gran Bretagna. L’annuncio - Giovedì mattina l’australiano, con un tweet, aveva annunciato l’intenzione di costituirsi se l’Onu avesse rigettato il suo ricorso: "Accetterò di essere arrestato domani dalle autorità britanniche se l’Onu si esprimerà contro di me". "Se tuttavia dovessi avere la meglio - aveva aggiunto Assange - mi aspetto l’immediata restituzione del mio passaporto e la fine di ulteriori tentativi di arrestarmi" L’arresto - Assange fu arrestato nel 2010 a Londra sulla base di un mandato d’arresto svedese per un’accusa di stupro poco dopo che Wikileaks aveva diffuso decine di migliaia di documenti americani top secret. L’australiano, che si è sempre detto innocente, temeva che, una volta estradato in Svezia, sarebbe stato poi consegnato agli Stati Uniti. Quando le autorità britanniche hanno dato il via all’estradizione, Assange, che era in libertà su cauzione, si è rifugiato nell’ambasciata di Quito. Da allora vive arroccato nell’ex bagno femminile al piano terra trasformato in mini appartamento: a sua disposizione un laptop, un tapis roulant, una lampada Uva per la vitamina D.