Carceri, le sbarre non siano un ostacolo tra genitori e figli di Vanna Iori (Deputata Pd-responsabile minori) huffingtonpost.it, 3 febbraio 2016 Genitori comunque. E figli nonostante. Le sbarre, simbolo del carcere, non possono diventare un ostacolo alla genitorialità e al diritto contestuale, dei minori, di avere un legame affettivo fondamentale. Un’enunciazione che potrebbe sembrare scontata eppure non è così nel nostro Paese che ancora sconta un deficit in termini di genitorialità in carcere. Il rapporto dell’associazione Antigone 2015 rende noto che nelle carceri italiane ci sono 12 sezioni nido con bambini. Al 31 dicembre 2014 erano 28 i bambini sotto i tre anni in carcere con le loro mamme, un dato che sale nei periodi non festivi. Ci sono però anche tantissimi ragazzi in età minorenne con genitori reclusi: 57.000 figli con 25.119 padri o madri in carcere. Una situazione preoccupante che mette a dura prova il diritto alla genitorialità. Poter vivere la paternità e la maternità è un diritto per gli adulti, così come lo è per i bambini conservare i legami genitoriali, essenziali per la crescita e lo sviluppo psicologico, affettivo, cognitivo, relazionale, sociale. Ma quando queste relazioni genitoriali si svolgono quotidianamente in ambiente carcerario (come nel caso delle madri detenute) o prevedono incontri saltuari con un genitore detenuto, sono necessarie alcune condizioni materiali che consentano di coltivare durante la carcerazione un rapporto educativo e affettivo con i figli, esercitando la genitorialità, pur in condizione di reclusione, e mantenendo una frequentazione reciproca che non dissolva i legami familiari. Per rispondere a queste esigenze ho depositato una proposta di legge volta a modificare alcune disposizioni attuali e intervenire, da un lato, sulla situazione delle madri detenute con bambini, dall’altro sulla situazione delle migliaia di genitori e figli a cui è negato il diritto alla espressione della genitorialità. Innanzitutto occorre ribadire un principio irrinunciabile: la presenza di bambini dietro le sbarre non è degna di un Paese civile. È di tutta evidenza pedagogica e psicologica che le necessarie esigenze di sicurezza che presiedono le strutture carcerarie e ne regolano l’organizzazione non possono in alcun modo corrispondere allo sviluppo sereno dei bambini né alle adeguate cure materne. Il carcere aggiunge alla solitudine del detenuto la distruzione dei suoi legami familiari e la privazioni dei rapporti che desidera mantenere in modo talvolta struggente: abbracciare i figli, ascoltare la loro voce, o semplicemente osservarli, progettare per loro un futuro migliore, insegnando ai figli a non commettere gli stessi errori. Anche i figli soffrono per la perdita dei legami con i genitori. L’allontanamento improvviso è traumatico per entrambi. Così come la chiusura forzata dei figli piccoli che, incolpevoli, crescono nei luoghi di punizione. La tutela della maternità e dell’infanzia, sancita dall’articolo 31 della Costituzione, impone di sottrarre i bambini all’esperienza di crescere in una struttura carceraria. Nella consapevolezza di queste molteplici difficoltà è necessario proporre nuove misure che possono meglio rispondere alle esigenze di rapporti con i famigliari e al diritto alla genitorialità. Come può mantenersi e consolidarsi la genitorialità se è difficile l’effettuazione del colloquio, atteso per giorni o settimane, se esso avviene in condizioni inidonee al dialogo, alla confidenza e alle manifestazioni di affetto? È questo un aspetto particolarmente urgente e drammatico. Il momento del colloquio è certo il più significativo sul piano degli affetti e delle relazioni. È noto infatti che i colloqui avvengono generalmente nella confusione di un parlare, spesso urlante, di pianti, in presenza di altri detenuti e familiari, dove anche un abbraccio tra padri/madri e figli diventa difficile o imbarazzante per entrambi. I colloqui dei figli con madri e padri detenuti devono cioè svolgersi in locali idonei al fine di evitare la permanenza di bambini e ragazzi in ambienti caotici, sovraffollati e promiscui. Per ridurre l’impatto del carcere sui figli di detenuti sono indispensabili luoghi che rispettino la sensibilità dei minorenni, da realizzare all’interno degli istituti, sia per i colloqui sia per le aree di attesa, possibilmente senza mezzi divisori o all’aperto, garantendo anche la possibilità di trascorrere tempo con attività ludiche in attesa dell’incontro e durante l’incontro con il proprio genitore. E soprattutto occorre dotare il personale penitenziario di alcune figure chiave quali operatori psicopedagogici che svolgano un ruolo di accompagnamento e presa in carico della famiglia nonché di preparazione dei congiunti e del minorenne al colloquio. Ben nota è l’attuale mancata realizzazione (ad esclusione delle strutture di Milano, Venezia e Cagliari) degli Istituti a custodia attenuata per madri detenute (Icam) previsti dal decreto attuativo della legge 62 del 2011, carenza che comporta ad oggi la crescita e la permanenza dei bambini all’interno del carcere, con la madre detenuta, sino all’età di sei anni. È necessario che il giudice abbia la possibilità di estendere la permanenza in case protette alla madre con figli anche di età superiore ai dieci anni per assicurare un più equilibrato sviluppo del minorenne che necessiti di ulteriori cure materne. Le case-famiglia protette devono poi essere realizzate fuori dagli istituti penitenziari e organizzate con caratteristiche che tengano conto in modo adeguato delle esigenze psico-fisiche dei bambini, ispirandosi ai criteri prioritariamente desunti della prospettiva educativa e rieducativa e dalla presenza di personale con queste competenze per garantire la priorità degli aspetti educativi. In secondo luogo si individua la necessità di un ambiente interno (arredi, abbigliamento, spazi) adatto alle esigenze dei bambini e al rapporto materno. Devono essere inoltre assicurati i rapporti con strutture educative esterne e la frequentazione di coetanei, stipulando anche apposite convenzioni con gli Enti locali, i comuni o le associazioni di volontariato del settore per accompagnare i figli presso asili nido, scuole dell’infanzia o scuole primarie. Le strutture educative che consentono di giocare e apprendere nei luoghi condivisi costituiscono importanti momenti di contatto con il mondo extracarcerario dove il diritto fondamentale all’educazione trova momenti di arricchimento e, in molti casi, di tregua serena nella precoce durezza esistenziale a contatto con il dolore e la rabbia della detenzione. Essere figli, padri e madri si può, anche se in mezzo ci sono le sbarre: basta guardare al di là di esse. Chiusura Opg. Ministero Salute pronto a nomina Commissario per Regioni inadempienti quotidianosanita.it, 3 febbraio 2016 Negli Opg ancora 164 persone. Nelle Rems ricoverati 455 ex internati. Ecco la Relazione al Parlamento con tutti i dati Regione per Regione. Lo ha anticipato il sottosegretario alla Salute, rivelando che sono in corso le istruttorie sugli atti regionali dopo le diffide inviate alle Regioni inadempienti. "Nei prossimi giorni la nomina del Commissario unico per chiudere la partita". E sulla nomina preme anche stopOpg. La partita Opg sembra alla svolta. A quasi un anno dalla scadenza del 31 marzo 2015 che avrebbe dovuto vedere la chiusura di tutti gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari con il trasferimento nelle Rems dei detenuti psichiatrici, in alcune Regioni si registrano ancora ritardi. Al 15 dicembre 2015 erano ancora 164 le persone (di cui 5 donne) presenti negli Ospedali psichiatrici giudiziari che dovevano essere chiusi dallo scorso 31 marzo. Le presenze più rilevanti a Montelupo Fiorentino con 48 internati, seguito da Aversa con presenze e Barcellona Pozzo di Gotto con 35 persone ancora internate. Di contro, sempre al 15 dicembre scorso, erano 455 (di cui 65 donne) le persone trasferite e residenti nelle Rems fino a quel momento attivate in diverse Regioni. Questo il quadro rilevato dalla Relazione al Parlamento sugli Opg presentata oggi dai Ministri della Salute e della Giustizia. E il Governo sembra a questo punto deciso a rompere gli indugi e a procedere al commissariamento con la nomina di un Commissario unico che avrà il mandato per superare gli ostacoli e chiudere i vecchi Opg ancora aperti provvedendo contestualmente alla nuova destinazione dei detenuti. Ce lo ha confermato questa sera lo stesso sottosegretario alla salute Vito De Filippo: "Nonostante il processo dell’ultimo anno e mezzo è stato straordinario perché più di 500 persone stanno ormai nelle Rems, dobbiamo portare a compimento la chiusura degli Opg. Per questo abbiamo diffidato alcune Regioni ancora inadempienti. Proprio in queste ore stiamo verificando gli atti inviati da queste Regioni per procedere al commissariamento con la nomina del Commissario unico governativo che si sostituirà all’amministrazione regionale per portare a conclusione il processo. La decisione sarà presa nei prossimi giorni finito il lavoro di verifica. In tutto si tratta di 5/6 Regioni". La richiesta del Commissario era pervenuta in giornata anche da stopOpg, l’organizzazione che da sempre si batte per la loro chiusura. "La IV Relazione del Governo sul superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari Opg, presentata oggi al Parlamento, conferma l’urgenza di nominare un Commissario che intervenga nelle Regioni inadempienti, che non hanno accolto i loro pazienti, perciò ancora rinchiusi nei quattro Opg superstiti", hanno scritto in una nota a nome dell’organizzazione Stefano Cecconi, Vito D’Anza, Giovanna Del Giudice. "Solo Napoli Secondigliano è stato chiuso. Gli altri Opg (Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto), - sottolinea stopOpg - pur con un numero ridotto di persone internate, sono ancora aperti. Quello di Castiglione delle Stiviere ha solo cambiato targa "trasformandosi" da Opg in Rems con oltre 200 internati. A quasi un anno dalla data fissata per la chiusura degli Opg (31 marzo 2015) il ritardo accumulato per responsabilità delle regioni inadempienti si somma ora a quello del Governo che indugia inspiegabilmente nella nomina del commissario". "Il Commissario deve intervenire per garantire ad ogni internato la dimissione e poter chiudere così gli Opg - aggiungono gli esponenti di stopOpg - ma soprattutto dovrà occuparsi della corretta applicazione della legge 81/2014, che indirizza gli interventi verso progetti di cura e riabilitazione individuale da svolgersi preferibilmente senza misura di sicurezza detentiva". "Come indica la stessa Relazione al Parlamento, questo è possibile nella stragrande maggioranza dei casi. Così anche il ruolo delle Rems - e quindi della misura di sicurezza detentiva - può e deve diventare residuale - concludono - rispetto all’assistenza che deve svolgersi nel circuito del servizi di salute mentale territoriali (ai quali vanno subito assegnate le risorse), seguendo finalmente le indicazioni della legge 180 che ha sancito la chiusura dei manicomi". Tribunale dei minori a rischio, si razionalizza sull’unica giustizia che funziona di Susanna Marietti (Associazione Antigone) Il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2016 La giustizia minorile deve avere un unico faro principale a illuminarne la strada: l’interesse superiore del bambino o del ragazzo. Lo dice il diritto internazionale, lo dice il diritto interno, lo dice il buon senso, lo dice la convenienza sociale, lo dice la pedagogia, lo dice il senso morale di noi adulti che siamo consapevoli del valore incommensurabile di una vita umana in evoluzione, recuperabile alla società, educabile ai valori fondamentali della convivenza e della vita. A tutto questo è ispirato il sistema italiano della giustizia minorile. Sia in ambito civile che penale, l’attenzione che i magistrati minorili hanno saputo dedicare lungo gli scorsi decenni alle vicende uniche e irripetibili del singolo fanciullo nella cui storia si imbattevano è stata qualcosa di prezioso. È questa attenzione che ha permesso di non buttare al macero delle vite da poco cominciate. In ambito penale, è questa attenzione che ha permesso di non marchiare a fuoco un ragazzo a causa di uno sbaglio commesso, ma piuttosto di aiutarlo a comprendere gli errori e il valore del compiere altre scelte e dell’incamminarsi su altri percorsi. È stata questa attenzione che ha permesso al codice di procedura penale minorile entrato in vigore nel 1988 di non vedere il proprio spirito tradito durante questo quasi trentennio. Quel codice che mette al centro il ragazzo e non la punizione, che chiede al carcere di rimanere una misura estrema e residuale, che offre al giudice tante opportunità per rispondere alla rottura delle regole da parte di un giovane. Opportunità di tipo essenzialmente educativo. Opportunità che, come la storia ci ha insegnato, i ragazzi sanno cogliere quando si dà loro fiducia, quando si sta loro vicino, quando li si responsabilizza e si offre loro una diversa possibilità. I numeri parlano: a fronte di circa 20mila ragazzi nel circuito penale, solo 400 si trovano in un carcere per minori. Pochi giorni fa la Commissione Giustizia della Camera ha votato una proposta di riforma del Tribunale della famiglia che tra le altre cose delegherebbe il governo a sopprimere i Tribunali per i Minorenni e l’ufficio delle Procure Minorili, accorpandoli ai Tribunali e alle Procure ordinari. Per queste ultime non è prevista neanche una esclusività di funzioni. I magistrati minorili sono giustamente preoccupati. La specializzazione del lavoro da loro portato avanti fino a oggi rischia di perdersi nel nulla. Le ragioni del risparmio non possono guidare materie delicate come queste, dove in ballo c’è il futuro di noi stessi, ci sono le nuove generazioni, ci sono i procedimenti penali nei confronti dei ragazzi autori di reato ma anche i procedimenti civili a tutela dei bambini in difficoltà, ci sono le competenze in materia di abbandono, di adozione, di decadenza della responsabilità genitoriale e via dicendo. Cose troppo importanti per entrare in quella che eufemisticamente viene qualificata come razionalizzazione della spesa. Speriamo che il legislatore voglia ripensarci e non rischiare di svilire quella giustizia minorile che tutta l’Europa ci invidia. La giustizia difensiva che peggiora la vita al cittadino di Marcello Adriano Mazzola (Avvocato) Il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2016 È notorio come da tempo esista la medicina difensiva, con lo scopo di irrigidire le prescrizioni mediche impartite dal medico, al fine di sottrarsi da eventuali azioni di responsabilità. Peccato come sia oramai altrettanto noto come una tale prassi costi molto di più al Sistema sanitario e spesso peggiori la vita del paziente (esposto a più analisi, più cure farmacologiche etc.). Ecco qualcosa di simile oramai esiste anche nel sistema Giustizia. Il sistema reagisce infatti alle azioni (giurisdizionali, ergo cause) con soluzioni assai discutibili, invece che riorganizzarsi e rendersi più efficiente. Partiamo dai falsi luoghi comuni, oramai recitati e ripetuti come mantra fino a farli credere come veri: 1) abbiamo oltre 6 milioni di cause pendenti nel processo civile: a parte il fatto che dichiarare che si sia affetti da metastasi serve a ben poco ove non si proceda a verificare quali siano le cause reali, ove si consideri che la Pubblica Amministrazione inefficiente è la prima fonte di cause (es. contro l’Inps, contro le Agenzie delle Entrate che agiscono temerariamente e senza contraddittorio etc.); in realtà il numero attuale è di poco oltre 4 milioni, come ha di recente relazionato il dott. Barbuto al Ministero della Giustizia; 2) in Italia l’elevato numero dei processi lo si deve al numero abnorme di avvocati: che sia elevato (attualmente circa 215.000) è indiscutibile ma non vi è alcuna correlazione scientifica così come ha sottolineato personalmente il Guardasigilli di recente (Rimini, ottobre 2015); 3) gli italiani son troppo litigiosi, tesi scientifica smentita dai numeri, sempre dal dott. Barbuto al Ministero della Giustizia di recente; 4) i giudici italiani hanno le performance migliori d’Europa, altra tesi assai discutibile ove si pensi al recente caso del giudice che nel rinviare una causa alle calende greche (2019) si autogiustificava asserendo che avesse già carichi di lavoro che non potevano certo sfociare in ritmi da schiavismo in contrasto con i diritti fondamentali dell’uomo. Ora si pensi come nel suddetto carico ogni giudice contempli almeno ¼ (sino a 1/3) di udienze fuffa (così dette di precisazione delle conclusioni, ove le parti processuali presentano per iscritto le domande finali, in cui i difensori neppure parlano e in cui i giudici annuiscono con un battito di ciglia). Eppure i falsi luoghi comuni hanno creato anticorpi discutibili, realizzando dunque la Giustizia difensiva, rendendo complicato ove non arduo domandare tutela al giudice, pertanto realizzando una sacca enorme di diniego di giustizia e costruendo un diritto censorio. Negli ultimi anni il legislatore ha: a) introdotto strumenti di Alternative Dispute Resolution, assai utili ma in modo discutibile, lacunoso e fazioso (mediazione obbligatoria, mediatori non qualificati, mediazione non terza nel tributario etc.); b) aumentato a dismisura i costi di accesso alla giustizia (introitati dai ministeri della Giustizia e delle Finanze, fino a dover anticipare migliaia di euro o, per fare qualche esempio, dover pagare oltre 700 euro per fare un ricorso in Cassazione per una causa che valga 6.000 euro; c) inventato il cosiddetto filtro nei giudizi di appello e soprattutto di Cassazione, secondo cui soprattutto nel secondo i ricorsi vengono dichiarati inammissibili fino al 90% secondo indecifrabili criteri posti a metà tra la matematica, il bizantino e l’onirico. Tirare una moneta in aria offre maggiori chance di successo. Al contempo i giudici hanno: d) applicato gli artt. 91 (condanna alle spese di lite) e 96 (cosiddetta lite temeraria) c.p.c. a targhe alterne: se vinci contro una Pubblica Amministrazione il giudice, pur non potendolo fare, ti compensa le spese (ergo ti paghi le tue) e ti condanno al risarcimento (ad libitum) se osi intraprendere azioni che non mi garbano (ricordo il giudice torinese, ascoltato ancora sabato a Milano) che ha condannato pesantemente i consumatori clienti delle banche per aver osato contestare l’usurarietà degli interessi (sommandoli) anche se una parte della giurisprudenza lo conferma (ma non lui perché "io devo tutelare il sistema", bancario ovviamente); e) creato ostacoli di ogni sorta alla realizzazione compiuta del Processo Civile Telematico (nato per ridurre tempi e costi della giustizia), con sentenze creative che hanno seminato una miriade di ostacoli, al cospetto di norme tecniche già scritte da folli burocrati. Tutto questo, invece di affrontarsi alla radice i problemi della inefficienza della giustizia (con una migliore organizzazione del sistema) ha intimidito gli "utenti" della giustizia. Il risultato è stato inquietante: da anni decine di migliaia di persone rinunciano a chiedere giustizia pur dinanzi alla demolizione dei loro diritti fondamentali, perché economicamente non possono farlo o temono di poter vincere, ma di fatto perdendo. Et voilà, l’ingiustizia sociale è servita. Omicidi e violenze in famiglia: è una questione culturale, altro che gender di Eretica Il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2016 Un padre che uccide i figli e si suicida e un uomo che dà fuoco alla compagna, incinta, e poi scappa. Del primo si dice che avesse problemi economici e del secondo chissà se si dirà che è stato solo un "raptus" e che in realtà non voleva. Due uomini italiani, di certo non musulmani, che trovano sulla stampa quantomeno una maggiore "comprensione" che ad altri, stranieri, non è mai concessa. E non sarebbe giusto in nessun caso, perché i delitti vanno osservati e analizzati per quel che sono. Al Family day, tra gli altri, lo scorso anno ci fu Kiko Arguello che parlò di "mancanza d’amore". Chissà se tra uno Sposati e sii sottomessa e l’altro, che vede concordi Miriano e Adinolfi, almeno su questo punto, gli animatori del Family Day si chiedono come mai nelle famiglie "tradizionali" avvengano simili delitti. Chissà se a chiederselo sono quelli che "difendiamo i bambini dal gender". Hubert e Giulia, di 13 e 8 anni, di certo non sono stati uccisi dal Gender. Carla non è stata ustionata - e il suo bimbo non è stato quasi ucciso - dal Gender. E io ho difficoltà a procedere per paragoni tra i paradossi culturali che vengono imposti alla nostra attenzione e quel che accade realmente. Ma devo farlo, perché bisogna fare pulizia tra gli elementi che inquinano una discussione fatta con onestà intellettuale e la reale intenzione di prevenire e risolvere la violenza che accade dentro le famiglie. Che i figli siano uccisi da una donna o un uomo dovrà essere chiaro che si tratta di cultura del possesso. Perché se non ritieni che i figli siano "tuoi" non vedo perché tu debba decidere di portarteli nella tomba. E non mi dite che si tratta di follia. Lo chiedo soprattutto a chi attribuirebbe invece un simile delitto alla cultura "islamica" senza alcun dubbio nel caso in cui lui fosse stato uno straniero. La divisione tra folli e normali serve solo a legittimare autoritari dispositivi di controllo e potere, insegnava il buon Foucault. Sono persone, che fanno male ad altre persone, per ragioni culturali, per difetti insiti nella "nostra" occidentalissima cultura. La stessa cultura che parla del gesto del buon padre di famiglia (o della buona madre santissima) quando a morire sono i figli. La stessa cultura che parla dell’amorevole uomo che soffre di crisi di abbandono o di chissà che altro quando si parla di una donna che si ritrova ustionata e con un figlio nato prematuro. Io spero che il governo, nelle figure del ministro Alfano e della consulente per la violenza di genere Isabella Rauti, abbiano tenuto il conto dei delitti di questo tipo dal momento in cui è entrata in vigore la legge contro il femminicidio. L’abbiamo detto in tanti che quella legge sarebbe risultata inutile, eppure il governo, a suon di annunci su provvedimenti repressivi e securitari, alimentati anche da una inutile campagna emergenziale che ha fatto si che questi delitti fossero definiti una questione d’ordine pubblico, di quella legge ha fatto uno dei tanti pretesti per raccontare una lotta contro la violenza di genere che non viene mai chiamata per nome. C’è una violenza che viene inflitta perché cultura vuole che si imponga ad una persona un ruolo di genere ben preciso. Che cosa avrà mai potuto fare, quale No ha pronunciato, che gesto di autonomia ha prodotto questa donna per "meritare" di essere quasi bruciata viva? Cosa potranno mai dire quello che pensano che simili aberrazioni possano essere compiute solo da "quelli dell’Isis"? E parlo delle stesse persone che non sanno fare altro che parlare di pene di morte, castrazioni e ulteriori metodi forcaioli, senza che poi rimettano in discussione, mai, la cultura sessista che invece alimentano. E se insisto nel rilevare questo dato è, ancora, per amore di chiarezza. La violenza non si risolve chiudendo le frontiere, obbligando alla conversione tutti i musulmani o, di contro, insegnando alle donne che la sottomissione è una figata. La prevenzione parte dall’educazione al rispetto dei generi. La prevenzione è conseguente al sovvertimento degli stereotipi di genere. I figli non ti appartengono. Donne e uomini hanno eguali diritti. La donna, compagna, amica, amante, moglie, madre, non ti appartiene. Dire che tu non devi fare violenza su una donna in quanto madre e risorsa dello Stato, per il ruolo di cura gratuito che svolge, così come alcune figure istituzionali hanno affermato, non è utile. Sconvolgersi per il fatto che questa donna è stata quasi uccisa nonostante fosse incinta non funziona, perché ci rimanda ancora a quegli stessi stereotipi di genere che sono motivo culturale del crimine che lei ha subito. Se lei non fosse stata incinta il crimine che ha subito sarebbe stato meno grave? Le donne vanno rispettate perché persone. I figli idem. Le donne vanno rispettate non già per la loro "capacità" di essere sottomesse nel matrimonio, come direbbe un partecipante al Family day che intende così offrire la sua presunta adorazione solo verso le donne/madonne/sante, ma vanno rispettate in quanto persone. Anche se "sottomesse", per quel che la parola significa nel gergo comune", non sono affatto. Anche e soprattutto se sono autodeterminate, libere, se dicono di No e se fanno scelte che tu non condividi. Gli uomini che commettono questi delitti non sono mostri. Sono persone che immaginano, in un modo o nell’altro, di avere una giustificazione culturale per quel che fanno. Sono quelli del "se l’è cercata". Quelli che non ascoltano campanelli d’allarme che dovrebbero preoccuparli e che pretendono compassione quando mostrano incontinenza da percosse, molestie, stupri, femminicidi. Così accade quando un uomo pensa ancora di dover lavare l’onore con il sangue, quando si ritiene che la gelosia oppressiva sia un segno d’amore, quando l’appartenenza, il possesso, siano motivo di orgoglio in una relazione. Ciascuno è responsabile di quel che fa, ma c’è una responsabilità collettiva che ci riguarda tutti. Da quella responsabilità partiamo per raccontare a noi stessi i nostri limiti, le nostre debolezze, la cultura, gli stereotipi, tutto quel che può comporre e motivare un gesto di violenza. Ditemi: a voi è mai passato per la mente di maltrattare, picchiare, uccidere, compagni o figli? Riconoscete nella cultura che respiriamo elementi che possano giustificare simili orrendi pensieri? Non lo dico da donna che pensa di essere superiore agli uomini o a chiunque altro. Perché poi. Lo dico semplicemente da persona che vorrebbe si smettesse di parlarne senza parlarne o senza la reale intenzione di prevenire le violenze. Intervista a Raffaele Cantone: "contro la corruzione meno penale e più semplificazione" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2016 La corruzione è "a livelli molto elevati" ma "certi aggettivi roboanti" rischiano di far credere che "il sistema corruttivo ha ingoiato tutto e non ci sia più nulla da salvare". La prescrizione è "una mina sotto i processi per corruzione" e quindi "bisogna intervenire". Ma "che senso ha accertare una corruzione di vent’anni fa? L’allungamento dei termini, da solo, non può bastare". Raffaele Cantone, magistrato, da due anni presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, commenta quanto è emerso sulla corruzione dalle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario. Presidente, ovunque la corruzione è stata raccontata come un fenomeno tutt’altro che in diminuzione. I vertici giudiziari romani hanno parlato di un fenomeno "che ha superato il livello di guardia, per intensità e pervasività, e che investe ormai tutti i settori della collettività". Allarmismo o drammatica realtà? "Non considero affatto queste dichiarazioni di per sé allarmistiche. Sono convinto anch’io che il livello di corruzione nel nostro Paese sia molto elevato e che in alcuni settori raggiunga livelli di pervasività molto alti. Lo dimostrano alcune vicende apparentemente minori, che forse fanno meno presa sull’opinione pubblica ma sono un campanello d’allarme molto chiaro. Mi riferisco, ad esempio, all’arresto quasi in flagranza di un dipendente del comune di Roma a settembre 2015 per una mazzetta di 2mila euro. La vicenda è avvenuta in un momento in cui il municipio romano aveva gli occhi di tutto il mondo puntati addosso e questo signore trovava normale continuare a prendere tangenti! Così come molto allarmante è stata l’indagine sull’ANAS, che ha dimostrato come pezzi consistenti di alcuni uffici, anche strategici di quell’ente, fossero divenuti vere centrali delle mazzette. Allo stesso tempo, però, l’utilizzo di certi aggettivi, sempre più roboanti, rischia di produrre l’effetto opposto: fa pensare che il sistema corruttivo abbia ingoiato tutto e che non ci sia più nulla da salvare. E questo non è condivisibile né vero perché, fra l’altro, non è supportato da alcun dato numerico visto che non esistono indicatori attendibili di corruzione. Né rende giustizia a chi la corruzione la combatte, a volte, anche nella stessa amministrazione. L’emersione di un fatto corruttivo non è spontanea e casuale ma conseguenza di un lavoro messo in campo per contrastare il malaffare ed è la dimostrazione di anticorpi che pure in piccola parte funzionano". Se, però, la situazione è quella emersa dalle cerimonie sul nuovo anno giudiziario, quali riflessioni vanno fatte sull’azione di contrasto? Bisogna dire che la semina di questi ultimi anni, sia sul fronte della prevenzione che della repressione, è stata inadeguata? Oppure, che i frutti si raccoglieranno solo nel lungo periodo? "Sarebbe stato un miracolo se in tempi così brevi le nuove strategie di contrasto, preventivo e repressivo, avessero già funzionato. In questo campo non esistono miracoli, purtroppo. Dopo anni in cui il fenomeno corruzione è stato sottovalutato e dimenticato, in cui si predicava che l’illegalità e la criminalità erano divenute un sistema con cui imparare a convivere, in cui si esaltavano come furbi coloro che "a qualunque costo" arrivavano al risultato, un’inversione di marcia - che oggettivamente c’è stata - non può avere effetti nel breve periodo. Chi vuole tutto e subito o è un illuso o, in qualche caso, non è in buona fede; agita questa bandiera perché vuole che si ritorni allo status quo ante. Io non so dire quanto tempo ci vorrà, non ho la palla di vetro. Ma ho una certezza che non è frutto di un ottimismo di facciata: se si lavora a prescindere dalle emergenze, i risultati arriveranno". Secondo il Parlamento europeo, la corruzione "non è soltanto un reato contro la pubblica amministrazione ma è uno dei più gravi reati contro l’economia". Tutte le istituzioni internazionali ne segnalano la gravità anche per la tenuta democratica degli Stati. In Italia qualcosa si muove ma la politica è sorda sulla prescrizione, cerca scorciatoie come l’aumento delle pene invece di misure strutturali e si divide su quelle misure, peraltro vigenti in quasi tutti i paesi europei, che certo non sono antidemocratici. Perché? "Sono convinto anch’io che la corruzione non sia più un reato soltanto contro la Pa ma contro il sistema economico, che mortifica la concorrenza, non favorisce la ricerca e provoca fuga di cervelli. Lo riconoscono ormai tutti gli studiosi internazionali. In questo senso, l’incapacità di un momento repressivo che funziona è certamente molto dannosa e la prescrizione è oggettivamente una mina sotto i processi per corruzione. Anch’io ho perplessità sulla logica dell’aumento delle pene, che finisce per squilibrare un sistema di valori che sta dietro le sanzioni. Bisogna senz’altro intervenire sulla prescrizione, ma in modo che non renda i processi interminabili. Che senso ha accertare una corruzione di vent’anni fa? L’allungamento dei termini, da solo, non può bastare; finisce per lasciare sia la società che l’interessato in una situazione di incertezza che non fa bene a nessuno". L’ultimo Report di Transparency sulla corruzione "percepita" rivela che l’Italia ha guadagnato un posto nella classifica mondiale ma resta sempre a livelli di terzo mondo. Sulla percezione come indice di misurazione della corruzione ci sono polemiche e scetticismi politici. Epperò, se si tratta di altri reati, come l’immigrazione clandestina, i polemici e gli scettici cavalcano proprio la percezione (in questo caso, di insicurezza) per opporsi alla depenalizzazione. Due pesi e due misure? "Anzitutto è vero: quello dell’Italia è un piccolo passo in avanti. Otto punti guadagnati sono pochi soprattutto se si guarda la posizione in Europa: siamo penultimi. È la prima volta, però, che c’è una piccola ma significativa inversione di tendenza, che non va sottovalutata, anche perché arriva in un momento in cui si parla molto dei gravi fatti di corruzione ed è noto che il parlare può incidere sulla percezione del fenomeno. Nonostante lo scetticismo per quella che resta pur sempre una sensazione, è però evidente che, se i cittadini percepiscono una forte presenza di corruzione, vuol dire che hanno scarsa fiducia nell’amministrazione, e questo non è un buon segno. Quanto all’immigrazione clandestina, la penso come il primo Presidente della Cassazione: è un reato inutile e persino controproducente. Se l’abolizione può far aumentare la percezione di insicurezza, lavoriamo per spiegare davvero perché quel reato non serve". La cronaca registra quotidianamente uno o più casi di inchieste di corruzione, in ogni settore della vita pubblica e privata. Evidentemente c’è un diffuso senso di impunità: secondo lei, corrisponde alla realtà oppure c’è un delirio di immoralità? "C’è sicuramente, nel calcolo costi/benefici, qualcosa che spinge comunque le persone a continuare a prendere mazzette. Non so se sia senso di impunità, ma certamente c’è anche il senso di una non grave percezione sociale del fatto. Si fa ancora fatica a dire che chi accetta o paga sia un delinquente che commette un fatto grave! Credo che anche il cambiamento di questa mentalità possa essere un deterrente utile. Chi commette questo tipo di reati è spesso un colletto bianco e nei suoi confronti conta moltissimo la reputazione nel contesto in cui vive". Lei insiste sulla necessità di combattere la corruzione partendo "dal basso", stimolando la reattività civica. E tuttavia, lei stesso rileva che i tantissimi esposti che vi arrivano sono quasi tutti anonimi. Vigliaccheria? Paura? O il timore che prepotenza e arroganza si ritorcano contro? "Per questo il lavoro è molto lungo: se non c’è fiducia da parte dei cittadini, è tutto più difficile, non si crea quella rete di controllo sociale che funziona nelle democrazie mature. Però la fiducia dei cittadini non si conquista con le parole - tutti siamo bravi a dire parole forti e chiare - ma con i fatti, che sono più difficili da mettere in campo. Ma questa è la strada: lavorare per recuperare la fiducia dei cittadini. In questo senso è fondamentale, più che parlare, agire e dimostrare concretamente quello che si fa". Se lei fosse legislatore, che cosa proporrebbe per rendere il contrasto alla corruzione più efficace sul piano preventivo e repressivo? "Toccherei il meno possibile il penale. Interventi mirati sull’efficienza del sistema, soprattutto processuale, e mi concentrerei su un grande lavoro di semplificazione e di sempre maggiore chiarezza delle regole della Pa. Se so quali sono i miei diritti e qual è la strada per ottenerli, non ho bisogno di utilizzare vie traverse. E poi scommetterei sulla Pa, sulla parte buona, che aspetta solo di essere valorizzata. Sono cose difficili da tradurre in slogan accattivanti, ma sono certo che sarebbero più utili per vincere il malaffare". La Faranda invitata alla scuola dei magistrati. Protesta la figlia del giudice Galli di Alberto Custodero e Laura Montanari La Repubblica, 3 febbraio 2016 "Sono attonita e amareggiata, noi magistrati abbiamo giurato fedeltà allo Stato". Ma Piergiorgio Morosini, del Csm, difende l’iniziativa: "Clamore esagerato. È una iniziativa interna della magistratura. Serve per comprendere scelte criminali e percorsi collaborativi. No a ex terroristi nelle scuole dell’obbligo". L’ex terrorista Adriana Faranda è stata invitata, insieme all’ex brigatista Franco Bonisoli, a partecipare nella sede della Scuola della magistratura a un corso di formazione per i giudici sulla giustizia riparativa, che si aprirà domani a Scandicci. Sulla mailing list delle correnti di sinistra della magistratura è polemica tra chi difende l’iniziativa (come l’ex presidente della Scuola, Valerio Onida: "È un’attività che promuove ciò che meglio serve al lavoro dei magistrati"). E chi invece la ritiene "assurda". È "attonita", prima ancora che "amareggiata", Alessandra Galli, figlia del giudice Guido ucciso da Prima Linea, che esprime il suo "sconcerto" non per l’argomento dell’incontro, "ma per la decisione di invitarvi Adriana Faranda. È inaccettabile il dialogo in una sede istituzionale come questa con chi ha ucciso per sovvertire lo Stato e la Costituzione alla quale noi, come magistrati abbiamo giurato fedeltà". Analoghe le riserve del procuratore di Torino Armando Spataro: "le mie perplessità non sono affatto collegate all’oggetto del corso, ma alla presenza di ex terroristi in una Scuola di Formazione per Magistrati". C’è però chi sottolinea che sia Faranda sia Bonisoli si sono dissociati dalla lotta armata e che allo stesso corso di formazione è stata invitata anche Agnese Moro, la figlia dello statista democristiano ucciso dalle Br, Manlio Milani, presidente del comitato delle vittime della strage di Piazza della Loggia a Brescia. E Sabina Rossa, figlia di Guido, il sindacalista genovese anche lui vittima delle Br. Ci saranno anche i mediatori - la cui esperienza è stata raccontata in un libro - e cioè Claudia Mazzucato, docente alla Cattolica di Milano, il padre gesuita Guido Bertagna e il criminologo Adolfo Ceretti, ordinario alla Statale di Milano. L’esponente del Pd Fioroni, presidente della Commissione d’inchiesta sul caso Moro, si dichiara sorpreso. "Non voglio entrare nel merito dell’opportunità di invitare Adriana Faranda perché rispetto l’autonomia della magistratura. Ma la giustizia riparativa parte dalla verità e non da bugie o da racconti verosimili. Il Paese aspetta di sapere cosa accadde durante i 55 giorni e l’esatto susseguirsi degli eventi nelle ore che segnarono tragicamente la vita di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta. Verità e rispetto per la sofferenza dei familiari delle vittime: per me questi due imperativi etici vengono prima di tutto". Morosini, del Csm, difende l’iniziativa. Piergiorgio Morosini, componente del Csm, l’organo di autogoverno della magistratura, difende la scelta. "Sono sempre opzioni - ha detto - che possono fare discutere, e che possono sollecitare la sensibilità soprattutto dei familiari delle vittime del terrorismo nei confronti dei quali occorre sempre nutrire il massimo rispetto". "Vorrei ricordare - ha aggiunto Morosini - che non si tratta di una testimonianza di ex bierre nelle scuole dell’obbligo (quella sì inaccettabile). Ma di una iniziativa di formazione tra magistrati, dove può essere utile comprendere come maturarono non solo scelte criminali, ma anche percorsi collaborativi ai fini di una maggiore consapevolezza dei magistrati chiamati ad occuparsi di pagine oscure della vita del Paese. Per una iniziativa interna di formazione della magistratura, tutto questo clamore mi sembra esagerato". Se i giudici a scuola trovano la Faranda di Benedetta Tobagi La Repubblica, 3 febbraio 2016 Chiariamolo subito: i due ex terroristi Faranda e Bonisoli non "saliranno in cattedra" alla scuola superiore della magistratura. Ma è bastato il loro nome su un programma a scatenare le polemiche. Nell’ambito di un corso di tre giorni su "Giustizia riparativa e alternative al processo e alla pena", porteranno una testimonianza, insieme ad alcune vittime (persone di grande spessore e umanità come Manlio Milani, Agnese Moro, Sabina Rossa), circa il percorso, durato alcuni anni, di un gruppo composto da ex terroristi, vittime, esponenti della società civile e operatori di mediazione penale. A intervistarli, uno dei mediatori, professore di criminologia. Un caso concreto ("Incontro con la giustizia riparativa", è il titolo), dunque, per dar corpo alle trattazioni teoriche. "Un’esperienza particolare e molto seria, che ben si presta a stimolare la riflessione", così Valerio Onida, già presidente della Corte costituzionale. La giustizia riparativa prevede che, dopo l’accertamento delle responsabilità nel processo penale, il reo, la comunità e, se disponibile, la vittima, siano coinvolti insieme nella ricerca di modi per riparare agli effetti distruttivi del crimine, a cominciare dal riconoscimento del male sofferto dalle vittime, fino agli effetti sul corpo sociale. Per questo è prevista la presenza del reo (in questo caso, gli ex terroristi) anche nella testimonianza del caso concreto. Nessuno scandalo, dunque? Eppure, qualcosa non torna. La parola "terrorismo" neppure compare, nel programma del corso. Ma se al posto di Faranda ci fosse stato un ex criminale comune a portare testimonianza insieme alle sue vittime, nessuno ne avrebbe parlato. Faranda e Bonisoli hanno compiuto un importante percorso individuale. Ma l’impatto del sequestro e omicidio di Moro va molto oltre le storie dei singoli attori coinvolti. Non ha senso, in Italia, trattare il terrorismo (ma il discorso varrebbe anche per la mafia) come una categoria di reati qualunque. Troppo specifiche le sue caratteristiche. Troppo vaste e profonde le implicazioni sociali. Troppo brucianti, ancora oggi, le divisioni che suscita. Ignorare quest’evidenza, e prendere un esperimento - particolare e atipico anche nei tempi e nei modi - di mediazione collettiva intorno a reati di terrorismo come esempio di "giustizia riparativa" in generale, in un contesto di formazione, fa a pugni con i presupposti stessi della giustizia riparativa, che prospetta il coinvolgimento della comunità e tiene in gran conto, accanto agli effetti materiali, l’impatto che i crimini hanno sul piano simbolico, collettivo, sui legami sociali che condividiamo come cittadini. La polemica che s’è immediatamente accesa attorno a questa notizia conferma una volta di più che in Italia c’è un gran bisogno di "riparazione" per le ferite aperte dal terrorismo politico degli anni Settanta nel corpo della società. Per esempio, in una prospettiva di "riparazione simbolica" del terrorismo a livello sociale, fare piena luce sulla verità storica è centrale gran parte della cittadinanza, non solo per le vittime. Il gruppo la cui esperienza verrà presentata al seminario (come spiega il libro che ne racconta il cammino) ha scelto di mettere in secondo piano il tema della verità storica (incluse le molte brucianti lacune su via Fani e il caso Moro): è una scelta che andrebbe discussa in modo approfondito. Le ferite e le divisioni provocate dal terrorismo sono state particolarmente acute dentro il corpo della magistratura. Non solo per l’alto numero di magistrati assassinati: hanno pesato, e pesano ancora moltissimo, i feroci dibattiti che hanno diviso la categoria, sui modi per contrastare e affrontare il fenomeno. Se ne parla pochissimo e malvolentieri. E invece quanto sarebbe necessario discuterne e andare ad affrontare quelle lacerazioni! Tanto più se si vogliono accostare i termini "terrorismo" e "giustizia riparativa". Alessandra Galli, figlia di Guido, magistrato e docente di criminologia assassinato nel 1980 da Prima Linea, si dice sconcertata dal fatto che, in una scuola per magistrati, un tema così complesso e delicato sia trattato come se "entrasse dalla porta di servizio", senza contestualizzarlo in alcun modo, alla luce di un’unica esperienza molto particolare, in cui di certo non si esauriscono le tante sensibilità che esistono rispetto al tema del terrorismo, e al modo di "riparare" i danni che ha prodotto. Credo che il suo richiamo alla complessità colga nel segno. Non si tratta di un seminario qualsiasi, ma della Scuola superiore per la formazione dei magistrati. Un "caso" l’intervista in Rai a Luca Varani, mandante dell’agguato a Lucia Annibali di Federica Seneghini Corriere della Sera, 3 febbraio 2016 La procura di Pesaro vuole capire chi abbia autorizzato il faccia a faccia nel carcere di Teramo. E il caso arriva in Parlamento con la deputata Lara Ricciatti (Sinistra Italiana) che in un’interrogazione chiede di sospendere la messa in onda della puntata. È Luca Varani, condannato in Appello a 20 anni come mandante dell’aggressione con l’acido alla sua ex fidanzata Lucia Annibali, il protagonista della puntata di giovedì di "Storie Maledette", la trasmissione su Rai3 condotta da Franca Leosini. "Varani non ha mai raccontato che cosa è successo veramente quel 16 aprile 2013; non ha mai spiegato come l’amore per Lucia possa essersi trasformato in vendetta", spiega il promo della puntata. La procura di Pesaro, che ha condotto l’inchiesta sul caso, vuole ora capire chi abbia autorizzato l’intervista, un lungo faccia a faccia nel carcere di Teramo, dove l’uomo è detenuto. La replica del direttore del carcere di Castrogno Stefano Liberatore: "È una polemica priva di fondamento. Varani è stato autorizzato dal Dipartimento.". La procura: "Chi ha autorizzato l’intervista?" - Varani è stato condannato in appello a 20 anni di carcere con l’accusa di aver ordinato l’assalto all’acido della sua ex fidanzata. Al momento è in attesa del giudizio della Cassazione. Secondo il procuratore Manfredi Palumbo è grave che "si raccolgano in tv le sue dichiarazioni, che avranno sicuramente valenza processuale". E ancora: "La tv di Stato offre le sue telecamere a un imputato che non ha mai risposto alle domande nei due gradi di giudizio, e anzi ha più volte tentato di inquinare le prove. Mi chiedo come il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria possa aver autorizzato questa intervista senza chiedere pareri, per quanto so, alla procura competente, ovvero alla Procura generale o alla stessa Corte di Cassazione". L’avvocato di Lucia: "Occasione per chiedere scusa" - Il caso è arrivato anche in Parlamento. La deputata Lara Ricciatti (Sinistra Italiana) ha presentato un’interrogazione al Guardasigilli in cui chiede di sospendere la messa in onda della puntata. Per l’avvocato di Lucia Annibali, Francesco Coli, un’intervista di due ore a un imputato su cui pende ancora il giudizio della Cassazione è "inopportuna": "Ma magari sarà l’occasione per chiedere scusa". "Storie Maledette", polemiche per l’intervista a Varani La Repubblica, 3 febbraio 2016 Il mandante dell’aggressione con l’acido a Lucia Annibali protagonista della terza puntata della trasmissione condotta da Franca Leosini. Proteste dell’avvocato e un’interrogazione parlamentare. Il direttore del carcere: "tutto regolare" Franca Leosini e la sua Storie Maledette, in onda ogni giovedì in prima serata su Raitre, sono al centro della polemica a causa dell’annunciata intervista a Luca Varani, condannato in appello come mandante dell’aggressione con l’acido alla sua ex fidanzata Lucia Annibali. La procura della Repubblica di Pesaro, che ha condotto l’inchiesta sul caso di Lucia Annibali ha avviato infatti accertamenti per individuare chi abbia autorizzato un’intervista di Varani, detenuto nel carcere di Teramo, alla trasmissione di Franca Leosini, in programma giovedì 4 febbraio su Raitre. Varani è stato condannato in appello a 20 anni di reclusione, ma a suo carico è ancora pendente il processo in Cassazione (l’udienza si terrà il 10 maggio), e secondo il procuratore pesarese Manfredi Palumbo, interpellato oggi dal Resto del Carlino, è grave che ‘si raccolgano in tv le sue dichiarazioni, che potrebbero avere, anzi avranno sicuramente valenza processualè. Varani è stato condannato per stalking, lesioni gravissime e tentato omicidio ai danni di Lucia Annibali. I due albanesi che aveva ingaggiato per sfregiare la ragazza, Rubin Ago Talaban e Altistin Precetaj in appello hanno avuto una condanna a 12 anni ciascuno. E alla protesta dell’avvocato è seguita un’interrogazione parlamentare da parte di Lara Ricciatti (Sinistra Italiana) che ha così commentato: "Un’intervista inopportuna, che necessita di un chiarimento da parte del ministro della Giustizia sui criteri adottati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel concedere l’autorizzazione". "Una polemica priva di fondamento" la definisce invece il direttore del carcere di Castrogno Stefano Liberatore. "Varani è stato autorizzato dal dipartimento. Adesso invieremo tutta la documentazione alla Procura e per noi è tutto. Varani è stato condannato in appello, quindi se vuole rilasciare dichiarazioni può farlo - aggiunge Liberatore - noi ci siamo limitati a veicolare la richiesta, che è stata autorizzata dal dipartimento". "Il promo dell’intervista dice che Varani non ha mai parlato finora. E infatti non lo ha mai fatto, né con i magistrati, né con i giudici, né ha risposto agli avvocati. Sarebbe stato meglio se la verità che ha da raccontare l’avesse raccontata nelle sedi deputate. Comunque, lui può dire tutto quello che vuole - commenta l’avvocato di Lucia Annibali, Francesco Coli. Certo che un’intervista di due ore a un imputato su cui pende ancora il giudizio della Cassazione non mi sembra opportuna. Ma magari sarà l’occasione per chiedere scusa, cosa che finora Varani non ha fatto". David Raggi fu ucciso da un clandestino. "Lo Stato risarcisca la famiglia" di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 3 febbraio 2016 L’atto di citazione dei familiari di David Raggi, 27 anni, morto nel 2014 dopo essere stat colpito con un vetro. "Inadempienza dei ministeri della giustizia e degli interni: non arrestarono nè allontanarono dall’Italia l’omicida, che si era già macchiato di altri reati". La sera del 12 marzo 2014 Amine Assaoui detto Aziz, clandestino e condannato per più reati, avrebbe dovuto trovarsi in carcere o lontano dall’Italia. Invece girava ubriaco per le strade di Terni e quando incrociò David Raggi, 27 anni, all’uscita da un pub del centro gli squarciò la gola con un coccio di vetro, uccidendolo. A freddo, senza che ci fosse stato nemmeno un accenno di lite. La famiglia di Raggi, a dieci mesi di distanza dal delitto e dopo che Aziz è stato condannato a 30 anni in primo grado, fa causa allo Stato convinta che la sua inadempienza nei confronti dell’extracomunitario è stata la causa indiretta della morte di David. L’atto di citazione contro Presidenza del Consiglio, ministeri dell’interno e della giustizia, è in fase di notifica in questi giorni al tribunale di Roma da parte dell’avvocato Massimo Proietti, legale della famiglia Raggi. L’omicidio di David, per la sua crudeltà, insensatezza e - non va taciuto - perché commesso da un clandestino scatenò un’ondata di rabbia nella città umbra. A placarla erano intervenuti proprio i genitori e il fratello della vittima, i quali dichiararono pubblicamente di non volere alcun tipo di vendetta e invitarono chiunque avesse in animo di avviare forme di giustizia sommaria in nome di David, a fermarsi. Il che non significa rinunciare a ogni forma di risarcimento. La sentenza penale di primo grado, oltre a condannare Aziz, ha stabilito il pagamento di 400 mila euro a favore della famiglia Raggi. Soldi che la parte offesa però non vedrà mai poiché l’immigrato è nullatenente. "Questa per noi è una battaglia non tanto economica ma civile che guarda anche al futuro, a chi si troverà in questa situazione da qui in avanti" ha dichiarato in questi giorni ai media di Terni Diego Raggi, il fratello della vittima. Tre, come detto, sono i soggetti a cui è indirizzato l’atto di citazione. In primis il ministero dell’interno, poiché Aziz era già stato colpito da un decreto di espulsione dall’Italia nel 2007, decreto mai messo in pratica nonostante la pericolosità dell’interessato "la cui presenza a Terni era invece nota a tutti" sottolinea l’avvocato Proietti. In secondo luogo viene chiamato in causa il ministero della giustizia, dal momento che, prima di commettere l’omicidio, lo straniero aveva già accumulato in Italia condanne per 6 anni e 8 mesi (rapina, furto, ubriachezza) ma non si trovava in carcere. Unica giustificazione riscontrabile dalle indagini: Aziz aveva fatto domanda di asilo politico. Terzo interlocutore chiamato in causa è la Presidenza del consiglio: non avrebbe recepito una direttiva europea che obbliga l’Italia a istituire un fondo per risarcire le vittime di reati commessi da nullatenenti. "I tribunali di Roma e Torino hanno già emesso condanne per questa ragione - sottolinea l’avvocato Proietti - e sempre per reati commessi da persone non in grado di risarcire le vittime: nel caso Raggi la situazione è più grave perché il fatto è stato commesso da una persona che lo Stato ha lasciato colpevolmente circolare liberamente nonostante fosse nota la sua pericolosità sociale". Siamo al primissimo passo della causa ma è chiaro che il quesito sollevato riguarda molti altri casi di vittime di reati commessi da persone che non avevano il permesso di stare in Italia, casi che portano puntualmente dietro di sé strascichi polemici. Il criterio che stabilirà la sentenza dunque è importante e potrebbe creare un precedente Avvocati-arbitri, giù le parcelle di Gianni Macheda Italia Oggi, 3 febbraio 2016 Gli avvocati che svolgeranno le funzioni di arbitri percepiranno un compenso tagliato del 30%, concorrendo così a ridurre i costi dell’istituto e renderlo più appetibile. Gli arbitrati saranno assegnati ai professionisti iscritti in apposite liste, in via automatica, con rotazione, grazie ad appositi sistemi informatizzati. Gli elenchi saranno formati in base alle aree di specializzazione. Lo prevede lo schema di decreto del ministro della giustizia "Regolamento recante disposizioni per la riduzione dei parametri relativi ai compensi degli arbitri, nonché disposizioni sui criteri per l’ assegnazione degli arbitrati, a norma dell’articolo 1, commi 5 e 5-bis, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162". Il dm, che doveva essere emanato entro il 10 febbraio 2015 (90 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del dl 132/2014 in materia di degiurisdizionalizzazione), giunge dunque con un anno di ritardo e dopo aver ottenuto il 14 gennaio scorso il via libera con osservazioni dal Consiglio di stato (parere 00142/2016) si avvia alla pubblicazione in G.U. Il dl 132/2014 ha previsto nel comma 1 dell’unico articolo del proprio Capo I ("Eliminazione dell’arretrato e trasferimento in sede arbitrale dei procedimenti civili pendenti") che in alcune controversie civili (si veda tabella in pagina) le parti, con istanza congiunta, possono richiedere di promuovere un procedimento arbitrale. Il giudice, se ci sono le condizioni per procedere, dispone la trasmissione del fascicolo al presidente del Consiglio dell’ordine forense del circondario in cui ha sede il tribunale ovvero la corte di appello per la nomina del collegio arbitrale per le controversie di valore superiore a 100 mila euro e, se le parti lo decidono concordemente, di un arbitro per le controversie di valore inferiore a 100 mila euro. Gli arbitri sono individuati, insieme dalle parti o dal presidente del Consiglio dell’ordine, tra gli avvocati iscritti da almeno cinque anni nell’albo dell’ordine circondariale che non hanno subito negli ultimi cinque anni condanne definitive comportanti la sospensione dall’albo e che, prima della trasmissione del fascicolo, hanno reso una dichiarazione di disponibilità al Consiglio stesso. L’articolo 3 del dm ormai in dirittura stabilisce una riduzione del 30% dei parametri relativi ai compensi in favore degli arbitri, previsti dall’art. 10 del dm Giustizia 10 marzo 2014. n. 55 (determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense). La riduzione, come si legge nella relazione ministeriale, mira a garantire un significativo (e dunque incentivante) effetto di calmiere sui costi che le parti devono sopportare per la remunerazione degli arbitri. L’altro obiettivo è garantire una effettiva rotazione nell’assegnazione degli incarichi arbitrali. Il dm disciplina la formazione di un elenco degli arbitri, a cura del presidente del Consiglio dell’ordine. Nell’elenco sono iscritti, con suddivisione in aree che coprono lo spettro delle materie civili (si veda tabella in pagina) gli avvocati che hanno reso la relativa dichiarazione di disponibilità documentando le proprie competenze professionali e la sussistenza dei requisiti di anzianità e di onorabilità (iscrizione da almeno cinque anni nell’albo dell’ordine circondariale; non aver subito negli ultimi cinque anni condanne definitive comportanti la sospensione dall’albo). La designazione dell’arbitro da parte del presidente del Consiglio dell’ordine all’interno dell’area professionale di riferimento, o la sua sostituzione, sono operate in via automatica, con rotazione, da appositi sistemi informatizzati. Il Consiglio di stato chiede tuttavia nel parere che venga meglio specificata la situazione in cui in cui gli arbitri sono individuati concordemente dalle parti, e ciò "anche in considerazione di possibili interferenze tra concorde individuazione dalle parti e assegnazione presidenziale, con incidenza (consapevoli o meno gli interessati) sulla effettiva rotazione delle assegnazioni". Sempre ammesso il ricorso straordinario in Cassazione contro l’ordinanza filtro di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2016 Corte di cassazione, Sezioni unite civili, sentenza 2 febbraio 2016 n. 1914. Via libera al ricorso straordinario in Cassazione contro l’ordinanza filtro emessa in Appello che ha dichiarato inammissibile l’impugnazione perché priva di chance di accoglimento. Lo chiariscono le Sezioni unite civili della Cassazione con la sentenza n. 1914 depositata ieri. Viene in questo modo risolto un conflitto che aveva visto la Cassazione pronunciarsi in maniera contrastante. In particolare, le Sezioni unite mettono in evidenza come la tesi favorevole a un giro di vite, che considera impossibile qualsiasi forma di ricorso in Cassazione nei confronti dell’ordinanza filtro, anche quello straordinario centrato sulla contestazione di vizi solo processuali, non è in linea con la considerazione del ricorso stesso come norma di chiusura del sistema delle impugnazioni, a rafforzamento dell’effettività della tutela giurisdizionale. In questa prospettiva, la sentenza valorizza l’anima "composita" del ricorso in Cassazione, come delineato dal nostro ordinamento. Da una parte la funzione di garanzia dell’interpretazione uniforme della legge, dall’altra la tutela del singolo cittadino contro le violazioni della legge commesse dai giudici di merito. "Rispetto a tel modello di ricorso - sottolineano le Sezioni unite - (ed alle ragioni che ne hanno determinato la genesi) non può non risultare impropriamente riduttiva una interpretazione che escluda la possibilità di impugnare sempre, per violazioni di legge commesse dai giudici di merito, i provvedimenti decisori che non siano altrimenti modificabili o censurabili". Più nel dettaglio, le Sezioni unite ricordano che se è vero che non esiste un diritto costituzionale a un secondo grado di giudizio nel merito, lasciando libero il legislatore se conservarlo integralmente oppure sopprimerlo o ancora limitarlo per alcune categorie di controversie, è tuttavia altrettante vero che lasciare, senza alcun potenziale controllo (come avverrebbe aderendo alla linea della non ricorribilità dell’ordinanza filtro) il giudice di appello, equivale almeno potenzialmente a riconoscere una discrezionalità assoluta nella valutazione se la parte può o meno utilizzare il giudizio di secondo grado. In sostanza si potrebbe arrivare a una sorta di incontrollabile soppressione di fatto del giudizio di appello, "finendo in pratica per privare le parti di tale impugnazione, anche oltre le ipotesi e i limiti previsti dal legislatore e per scaricare sulla Corte di cassazione questioni che potrebbero e dovrebbero essere "filtrate" attraverso il giudizio di appello". La sentenza mette in evidenza però anche come non tutti gli errori di natura procedurale, rientranti in astratto nel perimetro di applicazione del ricorso straordinario in Cassazione, sono compatibili con la disciplina caratteristica introdotta in materia di ordinanza filtro. Vi rientrano di sicuro, a parere delle Sezioni unite, il mancato rispetto delle regole previste dagli stessi articoli 348 bis e ter del Codice di procedura civile. Tra i vizi rilevabili con il ricorso straordinario quindi sono compresi la pronuncia dell’ordinanza quando questo non era possibile, quando era obbligatorio per esempio l’intervento del pubblico ministero oppure quando in primo grado la causa è stata disciplinata attraverso il rito sommario di cognizione. Amministrative, incandidabile chi da intercettazioni risulta aver avuto contatti con la mafia di Daniela Casciola Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2016 Corte di Cassazione - Sezione I civile - Sentenza 2 febbraio 2016 n. 1948. Non è candidabile alle elezioni regionali, provinciali e comunali il soggetto - già componente del consiglio comunale - che grazie a intercettazioni ambientali risulti aver avuto una conversazione con un affiliato alla locale famiglia mafiosa. I "collegamenti inquinanti" tra amministratore e criminalità organizzata emersi sono sufficienti a decretare l’incandidabilità del soggetto in quanto elementi concreti, univoci e rilevanti che rendono tangibile la prospettiva di ingerenze illecite nelle attività dell’ente pubblico. Ha deciso così la prima sezione civile della Corte di cassazione con la sentenza n. 1948/16, depositata ieri. I fatti - La vicenda riguarda fatti accaduti in Sicilia nel 2010. Protagonisti un consigliere comunale, un mafioso e una conversazione in cui il primo aveva chiesto sostegno elettorale all’altro in cambio, se il numero di preferenze ottenute fosse stato rilevante, addirittura della vicepresidenza del consiglio comunale. Dalla intercettazione ambientale risultava che l’uomo avesse anche esercitato pressioni sul processo di formazione del piano regolatore per consentire a un altro sodale "traffici" immobiliari su aree agricole. Tali pressioni sono bastate alla Corte d’Appello per pronunciarsi sulla incandidabilità. La decisione - I giudici partono dal fatto che anche le intercettazioni effettuate in un procedimento penale, siano pienamente utilizzabili in sede civile, a condizione che siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali. È la dovuta premessa per ammettere l’utilizzo delle intercettazioni ambientali dalle quali si è desunto il contatto tra amministratore e mafia. E tanto basta. Non serve, infatti, a parere dei giudici, la prova di comportamenti idonei a determinare la responsabilità personale, anche penale, degli amministratori. Sono sufficienti elementi che facciano presumere l’esistenza di collegamenti con la criminalità organizzata. La sentenza ammette a livello probatorio anche forme di condizionamento tali da alterare il "procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi o amministrativi degli enti che compromettano buon andamento, imparzialità o regolare funzionamento dei servizi pubblici". L’individuazione di un rapporto diretto o meno tra amministratori e mafia può quindi anche basarsi su "circostanze caratterizzate da un grado di significatività e di concludenza inferiore a quello che legittima l’esercizio dell’azione penale o l’adozione di misure di prevenzione nei confronti di soggetti indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso". Gli schiaffoni agli alunni considerati maltrattamenti di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 4170/2016. Va punita più severamente con la pena per il reato di maltrattamenti (572 Cp)- e non per quello di abuso dei mezzi di correzione - un’insegnante dai metodi violenti della scuola di Capo di Ponte (Brescia), in Val Camonica, arrestata nel 2012. La donna era stata colta in flagrante dalla telecamere, piazzate dai carabinieri dopo le prime segnalazioni (in un luogo aperto al pubblico, ndr), mentre schiaffeggiava un alunno di terza elementare. La Corte di cassazione - sentenza n. 4170 VI sezione penale - ha annullato, in accoglimento della richiesta della procura generale di Brescia, la sentenza con cui la Corte d’appello aveva riqualificato in senso più favorevole l’imputazione a carico dell’insegnante. Secondo i giudici d’appello, infatti, non in tutti i casi presi in esame ci si trovava di fronte a "comportamenti inequivocabilmente vessatori". Il procuratore generale aveva presentato ricorso in Cassazione per ottenere una condanna più severa. La maestra aveva presentato ricorreva a sua volta obiettando l’utilizzo delle riprese video. La Suprema corte ha giudicato fondato il ricorso del procuratore, sottolineando che "l’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore, anche lì dove fosse sostenuta da animus corrigendi, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti". Ora la Corte d’appello di Brescia dovrà ripronunciarsi per quantificare la pena sulla base di quanto stabilito dalla Cassazione. Divieto di secondo giudizio per intervenuta sanzione amministrativa avente natura penale Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2016 Azione penale - Divieto del ne bis in idem - Sanzione amministrativa a carico di persona giuridica - Legale rappresentante indagato o imputato in sede penale - Violazione dell’articolo 649 cod. proc. pen. per il carattere sostanzialmente penale della sanzione amministrativa - Esclusione. Non sussiste la preclusione all’esercizio dell’azione penale di cui all’articolo 649 cod. proc. pen., quale conseguenza della già avvenuta irrogazione, per lo stesso fatto, di una sanzione formalmente amministrativa ma avente carattere sostanzialmente "penale" ai sensi dell’articolo 7 Cedu, allorquando non vi sia coincidenza fra la persona chiamata a rispondere in sede penale e quella sanzionata in via amministrativa • Corte cassazione, sezione III, sentenza 30 ottobre 2015 n. 43809. Reati tributari - Omesso versamento Iva - Natura penale dell’illecito tributario in applicazione dei criteri Engel - Ne bis in idem - Violazione dell’articolo 117, primo comma della Costituzione, in relazione all’articolo 4 del Protocollo n.7 della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, dell’articolo 649 cod. proc. pen., in relazione all’articolo 10-ter d.lgs. 74/2000 - Questione di legittimità costituzionale. È rilevante e non manifestamente la questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’articolo 117, primo comma della Costituzione, in relazione all’articolo 4 del Protocollo n.7 della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, dell’articolo 649 cod. proc. pen., in relazione all’articolo 10-ter d.lgs. 74/2000, nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina di un divieto al secondo giudizio al caso in cui all’imputato sia stata comminata, per il medesimo fatto e nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione Edu e dei relativi Protocolli. • Tribunale Bologna, sezione I, ordinanza 21 aprile 2015. Stupefacenti - Articolo 68 dPR n. 309/90 - Condotte sanzionate in sede penale ed in sede amministrativa - Violazione dell’articolo 6 CEDU e dell’articolo 117 Costituzione - Questione di costituzionalità - Manifesta infondatezza - Ragioni. È manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’articolo 68 Dpr 309/1990, sollevata in riferimento agli articoli 117 Cost. e 6 CEDU, giacché il comma primo ed il comma primo bis del citato articolo 68 sanzionano condotte diverse, rilevanti in sede, rispettivamente, penale ed amministrativa, di talché non è configurabile alcuna violazione del principio giuridico del ne bis in idem nel caso in cui la condanna penale intervenga successivamente all’applicazione della sanzione amministrativa. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 2 marzo 2015 n. 9168. Abusi di mercato - Sanzioni applicate dalla Consob - Natura essenzialmente penale - Procedimento penale - Ne bis in idem - Corte Edu |Sentenza Grande Stevens - Rilevanza - Articolo 4 del protocollo n. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali - Articolo 187 bis comma 1 Tuf - Articolo 649 cod. proc. pen. - Sollevamento di due questioni di legittimità costituzionale per violazione dell’articolo 117 comma 1 della Costituzione. Sono rilevanti e non manifestamente infondate a) in via principale: la questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’articolo 117 Costituzione, comma 1, in relazione all’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, del Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, articolo 187-bis, comma 1, (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi della Legge 6 febbraio 1996, n. 52, articoli 8 e 21) nella parte in cui prevede "Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato" anziché "Salvo che il fatto costituisca reato"; b) in via subordinata: la questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’articolo 117 Costituzione, comma 1, in relazione all’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, dell’articolo 649 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali e dei relativi Protocolli. • Corte cassazione, sezione V., ordinanza 15 gennaio 2015, n.1782. Giudicato - Ne bis in idem - Intervenuta irrogazione di una sanzione amministrativa per il medesimo fatto - Improcedibilità dell’azione penale - Esclusione. L’azione penale non è preclusa ex articolo 649 cod. proc. pen. in seguito alla irrogazione definitiva di una sanzione amministrativa per il medesimo fatto per il quale si procede. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 14 maggio 2014 n. 19915. Lazio: Fns-Cisl "assistenza psichiatrica ai detenuti, per evitare aggressioni al personale" tusciaweb.eu, 3 febbraio 2016 La Fns-Cisl chiede un aumento per evitare aggressioni al personale. Per evitare aggressioni al personale di polizia penitenziaria occorre implementare l’assistenza psichiatrica nei reparti ai detenuti con problemi psichiatrici. L’entrata in vigore della legge n. 9/2012 che come noto imponeva la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), sin dal primo febbraio 2013, sta trovando anche nel Lazio la sua realizzazione nei reparti denominati "articolazione per la tutela della salute mentale in carcere", istituiti con appositi decreti dal ministero della Giustizia. Nel Lazio attualmente la situazione è cosi pianificata: n. 1 Sezione per l’ Accertamento delle infermità psichiche, solo donne, c/o il NC Civitavecchia (art. 112 DPR 230/2000); n. 1 Sezione per l’ Accertamento delle infermità psichiche, solo uomini, c/o il NC Rebibbia - Roma (art. 112 DPR 230/200); n. 1 Sezione Minorati Psichici c/o CR Rebibbia-Roma (art. 111 comma 5, DPR 230/2000) Risultano al momento non operative le "articolazione per la tutela della salute mentale in carcere", seppur previste, c/o gli istituti penitenziari di Roma -CC Regina Coeli, NC CC Viterbo e CC Velletri. In tali "articolazione per la tutela della salute mentale in carcere", vengono accolti detenuti con infermità psichica rientranti nei seguenti articoli "Art. 111 DPR 230/2000, art.148 c.p. e art. 112 Dpr 230/2000" e/o che necessitano di assistenza sanitaria psichiatrica. Per la Fns Cisl Lazio occorre garantire una maggiore presenza temporale che preveda la copertura e l’implementazione dell’assistenza psichiatrica, tecnico e infermieristica in tutte le 24 ore (h 24) e che permetterebbe al personale di polizia penitenziaria di poter svolgere adeguatamente il proprio compito istituzionale e di conseguenza evitare aggressioni purtroppo assunte alla cronaca negli ultimi mesi. Per quanto concerne invece in aumento risultano i detenuti nei 14 istituti penitenziari del Lazio attualmente ne risultano n. 5773 detenuti (361donne, 5412 uomini), mentre la capienza regolamentare dovrebbe essere di n. 5260. In particolare, secondo dati aggiornati al 31 gennaio 2016, a Viterbo, su una capienza regolamentare di 432 detenuti ce ne sono 466, di cui 256 stranieri. Siracusa: detenuto romeno di 25 anni si impicca in cella di isolamento di Riccardo Arena (direttore di Radio Carcere) Ristretti Orizzonti, 3 febbraio 2016 Un detenuto di nazionalità rumena, che aveva soltanto 25 anni, si è ucciso nel carcere di Siracusa lo scorso 28 gennaio. Da quanto si è appreso pare che il ragazzo, che era sottoposto a misura cautelare e che era quindi in attesa di giudizio, era ristretto in una cella di isolamento. Cella dove nella notte si è impiccato attaccando un lenzuolo alle sbarre della finestra. Cagliari: Caligaris (Sdr); burocrazia ritarda assegnazione protesi a detenuti di Uta Ristretti Orizzonti, 3 febbraio 2016 "È indispensabile sveltire le pratiche burocratiche che rallentano fortemente il percorso di assegnazione delle protesi in particolare a chi è privato della libertà. Sempre più spesso infatti chi ha necessità di un presidio per poter vedere o camminare non riesce a raggiungere il risultato se non dopo mesi e mesi di attesa. Una situazione che nella Casa Circondariale di Cagliari sta rendendo la vita impossibile a diversi reclusi". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", evidenziando che "molti dei cittadini che vivono una condizione di menomazione in stato di reclusione non sempre possono contare sul ricorso ai familiari per inoltrare una domanda, fornire una documentazione circostanziata o sollecitare un presidio. È necessario, specie in caso di rinnovo di protesi o presidi, accelerare il procedimento per ridurre i disagi". "I familiari di un detenuto della Casa Circondariale di Cagliari - sottolinea Caligaris - si sono rivolti all’associazione per perorare la causa di un loro congiunto. Si tratta di un cagliaritano che da diversi mesi attende di poter disporre della protesi oculare. L’uomo, P.P., 60 anni, da alcuni mesi, ha insistentemente chiesto ai Medici dell’Istituto di Pena di poter cambiare il presidio, ormai scaduto, ma nonostante ciò il suo problema non è stato risolto". "Vivere nello stato di detenzione non significa rinunciare al diritto alla salute e alle condizioni di migliore vivibilità possibile. Purtroppo però accade che la burocrazia interna o esterna alla struttura limiti pesantemente l’autosufficienza dei ristretti. Un altro caso significativo è quello di un detenuto di 77 anni D.P. che non è in grado di deambulare. L’uomo però attende da mesi che gli venga assegnata una sedie a rotelle. La situazione è particolarmente grave perché è costretto anche a rinunciare all’ora d’aria. È evidente che in questi casi - conclude la presidente di SDR - è difficile parlare di pena detentiva finalizzata al recupero di chi ha sbagliato. Una maggiore attenzione da parte degli operatori e una minore ingerenza della burocrazia sarebbero sufficienti a cambiare il sistema, fermo restando che in certe condizioni di salute bisognerebbe trovare opportune alternative alla permanenza in carcere pur garantendo l’espiazione del debito sociale". Firenze: i detenuti di Sollicciano riparano le biciclette con la Cooperativa Ulisse 055firenze.it, 3 febbraio 2016 Rinnovato dalla giunta il protocollo con la cooperativa. A Sollicciano si riparano biciclette. Continuano nel carcere fiorentino e nell’istituto penale per i minori "G. P. Meucci" i laboratori gestiti dalla Cooperativa sociale Ulisse per la riparazione delle biciclette provenienti dalla depositeria comunale, dove vengono parcheggiate dopo la rimozione per la violazione del Codice della strada. I laboratori si svolgeranno nelle due officine interne ai due istituti di pena. È quanto deciso dalla giunta stamani, approvando una delibera presentata dall’assessore al Welfare Sara Funaro. La delibera prevede il rinnovo per altri 5 anni del protocollo tra il Comune, il nuovo complesso penitenziario di Sollicciano, l’istituto penale per i minorenni "Meucci" e la Cooperativa sociale Ulisse. In base al protocollo, il Comune si impegna a donare alla Cooperativa sociale Ulisse le biciclette abbandonate e non reclamate dai proprietari. Le biciclette riparate saranno vendute dalla Cooperativa e i relativi proventi dovranno essere destinati esclusivamente alla prosecuzione delle attività di riparazione. Inoltre, ogni anno il 2% delle biciclette riparate nei laboratori in carcere dalla Cooperativa Ulisse saranno messe a disposizione dell’amministrazione comunale per finalità diverse da quelle previste dal protocollo. "Abbiamo rinnovato con grande convinzione il protocollo con il nuovo complesso penitenziario di Sollicciano, l’Istituto Meucci e la Cooperativa sociale Ulisse - ha detto l’assessore Funaro - perché consente di promuovere una bella attività volta al sostegno e al reinserimento sociale dei detenuti raccordando risorse, competenze ed esperienze provenienti da soggetti diversi: del terzo settore, delle Istituzioni pubbliche e degli istituti penitenziari. Per la nostra amministrazione tutti gli istituti penitenziari cittadini sono una delle priorità e ci stanno a cuore sia il miglioramento delle strutture, e la soluzione dei vari problemi strutturali come dimostra la nostra decisione di partecipare al bando europeo Urban per Sollicciano, sia la promozione del reinserimento sociale delle persone detenute. Siamo infatti al lavoro su entrambi i fronti". Sulla base del protocollo, la Direzione del nuovo complesso penitenziario di Sollicciano si impegna da parte sua ad individuare i detenuti da avviare all’attività lavorativa, dopo il superamento di un apposito colloquio selettivo da parte della cooperativa sociale Ulisse; a favorire l’attività lavorativa dei detenuti assicurando il rispetto degli orari di lavoro programmati; a favorire l’attività del personale incaricato dalla Cooperativa per la consegna del materiale oggetto di lavorazione, il controllo dell’esecuzione delle prestazioni ed il ritiro delle opere completate; ad attivarsi, nei limiti delle proprie competenze, affinché i detenuti inseriti nel progetto scontino la pena nel complesso di Sollicciano. La Direzione di Sollicciano si impegna anche a mettere a disposizione il personale necessario a garantire l’attività di controllo nei giorni e negli orari di apertura dell’officina concordati con la Cooperativa Ulisse e a mettere a disposizione uno spazio di competenza dell’Istituto, in prossimità dell’ingresso, per l’esposizione e la vendita delle biciclette al personale dell’Istituto e/o a persone esterne. Per quanto riguarda poi il Dipartimento Giustizia minorile - Direzione Istituto penale per i minorenni, il protocollo prevede che si impegni a concedere in uso, come compartecipazione alle spese progettuali, i locali destinati a laboratorio e magazzino stoccaggio, alla Cooperativa sociale Ulisse; ad individuare, con le modalità concordate con il personale educativo interno, i minori detenuti da avviare all’attività formativa; a favorire l’attività formativa dei detenuti assicurando il rispetto degli orari di lavoro programmati e a favorire l’attività del personale incaricato dalla cooperativa per la consegna del materiale oggetto di lavorazione, il controllo dell’esecuzione delle prestazioni e il ritiro delle opere completate; ad attivarsi, nei limiti delle proprie competenze, affinché i detenuti inseriti nel progetto scontino la pena nell’Istituto penale minorile G.P. Meucci e a mettere a disposizione il personale necessario al fine di garantire l’apertura dell’officina nei giorni e negli orari concordati. Infine, la Cooperativa Ulisse si impegna, tra le varie cose, ad assumere la gestione delle Officine interne agli Istituti di pena; a provvedere alla riparazione delle biciclette provenienti dalla depositeria comunale nonché di quelle eventualmente affidate alla Cooperativa da altri Enti pubblici o privati, presso i laboratori interni agli Istituti di pena, utilizzando locali esterni, per la vendita e per altre attività connesse; a provvedere alla vendita delle biciclette e a destinarne il ricavato alla prosecuzione delle attività di riparazione previste dal protocollo; ad assumere come soci-lavoratori il numero di detenuti necessario a svolgere il lavoro di riparazione delle biciclette; ad assumere come soci-lavoratori, per l’attività di noleggio biciclette, un numero di persone in esecuzione penale interna o esterna tendenzialmente del 50% del totale dei noleggiatori e a corrispondere ad ogni giovane partecipante all’attività prevista all’interno dell’Istituto minorile, un gettone di presenza. Non solo: il protocollo prevede anche che la Cooperativa provveda allo smaltimento di eventuali rifiuti speciali (copertoni, mastici, ferraglia, vernici ecc.) e che relazioni annualmente sull’andamento del progetto agli Istituti di pena e alla Direzione Servizi sociali del Comune. Nella relazione trasmessa al Comune, la Cooperativa dovrà anche rendicontare i proventi della vendita delle biciclette e dimostrarne l’utilizzo. Lucca: emergenze al carcere San Giorgio, il report della Garante Angela Mia Pisano Il Tirreno, 3 febbraio 2016 Bilancio col garante: struttura vecchia, va rivisto il piano di supporto ai detenuti. "Un coordinamento più forte e più efficace, una soluzione di livello più alto". È quanto chiedono i consiglieri Renato Bonturi (Pd) e Diana Curione (Lucca civica) per i detenuti del carcere San Giorgio. Una richiesta che arriva dopo la conclusione della prima fase del percorso di studio del contesto carcerario con il garante dei detenuti Angela Mia Pisano. "La commissione consiliare sociale e salute - spiegano i due consiglieri - ha incontrato con la commissione partecipazione la garante dei diritti dei detenuti del Comune di Lucca. Erano presenti anche gli assessori Ilaria Vietina e Antonio Sichi". I presidenti delle due commissioni comunali, Diana Curione e Renato Bonturi hanno invitato la dottoressa Pisano a conclusione del percorso iniziato nel marzo scorso e che ha visto nell’ottobre 2015 l’elezione da parte del consiglio comunale del primo garante dei detenuti di Lucca. Angela Mia Pisano ha illustrato la sua attività iniziata da pochi mesi fornendo spunti per un dibattito ricco e partecipato: molte le domande e le osservazioni da parte dei componenti delle due commissioni, che hanno ringraziato la garante per il livello di approfondimento dei temi affrontati riguardanti numerose tematiche tra le quali la salute dei detenuti, la struttura del carcere, le attività educative svolte, i rapporti con il mondo del volontariato e le relazioni con le diverse istituzioni. "Raccogliamo i primi frutti di un percorso avviato nel marzo 2015 - affermano Diana Curione e Renato Bonturi. Gli spunti di riflessione e di approfondimento sono stati tanti così come gli interventi da parte dei consiglieri e delle consigliere, ad evidenza dell’interesse che suscita questo argomento". "Sono stati evidenziati sia gli aspetti positivi - continuano - e ricordiamo l’impegno dell’amministrazione a sostegno di progetti e attività per i detenuti, sia le criticità, legate soprattutto alla vetustà della struttura e alla necessità di dare un supporto educativo e psicologico continuativo all’interno della casa circondariale". Bonturi e Curione concludono dicendo che "come è emerso più volte dalla discussione in commissione sarà necessario che la città e le istituzioni competenti possano fare una riflessione seria e ampia sul futuro della struttura carceraria di Lucca, su come poter fornire risposte adeguate sia in termini di servizi che di questioni strutturali". Empoli: le precisazioni del Garante. Il direttore Pujia "18 detenute? è capienza massima" gonews.it, 3 febbraio 2016 L’indomani la vista del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, Franco Corleone, alla casa circondariale di Pozzale a Empoli è il momento di fare alcune precisazioni rispetto alla nota stampa diramata ieri, lunedì 1 febbraio, dal consiglio regionale. "Un piccolo carcere che vuole essere un modello e su questo obiettivo si concentra da anni l’impegno del direttore Graziano Pujia - dichiara oggi Corleone. Proprio per questo mi ha colpito la sofferenza di alcune detenute a causa delle difficili situazioni familiari e in particolare per il rapporto con i figli. Una condizione umana che richiede una cura particolare e invece ho colto critiche all’azione del magistrato di sorveglianza e di altri soggetti che non sono il personale del carcere ma che influiscono sulla vita concreta dell’Istituto. Mi è stato segnalato anche una decisione del Sert di Empoli che condizionerebbe l’ingresso in comunità di una detenuta alla scelta esclusiva di San Patrignano. Sono questioni che meritano attenzione". Il direttore del carcere Graziano Pujia puntualizza come sia "solo la magistratura di sorveglianza ad avere potere sulla possibilità di vedere i figli da parte delle detenute". Inoltre spiega che "diciotto persone all’interno non sono poche, si tratta della sua capienza regolamentare" e parla di "malinteso del dottor Corleone" relativamente al concetto di senso di umanità espresso nel comunicato stampa di ieri. Infine Pujia vuole rimarcare come l’istituto di Pozzale sia all’avanguardia anche con "eventi e iniziative che vengono portati avanti anche a costo zero, come l’inserimento di una carciofaia nell’azienda agricola interna alla struttura". Brescia: carcere di Canton Mombello, quattro detenuti causano rogo in cella quibrescia.it, 3 febbraio 2016 Quattro detenuti, già responsabili nei giorni scorsi di episodi di disordine e di atti di autolesionismo, nella serata di lunedì primo febbraio hanno creato il panico nel carcere di Canton Mombello di Brescia. Attimi di terrone nella serata di lunedì. Un detenuto si è barricato appiccando il fuoco agli oggetti presenti in cella, nel frattempo gli altri tre si erano "armati " di lamette tenute in mano e in bocca, oltre a detenere una bomboletta di gas con minaccia di farla esplodere. Trambusto, fuoco, fumo, grida di allarme tra tutti i detenuti che temevano che l’incendio si propagasse, innescando una reazione a catena tra tutti i ristretti. Paura generale, la sicurezza del carcere è stata gravemente pregiudicata. "Solo il sangue freddo e la grande professionalità dei pochi poliziotti penitenziari presenti hanno riportato, e non con poca fatica, il ripristino della calma", si legge in una nota sindacale. "La questione della sicurezza e la gestione del carcere di Canton Mombello è da tempo sotto la lente d’ingrandimento della Fp Cgil in quanto, sovente, si verificano simili episodi di disordine che coinvolgono, loro malgrado, anche il personale di Polizia Penitenziaria che molto spesso è costretto a ricorrere anche alle cure degli ospedali". "È una situazione, ormai, ingestibile, sotto i profili della sicurezza, dell’ordine e della disciplina, non vengono intrapresi seri provvedimenti disciplinari nei confronti di quei detenuti "facinorosi" e responsabili dei disordini. La Direzione non ha preso in considerazione le denunce della Cgil sia per le problematiche gestionali che afferenti alle gravi carenze strutturali che alla ormai cronica carenza di personale di Polizia Penitenziaria, mettendo in serio rischio la tutela e l’incolumità dei lavoratori. Ariano Irpino (Av): filosofia per i detenuti, si conclude con successo il nuovo progetto di Flavia Squarcio cittadiariano.it, 3 febbraio 2016 Si è concluso il primo laboratorio di filosofia al carcere di Ariano Irpino. Un’iniziativa, subito sposata dal direttore Gianfranco Marcello, finalizzata al recupero sociale dei detenuti attraverso l’educazione ad un nuovo pensiero, all’osservazione della vita da un punto di vista totalmente diverso e impregnato di legalità. Promotore del progetto, il giovane filosofo Francesco Santosuosso, che, in attesa della seconda edizione del corso in programma a marzo, spiega a Città di Ariano il senso dell’iniziativa posta in essere: "Il laboratorio di filosofia morale nasce dalla voglia esercitare la filosofia come una pratica o un’ attività. Accompagnato da una straordinaria guardia penitenziaria ho provato a costruire delle domande filosofiche con i detenuti: abbiamo prima imparato a fare delle domande e poi abbiamo parlato di concetti importanti come le categorie di Kant o il nichilismo di Nietzsche o ancora abbiamo parlato di "Sorvegliare e punire" di Focault. Naturalmente quel luogo, o per meglio dire il ‘non luogò che é il carcere é stato un elemento importante all’interno delle riflessioni. La cosa importante al di là dei contenuti di storia della filosofia é stata quella di provare a usare altre categorie di pensiero e ragionamento. Credo di aver ricevuto tanto in termini di onestà intellettuale. Anche se può sembrare paradossale". Napoli: domani in Consiglio Regionale presentazione Progetto "Keramos Liberidentro" videonola.tv, 3 febbraio 2016 Sarà presentata giovedì 4 febbraio, alle ore 11,00, presso la sede del Consiglio regionale della Campania, la mostra - mercato dei manufatti realizzati dai detenuti del progetto "Keramos Liberidentro", realizzato nell’istituto penitenziario di Poggioreale, promosso dalla associazione La Mansarda e dalla Cooperativa "Il Quadrifoglio". Alla presentazione, prenderanno parte l’onorevole Rosetta D’Amelio, presidente del consiglio regionale, il dottor Tommaso Contestabile, Provveditore Regionale Polizia Penitenziaria, il dottor Antonio Fullone, direttore del carcere di Poggioreale, la dottoressa Adriana Tocco, Garante dei detenuti, unitamente a Samuele Ciambriello, presidente dell’associazione La Mansarda ed a Lidia Ronghi, presidente della Cooperativa Il Quadrifoglio. La mostra mercato, con il patrocino della presidenza del Consiglio regionale, si terrà nei giorni 4, 5 e 8 febbraio, dalle ore 9,00 alle ore 13,30 presso la sede del Consiglio Regionale della Campania, isola F13 al Centro direzionale di Napoli. I manufatti, lavori di ceramica, sono stati realizzati da sedici detenuti del Padiglione Salerno della Casa Circondariale di Poggioreale, che hanno frequentato un corso di formazione svoltosi dal 23 novembre 2015 al 13 gennaio 2016. Alla presentazione ed alla mostra - mercato, parteciperà anche un detenuto del carcere di Poggioreale, che ha partecipato al corso di ceramica e che ha ottenuto un permesso premio di sei ore. Teramo: accordo Csi-carcere per "Papillon", una squadra di rugby formata da detenuti cityrumors.it, 3 febbraio 2016 L’obiettivo di "educare e rieducare attraverso lo sport" è alla base del protocollo d’intesa siglato tra il CSI e l’Istituto Penitenziario di Teramo. L’accordo tra le parti, finalizzato all’attivazione di esperienze e percorsi sportivi e formativi, è stato formalizzato al termine di una conferenza stampa, indetta a tal proposito, nella Casa Circondariale di Teramo. Coordinato da Elisabetta Santolamazza, responsabile Area di Trattamento, l’incontro pubblico è stato aperto da Stefano Liberatore, Direttore della Casa Circondariale che ha rimarcato l’importanza della pratica sportiva positiva all’interno delle strutture carcerarie: "Il sistema penitenziario non deve essere concepito solo ed esclusivamente sotto l’aspetto della sicurezza, oggi il carcere va verso un’altra tendenza che è quella della risocializzazione e rieducazione. Il carcere - ha rimarcato Liberatore - è un luogo di formazione sociale quindi sono ben accette queste attività sportive concepite come strumento di aggregazione e socializzazione". "Questo progetto prende il via nell’Anno Straordinario della Misericordia indetto da Papa Francesco - sottolinea il Presidente provinciale CSI, Angelo De Marcellis - il quale ci invita ad essere attenti alle problematiche degli ultimi e noi come Centro Sportivo Italiano siamo contenti di rivolgere una particolare attenzione verso chi, spesso, non è al centro dei pensieri della collettività". Il Csi, infatti, con le sue radici ben insediate nel territorio, cerca sempre di coinvolgere, supportare e coordinare le società sportive verso attività di utilità sociale: è il caso del Colleatterrato Calcio che ogni anno organizza una partita amichevole con la rappresentativa del carcere. Nell’ambito del protocollo Csi-Casa Circondariale saranno promossi nel corso dei prossimi mesi Corsi di formazione per arbitri, allenatori e dirigenti, incontri con testimonial sportivi sul rispetto delle regole. Vincenzo Misuraca, presidente onorario del Teramo Rugby e l’allenatrice Ilene Vetrini hanno spiegato i particolari del progetto che ha portato alla creazione della squadra Papillon costituita da detenuti reclusi a Castrogno alla quale Decatlhon L’Aquila, attraverso il suo direttore Alfonso Collalto, ha inteso donare abbigliamento sportivo. Pisa: "Cani dentro", quando gli animali finiscono in carcere di Enza Chiappone Il Tirreno, 3 febbraio 2016 Domenica la mostra di foto sul progetto che allevia la solitudine dei detenuti al Don Bosco. Il migliore amico dell’uomo per antonomasia per alleviare la solitudine dei detenuti. È l’esperimento condotto all’interno del carcere Don Bosco negli ultimi tre anni, il cui successo sarà testimoniato dalla mostra fotografica e dal convegno in programma alla Stazione Leopolda il prossimo 7 febbraio. L’iniziativa si chiama "Cani dentro" e attraverso scatti e parole racconta gli incontri tra i detenuti della casa circondariale di Pisa e i cani addestrati dall’associazione livornese Do Re Miao!, avvenuti all’interno di un programma di pet therapy, ovvero di attività assistite dagli animali. "Tutto è partito dalla richiesta di un detenuto di poter incontrare i propri cani - ha spiegato la dottoressa Alessandra Truscello, funzionario dell’area trattamentale del carcere Don Bosco - il che ci ha portati a considerare l’idea dell’associazione Do Re Miao! di organizzare degli incontri settimanali di gruppo in cui i referenti del progetto avrebbero condotto tra i detenuti dei Golden Retriever". Un’iniziativa accolta positivamente dalle persone recluse, decollata per pochi soggetti più problematici ma poi estesa a chiunque ne abbia fatto domanda di partecipazione, che interessa oggi più di 30 detenuti. "È venuto fuori quel lato sensibile di molti di loro che in tanti anni di lavoro non era mai emerso", ha commentato la dottoressa Truscello, risultato che ha convinto la direzione del carcere a dare loro un’ulteriore possibilità, quella di incontrare a colloquio non solo i familiari ma anche i propri cani. "Quest’incontro è ogni volta un momento toccante, come emerge dalle fotografie in mostra, che contribuisce a ripristinare nei reclusi una parte dell’affettività lasciata fuori". È proprio per portare avanti un’attività che ha dato i suoi frutti ma che, a detta del direttore del Don Bosco, Fabio Prestopino, quest’anno non ha ancora trovato finanziamenti che la casa circondariale e Do Re Miao! hanno organizzato l’iniziativa del 7, in cui accanto all’esposizione delle fotografie e dei frammenti di diario di coloro che hanno partecipato al percorso, si terrà dalle 11 alle 13.30 un convegno sui benefici della pet therapy, con ospite d’eccezione il direttore dell’ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato della Sardegna, Giampaolo Cassitta. Nel frattempo, l’associazione si sta già organizzando autonomamente, attraverso un crowdfunding sul sito buonacausa.org, e l’assessore al sociale Sandra Capuzzi ha promesso di parlare del progetto in Regione. Il carcere è una morte parziale. Carteggio tra giudice ed ergastolano di Corrado Stajano Corriere della Sera, 3 febbraio 2016 Dolore, iniquità, sogni di riscatto in "Fine pena: ora" di Elvio Fassone (Sellerio). C’è un dialogo in questo libro di Elvio Fassone, Fine pena: ora, pubblicato da Sellerio, che fa sobbalzare. Fassone è un magistrato illustre, ha fatto parte del Csm, è stato per due legislature senatore della Repubblica. Il suo interlocutore, Salvatore, è un mafioso catanese imputato in Corte d’Assise, pluriomicida, futuro ergastolano. ""Presidente, lei ce l’ha un figlio?". Ne ho tre, e il maggiore ha solo qualche anno in meno di Salvatore. (...) "Glielo chiedo perché le volevo dire che se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo"". È un libro dolorante e bellissimo, una storia minuziosamente vera, scritta con umanità profonda, senza falsa pietà, senza linguaggi melensi. Il giudice e l’ergastolano sono soltanto uomini, alla pari, anzi qualche volta Fassone fa persino venire il dubbio in chi legge che si senta lui il colpevole, nel nome di una società che non fa ciò che deve: "La detenzione, ove non mitigata da un trattamento educativo reale, è una morte parziale, l’asportazione di una porzione di vita", scrive in una pagina del libro. E ancora: "La comunità offesa dal delitto si fa risarcire con fette di vita prelevate chirurgicamente da quel bisturi inappuntabile che è il processo". Com’è nato questo libro che ha echi dostoevskiani e rammenta anche certi squarci di Dürrenmatt, ma è privo di ogni tentazione letteraria? Elvio Fassone, nel 1985 presiede a Torino, in Corte d’Assise, un maxiprocesso, 242 imputati della mafia catanese, 300 mila fogli di istruttoria. Salvatore ha 27 anni, è sotto giudizio per un’infinità di delitti efferati. Già dalla prima udienza vuol mostrare di essere un capo, non risponde agli appelli, si arrampica come una scimmia sulle sbarre della gabbia. Fassone non alza la voce, rifiuta le provocazioni. Salvatore, intelligente, scaltro, non insiste. Una serie di fatti fa sì che il mafioso guardi con occhi attenti il giudice. Non è un mostro: autorizza il viaggio in Sicilia di Salvatore - la madre sta morendo - fa sì che ad accompagnarlo siano agenti in borghese. I vicini di casa non lo vedranno con le manette ai polsi. Fassone decide poi di dedicare una parte del pomeriggio ai bisogni innumerevoli dei detenuti, il ricevimento di un’umanità varia e questo gli crea consenso. Il processo dura più di un anno, la camera di consiglio, nella foresteria del carcere, dura un mese. Per leggere la sentenza occorrono tre ore. "Assassini" urlano imputati e famigliari. Commenta il giudice: "In fondo la donna che ha gridato ha qualche viscerale ragione: anche noi stiamo spegnendo una vita, sia pure dietro lo scudo della legge". L’udienza è tolta, ma non per Elvio Fassone. Salvatore gli è rimasto nella mente. Decide di scrivergli - "con che spirito leggerà queste parole, se non come l’ipocrita tentativo del carnefice di sgravarsi la coscienza accarezzando la sua vittima?" - gli manda anche un libro, Siddharta, di Hermann Hesse, leggenda sui sentimenti fraterni, più taoista che indiana. Come reagirà? Manderà al diavolo quello strano giudice che gli scrive: "Potrà perdere la libertà per un tempo anche lungo, ma non deve perdere la dignità e la speranza"? Salvatore invece risponde: "Presidente, io lo so che lei mi ha dato l’ergastolo perché così dice la legge, ma lei nel suo cuore non me lo voleva dare. E io la ringrazio del libro e le assicuro che farò come lei dice". Si scriveranno per 26 anni. Fine pena: ora è uno specchio del mondo, un altro mondo, malvagio. Le lettere sono genuine, nessuno dei due ha da chiedere qualcosa all’altro. Fassone, si capisce, non trova mai una risposta all’interrogativo del giudice onesto: "Perché si punisce?". E soprattutto: "Chi sono io per punire?". Salvatore non perde la speranza. Prende un diploma di giardinaggio, vuol fare un corso di ebanista, poi un altro corso di grafica, lavora in cucina, diventa un attore non disprezzabile in una compagnia del carcere, ha l’ambizione di arrivare al diploma di terza media e per studiare rinuncia anche all’ora d’aria. Commenta Fassone: "Il confronto è inevitabile con certe levigate adolescenze, punteggiate di magliette e scarpe griffate". Ma l’inferno è certo. "Che vuole che ci aspetti, a chi nasce nel Bronx di Catania?" "Dice proprio così", scrive il giudice, "deve averlo sentito alla televisione, e lo ripete con eleganza guappa e disperata". La libertà è come un miraggio, l’acqua nel deserto. Il libro insegna che cosa è la prigione più di tanti trattati di criminologia. Il 41bis è una tragedia, le carceri di massima sicurezza cancellano ogni forma di vita. Le lettere di Salvatore si fanno sempre più cupe. Salvatore sente il suo destino come una cappa maledetta. "Ce lo detto presidente, che dove cammino io non può crescere l’erba... che se io tocco l’oro diventa ferro". Ma all’ergastolano che non vuole perdere la speranza le lettere del giudice sono davvero utili. "Le condanne non insegnano nulla, anzi incattiviscono, ma lei le sue lettere insegnano tanto, sono come un libro che insegna la vita". I permessi, le licenze, la semilibertà sono i sogni, le ragioni di vita, come l’art.21 dell’Ordinamento penitenziario, il lavoro all’esterno. Ma il primo permesso è un trauma: "Presidente, non sapevo nemmeno camminare. Fuori anche l’aria che si respira è diversa da dentro. È tutto nuovo per me, le macchine, la roba che c’è nei negozi, la gente come è vestita, anche il fatto di pagare con l’euro". Rosi, la ragazza che per anni è andata a trovarlo di penitenziario in penitenziario, lo lascia. Un dolore immenso. Lavora in un vivaio, media nel conflitto tra gruppi di carcerati, potrebbe essere elogiato, viene invece ritenuto un capo, perde ogni beneficio. La burocrazia è ottocentesca, non gli viene dato l’articolo 21 perché un detenuto che l’ha avuto ha violentato una ragazza. Si sente un perseguitato - "non c’è amarezza o sofferenza che non ho conosciuto" - Il giudice cerca di incoraggiarlo, non è facile. Poi un nuovo trauma. Nella sua cella le guardie trovano un telefonino. Salvatore non c’entra. Sarebbe stato facile controllare i numeri. Non viene fatto: tutti al 41bis, cancellata ogni misura alternativa. L’ergastolano scrive a Fassone: "L’altra settimana ne ho combinato una delle mie: mi sono impiccato, mi scusi". Un agente di custodia lo salva. È passato più di un quarto di secolo. Elvio Fassone osserva una fotografia di Salvatore. Quando l’ha conosciuto era "un fascio di muscoli e di nervi, pronto a scattare come una molla compressa". Adesso sembra L’urlo di Munch. Giubileo: il pensiero di Francesco sui migranti e i detenuti Ansa, 3 febbraio 2016 Escono due volumi della Lev per Anno Santo misericordia. Da oggi sono disponibili in libreria due nuovi volumi di sussidio al Giubileo Straordinario della Misericordia curati da Lucio Coco ed editi dalla Libreria Editrice Vaticana: "Ero straniero e mi avete accolto" e "Ero in carcere e siete venuti a trovarmi". "Ero straniero e mi avete accolto" (Lev, 2016; Euro 8,00), "raccoglie le riflessioni e i pensieri di papa Francesco sul tema, di così cogente attualità, dell’accoglienza dei migranti, a seguito dell’incalzante succedersi di esodi forzati dalle regioni e dai Paesi più svantaggiati del mondo verso il vecchio continente europeo. Nel deserto spirituale rappresentato dalle derive della post modernità, la comunità dei cristiani fonda la sua esperienza nella fede in Cristo Buon Samaritano e, prima ancora, in quella del Dio che si fa uomo, e si apre alle sofferenze e ai dolori della carne, per portare il suo messaggio di solidarietà e di salvezza al mondo". "Ero in carcere e siete venuti a trovarmi" (Lev, 2016; Euro 7,00), affronta il tema del perdono dei detenuti. Papa Francesco "ha incontrato otto volte i detenuti in carceri italiane e straniere. In questo modo egli si fa continuatore della tradizione, ripresa dopo circa novant’anni di interruzione, da Giovanni XXIII con la sua storica visita ai reclusi di Regina Coeli il 26 settembre 1958. Ciò che accomuna le parole e i pensieri dei pontefici raccolti in questa antologia è che nessuna pena può mai estinguere un peccato, solo il perdono che viene da Cristo può portare la pace alle coscienze. Ã su questo mistero di misericordia che si diffonde il messaggio del Vangelo e giunge oltre le mura spesse delle carceri". Il volume contiene una antologia di testi sul tema delle carceri di Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Lucio Coco (1961) vive a Verbania e affianca all’attività di docente il lavoro di ricerca sulla tradizione patristica. Sue sono le edizioni, per la collana Testi Patristici di Città Nuova, di importanti opere dei Padri della Chiesa quali Giovanni Crisostomo, Evagrio Pontico, Gregorio di Nazianzo. È inoltre autore di diversi saggi di spiritualità orientati all’approfondimento dei vissuti di fede dell’uomo contemporaneo alla ricerca di contenuti capaci di dare verità, consistenza e valore all’esistenza. Per la Libreria Editrice Vaticana ha curato la collana dei Pensieri di papa Benedetto XVI. Una società poco civile di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 3 febbraio 2016 Sempre più persone trovano normale imbrogliare lo Stato e considerarsi persone civili. Ci sono pezzi di "società civile" che danno francamente la nausea. Come la signora che usava il contrassegno disabili della zia morta da nove anni e s’è fatta scoprire perché, ingorda, voleva agganciarla all’auto nuova. O la miriade di automobilisti denunciati perché truccavano la targa col nastro adesivo nero così da entrare nelle Ztl romane. O i duemila falsi poveri beccati dalla sola Asl di Livorno (figuratevi il resto d’Italia) che non avevano diritto all’esenzione del ticket. O la professoressa che figurava assente con la "legge 104" per accudire la madre disabile ma era in Olanda a una gara di tango. Migliaia e migliaia di casi. Per carità, non sono rapinatori, non stuprano bambine, non spacciano droga. Potete scommettere anzi che in larga parte si considerano persone "perbene". Trovano però in qualche modo "normale" imbrogliare lo Stato, l’Inps, i Comuni... Rubare soldi pubblici. Violare le norme che impongono sacrifici o semplici fastidi. E una volta scovati fanno spallucce: "Cosa sarà mai!". Le cronache degli ultimi mesi traboccano di storie di illegalità diffusa. Come la denuncia, da parte della Guardia di finanza, di "456 fittizi eredi o delegati alla riscossione, di persone decedute, alle quali, ante mortem, era stata riconosciuta l’indennità di accompagnamento" nella sola area di Castrovillari. O l’inchiesta su cinque dipendenti del Fatebenefratelli di Milano accusati d’"essersi appropriati dei soldi delle prestazioni sanitarie dei cittadini" allo sportello. O i controlli sulle dichiarazioni degli universitari capitolini arrivati ad accertare a fine 2013 addirittura il 62% di falsi, incluso quello di una ragazza esentata dal ticket in mensa nonostante il papà avesse la Ferrari. Non si tratta di quisquilie e pinzillacchere, per dirla con Totò. Lo scriveva Fiorenza Sarzanini partendo da un dossier della Finanza: "Ormai si sfiorano i quattro miliardi di euro, cifra record di buco nei conti dello Stato. È la voragine creata dall’attività illecita di circa 7.000 dipendenti pubblici infedeli". Molti convinti che in fondo "così fan tutti". Ma può uno Stato sopravvivere a una "società civile" infettata da tanta illegalità diffusa e, peggio ancora, in qualche modo accettata con un sospiro se non con un sorrisetto bonario? Uno Stato dove un processo appena chiuso condanna per assenteismo 78 su 96 dipendenti dello Iacp di Messina senza che uno solo sia licenziato? Dove hanno usato la legge 104 il 63% degli insegnanti trasferiti a Catania e il 56% di quelli a Palermo e tutti (tutti!) i maestri e i bidelli spostati negli ultimi sette anni in provincia di Agrigento nonostante la Procura abbia accertato che una dichiarazione su quattro è falsa? Dove uno dei pochi licenziati per aver fatto il furbo con "415 giornate di congedo straordinario", in provincia di Pordenone, è in causa e vuole tutti gli arretrati? Dove decine di piloti in cassa integrazione con assegni spesso deluxe lavoravano in realtà all’estero? Lasciamo pure da parte, oggi, il tema dell’abusivismo e dell’evasione fiscale che come ha ricordato Sergio Mattarella, sottrae agli italiani onesti 122 miliardi di euro e cioè 7 punti e mezzo di Pil. La prima delle violazioni collettive di ogni regola di convivenza. Sapete quante volte l’Ansa ha dato notizia di truffe sui falsi braccianti agricoli dal 2010 a oggi? Centotto. False circa 700 aziende, falsi trentamila braccianti, falsi i terreni su cui "lavoravano". Un esempio, l’inchiesta su 829 persone denunciate a luglio nel cosentino: "Oltre il 90% delle giornate dichiarate erano fasulle". Embè? Tanto paga l’Inps... Spiega un dossier Ania che la norma che nel 2012 introdusse l’obbligo d’una radiografia per il risarcimento danni da colpi di frusta ha causato "una diminuzione delle denunce per danni fisici lievi (da 1 a 9 punti di invalidità) da 580mila nel 2011 a 370mila nel 2014: 210mila feriti in meno". O 210mila furbetti stoppati. Per non dire dell’inchiesta, a Napoli, sugli incidenti stradali "fantasma": 62 medici, 12 avvocati, 300 indagati a vario titolo. Come non fosse cambiato nulla, nel gennaio 2016, da quando un giudice vent’anni fa capì che Gerardo "Tapparella" Oliva, di professione testimone non poteva proprio aver assistito (un frontale qua, un tamponamento là...) a 650 incidenti. Che una pretesa superiorità morale della "società civile" non avesse senso, sia chiaro, si sapeva da un pezzo. E nulla è fastidioso quanto ascoltare gli strilli di chi è idrofobo con "chi comanda" e il "governo ladro", sia esso di destra o di sinistra, e insieme indulgente verso se stesso, i propri furti, le proprie furbizie. Detto questo, però, l’assoluzione della politica "che in fondo è solo lo specchio della società" è inaccettabile. È la politica che deve pilotare la società a migliorare. Lo spiegava, secoli fa, David Hume: "Nell’escogitare un sistema qualunque di governo e nel fissare i molti freni e controlli della Costituzione, si deve supporre che ogni uomo sia un furfante e non abbia, in tutte le sue azioni, altro fine che l’interesse personale". Sono le regole e la severità sul loro rispetto ad aiutare una società a crescere. A diventare più corretta. Ce l’ha ricordato, a modo suo, anche Roberto Mancini: "Il gesto del dito in Inghilterra non l’avrei fatto mai". Appunto... I rischi delle leggi repressive di Hollande di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 3 febbraio 2016 Riforma costituzionale. Oggi in Consiglio dei ministri il prolungamento di altri tre mesi dello stato d’emergenza. La riforma costituzionale sulla privazione della nazionalità a rischio, contestazioni a sinistra (ma anche a destra). Taubira attacca con un libro. Oggi in Consiglio dei ministri sarà presentata la proposta, poi sottoposta al voto del parlamento, di prolungare di altri tre mesi lo stato d’emergenza, che, già confermato dopo i primi 12 giorni seguenti gli attentati del 13 novembre, scade ora il 26 febbraio. Poi, venerdì, inizia all’Assemblea il dibattito sulla riforma della Costituzione, per introdurre non solo lo stato d’emergenza nella Carta (una proposta che alcuni, come lo storico Pierre Rosanvallon, giudicano positivamente, perché chiarirebbe la legge del ‘55, votata durante la guerra d’Algeria), ma soprattutto la molto più controversa privazione della nazionalità. La confusione regna sovrana sui due fronti e il governo è in difficoltà, preso in trappola da se stesso. Contro il prolungamento dello stato d’emergenza hanno manifestato migliaia di persone in tutta la Francia sabato scorso. Una richiesta di sospensione della Lega dei Diritti dell’uomo è stata però respinta dal Consiglio di stato la scorsa settimana, perché "il rischio di attentati resta". Nei fatti, l’efficacia dello stato d’emergenza nella lotta al terrorismo resta da dimostrare: ci sono state 3200 perquisizioni (senza l’intervento del giudice, come permette lo stato d’eccezione), ma sono state aperte solo 4 inchieste che hanno a che vedere sul terrorismo e una sola persona è stata incriminata, mentre 400 persone sono ai domiciliari. Hanno subito questa privazione di libertà anche persone che nulla hanno a che vedere con il terrorismo, come dei militanti ecologisti legati alla contestazione dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes, a riprova dell’arma a doppio taglio dello stato d’emergenza. L’inserimento nella Costituzione della privazione della nazionalità ha già causato un terremoto politico, con le dimissioni della ministra della Giustizia, Christiane Taubira, la scorsa settimana, l’ultima garante a "sinistra" del governo Valls. Taubira, lunedì, ha pubblicato un libro di meno di 100 pagine, Murmures à la jeunesse, che è un j’accuse contro la proposta della privazione di nazionalità, "inefficace", "con effetti nulli sulla dissuasione". L’ex ministra, che è nata a Cayenne, si chiede: "cosa sarebbe il mondo se ogni paese espellesse i propri cittadini considerati indesiderabili?". Per modificare la Costituzione, ci vuole un voto ai tre quinti del Congresso (Assemblea e Senato riuniti), su un testo che deve essere passato negli stessi termini nelle due camere. Ma si arriverà al Congresso? E con quale testo di legge? Per rispondere alla contestazione di una riforma che avrebbe introdotto nella Costituzione una differenza tra cittadini, riservando la privazione della nazionalità ai soli bi-nazionali (con due passaporti), Valls ha ora proposto un testo senza riferimenti alla bi-nazionalità, ma che non limita più la pena ai soli condannati per terrorismo ma la estende anche ai reati contro la nazione con condanne fino a 10 anni di carcere. Un vero pasticcio, intanto perché sarebbe comunque riservato ai bi-nazionali (Valls ha promesso che la Francia ratificherà le norme internazionali che proibiscono di creare apolidi). Ma in più con il rischio di aprire la possibilità di privare della nazionalità per diversi motivi, quando ci sarà un’altra maggioranza (per esempio per ragioni politiche). Il testo è confuso e non ancora definito, mentre Hollande non è più certo di avere la maggioranza. C’è una fronda consistente a sinistra, dove un centinaio di parlamentari potrebbero votare contro o astenersi. Circolano petizioni e prese di posizione, firmate da vare personalità (dall’economista Piketty a Cohn-Bendit e Jacques Attali) per chiedere al governo di rinunciare. Anche l’obiettivo di unità nazionale sembra fallito. A destra crescono i dubbi. Per ragioni di fondo, in qualche caso, ma anche per opportunismo (non dare una vittoria a Hollande). Tra i candidati alle primarie per l’Eliseo, Alain Juppé è contro, e anche François Fillon ha dei dubbi, mentre Sarkozy è d’accordo, visto che era una sua idea. Florian Philippot del Fronte nazionale afferma: "deciderà Marine Le Pen" su come voteranno i due deputati e i due senatori di estrema destra, "ma se il principio di privazione della nazionalità sarà ben presente nel testo allora potremmo votarlo, visto che sarà una vittoria ideologica del campo dei patrioti, che noi incarniamo". Canapa medica, un decreto contro di Antonella Soldo (Radicali Italiani) Il Manifesto, 3 febbraio 2016 "La cannabis è un farmaco molto promettente: una vera risorsa per il paese. La mia previsione è che tra 5 anni le perplessità e i pregiudizi sull’uso di questa sostanza saranno superati". A esprimere un parere tanto entusiasta sulle prospettive della cannabis e tanto ottimistico riguardo all’archiviazione degli ostacoli ideologici con cui questa terapia deve fare i conti ancora oggi, è il colonnello Antonio Medica, direttore dello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, dove è in corso un progetto pilota per la produzione di cannabis terapeutica. Al senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani, in visita allo Stabilimento, il colonnello Medica mostra le cellette in cui sono custodite le talee di cannabis, gli ambienti adibiti alla crescita delle piante e all’essiccazione, gli strumenti per l’irrigazione controllati tramite app e i laboratori di analisi. Sono i locali dismessi dello Stabilimento che riprendono vita dopo un lungo periodo di sotto-utilizzo. Manconi tra i primi ha indicato questa struttura come possibile sede per la coltivazione: proposta formalizzata nel luglio 2014 in Senato, insieme all’Associazione Luca Coscioni, in un convegno dal titolo La cannabis fa bene la cannabis fa male, a cui hanno preso parte rappresentanti dei ministeri della Salute e della Difesa. E proprio questi ministeri due mesi dopo hanno firmato un protocollo d’intesa per l’avvio del progetto di Firenze. Forse la professionalità dei militari (tutti chimici e farmacisti) che sono impegnati nel programma è proprio quanto serviva a sottrarre il dibattito a qualsiasi strumentalizzazione: e finalmente, perché la cannabis medica in Italia è ammessa in terapia dal 2007, ma ad oggi la sua disponibilità è tutt’altro che effettiva. E ciò in ragione di costi, di ostacoli burocratici, ma soprattutto di resistenze ideologiche: medici, farmacisti e operatori sanitari non sanno dell’esistenza di questa terapia, non ne conoscono i benefici, né la liceità dell’uso. La sfida del progetto, dunque è ardua. Per attuarla quest’anno è stato stanziato un investimento di 1 milione di euro: fondi che consentiranno di produrre fino a 400 kg di cannabis medica. Se il progetto pilota procede spedito, però, si profilano altre difficoltà per l’accesso alla terapia, a causa delle restrizioni stabilite dal ministero della Salute con un decreto del novembre scorso. Il testo fissa i termini della coltivazione presso lo Stabilimento chimico farmaceutico, ma anche quelli di prescrizione e somministrazione. Una modalità impropria: infatti è competenza dell’Agenzia del farmaco (Aifa) approvare tali indicazioni. A ciò si aggiungono le perplessità per quanto riguarda la stima del fabbisogno nazionale che dovrebbe avvenire sulla base del quantitativo usato dai pazienti in trattamento: previsione assai limitativa, in quanto coloro che oggi ottengono legalmente la cannabis sono ben pochi. Infine il decreto individua un elenco chiuso di patologie ammesse alla prescrizione, lasciandone fuori altre per le quali pure vi è testimonianza in letteratura scientifica. E addirittura si sostiene che "i soggetti in terapia dovrebbero essere esentati dalla guida dei veicoli o dallo svolgimento di lavori che richiedono allerta mentale e coordinazione fisica per almeno 24 ore dopo l’ultima somministrazione per uso medico". Non è chiaro se quel "dovrebbero" costituisca un divieto. In caso affermativo sarebbe un caso unico. Non esiste niente di simile per nessun’altra terapia, nemmeno con oppiacei. Insomma, il percorso per una concreta affermazione della cura a base di cannabis è ancora disseminato di ostacoli. Sebbene sembri non più reversibile. Niente cose ma esperienze la generazione sharing che ha imparato a rinunciare al possesso di Maurizio Ricci La Repubblica, 3 febbraio 2016 L’indicatore più evidente è l’auto: solo il 15 per cento dei Millennials pensa che sia una priorità possederla E meno della metà vuole la patente Tutti i consumi stanno per essere stravolti dai figli dei baby boomers. Ecco come. Il futuro è già loro, naturalmente: i Millennials, nati fra il 1980 e il 2000 sono 12,5 milioni in Italia, 160 milioni in Europa, altrettanti negli Stati Uniti. Trovarli, anche uno per uno, è facile ai limiti del ridicolo: negli Usa, ce ne sono 70 milioni solo su Facebook. I politici stanno, però, scoprendo che prendere i loro voti non è altrettanto facile: per farlo, devono reinventarsi. Ma i problemi veri li hanno quelli che vorrebbero prendere, piuttosto, i loro soldi. Quattrini sfuggenti, capaci di sbucare dove non ti aspetti e di prendere direzioni dove seguirli è difficile. Per i giganti dell’economia e della società che dominano da sempre i mercati inseguirli, però, è cruciale: solo negli Usa, nei prossimi anni, i Millennials si troveranno in tasca 50 miliardi di dollari in più da spendere. Ma per le aziende che hanno plasmato la vita e il quotidiano delle generazioni precedenti, i figli dei baby boomers rischiano di essere una scommessa a perdere. Perché hanno cambiato le regole del gioco. A dicembre, alla fine della Conferenza di Parigi sul clima, ho chiesto alla giovane collega di un piccolo giornale olandese che aveva condiviso con me per una settimana il banco della sala stampa se sarebbe tornata ad Amsterdam in aereo o in treno. Mi ha guardato stranita: "Sei matto, con quello che costano?" ha risposto. "Torno in macchina". "Sei venuta con la tua macchina?" ho chiesto incredulo. "Ma neanche per idea" ha detto. Ha preso il tablet, ha digitato furiosamente per un po’. Ha aggrottato la fronte. E ha cliccato con un dito. "Mi devo sbrigare - ha concluso - ho trovato un passaggio fra tre quarti d’ora da Place de la Bastille". Tutti sappiamo che la sharing economy ci consente di condividere, per il tempo necessario, un’auto, un taxi, un alloggio. Qualche volta ne approfittiamo. La differenza è che i Millennials ci vivono dentro, lo considerano la scelta ovvia e normale, spesso esclusiva. Chi sono? "Più istruiti, più colti, più digitali, ma anche più poveri dei genitori", dice una ricerca della Coop sui Millennials italiani. Questo vuol dire consumatori più sofisticati, meno facili da impacchettare nelle tradizionali strategie di marketing. "Finita l’epoca dei percorsi di vita lineari e progressivi", spiega Diego Martone nel suo "I nuovi dei dell’Olimpo del consumo". "Al contrario, tante opzioni, con orizzonti temporali molto limitati e potenzialmente reversibili: si lascia la casa di mamma, ma ci si può anche tornare". Svanita l’idea della famigliola che mette su casa e figli, comprando elettrodomestici e camerette, su cui sono stati costruiti interi castelli di marketing. Infine, una decisa indifferenza al possesso, rispetto all’uso. Solo il 15 per cento di loro pensa che comprare un’auto o una tv sia una priorità. L’immagine più efficace dell’economia dei Millennials sono Netflix e Spotify: piuttosto che seppellire soldi per tenere a casa un video o un cd, meglio pagare pochi euro di abbonamento per averne a disposizione migliaia a comando. Il primo totem a barcollare è l’auto. Se un’auto condivisa, dicono gli esperti, sostituisce 9 auto in proprietà, il parco macchine americano rischia di ridursi del 60 per cento in pochi anni. Del resto, meno della metà dei diciottenni americani si preoccupa di prendere la patente. Quindici anni fa era il 65 per cento. Un passaggio in auto si può sempre trovare e, poi, serve sempre meno: la roba si compra online, invece che nei centri commerciali e con gli amici, dice il 54 per cento dei Millennials, ci si sente su Internet. O li si va a trovare in autobus o in metropolitana: usano il trasporto pubblico 40 per cento più spesso dei loro padri o fratelli maggiori. Forse perché in autobus si può twittare senza problemi. O anche perché vivono più volentieri in città anziché nei sobborghi. Il boom di Airbnb invece dell’albergo, quando si viaggia, ha attratto molta attenzione, ma il gravitare dei Millennials verso i centri delle città sta per rivoluzionare il patrimonio urbano americano: fra dieci anni, potrebbero esserci 22 milioni di villette vuote, nei sobborghi. Abituati a viaggiare, globalizzati nei gusti, i Millennials stanno anche costringendo i giganti dell’industria alimentare ad una rincorsa senza fine. Corn flakes senza glutine, nuove linee di prodotto senza coloranti o conservanti, caccia a inglobare produttori indipendenti di birra artigianale o caffè a denominazione di origine controllata. Nei giorni scorsi, un colosso dei liquori come Pernod Ricard ha deciso di investire in Monkey 47, un esotico produttore di gin distillato con acqua e bacche delle montagne tedesche e erbe asiatiche, nella speranza di catturare i Millennials che, negli ultimi anni, hanno fatto schizzare del 300 per cento le vendite di bevande organiche. È un nuovo trend che affianca quello, già ben consolidato, dei cibi organici: il biologico ha più che raddoppiato il fatturato dal 2003 ad oggi. Venti di guerra sulla Libia, dialogo al collasso in Siria di Chiara Cruciati Il Manifesto, 3 febbraio 2016 Stato Islamico. Dal vertice di Roma Gentiloni e Kerry mettono sul tavolo l’intervento nel paese nordafricano, che attira nuovi adepti con il denaro. A Ginevra le opposizioni cancellano il meeting con l’inviato Onu. Mille dollari per vestire i panni di "soldato del califfo": è il denaro che il braccio libico dello Stato Islamico offrirebbe a africani da Ciad, Sudan, Mali per rafforzare la propria presenza nel paese. Lo rivela l’intelligence libica: puntare ai paesi poveri è una strategia vincente. Secondo il colonnello Ismail Shukri, capo dei servizi segreti a Misurata, circa il 70% degli uomini del "califfato" a Sirte non sono cittadini libici, ma tunisini, sudanesi, egiziani, nigeriani e ciadiani. Che, aggiunge Jamal Zubia, portavoce del governo di Tripoli, non sono mossi dall’ideologia "ma dai mille dollari offerti, un sacco di soldi per molti africani". Così l’Isis avanza e il governo di unità nazionale resta bloccato. Lo sanno bene i 23 paesi riuniti ieri a Roma, ospiti della Farnesina, per il terzo vertice anti Isis. Il padrone di casa, il ministro degli Esteri Gentiloni, sbandierando avanzamenti nella lotta allo Stato Islamico ("Nel 2015 il 40% del territorio controllato da Daesh in Iraq è stato liberato, il 20% in Siria"), ha puntato dritto alla Libia: "L’attività di Daesh rischia di moltiplicarsi. Ci aspettiamo che il consiglio presidenziale formuli una nuova proposta di governo, che sarà presentata lunedì o martedì prossimi. Un punto di svolta per una comunità internazionale che vuole rispondere alle richieste del governo di unità libico in termini di sicurezza. Noi siamo pronti a rispondere". Come? Probabilmente con un intervento militare. Non è un segreto che Londra e Parigi stiano scaldando i motori della guerra e Roma, che ha tentato la via negoziale, è pronta a cedere in cambio della guida di una campagna sotto l’egida Onu. Con la cacciata di Gheddafi, l’Italia ha perso un ricco partner economico e ora rivuole la sua parte. A preparare il terreno è il segretario di Stato Usa Kerry che ieri ha avvertito i partner della crescente minaccia rappresentata dall’Isis in Libia: "L’ultima cosa che voglio è un falso califfato con a disposizione miliardi di dollari in riserve petrolifere". Secondo la comunità internazionale, unica barriera all’avanzata islamista è la formazione del governo di unità nazionale, promesso da oltre un mese ma ancora in stand by. Ma al di là dei boicottaggi interni (il 25 gennaio il parlamento di Tobruk ha rifiutato la proposta di esecutivo del premier designato al-Sarraj e chiesto la riformulazione entro 10 giorni), le difficoltà politiche sono dettate dalla frammentazione della Libia in poteri rivali, tribù, milizie e gruppi islamisti. Per questo un intervento armato appare un’opzione controproducente, che potrebbe moltiplicare le resistenze e raddoppiare l’efficacia della propaganda islamista, soprattutto perché sarebbe diretto alla "messa in sicurezza" dei giacimenti petroliferi. Guerra per il greggio camuffata da guerra allo Stato Islamico? Di certo di stivali sul terreno ce ne sono già, francesi, britannici e statunitensi. La macchina della guerra sembra già partita, seppure ieri sia Parigi che Londra abbiano affermato di non voler inviare proprie truppe in azioni di combattimento. Solo intelligence e supporto aereo al futuro governo di unità. Quello che invece non ingrana è il dialogo siriano, a rischio collasso: l’annuncio di ieri dell’inviato Onu de Mistura sull’apertura ufficiale del dialogo (dopo presunti ammorbidimenti delle parti) è stato subito sgonfiato. Lunedì le opposizioni dell’Hnc si erano dette soddisfatte dalle rassicurazioni sulla fine di raid russi e assedi governativi, pur minacciando di lasciare Ginevra nel caso di mancati progressi. E così ieri l’Hnc ha cancellato il meeting del pomeriggio con de Mistura, definendole inutile perché la Russia non ha interrotto i bombardamenti. Lunedì Damasco aveva dichiarato di voler discutere della consegna di aiuti nelle città sotto assedio, mentre la Russia aveva fatto retromarcia sui gruppi islamisti: Mosca ha definito "realistica" e quindi accettabile la partecipazione di Ahrar al-Sham e Jaysh al-Islam a causa delle dinamiche sul terreno, pur considerandoli terroristi. Da parte sua Jaysh al-Islam, dalla Svizzera, ha accusato il governo di "non essere interessato a raggiungere una soluzione". Un passo avanti e due indietro. Infine, gli Stati uniti: da Roma Kerry ha chiesto alla coalizione anti-Isis maggiori sforzi economici: serve denaro - ha detto il segretario di Stato - per ricostruire le città irachene liberate e per affrontare la crisi umanitaria in Siria. Senza mancare di attaccare il presidente siriano Assad ("È una calamita per il terrorismo, usa la fame come tattica di guerra"), Kerry in conferenza stampa ha ammesso che "la crisi siriana peggiora di giorno in giorno, per cui vedremo se chi dice di combatterlo sul terreno sarà in grado di raggiungere il cessate il fuoco". Una stoccata alle opposizioni sostenute ciecamente per anni ma ora fonte di screzi per le posizioni irremovibili e, per Washington, controproducenti: mentre i gruppi anti-Assad discutono, la Russia guida un’efficace campagna aerea a sostegno del governo. Che avanza: ieri le truppe di Damasco hanno lanciato una nuova controffensiva su Aleppo, riprendendo una serie di villaggi a nord della città. Chi non ammorbidisce le proprie posizioni è la Turchia che ieri ha criticato l’alleato Usa per la visita tributata al Pyd kurdo a Kobane: "Non si può dire che il Pkk è organizzazione terroristica e il Pyd no", ha detto il presidente Erdogan. Arabia Saudita: revocata la condanna a morte del poeta palestinese Ashraf Fayadh di Michele Giorgio Il Manifesto, 3 febbraio 2016 Era stato condannato per "blasfemia". Una corte ha commutato la pena in otto anni di prigione e ben 800 frustate. Decisive le pressioni internazionali. Ashraf Fayadh scamperà alla morte, grazie anche alle pressioni internazionali, ma non alla prigione e alle frustate. Una corte dell’Arabia Saudita ieri ha revocato la condanna a morte per "blasfemia" e per aver "rinnegato l’Islam" inflitta al poeta palestinese, commutandola però in otto anni di prigione e ben 800 frustate. Fayadh deve la sua vita all’impegno del suo avvocato, Abdulrahman al-Lahem, che aveva chiesto e ottenuto un nuovo processo per il mancato rispetto dei diritti dell’imputato. Tuttavia Fayadh seguirà la sorte subita dal blogger Raif Badawi, frustato un anno fa in pubblico a Gedda. Nel suo caso le frustrate saranno impartite in 16 diverse sessioni e, inoltre, tutte le sue poesie non potranno più avere accesso sui media sauditi. Adam Coogle, di Human Rights Watch, pur apprezzando la decisione della corte saudita, ha comunque ribadito che "nessuno dovrebbe essere arrestato per aver espresso le opinioni e sottoposto a punizioni corporali". Coogle ha quindi chiesto l’abolizione piena di una "sentenza ingiusta". Per lo scrittore Irvine Welsh "Non si può accettare una barbarie come compromesso" ed è tempo che "i governi occidentali smettano di avere a che fare con il perverso regime saudita". Pena di morte in Iran: arrestati da piccoli e impiccati da grandi di Riccardo Noury (Amnesty International Italia) Il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2016 Fatemeh Salbehi è stata messa a morte nell’ottobre 2015 per aver ucciso il marito che era stata costretta a sposare a 16 anni. È stata condannata a morte per la seconda volta dopo un processo durato poche ore in cui la valutazione sulla sua maturità mentale si è basata su una manciata di domande, tra le quali se usasse pregare o se studiasse testi religiosi. In Iran, uno dei pochissimi paesi al mondo a mettere a morte minorenni al momento del reato, dal 2013 le cose funzionano così: i prigionieri condannati a morte per reati commessi quando avevano meno di 18 anni possono chiedere un nuovo processo e il giudice può decidere per una pena alternativa alla condanna a morte, basandosi sul suo giudizio discrezionale circa la crescita mentale e la maturità raggiunta dal reo minorenne al momento del reato. Già questa procedura non rispetta gli obblighi assunti 20 anni fa dall’Iran, con la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, sulla base della quale né la pena di morte né l’ergastolo ostativo possono essere inflitti per reati commessi a un età inferiore a 18 anni. E, di fronte a un obbligo cui l’Iran si è volontariamente sottoposto, poco importa che le leggi di quel paese stabiliscano che la maggiore età inizia dopo i nove anni per le bambine e dopo i 15 anni per i ragazzi. Ma c’è di più. Nei quasi tre anni trascorsi dalle modifiche al codice penale, le esecuzioni dei rei minorenni sono proseguite. I giudici chiamati a riesaminare i casi di condanna a morte si fanno l’idea, con qualche domanda banale, che la persona che hanno di fronte fosse mentalmente matura all’epoca del reato e confermano la sentenza. È andata così, lo scorso anno, per Amir Amrollahi, Siavash Mahmoudi, Sajad Sanjari, Salar Shadizadi e Hamid Ahmadi (qui, la sua storia e un appello). Dal 2005 al 2015, secondo Amnesty International, l’Iran ha messo a morte 73 minorenni al momento del reato, di cui almeno quattro lo scorso anno, prevalentemente per omicidio. Altri 160 rei minorenni, secondo le Nazioni Unite, sono in attesa dell’esecuzione nei bracci della morte del paese. Con ogni probabilità, i dati effettivi sono molto più alti poiché in Iran le informazioni sulla pena di morte sono avvolte dal segreto. Amnesty International è stata in grado di identificare i nomi di 49 condannati a morte per reati commessi quando avevano meno di 18 anni, e anche le prigioni in cui sono reclusi. In media, la maggior parte di loro si trova nel braccio della morte da sette anni, alcuni da più di 10 anni. Arrestati da piccoli, verranno impiccati da grandi. Nel giugno 2015 è entrata in vigore un’altra riforma secondo la quale gli imputati minorenni dovranno essere processati da tribunali specializzati nella giustizia minorile. In precedenza, i casi erano generalmente trattati dai tribunali per adulti. Sebbene l’introduzione di questi tribunali specializzati sia un fatto positivo, resta da vedere se in questo modo si eviterà di ricorrere ulteriormente alla pena di morte nei confronti dei rei minorenni. La cosa più semplice da fare sarebbe quella di abolire l’uso della pena capitale, a iniziare dalle condanne inflitte per reati commessi a un’età inferiore ai 18 anni. Tunisia: Hrw denuncia legge "draconiana" in materia di droga Nova, 3 febbraio 2016 Il governo tunisino deve elaborare una nuova legge in materia di droga che non preveda il carcere per chi viene trovato in possesso di cannabis per uso personale. È quanto si legge in un rapporto dell’organizzazione non governativa Human rights watch, secondo cui in Tunisia migliaia di persone vengono arrestate perché in possesso di minime quantità di cannabis per uso personale. "Le persone intervistate hanno dichiarato di essere state picchiate durante gli interrogatori e hanno descritto i maltrattamenti subiti durante i test delle urine e le perquisizioni delle loro abitazioni", si legge nello studio, che include interviste ad almeno 47 persone, incarcerate sulla base della normativa vigente. Secondo il rapporto, che cita fonti del ministero della Giustizia tunisino, le persone in carcere per motivi legati alla droga rappresentano il 28 per cento dei detenuti. Il 70 per cento di loro è stata arrestato per essere stato trovato in possesso di cannabis. Una revisione della legislazione attualmente in vigore, la legge 52, è stata sottoposta al parlamento tunisino a fine dicembre, ma l’Assemblea nazionale deve ancora stabilire un calendario per dibattere la riforma e sottoporla a voto finale. Birmania: il capo della "rivolta di zafferano" va in cella La Repubblica, 3 febbraio 2016 L’ex monaco buddista Shin Gambira, uno dei leader della "rivolta di zafferano" del 2007, arrestato e ora in carcere a Mandalay. A poche ore d’auto dalla nuova capitale birmana dove è stato inaugurato ieri il primo Parlamento " libero", giace da qualche giorno in cella uno dei leader dell’ultima grande ribellione popolare prima della vittoria elettorale di Aung San Suu Kyi contro il regime. L’ex monaco U Gambira, 37 anni, anima dei religiosi che nel 2007 avviarono la cosiddetta "rivolta di zafferano", non ha avuto il modo e forse lo spirito per celebrare l’evento. Il 20 gennaio è stato infatti arrestato a Mandalay nella stanza dove attendeva con la moglie australiana Marie Siochana le pratiche per ottenere un passaporto che gli avrebbe consentito di iniziare una nuova vita all’estero: tra meno di 48 ore una Corte lo processerà per "violazione delle leggi immigratorie". A rendere sospette le motivazioni delle accuse nei suoi confronti c’è il fatto che U Gambira è cittadino birmano con regolare carta d’identità nazionale, e che ha registrato il suo ingresso attraverso frontiere di terra e aeroporti. Finora però non sono servite a niente le pressioni dei gruppi per i diritti umani con in testa Amnesty International e le campagne di sua moglie Marie, che ha raccolto migliaia di sostenitori attraverso i social network e ogni giorno si reca al carcere dove non le è permesso di entrare perché straniera. Marie aveva conosciuto come tutti U Gambira dai resoconti delle marce di religiosi che intonavano mantra buddisti nelle strade di Rangoon, seguiti da folle di gente comune tornata in piazza dopo 20 anni contro i generali che avevano aumentato d’improvviso prezzi di benzina e generi di primo consumo con la conseguente riduzione delle offerte quotidiane di cibo ai templi di quartiere e villaggio. U Gambira trasformò la protesta dei monaci che ribaltavano le loro ciotole della questua davanti alle case dei militari, in un movimento di massa e fu condannato a 68 anni ridotti a 63 per le pressioni internazionali ottenute anche grazie all’infaticabile Marie, che non era ancora sua moglie. Ma nel 2012, provato nel fisico e nella mente dalle torture, fu liberato grazie all’amnistia di cui goderono migliaia di detenuti politici tra i quali molti degli attuali parlamentari della Lega per la democrazia. Rimesso in cella altre tre volte per non aver smesso di occuparsi di diritti umani, ha lasciato la tonaca e sposato Marie, deciso a prendersi una pausa in Thailandia in attesa di costruire una nuova vita e forse una famiglia. Per avere il passaporto era tornato a Mandalay, sperando nel clima nuovo di tolleranza seguito al voto democratico, anche se in una recente intervista ammoniva sul ruolo ancora dominante dei militari. "Hanno pensato che fosse ancora pericoloso", dice sconsolata Marie che conosce anche il fragile lato umano dell’eroe delle rivolte: "Il carcere duro ha distrutto il suo sistema nervoso e ha bisogno di medicine speciali che gli somministra uno psichiatra in Tailandia. Gli è rimasta solo la dose di una settimana".