Lettera aperta al Ministro Orlando dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Ristretti Orizzonti, 2 febbraio 2016 All’attenzione del Ministro della Giustizia, Andrea Orlando e, per conoscenza, alla c.a del Coordinatore del Comitato scientifico degli Stati generali Prof. Glauco Giostra ed ai componenti del Comitato, Adolfo Ceretti, Luigi Ciotti, Franco Della Casa, Mauro Palma, Luisa Prodi, Marco Ruotolo, Vladimiro Zagrebelsky, Francesca Zuccari. Gentile Ministro Orlando, la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, l’organismo maggiormente rappresentativo di Enti, Associazioni e Gruppi impegnati in esperienze di volontariato nell’ambito della giustizia, all’interno e all’esterno degli istituti penitenziari, di cui la sottoscritta, Ornella Favero, è Presidente, chiede di poter avere accesso al più presto ai documenti definitivi prodotti dai Tavoli di lavoro degli Stati Generali, che hanno concluso di recente la loro attività. La Conferenza ha apprezzato da subito la voglia di innovare e produrre una svolta culturale nell’esecuzione penale, che ha caratterizzato la sua scelta di indire gli Stati Generali, e ha però anche espresso fin dall’inizio il suo dissenso sulle modalità con cui il Volontariato era stato coinvolto all’interno dei 18 Tavoli. Ma nello stesso tempo, a lavori quasi conclusi, ritenevamo e riteniamo più importante dare il nostro apporto a questa seconda fase, di diffusione dei risultati dei Tavoli, di approfondimento e discussione all’interno della società, piuttosto che restare attaccati alla nostra insoddisfazione. Lei sa bene, per averlo sottolineato più volte, che molte delle attuali opportunità (ancora troppo limitate) di occupare il tempo della pena in modo sensato e di costruire dei percorsi di reinserimento guidati e sostenuti sul territorio si devono ai volontari impegnati nelle carceri e nell’area penale esterna, volontari che si riconoscono nella Conferenza Nazionale. È per questo che le chiediamo di essere REALMENTE coinvolti nel dibattito che si dovrebbe aprire nella società sui temi della Giustizia, del carcere e del reinserimento, e di esserlo a partire dalla possibilità di leggere finalmente le relazioni conclusive degli Stati Generali, di discuterne e di portare il confronto su questi temi nelle carceri stesse e nella società, come già facciamo da anni con tanti progetti come quello che coinvolge le scuole, "A scuola di libertà". Ci auguriamo che questo appello possa essere da Lei accolto, e che possa essere dato ascolto al più grande coordinamento che opera in questo campo a livello nazionale, superando la poca chiarezza che c’è stata nella fase iniziale dei lavori degli Stati Generali. Noi siamo disponibili a collaborare, speriamo che ci sia dato modo di farlo. Padova, 31 gennaio 2016 La Presidente, Ornella Favero Alleghiamo un piccolo promemoria sulla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, fondata nel 1998 e con sede a Roma, rappresenta Enti, Associazioni e Gruppi impegnati in esperienze di volontariato nell’ambito della giustizia, all’interno e all’esterno degli istituti penitenziari. Ad oggi è strutturata sul territorio con 18 Conferenze Regionali (che riuniscono circa 200 Associazioni), e con l’adesione di numerosi Organismi del Volontariato: A.I.C.S., Antigone, A.R.C.I., Caritas Italiana, CNCA - Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, Comunità Papa Giovanni XXIII, Forum Salute in Carcere, J.S.N. - Jesuit Social Network Italia Onlus, Libera, S.E.A.C. Complessivamente i volontari che afferiscono alla C.N.V.G. sono oltre 10mila. Nel mese di novembre 2014 la CNVG ha stipulato con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria un Protocollo operativo, protocollo che viene a integrare i Protocolli precedenti: con il Ministero della Giustizia siglato in data 08 giugno 1999; con la Direzione Generale Esecuzione Penale Esterna del D.A.P. siglato in data 28 luglio 2003. L’importante riconoscimento del Ministero e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Il DAP riconosce la CNVG quale soggetto referente per le scelte programmatiche che riguardano gli ambiti di interventi del volontariato nel settore dell’esecuzione penale e più ampiamente nel settore giustizia - ci stimola a lavorare intensamente per migliorare la vita delle persone detenute e a impegnarci affinché si sviluppi sia a livello politico che di società una cultura nuova dell’esecuzione della pena. Nel 2013 la Conferenza ha istituito la giornata nazionale A scuola di libertà, ogni anno nel periodo intorno al 15 novembre oltre 10.000 studenti hanno l’occasione di conoscere il carcere e il mondo della Giustizia, di riflettere sui meccanismi che portano a scivolare nell’illegalità e a comprendere che un’altra Giustizia è possibile, per citare il motto di una delle scorse edizioni. La Presidente, Ornella Favero Psicofarmaci dietro le sbarre: così si annullano gli esseri umani di Arianna Giunti L’Espresso, 2 febbraio 2016 Mancano gli psicologi, così nelle carceri italiane il 50 per cento dei detenuti ne abusa. Con conseguenze spesso tragiche: dall’alterazione mentale al suicidio. In carcere lo chiamano "il carrello della felicità". Passa fra le celle tutte le sere distribuendo compresse colorate, gocce, flaconi e pillole. Farmaci che calmano l’ansia e procurano benessere chimico. Nelle prigioni italiane esiste un problema sotterraneo: l’abuso di psicofarmaci. Dati ufficiali però non esistono, perché la mancanza di cartelle cliniche informatizzate non permette, nel nostro Paese, di avere un quadro completo di quello che avviene nelle infermerie dei 206 istituti penitenziari. Ma si tratta di un’emergenza concreta. Come fanno emergere i sopralluoghi appena portati a termine dai Radicali nelle carceri della penisola, soprattutto del Sud Italia. E come confermano, puntuali, le associazioni a tutela dei carcerati (Osservatorio Antigone, Ristretti Orizzonti e Detenuto Ignoto) dalle quali arrivano dati poco rassicuranti: secondo le loro stime quasi il 50% delle persone dietro le sbarre - su un totale di 52.164 detenuti in base agli ultimi dati disponibili del Ministero della Giustizia - sarebbe sotto terapia da psicofarmaco. Mentre il 75% ricorrerebbe a quella che viene definita "terapia serale": sedativi per dormire. L’abuso di psicofarmaci sarebbe l’effetto diretto di un’altra falla ormai cronicizza all’interno delle nostre prigioni: la carenza di psicologi. In poche parole, in assenza di specialisti che dovrebbero curare lo stato mentale dei detenuti con la psicoterapia, si fa uso di potenti medicinali. Con un risvolto non indifferente anche in termini di costi per il Sistema Sanitario Nazionale. E con conseguenze spesso tragiche: solo nelle ultime settimane si sono registrate due sospette overdose da farmaci. Spesso - va detto - si tratta di cure indispensabili per far fronte a disagi psichici altrimenti ingestibili. Altre volte, invece, è un abuso di terapia che annienta i prigionieri. Un "contenimento di Stato", come lo definiscono i sindacati di polizia penitenziaria e gli operatori volontari. Che avrebbe come scopo quello di evitare situazioni esplosive: solo con l’aiuto di massicce dosi di farmaci a effetto calmante i detenuti riescono a sopportare i trattamenti degradanti negli istituti di pena in stato di fatiscenza e i lunghi periodi di carcerazione preventiva in attesa del processo. A volte le pillole vengono assunte in maniera passiva, soprattutto dagli stranieri, che non sanno neanche cosa stanno ingoiando. Più spesso invece sono loro stessi a chiederle, per anestetizzare angoscia e dolore. Però gli effetti di questa sedazione di massa, come ha accertato l’Espresso attraverso le testimonianze di medici, volontari, guardie carcerarie, detenuti ed ex detenuti, possono essere disastrosi. Gli strascichi si manifestano per anni, a volte per sempre, anche dopo essere usciti dal carcere. Rendendo il ritorno in società ancora più difficile. E poi creano più dipendenza dell’eroina. Così una volta tornati liberi spesso l’astinenza viene colmata con l’uso di droghe pesanti. Fra gli ex detenuti c’è chi racconta di aver avuto perdite di memoria - al punto di non ricordarsi più il nome del proprio figlio - e chi una volta tornato in libertà ha accusato crisi di panico e impotenza. Annullandosi come essere umano. Felicità chimica - Nelle infermerie dei penitenziari è facile trovare sedativi perfettamente legali distribuiti su ricetta anche in farmacia. Ai prigionieri vengono somministrati soprattutto nei primi giorni di carcere per far fronte a quegli stati d’animo che, nel linguaggio medico della sanità penitenziaria, vengono definiti "disturbi nevrotici e reazioni di adattamento". ?La disperazione è ancora più forte nei "nuovi giunti", detenuti in attesa di giudizio che sanno o che credono di essere innocenti. E che non riescono a sopportare l’idea di subire un’ingiustizia. "I nervi spesso cedono dopo la prima notte in cella", spiegano dall’associazione Ristretti Orizzonti, una delle più attive nel denunciare l’abisso delle carceri. Poi ci sono gli antidepressivi, come il Prozac: provocano un rapido effetto di torpore e benessere. Un’altra categoria sono gli antipsicotici e gli stabilizzatori dell’umore, come il litio. Quelli più diffusi, però, sono le benzodiazepine: farmaci utilizzati per combattere l’insonnia, l’ansia e le convulsioni. Ma che creano assuefazione dopo pochissimo tempo. Conferma a l’Espresso Matteo Papoff, psichiatra per lungo tempo in servizio al carcere Buoncammino di Cagliari e oggi al penitenziario di Uta: "La dipendenza comincia a manifestarsi già dopo 12 settimane di assunzione. Non solo nei tossicodipendenti, ma anche nelle persone perfettamente sane. Ecco perché l’uso prolungato va assolutamente evitato". "Da un punto di vista fisico queste terapie sconvolgono i detenuti - spiega Francesco Ceraudo, per 40 anni direttore del centro clinico del carcere Don Bosco di Pisa - Quando li vedi sono inconfondibili: non riescono a mantenere la posizione eretta, trascinano i piedi, gli occhi sono persi nel vuoto, il viso diventa simile a un teschio. Risulta perso ogni sussulto di vita". "Le carceri sono diventate fabbriche di zombie. Ed è una situazione drammatica che si vuole tacere, perché fa comodo a tutti", è l’amara conclusione di Ceraudo. Le sedute con lo psicologo? Un miraggio - Ma come avviene, esattamente, la somministrazione dei farmaci? Formalmente solo sotto consenso di un medico, attraverso un’autorizzazione firmata. Però uno psichiatra fisso nelle carceri non sempre è disponibile. Soprattutto di notte. La copertura medica dello specialista dovrebbe essere garantita per 38 ore a settimana in ogni struttura. Ma dopo una prima visita obbligatoria spesso gli incontri si riducono a colloqui lampo di una manciata di minuti per ogni carcerato. "Troppo poco perché possa essere diagnosticato un problema e prescritta una terapia adatta - sostiene Alessandra Naldi, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Milano - mentre allo stesso tempo in infermeria vengono distribuiti sedativi con grande disinvoltura. Basti sapere che a San Vittore, mentre il 30% dei detenuti assume regolarmente psicofarmaci, il 90% di loro è sottoposto a quello che viene chiamato terapia serale". Ansiolitici per dormire. E così si arriva al paradosso che nelle carceri è più facile trovare un sedativo che un’aspirina. Come racconta a l’Espresso Giancarlo F., ex detenuto, che negli ultimi cinque anni ha girato altrettanti penitenziari del Nord Italia: "Soffro di "cefalea a grappolo", attacchi di mal di testa che provocano dolori lancinanti. Per curarla ho bisogno di un farmaco specifico. In carcere dovevo compilare dozzine di moduli per poterlo ordinare: una burocrazia lentissima e complicata. Quasi mai riuscivo ad averlo. Mentre gli psicofarmaci erano sempre lì, pronti e disponibili". A focalizzare uno dei nodi cruciali è Fabio Gui, del Direttivo Forum Nazionale per il diritto alla salute dei detenuti della Regione Lazio: "Nella maggior parte degli istituti manca un monitoraggio centrale e cartelle cliniche informatizzate, quindi è impossibile calcolare quanti siano gli assuntori di farmaci e, più in generale, i malati. Soprattutto, manca una cabina di regia a livello nazionale che permetta di avere un quadro completo della situazione". La sanità nelle carceri, infatti, dal 2008 non è più competenza dell’amministrazione penitenziaria ma a carico del Servizio Sanitario Nazionale e quindi gestita a livello regionale. Fra i pochissimi censimenti a disposizione - contenuti in uno studio multicentrico sulla salute dei detenuti in Italia dell’Agenzia Regionale della Sanità della Toscana - ci sono quelli del Lazio (3.576 detenuti su un totale di 4.992 assuntori di ansiolitici, antipsicotici, ipnotici-sedativi e antidepressivi), Veneto (1.284 su 1.460), Liguria (1.366 su 1.776), Umbria (659 su 800) e la città di Salerno (52 su 90). Mentre fino a oggi le regioni virtuose che hanno introdotto la cartella clinica digitale sono solo l’Emilia Romagna (in ciascun carcere già dall’estate 2014) e la Lombardia (San Vittore, Opera, Varese, Bergamo, Sondrio, Vigevano, Busto Arsizio). Niente invece in Calabria, Basilicata, Lazio, Liguria e Marche. E pochissimi istituti a norma in Sicilia (solo Messina) e in Campania (Carinola). "I fascicoli cartacei usati attualmente dalla medicina penitenziaria sembrano risalire a un’altra era: faldoni enormi pieni di foglietti stratificati scritti con grafie spesso incomprensibili - si legge nell’ultima relazione dell’Osservatorio Antigone - che non garantiscono continuità terapeutica e che rischiano di essere fatali in situazioni critiche dove è essenziale ricostruire la storia clinica del paziente". Significativi, poi, i report prodotti in queste settimane dai Radicali, che sottolineano una carenza cronica soprattutto di specialisti psicologi. "A livello nazionale - fanno sapere dalla Società Italiana Psicologia Penitenziaria - il monte ore per gli psicologi esterni autorizzati a prestare servizio in carcere è di 105.751 ore. Tenuto conto che i detenuti oggi sfiorano quota 51mila, il tempo annuo per ogni detenuto è di 127 minuti". A conti fatti, 2 minuti e mezzo a settimana per ogni paziente. Tempo che ovviamente si riduce se gli ingressi di prigionieri aumentano. E così si ricorre direttamente alla terapia d’urto: medicinali. Spaccio in cella - I numeri di chi assume abitualmente psicofarmaci, comunque, sono calcolati per difetto. Perché quando i sedativi non vengono somministrati legalmente molti detenuti riescono a procurarseli di contrabbando e li assumono in dosi raddoppiate per ottenere un effetto più potente, simile a quello dell’eroina. "In carcere esiste persino un borsino del baratto - conferma Leo Beneduci del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Osapp - e può accadere che nei cortili durante l’ora d’aria mezza capsula di Subtex sia ceduta per due pacchetti di sigarette, mentre il Rivotril o il Tranquirit per cinque. O che si spacci il metadone". Per evitare il traffico di farmaci gli infermieri preferiscono somministrare le sostanze in gocce o aspettano che il detenuto deglutisca la pastiglia. Ma a volte queste precauzioni non bastano: alcuni fingono di ingoiare le pillole, poi le sputano e le rivendono. Anche gli operatori fanno quello che possono per arginare il problema. Racconta un volontario di San Vittore: "Le benzodiazepine vengono consumate a ettolitri. Il sesto raggio, in particolare, è un girone infernale". "L’orario della terapia è un incubo - si sfoga un paramedico in servizio a Poggioreale - ogni sera è una lotta per cercare di dare meno psicofarmaci possibili e spesso finiamo per essere presi a calci perché ci rifiutiamo di somministrare quello che ci chiedono per stordirsi". Da Sud a Nord la situazione è sempre la stessa. Nel carcere di Bolzano lo scorso 6 gennaio è scattato l’allarme per furti di psicofarmaci trafugati dall’infermeria, che verrebbero poi ceduti a pagamento ad altri detenuti. Poche settimane prima la Procura aveva aperto un’indagine su un detenuto colto in flagrante mentre rubava compresse di Rivotril, che serve a curare gli attacchi di panico ma viene utilizzato dai tossicodipendenti come surrogato dell’eroina. Alcuni mesi fa, sempre a Bolzano, un detenuto aveva rischiato la vita dopo un’overdose di benzodiazepine. Suicidi e blackout - Oltre ai malesseri fisici e allo stato di narcolessia, assumere i farmaci in maniera incontrollata ha un’altra conseguenza pericolosissima: l’alterazione mentale. I detenuti passano da uno stato di euforia alla più buia depressione, con tendenze auto lesioniste. Negli ultimi cinque anni nelle carceri italiane si sono contati 747 decessi, molti dei questi per cause non chiare. I suicidi, solo dal 2011 a oggi, sono arrivati a 261. Mentre solo nel 2014 sono stati 6.919 gli atti di autolesionismo. L’ultimo suicidio risale al 23 dicembre scorso: un ex impiegato di 64 anni si è tolto la vita al Pagliarelli di Palermo, dove non esiste un reparto psichiatrico. Mentre il 5 gennaio al Marassi di Genova un detenuto di 45 anni, Giovanni C., è stato trovato agonizzante nel suo letto ed è morto poco dopo l’intervento dei sanitari. La Procura di Genova ha aperto un’inchiesta: sospetta che sia stato vittima di un’overdose da sostanze stupefacenti o psicofarmaci, ceduti da altri detenuti. A raccontare l’abuso di sedativi sono anche gli stessi carcerati. Gli effetti collaterali - spiegano - si manifestano lentamente. Fra questi ci sono le amnesie. "Un bel giorno cominci a dimenticarti cosa hai mangiato la sera prima", racconta Gabriele F., "poi è come se il cervello avesse dei blackout sempre più frequenti. E finisce che non ti ricordi neanche più il nome di tuo figlio". Le conseguenze degli abusi di psicofarmaci e sedativi, poi, si pagano per molto tempo. Come conferma chi ormai ha finito di scontare la propria pena e che fuori dalla galera si è trovato ad affrontare nuovi incubi: malesseri, depressione, fobie. Paura degli spazi aperti o, semplicemente, di attraversare la strada. "Prima sono iniziati i tremori alle mani, tanto che non riuscivo neppure a guidare", racconta a l’Espresso Salvatore B., 45 anni, ex detenuto, "poi ho cominciato ad avere le allucinazioni, la tachicardia. Mentre a volte di punto in bianco mi addormentavo. Ovunque. Riprendere la vita quotidiana, affrontare colloqui di lavoro o anche solo ritornare ad avere un’intimità con mia moglie è stato impossibile". Soluzioni: psicoterapia e lavoro - Non tutti i penitenziari, però, vivono questa realtà nera. Alcune regioni come Umbria e Sardegna si sono sforzate di migliorare la situazione carceraria attraverso dipartimenti di salute mentale con medici attivi 24 ore al giorno e gruppi sperimentali di psicoterapia. Mentre nelle carceri di Bollate e Rebibbia già da anni si pratica la "Mindfulness", una pratica di meditazione molto diffusa anche all’estero. E i risultati sono stati ottimi. "Costa molto meno dei farmaci e non ha effetti collaterali", conferma Gherardo Amadei, psichiatra e docente all’Università Bicocca di Milano. Un’altra soluzione pratica arriva dalle cooperative: il lavoro in carcere. Se, infatti, l’uso di psicofarmaci è altissimo nelle case circondariali, che ospitano chi è in attesa di giudizio o chi ha una condanna breve da scontare, si abbassa notevolmente nelle case di reclusione dove sono accolti i carcerati condannati in via definitiva. E che - come prevede l’ordinamento giudiziario - lavorano. "Tenere occupate le mani e la testa, sentirsi utili, è fondamentale per non impazzire - spiegano ancora da Ristretti Orizzonti - il lavoro dovrebbe essere concesso da subito". A confermarne l’effetto benefico sono le storie dei detenuti. Come quella di Giacomo, milanese, 35 anni, una vita trascorsa a entrare e a uscire dalla cella dall’età di 14 anni. Ex tossicodipendente, era arrivato ad assumere benzodiazepine tre volte al giorno e pesava 40 chili. Oggi è uno dei giardinieri della cooperativa sociale carceraria di Bollate. È tornato ad avere un peso normale, sta studiando per il diploma di ragioneria e gioca a calcio. I sedativi sono soltanto un ricordo. Giustizia, l’ottimismo di maniera e i dubbi dell’Avvocatura di Giuseppe Sileci Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2016 Come di consueto, dopo la relazione del Ministro sullo stato della Giustizia e l’inaugurazione in Cassazione dell’anno giudiziario alla presenza del Capo dello Stato, i presidenti dei singoli distretti di Corte d’Appello hanno svolto le loro relazioni, tracciando un quadro - come al solito negativo - delle condizioni in cui versa l’amministrazione giudiziaria in Italia. Volendo cercare un qualche elemento di novità rispetto alle celebrazioni degli anni passati, questo si può individuare in un dato enfatizzato sia dal ministro che dal Primo Presidente della Cassazione: nel rapporto "Doing Business", curato dalla Banca mondiale, l’Italia guadagna ben 13 posizioni sul fronte del contenzioso commerciale. Questa promozione ha offerto una solida sponda tanto al Capo del dicastero quanto al Primo Presidente per sottolineare che si vedono incoraggianti segnali di recupero di efficienza e che le molte riforme messe in campo da questo Governo stanno andando nella giusta direzione. Insomma, l’emergenza sarebbe terminata ed anche la Giustizia, come l’economia del Paese, starebbe lentamente uscendo dalla crisi e starebbe risalendo la china. Però non si può fare a meno di notare che, a dispetto di continui proclami sulla ripresa economica, cittadini ed imprese non vedono la fine del tunnel e la loro fiducia è continuamente minata dalle diuturne difficoltà. Parimenti, nonostante la scalata di 13 posizioni nella classifica annuale del rapporto "Doing Business", la Giustizia italiana arranca. Lo stato in cui versa la Cassazione è stato descritto in maniera impietosa dal Presidente Canzio, contrapponendolo alle migliori performances degli altri uffici giudiziari, favorite dalle recenti riforme varate dal Parlamento ma non confermate dai Presidenti Distrettuali; nonostante le aride statistiche, la disperata situazione delle Corti d’Appello e dei Tribunali invece è sotto gli occhi - potremmo dire oramai rassegnati - degli Avvocati. Di fronte a questo scenario, aggravato dal terrore che il legislatore, tutte le volte che mette mano ad una riforma, possa peggiorare le cose, non si sentiva quindi il bisogno che l’Avvocatura si accapigliasse sul "Dubbio". Eppure, nonostante i gravi problemi che affliggono la categoria e che, in buona parte, sono una conseguenza dell’inefficienza del sistema giudiziario ed anche di irresponsabili politiche dell’occupazione, fiumi di parole si stanno spendendo sulla annunciata iniziativa del Consiglio Nazionale Forense di diventare l’editore di un quotidiano (Il Dubbio, appunto) che, secondo le intenzioni, dovrebbe "riportare i diritti al centro della discussione civile". Gli scopi dell’iniziativa e le obiezioni dei critici ripropongono la questione di sempre, che neppure la nuova legge professionale ha risolto: quale sia il soggetto legittimato alla rappresentanza politica. Ma forse, vedendo la "pagliuzza" e non la "trave", è più comodo usare l’alibi della rappresentanza politica per giustificare la incapacità di incidere efficacemente su tutti i processi decisionali che riguardano la Giustizia. La Procura della nazione di Claudio Cerasa Il Foglio, 2 febbraio 2016 Una classe dirigente alternativa avanza nella magistratura denunciando le ipocrisie dell’antimafia e gli orrori del processo mediatico. Così Renzi scopre che le nomine di Legnini (Csm) pesano più delle parole di Orlando. Ad ascoltare e a riascoltare il debole discorso pronunciato qualche giorno fa a Palermo durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, l’impressione è che il governo abbia scelto di seguire la strada della lenta ricucitura dei rapporti con la magistratura, evitando con cura di mettere a fuoco, almeno per il momento, i molti problemi, non risolti neppure dal governo Renzi, che riguardano l’irriformabile mondo della giustizia italiano. Secondo Andrea Orlando, in Italia "non vi è più una questione giustizia che ricapitoli in maniera quasi paradigmatica il senso della crisi che il paese attraversa" e a voler leggere tra le righe del ragionamento del Guardasigilli il più sembra essere fatto, il processo telematico va che è una meraviglia, e l’Italia, siore e siori, riparte come un treno. Se fosse stato per il discorso di Orlando, l’Anno giudiziario sarebbe passato in cavalleria senza lasciare il segno, e senza colpo ferire, ma andando a curiosare tra gli stenografici dei vari discorsi pronunciati durante l’apertura dell’Anno giudiziario ce ne sono due importanti che il ministro della Giustizia farebbe bene a tenere da conto per ricordarsi che è quanto meno azzardato, in un paese dove tra l’altro una corrente della magistratura (Md) partecipa a un comitato referendario, sostenere che "non vi è più una questione giustizia che ricapitoli in maniera quasi paradigmatica il senso della crisi che il paese attraversa". Il primo discorso da incorniciare è quello del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, magnificamente efficace sulla trasformazione e degenerazione dell’antimafia. "C’è stata forse una certa rincorsa all’attribuzione del carattere di antimafia, all’auto-attribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di anti-mafiosità... Rincorsa che è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità, o magari a riscuotere consensi, a guadagnare posizioni, anche a fare affari e a bollare come inaccettabili eventuali dissensi o opinioni diverse... a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per alcune indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato". Il secondo discorso, se possibile ancora più efficace, e per questo dolcemente nascosto dai grandi giornali, è quello della nuova presidente della Corte d’appello di Firenze, Margherita Cassano, già consigliere della Corte di cassazione, che di fronte ai suoi colleghi ha fatto quello che difficilmente sentirete dire a un Orlando o a un suo collega di governo, mettendo sotto processo, con parole definitive, il metodo della gogna giudiziaria e il meccanismo del processo mediatico. La celebrazione del dibattimento a distanza di molto tempo dal fatto-reato produce un’alterazione della fisionomia complessiva del processo, attribuisce un’impropria centralità alla fase delle indagini preliminari... Parallelamente può favorire improprie forme di supplenza da parte degli organi di informazione mediante la celebrazione di pseudo processi mediatici che determinano un’impropria sovrapposizione tra la realtà e la dimensione virtuale, producono un’innegabile assuefazione emotiva con conseguente annullamento di ogni forma di pietas (...) e calpestano la presunzione costituzionale di non colpevolezza creando dei veri e propri mostri mediatici, vanificano il principio di pari dignità di ogni persona, solennemente affermato dall’articolo due della Costituzione". Si potrebbe dire che nulla di tutto questo, in nome di una complicata pax giudiziaria, verrà denunciato dal governo, convinto che non vi sia più "una questione giustizia". Ma il dato più interessante è forse un altro. Lo Voi e Cassano, come si sa, sono stati scelti dal nuovo Csm alla guida della procura di Palermo e della Corte di appello di Firenze. E la domanda allora non può che essere naturale: e se la vera riforma della Giustizia fosse non quella annunciata ogni settimana dal ministero della Giustizia ma quella fatta dal Csm attraverso il lento e progressivo processo di nomine nelle procure? Il partito della nazione, sul tema giustizia, al governo spesso balbetta. Ma quando si parla di nomine l’impressione è che attraverso il Csm Renzi stia provando a costruire un altro Pdn, forse persino più efficace del partito: semplicemente la procura della nazione. L’allarme della Dia: "appalti e riciclaggio, l’economia italiana condizionata dalle mafie" di Dario Del Porto e Conchita Sannino La Repubblica, 2 febbraio 2016 Record di infiltrazioni negli enti locali Le regioni del centro-nord come terra di conquista. Il sangue non macchia i soldi. Dimenticate morti ammazzati e regolamenti di conti, le mafie 2.0 seminano più tossine nell’economia che cadaveri nelle strade. Si alleano con "le devianze" dell’apparato dello Stato. Inquinano il tessuto imprenditoriale e i ceti professionali di intere aree del territorio, in Italia e sempre più all’estero, dove la ‘ndrangheta calabrese assurge al ruolo di "holding mondiale del crimine". È capillare e severa, l’ultima relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia. In 275 pagine, si disegna lo scenario di organizzazioni criminali che assumono "la morfologia caratteristica dei gruppi societari internazionali". Come se fossero multinazionali della Silicon Valley. Attraverso una "capogruppo", che conserva quasi sempre il suo "centro decisionale" nelle regioni d’origine Sicilia, Calabria, Campania e Puglia, le organizzazioni mafiose "controllano e dirigono, secondo un disegno unitario, molteplici business criminali sempre più interdipendenti". Le mafie, racconta l’analisi coordinata dal direttore della Dia, il generale Nunzio Ferla, sono sempre più in grado "di intessere profonde relazioni con la zona grigia". Il cancro nell’economia - La criminalità organizzata ha messo in piedi "un ciclo economico- criminale in grado di alterare il corretto processo di sviluppo dell’economia nazionale ed estera". Ecco perché sarebbe "miope limitare la percezione" di questo assedio "alle sole evidenze giudiziarie": il fenomeno è ben più "complesso" e "affonda le radici spesso anche nei gangli più nascosti della pubblica amministrazione e dell’imprenditoria, con un intreccio profondo tra mafia e corruzione che impone, a tutti i livelli istituzionali e della società civile, un impegno sempre maggiore". Ogni mafia ha ormai esteso le proprie ramificazioni in altre regioni d’Italia. Lombardia, Emilia Romagna, Lazio, sono diventate terra di conquista, mentre si affacciano altre figure criminali, diverse e autonome da quelle storiche. La Dia cita l’inchiesta della Procura di Roma su Mafia capitale: una realtà che presenta "caratteri originali, con genesi propriamente romana, non assimilabili a quelli delle consorterie tradizionali". La pista del denaro - La Dia e il Nucleo di polizia valutaria della Finanza lavorano in stretto contatto con l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia che segnala le operazioni sospette. Dallo scorso maggio, sottolinea il generale Ferla a Repubblica, "con il nuovo protocollo d’intesa siglato con la Procura nazionale guidata da Franco Roberti e grazie a un nuovo sistema informatico, gli analisti della Dia possono verificare fino in fondo le segnalazioni". Nei primi sei mesi del 2015, la Banca d’Italia ha inviato oltre 40 mila "comunicazioni". Dai controlli sono scaturite 132 mila operazioni sospette: bonifici, versamenti e prelievi in contanti, prelievi allo sportello, bonifici esteri. Il maggior numero, 28 mila, in Lombardia. Seguono Lazio (15 mila) e Campania (14 mila). E poi ci sono gli appalti: nel primo semestre del 2015 la Dia ha effettuato 89 accessi a cantieri in tutta Italia, 22 dei quali a opere collegate all’Expo di Milano. All’esito del monitoraggio sono state emanate 78 informative interdittive, 8 delle quali per appalti dell’Expo. Ma dal giugno 2009, quando sono iniziati i lavori per l’esposizione, i controlli hanno portato complessivamente a 108 interdittive. La maggior parte di questi provvedimenti ha riguardato imprese infiltrate dalla ‘ndrangheta e per il 60 per cento aziende specializzate nel movimento terra. L’impero delle ‘ndrine - Il traffico internazionale di cocaina è il core business della ‘ndrangheta. Ma già da un pezzo le ‘ndrine hanno messo gli occhi e le mani sui grandi appalti. Non solo in Calabria. Il 9 gennaio 2015 il Tar del Lazio ha confermato lo scioglimento del Comune di Sedriano, in provincia di Milano: il primo caso in Lombardia. I clan calabresi sono "in grado di intessere profonde relazioni con la cosiddetta zona grigia, ossia con quell’area istituzionale fortemente articolata dove operano, a vario titolo e responsabilità, accanto a soggetti economici, siano essi vessati o collusi, anche devianze dell’apparato amministrativo e o burocratico, statale e locale". La morsa di cosa nostra - La mafia siciliana, ancora oggi, si fa forte di un "processo di infiltrazione negli apparati dello Stato". Oltre alle attività illecite tradizionali, le cosche ricercano "l’acquisizione dei consensi sia nel mondo dell’imprenditoria che delle pubbliche amministrazioni". La Dia sottolinea la "connaturata capacità" di Cosa nostra di creare "situazioni di opacità, promuovendo un’opera di delegittimazione di quanti tentino di ostacolarla e attirando, allo stesso tempo, esponenti del sistema politico, economico e amministrativo". Una strategia alla quale si aggiunge la corruzione, "anche di matrice non mafiosa". Anche Cosa Nostra, come già la camorra, ha messo le mani sull’affare dei rifiuti. Tra i settori da monitorare, la Dia indica anche "i progetti legati allo sviluppo di fonti energetiche alternative, l’emergenza ambientale e le attività ad alto contenuto tecnologico". I broker della camorra - Pur frammentata in 110 clan, la camorra dispone di una "capacità di condizionamento culturale delle fasce più deboli della popolazione", riuscendo spesso a "porsi come punto di riferimento unitario e alternativo allo Stato". I clan hanno manifestato una "spiccata vocazione ad infiltrarsi, anche fuori regione e all’estero, negli apparati economici e finanziari", così da "atteggiarsi a soggetto economico in grado di operare sul mercato legale per acquisire una posizione dominante, se non monopolistica, di attività economiche". In alcuni settori, come i traffici di rifiuti, stupefacenti, armi, nella contraffazione di documenti e banconote, i clan della camorra hanno dimostrato di saper utilizzare "tecnologie all’avanguardia". Malavitosi, ma al passo con i tempi. La mafia 2.0 uccide e inquina, non solo d’estate. Applicazione retroattiva delle misure di prevenzione patrimoniale. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2016 Misure di prevenzione - Patrimoniali - Applicazione retroattiva - Violazione dell’articolo 7 CEDU - Esclusione - Ragioni. È "convenzionalmente" legittima l’applicazione retroattiva delle misure di prevenzione patrimoniale, con riferimento a fatti anteriori all’entrata in vigore delle norme che le disciplinano, poiché le stesse, in quanto connotate da natura preventiva e non sanzionatoria, non sono riconducibili alla nozione di "pena" di cui all’articolo 7 CEDU. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 16 luglio 2015 n. 30938. Misura di prevenzione - Patrimoniale - Modifiche introdotte dalla l. n. 94/2009 - Applicabilità retroattiva anche alle fattispecie realizzatesi prima dell’entrata in vigore della l. n. 94/2009. La previsione contenuta nella legge n. 94/2009, che modificando l’articolo 2 bis della legge n. 575/1965, consente al giudice di applicare le misure di prevenzione patrimoniali anche prescindendo dalla verifica della pericolosità attuale del proposto, si applica anche alle fattispecie realizzatesi prima dell’entrata in vigore della predetta legge, stante la finalità prettamente preventiva che accomuna le misure di sicurezza a quelle di prevenzione, con conseguente applicabilità anche per queste ultime dell’art. 200 cod. pen. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 7 maggio 2014 n. 18848. Misura di prevenzione - Patrimoniale - Modifiche introdotte dalla l. n. 94/2009 - Applicabilità anche alle fattispecie realizzatesi prima dell’entrata in vigore della l. n. 94/2009. La previsione contenuta nella l. n. 94/2009, che modificando l’articolo 2 bis della l. n. 575/1965, consente al giudice di irrogare le misure di prevenzione patrimoniali anche prescindendo dalla verifica della pericolosità attuale del proposto, si applica anche alle fattispecie realizzatesi prima dell’entrata in vigore della legge citata. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 23 settembre 2013 n. 39204. Misure di prevenzione - Principio di irretroattività - Operatività - Esclusione. Le misure di prevenzione possono essere applicate anche quando siano previste da una legge successiva al sorgere della pericolosità sociale, in quanto le stesse non presuppongono uno specifico fatto di reato, ma riguardano uno stato di pericolosità attuale cui la legge intende porre rimedio. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 22 marzo 2010 n. 11006 Immigrazione. La violazione del diritto all’unità familiare. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2016 Stranieri - Immigrazione - Minore soggiornante in Italia - Diniego dell’autorizzazione temporanea all’ingresso od alla permanenza in Italia di uno dei genitori ex articolo 31 d.lgs. n. 286/1998 - Violazione del diritto all’unità familiare - Esclusione. Il diritto all’unità familiare di cui agli articoli 28 del d.lgs. n. 286/1998, 8 della CEDU e 3, 7, 9 e 10 della Convenzione di New York, ratificata dall’Italia, nel nostro ordinamento non ha carattere assoluto atteso che il legislatore, nel contemperamento dell’interesse dello straniero al mantenimento del nucleo familiare con gli altri valori costituzionali sottesi dalle norme in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri, può prevedere delle limitazioni, sicché è legittimo il mancato accoglimento dell’istanza di autorizzazione alla permanenza sul territorio italiano di un genitore straniero per la ritenuta insussistenza dei gravi motivi di cui all’articolo 31, comma 3, del citato d.lgs. n. 286/1998, costituendo il relativo giudizio di bilanciamento valutazione di merito, non censurabile in cassazione ove legittimamente operato. • Corte di cassazione, sezione VI - 1, ordinanza 10 settembre 2015 n. 17942. Stranieri - Immigrazione -T.U. immigrazione - Stranieri colpiti da provvedimento di espulsione - Spettanza - Lesione del diritto al mantenimento dell’unità familiare - Esclusione. Ai sensi dell’articolo 28, primo comma, T.U. immigrazione il diritto al mantenimento dell’unità della propria famiglia è in via generale riconosciuto, alle condizioni sostanziali e nel rispetto delle regole procedurali previste nei successivi articoli 29 e 30, solo ai cittadini stranieri regolarmente presenti nel territorio dello Stato italiano e non a chi invece risulti destinatario di un provvedimento di espulsione. L’esistenza di un nucleo familiare non è di per sè condizione sufficiente a legittimare la permanenza nello Stato Italiano di cittadini stranieri in posizione irregolare rispetto alle norme interne che disciplinano l’ingresso nel territorio dello Stato medesimo • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 25 novembre 2005 n. 25026. Stranieri - Immigrazione - Espulsione amministrativa dello straniero - Diritto al mantenimento dell’unità del nucleo familiare - Condizioni. Ai fini dell’accertamento dell’illegittimità dell’espulsione dello straniero ex articolo 13 del D.Lgs. 25 n. 286/98, il diritto al mantenimento dell’unità della propria famiglia riconosciuto dall’art. 28, comma primo viene in considerazione solamente per gli stranieri regolarmente presenti nel territorio dello Stato italiano, e cioè "titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno". Per ritenere legittima la permanenza in Italia dei cittadini stranieri irregolari non è, di per sè, sufficiente l’esistenza di un nucleo familiare; quanto precede non contrasta con alcun principio, desumibile dall’articolo 2 Costituzione atteso che il legislatore ordinario può legittimamente limitare tale diritto, per bilanciare l’interesse dello straniero al mantenimento del nucleo familiare, con gli altri valori costituzionali sottesi dalle norme in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 24 novembre 2004 n. 22206. Stranieri - Immigrazione - Espulsione amministrativa dello straniero - Diritto al mantenimento dell’unità familiare - Portata dell’articolo 28 e ss. T.U. immigrazione - Condizioni - Stranieri colpiti da provvedimento di espulsione - Spettanza - Esclusione. Ai sensi dell’articolo 28, primo comma, T.U. immigrazione il diritto al mantenimento dell’unità della propria famiglia è in via generale riconosciuto soltanto ai cittadini stranieri regolarmente presenti nel territorio dello Stato italiano; in tale categoria non rientrano i soggetti colpiti da provvedimento di espulsione, onde l’esistenza di un nucleo familiare non è di per sè sufficiente a far ritenere legittima la permanenza in Italia di cittadini stranieri al di fuori delle regole che disciplinano il loro ingresso nel territorio dello Stato. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 20 agosto 2003 n. 12223 Market abuse: banca incorporante salva se dimostrata la buona fede di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 4064/16. L’estensione del sequestro preventivo alla società incorporante in un’ipotesi di market abuse è tecnicamente possibile, ma non può essere eseguito sulla base del semplice automatismo civilistico (articolo 2504 bis del codice civile). Al giudice penale spetta infatti sempre la prova della (mancata) buona fede dell’incorporante e del vantaggio derivato allo stesso dall’operazione illecita commessa dall’incorporato. La Cassazione - Quinta penale, sentenza 4064/16 depositata ieri - torna sull’inchiesta della magistratura di Bologna per un’ipotesi di abuso di informazioni privilegiate, omessa comunicazione di conflitto di interessi e di manipolazione del mercato, inchiesta che coinvolge il Banco Emiliano Romagnolo, nel frattempo incorporato da Intesa San Paolo. Proprio quest’ultimo istituto ha nuovamente portato davanti ai giudici di legittimità la vicenda, già oggetto di una prima decisione sul ricorso presentato, due anni fa, dal disciolto Ber. Materia del contendere, il milione e 779 mila euro bloccati prima dal Gip e poi dal Riesame quale garanzia per i sospetti di market abuse, sequestro preventivo finalizzato a confisca che a giudizio del ricorrente è stato eseguito in violazione di legge. Il Riesame emiliano, di fatto, si sarebbe limitato ad applicare la regola civilistica della trasmissione di diritti ed obblighi della società incorporata (articolo 2504 bis c.c.) per reiterare la misura cautelare, dribblando così lo scrutinio della posizione del "terzo estraneo" - vale a dire della banca incorporante- che vanta diritti sui beni finiti confiscati. La Quinta penale con la sentenza di ieri non esclude l’estensione del vincolo cautelare al patrimonio del terzo, ma ancora una volta spiega il percorso che il giudice di merito deve seguire (tracciato all’origine dalle Sezioni Unite n. 9/1999). A cominciare dalla "connotazione soggettiva della buona fede del terzo" intesa come "non conoscibilità, con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, del rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso dal condannato". Una "buona fede penale" che come ovvio si distingue da quella civilistica - poiché ricomprende anche i profili colposi - ma il cui onere della prova ricade inevitabilmente e integralmente sull’accusa pubblica (e non invece, a rovescio, sull’indagato/ablato). Pertanto sia la regola civilistica sia l’analoga disposizione della 231/2001 (articolo 29) devono essere lette attraverso i principi di tutela del terzo in buona fede. Per procedere poi all’applicazione del vincolo cautelare, il giudice dovrà valutare anche il vantaggio dell’incorporante, che non necessariamente deve essere un "attivo" liquido. Nel caso di specie, per esempio, la diminuzione del debito dell’incorporata potrebbe integrare gli estremi dell’"utilità" per l’acquirente. La nuova, ulteriore pronuncia di merito sul caso Ber, dovrà tenere conto di questi due capisaldi. Lettera aperta di un ergastolano a Giovanni Maria Flick carmelomusumeci.com, 2 febbraio 2016 -Lei non è abbastanza arrendevole, a quanto mi hanno detto. -Chi glielo ha detto? - Chiese K.(…) -Non mi chieda nomi, per favore, e corregga piuttosto il suo errore, non sia più così rigido, contro questo tribunale difendersi non si può, bisogna confessare. Faccia la sua confessione, appena può. Solo dopo se la potrà cavare, solo dopo. (Franz Kafka, Il Processo). Gentile Presidente Emerito della Corte Costituzionale, ho letto in questi giorni che ha cambiato parere sull’ergastolo ostativo nonostante, nel lontano 2003 (con la sentenza 135 e come relatore), avesse legittimato (ovviamente collegialmente) l’esistenza in Italia della "Pena di Morte Viva" o, come la chiama Papa Francesco, "Pena di Morte Mascherata". Insieme alla Sua dichiarazione ho letto pure, in questo periodo, quella del Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Giovanni Legnini, che afferma: "Non ho nessuna difficoltà ad aggiungermi a coloro che sono contrari, perché ne sono convinto da tempo: anch’io sono contrario all’ergastolo ostativo. Lo dico perché penso che tutti, parlo da cittadino e non impegno la mia funzione, abbiano diritto ad avere una speranza" (Fonte: Carmine Parantuono, rete8.it, 11 gennaio 2016). È bello sapere che, a volte, non solo i cattivi ma anche i buoni possono cambiare il loro modo di pensare. E prendo atto che ultimamente molti ex giudici della Corte Costituzionale su questo spinoso e impopolare argomento hanno rivisto le loro posizioni. Per ultimo il Suo collega Presidente Emerito della Corte Costituzionale Gaetano Silvestri che, nella sua prefazione al libro "Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo" (di Carmelo Musumeci, Andrea Pugiotto e Davide Galliani, Editoriale Scientifica), così scrive: "L’ergastolano ostativo si trova in una condizione differenziata in peius, anche rispetto agli altri ergastolani, finalizzata ad indurlo alla collaborazione. In senso morale, si tratta di una situazione che richiama quella di chi è sottoposto a tortura: ti tolgono qualcosa cui avresti diritto (secondo la legge generale ed i principi costituzionali) e ti sottopongo ad una sofferenza aggiuntiva, che durerà finché non ti deciderai a collaborare". Gentile Presidente Emerito, sono coatutore del libro "Gli ergastolani senza scampo" ed ho vissuto per anni con la sicurezza di morire in carcere, e i miei figli e la mia compagna con la certezza che di me avrebbero avuto solo il cadavere. Solo nel dicembre 2014 il Tribunale di Sorveglianza di Venezia ha accertato l’impossibilità di una mia utile collaborazione con la giustizia e mi ha riconosciuto la possibilità di usufruire di benefici penitenziari. Dopo venticinque anni di carcere ho appena trascorso per la prima volta alcuni giorni a casa. Al ritorno nella mia cella ho trovato una lettera di un compagno ergastolano che mi scrive: "Sei il nostro compagno eroe. Sei quello che ce l’hai fatta". Queste parole mi hanno fatto pensare che non sarò un eroe, né sarò mai felice, se non ce la faranno anche gli altri e se tutti gli ergastolani non avranno un calendario in cella e un fine pena. Gentile Presidente Emerito, in qualità di docente di Diritto Penale, ex Ministro della Giustizia e giudice della Corte Costituzionale, Le chiedo di darci una mano per sensibilizzare il mondo politico, i mass media e la società civile con qualche iniziativa o facendosi promotore di una raccolta di firme fra i suoi colleghi ex giudici della Corte Costituzionale. Ci aiuti ad affermare che la pena dell’ergastolo è un crimine contro l’umanità perché non si può essere condannati a essere maledetti, cattivi e colpevoli per sempre e a rimanere vivi così, "di-sperati", cioè privi di speranza. Trento: segnalate irregolarità rispetto a visite mediche specialistiche nel carcere di Spini Secolo Trentino, 2 febbraio 2016 Le prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione rivolte ai detenuti, agli internati e ai minori sottoposti a provvedimenti penali in Provincia autonoma di Trento sono garantite dal Decreto legislativo 19 novembre 2010, n. 525 e disciplinate all’interno della deliberazione della Giunta provinciale n. 169 dd 04.02.2011 e del Protocollo d’intesa tra la Provincia autonoma di Trento, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, la Direzione della Casa circondariale di Trento e l’Azienda provinciale per i servizi sanitari di Trento. Da alcune segnalazioni pervenute, pare che numerose siano state le visite specialistiche effettuate in favore dei carcerati presenti presso la struttura di Spini di Gardolo presso le strutture ospedaliere e convenzionate presenti sul territorio provinciale (art.1 del sopraccitato Protocollo). Ciò causerebbe non poche problematiche organizzative, in quanto la visita di un detenuto all’esterno della struttura carceraria comporta l’organizzazione di scorte di agenti di Polizia Penitenziaria all’esterno del carcere nel tragitto interessato. La situazione nel carcere di Spini non è delle migliori a causa della crescita esponenziale che c’è stata negli ultimi mesi dei detenuti presenti, un numero ben superiore a quello preventivato quando la struttura è stata costruita. Al sovraffollamento si aggiungono quindi le problematiche organizzative e logistiche della gestione delle uscite dei detenuti per le visite mediche esterne. Tale situazione di disagio sarebbe poi aumentata a causa della decisione di togliere il medico presente all’interno del penitenziario 24 ore su 24. Ad oggi infatti presterebbe servizio soltanto nelle ore diurne. Ci viene segnalato inoltre che un medico di guardia non avrebbe provveduto a visitare un detenuto con conseguente invio dello stesso all’esterno per accertamenti. Pordenone: il Tar boccia la sospensione, i lavori per il carcere di San Vito procedono Messaggero Veneto, 2 febbraio 2016 La procedura di aggiudicazione dell’appalto per costruire il nuovo penitenziario di San Vito si è attirata soltanto un ricorso al Tar, presentato dalla ditta giunta seconda in graduatoria. I giudici amministrativi si sono già pronunciati sulla richiesta di sospensione cautelare, respingendola. L’iter, dunque, può proseguire senza alcun intoppo, in attesa dell’udienza per la trattazione di merito, fissata al 9 marzo. Un primo risultato, sul fronte giudiziario di questa partita, che lascia soddisfatto il sindaco Antonio Di Bisceglie: "Il tempo per presentare ricorsi per chiedere di annullare l’assegnazione dell’appalto è scaduto - ha riferito -. Con l’ordinanza del Tar sull’unico ricorso l’iter non si interromperà: ora attendiamo la sentenza di merito". A rivolgersi al Tar è stata l’impresa Pizzarotti, contro il provveditorato interregionale Opere pubbliche di Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia del ministero delle Infrastrutture e nei confronti della società cooperativa a responsabilità limitata Kostruttiva (Marghera) e di Riccesi (Trieste). La gara d’appalto per progettazione definitiva ed esecutiva e costruzione del carcere aveva visto la partecipazione di dieci tra singole imprese e associazioni temporanee di imprese (Ati). L’importo complessivo era di 25,5 milioni e mezzo, di cui 24,3 per lavori a base d’asta. Prima in graduatoria era risultata l’offerta dell’Ati formata da Kostruttiva (ex Coveco) e Riccesi. Erano state giudicate provvisoriamente aggiudicatarie, per 18,4 milioni, dopo aver verificato la sostenibilità dell’offerta, inizialmente giudicata "anomala" dal punto di vista tecnico. Il provvedimento di aggiudicazione definitiva dell’appalto è stato adottato il 18 novembre dalla sede di Trieste del provveditorato interregionale, che in tal data ha pure indicato quale direttore dei lavori l’ingegner Silvia Angeli. Ed ecco il ricorso della seconda in graduatoria, la Pizzarotti, che ha sottoposto al Tar una serie di presunti vizi di forma nella procedura, per chiedere l’annullamento dell’aggiudicazione definitiva e un risarcimento danni a carico della stazione appaltante. Il tutto accompagnato dalla richiesta di sospensione cautelare dell’efficacia del provvedimento, che avrebbe fatto sì che l’iter si bloccasse immediatamente. Inoltre, Pizzarotti lamentava il mancato accesso ad alcuni atti, tra cui il progetto presentato dall’impresa aggiudicataria. Il Tar ha respinto l’istanza cautelare e pure la richiesta degli atti ritenuti "sottratti all’accesso per evidenti motivi di sicurezza". Dunque al momento, in attesa dell’udienza di merito, è scongiurato uno stop all’iter, che seppur lentamente sta avanzando verso l’avvio del cantiere, previsto entro l’anno. Ora si attendono validazione del progetto, approvazione e stipula del contratto per i lavori. Risultato ben accolto da Di Bisceglie: tra l’altro, pare che a Pordenone, in certi ambienti "ostili" alla soluzione sanvitese per il nuovo penitenziario, già si ipotizzava che l’iter fosse, per qualche motivo, bloccato per l’ennesima volta. Empoli: il Garante Corleone; Casa circondariale di Pozzale troppo vuota, bene i progetti gonews.it, 2 febbraio 2016 Sopralluogo alla casa circondariale femminile di Empoli, questa mattina, lunedì 1° febbraio, per il garante dei detenuti della Toscana Franco Corleone. La piccola struttura, che ha una capienza di 30 persone, ospita 18 detenute, delle quali 8 straniere. "Il basso numero di presenze in questo istituto - ha detto Corleone - deve far riflettere. Le condizioni per esservi ammesse sono troppo rigide: le detenute devono essere in buon stato di salute e avere da scontare un fine pena non inferiore a cinque anni". "Non va bene il sovraffollamento del carcere - ha aggiunto Corleone - ma nemmeno il sottoutilizzo di una struttura. L’obiettivo di questa realtà è quello di sperimentare un modello differente rispetto a quello del carcere tradizionale e riuscire poi ad applicarlo anche in altri istituti". Dai colloqui che Corleone ha avuto con alcune detenute è emerso il vero problema della detenzione femminile ad Empoli: "manca - ha detto il garante regionale - di umanità. Spesso, alle madri si creano difficoltà nei rapporti con i loro figli, non si permette loro di avere contatti frequenti ma solo discontinui". Il garante ha visitato l’area colloqui e l’area verde dell’istituto, attrezzate con giochi per gli incontri delle detenute con i figli, il campo sportivo, la biblioteca, la sala polivalente e le due mense. Tra gli aspetti positivi evidenziati dal garante ci sono le varie attività e progetti come "Nuove trame in carcere" che impegna le detenute in lavori di sartoria, "Orto libero" per la produzione di miele, per la coltivazione di carciofi e la raccolta di frutta. "Tra i fiori all’occhiello della casa circondariale - ha evidenziato Corleone - il progetto Penelope, che vede tre detenute lavorare all’Asl di Empoli". Foggia: detenuti impiegati del Comune per lavori di pubblica utilità di Marco Loprete foggiareporter.it, 2 febbraio 2016 La convenzione durerà un anno: i detenuti saranno impiegati in interventi di manutenzione del patrimonio cittadino e di salvaguardia dell’ambiente. Non il carcere, ma una pena sostitutiva consistente in lavori di pubblica utilità: il Comune di Foggia stipulerà con il Tribunale di Foggia una convenzione per l’impiego di 6 detenuti in interventi di manutenzione del patrimonio cittadino o attività in campo ambientale. La Giunta Comunale, su proposta dell’assessore comunale al Patrimonio, Sergio Cangelli, ha approvato nelle scorse ore una delibera che autorizza il sindaco, Franco Landella, a stringere l’accordo con il presidente del Tribunale del capoluogo dauno, Domenico De Facendis. La convenzione prevede che il Comune si accolli solo i costi della copertura assicurativa. La convenzione, che vedrà protagonisti i sei detenuti ammessi alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, durerà un anno e potrà essere rinnovata di 12 mesi in 12 mesi. Così il sindaco Landella: "Si tratta di una convenzione importante, frutto del lavoro di collaborazione con il presidente del Tribunale di Foggia De Facendis, che ringrazio per l’interlocuzione positiva che ha inteso costruire con l’Amministrazione comunale. La pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, infatti, permette di completare in modo pieno il processo di recupero sociale e offre contemporaneamente un contributo al Comune di Foggia nell’azione di risanamento del patrimonio o di tutela dell’ambiente". Sulla stessa linea l’assessore Cangelli: "Siamo convinti che i soggetti interessati dalla convenzione saranno di grande aiuto per il lavoro che l’Amministrazione sta svolgendo in chiave di recupero del nostro patrimonio comunale. Questa intesa è dunque una bella pagina di cooperazione inter-istituzionale nell’interesse della città". L’impiego di detenuti per lavori di pubblica utilità non è una novità per il Comune di Foggia: in passato, la Giunta aveva autorizzato l’impiego di 6 persone nella "Massera Giardino". Dunque, come spiega l’assessore all’Ambiente, Francesco Morese, il nuovo accordo con il Tribunale si inserisce "nel solco di una collaborazione operativa concreta, orientata a coniugare solidarietà e valorizzazione delle proprietà comunali. Da questo punto di vista, pensiamo a formule che permettano di impiegare i soggetti ammessi alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità anche nel campo ambientale, settore in cui stiamo profondendo il massimo dell’impegno politico ed amministrativo". Aosta: detenuti, tossicodipendenti e disagiati conservano il territorio comunale valledaostaglocal.it, 2 febbraio 2016 "I lavoratori socialmente utili hanno contribuito, in sei mesi, a rendere più vivibile e sicuro il capoluogo valdostano". È soddisfatto Didier Degioz, responsabile dell’Ufficio di protezione civile del Comune di Aosta, per i risultati ottenuti dal Progetto Lavori di utilità sociale-Lus, avviati nel maggio e conclusi a fine novembre del 2015. Gli interventi. "Si è trattato - spiega Degioz - di una serie di interventi di messa in sicurezza di alcuni impluvi e della risistemazione di aree verdi e urbane della città. I lavori sono stati svolti da una squadra composta da un caposquadra e quattro lavoratori svantaggiati, per un totale di 124 giornate lavorative". Oltre che in alcuni parchi cittadini, i lavoratori socialmente utili sono stati impiegati per opere di pulizia all’Acquedotto, al cimitero e in interventi di Protezione civile, mentre cinque giornate sono state dedicate alla formazione. Incaricata della gestione dei Lus è stata la cooperativa sociale agricola ‘Mont Fallèrè, con il coordinamento di Ivan Rollandin, responsabile sociale della cooperativa (nella foto). Gli operai "sono persone disoccupate - spiega Degioz - appartenenti alle categorie previste dal Piano di politica del lavoro e regolarmente iscritte negli elenchi ‘Lus’ in carico ai servizi sociali, al Sert o alla Casa circondariale di Brissogne, i cui progetti di vita prevedono percorsi di reinserimento lavorativo in ambito protetto". "Nel corso dei sei mesi di lavoro - afferma Ivan Rollandin - i Lus hanno acquisito tecniche manuali e hanno potuto ampliare il loro bagaglio di esperienze umane e occupazionali. Nel contempo, hanno reso un servizio a tutta la comunità aostana, tramite un’attività di prevenzione ambientale di primaria importanza". Soddisfatto anche l’assessore comunale all’Ambiente, Delio Donzel: "Le squadre di lavoratori socialmente utili hanno lavorato come una sorta di pronto intervento sul territorio, motivate e impegnate per ottenere il miglior risultato. Crediamo molto nel progetto Lus, che aumenta le opportunità occupazionali e si pone come sostegno a persone che hanno vissuto, e vivono ancora, ai margini delle società. Oltre a ciò, è un servizio che in un momento di difficoltà economica rappresenta una fondamentale risorsa per l’Amministrazione comunale". Conferma Degioz che "pur non disponendo ancora di parametri contabili certi, posso affermare che l’impiego dei Lus ha permesso un risparmio enorme per le casse comunali. Se i lavori fossero stati appaltati a una ditta specializzata, sarebbero costati almeno cinque volte di più". Per quanto concerne le attività, una parte consistente ha riguardato la manutenzione degli impluvi e dei torrenti nella zona collinare di Aosta (Champailler Est, Champailler Ovest, Gotrau, canale di scarico del Rû Neuf, torrente Parléaz), con il taglio della vegetazione e la rimozione dei detriti depositati nelle briglie selettive. "Inoltre - prosegue Degioz - la squadra Lus si è concentrata sulla pulizia e manutenzione dei canali irrigui, per consentire un migliore smaltimento delle acque piovane, la diminuzione del rischio d’incendio degli incolti e un migliore decoro dei terreni di proprietà comunale. Un altro importante settore di intervento ha interessato l’attività la pulizia di aree verdi incolte, il taglio degli alberi secchi a rischio di caduta su alcune strade collinari e in viale Conte Crotti, la pulizia dei sentieri e delle piste tagliafuoco situati in collina, nonché delle cunette di scolo delle acque bianche di alcune strade comunali. "Il risultato finale ottenuti da questi ultimi lavori - conclude Degioz - è stato la diminuzione del rischio d’incendio degli incolti, la tutela dell’incolumità pubblica, un migliore smaltimento delle acque piovane e il ripristino del decoro di alcune strutture di proprietà comunale che erano state trascurate nel corso degli anni". Genova: Sestri Levante apre la strada dei lavori socialmente utili per profughi e detenuti genova24.it, 2 febbraio 2016 La Giunta Comunale di Sestri Levante ha approvato due importanti protocolli d’intesa che permetteranno di inserire in attività socialmente utili sia coloro che, avendone la possibilità, sceglieranno di commutare una pena inflitta dal Tribunale Ordinario in ore al servizio della Comunità, sia i richiedenti asilo ospiti nella struttura cittadina. I primi svolgeranno inizialmente lavori di pulizia e piccola manutenzione presso il Convento dell’Annunziata, l’area del teatro Conchiglia e la zona della baia del Silenzio. La convenzione con il Tribunale prevede infatti che ne sia responsabile il Servizio Partecipate, affidandoli nello specifico a Mediterraneo Servizi. Il Protocollo d’Intesa prevede invece per i richiedenti asilo, un accordo con Prefettura di Genova l’ente che gestisce l’accoglienza, in questo caso Cooperativa Agorà. Unanime l’assenso degli interessati a svolgere attività di volontariato a favore della città, tanto che da metà febbraio affiancheranno il servizio Manutenzione per il recupero degli arredi urbani, in particolare le panchine e pulizia delle cunette, mettendosi a disposizione dell’Amministrazione due giorni a settimana. I costi a carico del Comune sono rappresentati dagli adempimenti aziendali quali la stipula di una assicurazione che copra in caso di Responsabilità Civile, l’apertura della posizione Inail e la dotazione dei dispositivi di sicurezza previsti dalla legge, senza corresponsione di retribuzione. "Riteniamo molto utile e positivo poter dare vita a queste forme di scambio per cui chi viene accolto da una Comunità, o chi ne ha trasgredito le regole, ha anche la possibilità di mettersi a disposizione e restituire con le proprie energie un bene che va a vantaggio della collettività intera - dichiara Lucia Pinasco, Assessore alle Politiche Sociali - Durante il mese di febbraio partiranno tutti i progetti di inserimento in lavori socialmente utili, i quali saranno monitorati attentamente dalle strutture comunali". Lucca: la Commissione consiliare sociale e salute incontra il garante dei detenuti luccaindiretta.it, 2 febbraio 2016 La Commissione consiliare sociale e salute ha incontrato ieri mattina (1 febbraio) congiuntamente con la commissione partecipazione la garante dei diritti dei detenuti del Comune di Lucca, Angela Mia Pisano, alla presenza degli assessori Ilaria Vietina e Antonio Sichi. I presidenti delle due commissioni comunali, Diana Curione (Lucca Civica) e Renato Bonturi (Pd), hanno voluto invitare la dottoressa Pisano a conclusione del percorso iniziato nel marzo scorso e che ha visto nell’ottobre 2015 l’elezione da parte del consiglio comunale del primo garante dei detenuti di Lucca. Pisano ha illustrato ampiamente la sua attività iniziata da pochi mesi fornendo spunti per un dibattito ricco e partecipato: molte le domande e le osservazioni da parte dei componenti delle due commissioni, che hanno ringraziato la garante per il livello di approfondimento dei temi affrontati riguardanti numerose tematiche tra le quali la salute dei detenuti, la struttura del carcere, le attività educative svolte, i rapporti con il mondo del volontariato e le relazioni con le diverse istituzioni. "Oggi raccogliamo i primi frutti di un percorso avviato nel marzo 2015 e che ha portato lo scorso ottobre all’elezione da parte del consiglio comunale del primo garante dei detenuti di Lucca - affermano Diana Curione e Renato Bonturi - Gli spunti di riflessione e di approfondimento sono stati tanti così come gli interventi da parte dei consiglieri e delle consigliere, ad evidenza dell’interesse che suscita questo argomento. Sono stati evidenziati sia gli aspetti positivi, ricordiamo l’impegno dell’amministrazione a sostegno di progetti e attività per i detenuti, sia le criticità, legate principalmente alla vetustà della struttura ed alla necessità di dare un supporto educativo e psicologico continuativo all’interno della casa circondariale". Bonturi e Curione concludono dicendo che "come è emerso più volte dalla discussione in commissione sarà necessario che la città e le istituzioni competenti possano fare una riflessione seria e ampia sul futuro della struttura carceraria di Lucca, su come poter fornire risposte adeguate sia in termini di servizi che di questioni strutturali. Auspichiamo che su tale tema possa esserci il maggior coordinamento possibile affinché si possano offrire soluzioni di qualità". Milano: Peluffo (Pd) "le altre carceri seguano l’esempio di Bollate" mainfatti.it, 2 febbraio 2016 "Nella mia visita di questa mattina ho potuto constatare come il carcere di Bollate possa essere considerato un vero e proprio modello nella gestione di un’istituzione carceraria", dal PD la posizione di Vinicio Peluffo. "Nella mia visita di questa mattina ho potuto constatare come il carcere di Bollate possa essere considerato un vero e proprio modello nella gestione di un’istituzione carceraria. A renderlo tale sono non solo l’efficienza e l’umanità dell’accoglienza con cui la struttura è organizzata ma, soprattutto, lo slancio innovativo nei progetti e nei percorsi di inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro e nella società" spiega in una nota Vinicio Peluffo, deputato del Partito Democratico. "Il carcere di Bollate dimostra - prosegue il parlamentare - come le alternative alla pena, intesa come semplice punizione, siano una strada che porta risultati positivi e incoraggianti. Per questo, faccio i miei complimenti agli operatori carcerari e alla polizia penitenziaria, per la professionalità e la dedizione con cui svolgono il loro compito, e auspico che vengano destinate più risorse ai progetti di recupero e formazione all’interno degli istituti carcerari, anche alla luce del miliardo di euro di maggior stanziamento previsto per quest’anno per il comparto della giustizia". "Come rivendicato dal ministro Andrea Orlando nella sua relazione annuale al Parlamento, perché la giustizia e il sistema carcerario possano funzionare, c’è bisogno di un senso diverso e più vivo della responsabilità. - conclude l’esponente PD - A questo proposito si può dire che il carcere di Bollate sia un’efficace applicazione di questo principio". Ivrea (To): confronto sul carcere, coinvolgendo i giovani del liceo di Sandro Ronchetti La Sentinella del Canavese, 2 febbraio 2016 Sono stati oltre duecento i ragazzi del triennio del liceo Gramsci a confrontarsi con i detenuti gli educatori ed i volontari delle carceri di Ivrea e di Opera Milano presenti agli incontri tra le realtà carcerarie e la città di Ivrea, promossi dai volontari dell’associazione Tino Beiletti. A confermare l’impegno dell’amministrazione verso la locale Casa circondariale è stato l’assessore alle Politiche sociali Augusto Vino che ha partecipato all’incontro all’auditorium del Gramsci con l’educatrice carceraria Sara Ceccarelli, i responsabili dei tirocini del volontariato in carcere professori Davide Bombino e Enrica Francone e il presidente dei locali Volontari Penitenziari Paolo Bersano, che ha definito "Straordinaria e non certo scontata", la lunga giornata di lavori aperta al Gramsci e conclusa allo Zac, dove i detenuti di Opera e gli ex detenuti eporediesi hanno messo a confronto, ed illustrato alla stampa locale, il lavoro delle rispettive redazioni di "Alba" di Ivrea e "In Corso d’Opera" di Milano. Ospiti sono stati alcuni componenti del laboratorio "Leggere Libera-Mente" di Opera e la psicoterapeuta Barbara Rossi, che è intervenuta con tre detenuti (autori, con riconoscimenti letterari) ed una giornalista, sul tema della biblio-terapia. Tra le toccanti testimonianze dei detenuti ha trovato posto anche quella di Giuseppe Catalano (già detenuto ad Ivrea poi trasferito ad Opera) che ha presentato il suo ultimo lavoro: il libro autobiografico "Radici Violate". Meno affollato l’incontro pomeridiano allo Zac dove l’ormai consolidato periodico Alba del carcere di Ivrea (con quindici anni di pubblicazioni) è stato messo a confronto con in periodico "In corso d’Opera, appena nato con l’obiettivo di far uscire all’esterno le esperienze dei 1.200 detenuti (tutti con lunghe condanne) della Casa di Reclusione milanese. "Il periodico del carcere di Ivrea Alba - ha spiegato Bersano - oltre ad essere un mezzo per far sentire la voce del vissuto carcerario, è una risorsa dal momento che i proventi dei 250 abbonamenti, ci consentono di finanziare altre importanti iniziative". Il presidente dei volontari ha commentato: "L’incontro di operatori di regioni diverse - ha spiegato Bersano - ci ha dato nuovi spunti, ma quello che più conta è l’interesse dei ragazzi che, messi di fronte a realtà dure come quelle del carcere, si mettono in gioco". La proiezione del dvd con il concerto di musica afro "Free Tam Tam", realizzato in carcere a Ivrea, e l’esecuzione di canzoni dal vivo composte da Catalano, hanno completato la giornata di confronto tra la realtà carceraria e la città. Catanzaro: raccolta di calendari per i detenuti, la nuova iniziativa di "Stella del Mare" strill.it, 2 febbraio 2016 Dalla sua apertura, avvenuta nel mese di giugno scorso, il Centro di Ascolto "Stella del Mare", fondato dalla criminologa Stefania Mandaliti, si è reso protagonista di numerose iniziative improntate alla diffusione della cultura dell’antiviolenza. Dal convegno sullo stalking e sul mobbing all’incontro di approfondimento del fenomeno del bullismo tra i banchi di scuola - con la collaborazione di Ciro Troiano dell’Osservatorio Zoomafie di Roma - all’attività di psicomotricità svolta allo scopo di lanciare messaggi antiviolenza con l’utilizzo del linguaggio corporeo, fino all’attivazione di un servizio di ascolto online (per il quale basta comporre il numero 339/3715940) finalizzato a dare suggerimenti ed a raccogliere eventuali segnalazioni (anche se non è un pronto intervento), il Centro Ascolto si prefigge di fare prevenzione a 360 gradi, soprattutto con la sensibilizzazione all’uso corretto dei social network tra i più giovani. Dal 25 gennaio, e fino al 25 febbraio, poi, sta portando avanti la campagna di raccolta di calendari da devolvere alle persone recluse nel carcere di Siano, che così possono fare le proprie annotazioni negli spazi bianchi posti accanto ai giorni. Chiunque sia in possesso di un calendario in più, può quindi consegnarlo all’associazione, che ha sede in via Filanda 5, solo nella giornata di domenica dalle 10 alle 12.30 e dalle 15 alle 18. Tutte le persone emarginate, e che vivono uno stato di disagio in genere, sono al centro dell’attenzione della presidente Mandaliti - che è anche coordinatrice regionale dei "Sentieri della Legalità", l’associazione nazionale nata per promuovere i valori della giustizia e della sicurezza - e dei professionisti volontari che la coadiuvano nella varie iniziative. L’intento precipuo resta quello di diffondere la cultura della legalità e dell’antiviolenza a più livelli, a partire appunto dal web, che attraverso l’uso indiscriminato dei social network si ritrova costantemente minacciata: ecco perché il Centro Ascolto è teso ad approfondire le tematiche pedagogiche più vicine al mondo adolescenziale, al fine di prevenire episodi di violenza, bullismo ed abusi in chi cova risentimento perché emarginato dai propri coetanei o abituato a conseguire solo insuccessi in ambito scolastico o semplicemente a tenersi tutto dentro. Nei prossimi mesi la sede di via Filanda, in pieno centro storico, diventerà anche un luogo dove imparare gratuitamente l’uso del computer, e dove prendere parte a seminari formativi che promuovono un cambiamento culturale soprattutto tra gli operatori, chiamati poi a dare risposte alle richieste di aiuto più svariate. Roma: la polizia "promuove" CasaPound. "La violenza? Colpa dei centri sociali" di Matteo Pucciarelli La Repubblica, 2 febbraio 2016 In un’informativa della direzione centrale alla magistratura il gruppo neofascista "tutela le fasce deboli, difende l’occupazione". Gli scontri di cui l’associazione si rende protagonista sono da incolpare "all’antifascismo militante". È una nota informativa del ministero dell’Interno inviata al tribunale di Roma, dov’è in corso una causa civile tra la figlia di Ezra Pound e il movimento di estrema destra CasaPound. Solo che la relazione della Polizia sui "fascisti del terzo millennio" sembra strizzare più volte l’occhio al gruppo, contraddistinto (si legge) per "lo stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nelle rispetto delle gerarchie interne" e che ha l’obiettivo "di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio". Il documento della direzione centrale della Polizia di prevenzione porta la data dell’11 aprile 2015, con sigla in calce del direttore centrale, il prefetto Mario Papa. La figlia di Pound contestava l’uso del nome del poeta da parte dell’organizzazione considerandolo oltraggioso della sua memoria, e così il legale di CasaPound ha chiesto al giudice di acquisire informazioni sulla natura del gruppo politico al ministero. Ne esce fuori, come detto, una descrizione più che positiva del movimento neofascista. Uno degli obiettivi del gruppo, si spiega, è "la tutela delle fasce deboli attraverso la richiesta alle amministrazioni locali di assegnazione di immobili alle famiglie indigenti, l’occupazione di immobili in disuso, la segnalazione dello stato di degrado di strutture pubbliche per sollecitare la riqualificazione e la promozione del progetto Mutuo Sociale". E poi, "l’attenzione del sodalizio è stata rivolta anche alla lotta al precariato ed alla difesa dell’occupazione attraverso l’appoggio ai lavoratori impegnati in vertenze occupazionali e le proteste contro le privatizzazioni delle aziende pubbliche". Non solo, perché CasaPound allarga i propri orizzonti per affrontare temi "in passato predominio esclusivo della contrapposta area politica, quali il sovraffollamento delle carceri, o la promozione di campagne animaliste contro la vivisezione e l’utilizzo di animali in spettacoli circensi". Si racconta poi del collegamento tra CasaPound e la nuova Lega Nord di Matteo Salvini - "di cui si condividono le istanze di sicurezza e l’opposizione alle politiche immigratorie" - attraverso la creazione del cartello elettorale denominato "Sovranità". Il tema della violenza e del rispetto della legge viene risolto così: "Il sodalizio organizza con regolarità, sull’intero territorio nazionale, iniziative propagandistiche e manifestazioni nel rispetto della normativa vigente e senza dar luogo ad illegalità e turbative dell’ordine pubblico". E se in effetti ci sono "all’interno del movimento militano elementi inclini all’uso della violenza, intesa come strumento ordinario di confronto e di affermazione politica oltre che quale metodo per risolvere controversie di qualsiasi natura", la colpa è anche della sinistra radicale che "sotto la spinta del cosiddetto antifascismo militante non riconosce il diritto alla agibilità politica" alle formazioni di estrema destra. Sulla vicenda Sinistra Italiana ha annunciato che presenterà una interrogazione parlamentare: "È una vicenda incredibile - dice Arturo Scotto di Sel - ed è inaccettabile che le violenze di CasaPound vengano definita una risposta all’antifascismo militante". Stessa cosa farà il deputato pd Fabio Lavagno: "Va bene che il movimento di estrema destra cerca forme di legittimazione e visibilità continuamente, non da ultime l’adesione al Family day e le manifestazioni comuni con la Lega di Salvini, vedere però che questa descrizione sta nero su bianco in una nota della polizia al Ministero dell’interno risulta piuttosto inquietante". Napoli: storia del bulldog francese Tommy e del suo padrone dietro le sbarre di Stella Cervasio La Repubblica, 2 febbraio 2016 Il 7 febbraio vorremmo essere lì. Non sarà possibile assistere all’incontro fra il proprietario, detenuto da quasi un anno nel carcere di Secondigliano, e Tommy, un bulldog francese di due anni che "non rideva più" da quando gli erano negati i colloqui con il suo amico di sempre. Usiamo apposta un linguaggio che può valere tanto per il cane quanto per il proprietario. Perché entrambi - anche se sui cani sono ancora in corso studi - manifestavano sintomi molto simili a quelli della depressione. Tommy ha smesso di mangiare, poi ha ripreso, ma ancora oggi attraversa periodi di tristezza in cui si astiene dal gioco e dal cibo. Prima non era così, conferma la sua famiglia. Quanto al suo "umano" di riferimento, da dietro le sbarre a ogni colloquio con la moglie non faceva che ribadire che non vedere il suo cane era una grande privazione per lui. In precedenza, quando era detenuto nel penitenziario di Frosinone, non c’erano stati impedimenti e aveva sempre potuto vedere Tommy in un’area verde del carcere. Non così a Napoli, e non era difficile immaginarlo. Vedere il proprio cane è stato possibile in diversi penitenziari, forse quelli dove la vita è meno concitata e le difficoltà quotidiane da gestire sono in numero inferiore. A Oristano, per esempio, un detenuto ha dovuto rinunciare lo scorso mese di agosto e i giornali hanno titolato "ha vinto la burocrazia". Perché non c’è nessun regolamento che prevede questi incontri. Ma i miracoli succedono perché grazie a Dio i regolamenti non governano il mondo in esclusiva. E a Napoli due garanti insieme, Adriana Tocco, impegnata nella difesa dei diritti dei detenuti (che approfitto per ringraziare di cuore per la collaborazione), e la sottoscritta, che si occupa invece di diritti animali, hanno instaurato un dialogo con l’amministrazione carceraria di Secondigliano, che ha mostrato interesse. Gli animali sono membri delle famiglie a tutti gli effetti. Senza contare che proprio in carcere, per esempio a Sollicciano, a Firenze, vengono chiamati in causa per attenuare il trauma delle visite dei bambini ai genitori detenuti. Nel caso di Napoli sono stati utili i certificati, tanto quello stilato dal veterinario quanto quello dei medici carcerari, che hanno effettivamente riscontrato un effetto negativo sulla mancanza di contatto fra il proprietario e il cane. E le resistenze sono state vinte: il 7 febbraio avverrà il primo colloquio di un detenuto a Napoli con l’animale che ha dovuto lasciare solo. Sarà la moglie del detenuto a condurlo con sè ed è un incontro che non vorremmo perdere. Torna in mente il gigantesco John Coffey del film "Il miglio verde", che attraverso la sua amicizia e dedizione per un topolino di nome Mister Jingle, riesce a dimostrarsi migliore di quanto tutti lo credano. Animali catalizzatori di umanità. Animali autori, anche se non ci pensiamo mai, di un recupero che coinvolge le coscienze di tutti. Speriamo non in un "colloquio" una tantum, dopo questo 7 febbraio, ma in una consuetudine che è una necessità, di qua e di là dalle sbarre che a volte siamo noi stessi a innalzare. La bufala del reddito minimo e la realtà dei poveri in Italia di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 2 febbraio 2016 Welfare. Il governo Renzi sta promuovendo una nuova bufala. Dopo avere scambiato il "Jobs Act delle partite Iva" per uno "statuto del lavoro autonomo", ora è impegnato in un’altra campagna. Il Cdm avrebbe approvato addirittura il "reddito minimo". In realtà si tratta di un sussidio per un milione di poveri (su 4). Il governo Renzi sta promuovendo una nuova bufala. Dopo avere scambiato il "Jobs Act delle partite Iva", destinato a 220 mila persone, per uno "statuto per i lavoratori autonomi" che in Italia sono 5,4 milioni, ora è impegnato in un’altra campagna. Il consiglio dei ministri di giovedì scorso avrebbe approvato addirittura il "reddito minimo". Così è stata intitolata ieri un’intervista, su un noto quotidiano, al ministro del lavoro Giuliano Poletti. In realtà, nel corpo piccolo delle risposte, Poletti è stato molto più realistico: il sussidio da 320 euro per 280 mila famiglie poverissime e numerose sotto i 3 mila euro di Isee e con figli minori (80 euro a testa, cifra simbolica della politica dei bonus renziani) non è un reddito minimo, ma il più modesto "sostegno di inclusione attiva" (Sia). Questa misura, inventata dal governo Letta, è una misura assistenziale e per nulla universalistica di sostegno al reddito. La legge delega che permette il governo di estendere il "Sia", erogato mediante una "social card" di berlusconiana memoria, a condizione di vincolarlo a un nuovo obbligo, finora assente in Italia: quello di "mandare i figli a scuola o accettare un’occupazione". Finalità, ispirate a un’idea autoritaria del "welfare-to-work", che potrebbero essere raggiunte in tutt’altra maniera, e certo non vincolate a meccanismi che rischiano di introdurre un controllo esterno delle famiglie. Tra l’altro, il provvedimento inserisce i privati nel contrasto alla dispersione scolastica. Ci sarebbe un fondo da 150 milioni stanziato da fondazioni bancarie. La consueta ambivalenza, sia giuridica che linguistica, prodotta dal "buzz" mediatico ha lo scopo di confondere il "Sia" con il reddito minimo. L’articolo 34 della Carta di Nizza lo ha fissato al 60% del reddito mediano pro-capite. La cifra è più del doppio: si va dai 630 ai 780 euro. Importi non a caso stabiliti da due disegni di legge sul reddito minimo, ormai dimenticati: quello di Sel (frutto di una campagna dei movimenti di base pro-reddito) e quello del Movimento 5 Stelle, impropriamente definito "reddito di cittadinanza". Per il governo i beneficiari del "Sia" sarebbero un milione di persone (di cui 550 mila minori). Un’altra dimostrazione della parzialità della misura. Per l’Istat, nel 2014 un milione 470 mila famiglie risultavano in condizione di povertà assoluta, per un totale di 4 milioni e 102 mila. Si parla di un reddito inferiore a 816 euro mensili in una metropoli del Nord e 548 in un comune del Sud. Su queste situazioni Poletti continua a ragionare con la "politica dei due tempi": per ora si parte con 1 milione, in seguito si raggiungeranno gli altri tre. Anche nel "sociale" questo approccio è risultato fatale. Di anno in anno le priorità dei governi cambiano, mentre si procede con misure parziali, regolarmente sotto-finanziate. In mancanza di un vero reddito minimo, gli altri 9 milioni di poveri "relativi", resteranno esclusi. Un altro elemento dello "story-telling" governativo è legato ai fondi. Presentando la misura "welfare-to-work", si omette di citare i tagli dell’80 per cento al fondo delle politiche sociali avvenuto negli ultimi sette anni di crisi. L’esecutivo parla di 600 milioni per il 2016, 220 per l’Asdi: sussidio che si prende dopo avere percepito la Naspi. I fondi saliranno a un miliardo nel 2017. Si tratta di finanziamenti irrisori anche rispetto al ristretto campione selezionato. Il criterio adottato dal "piano contro la povertà" è ispirato alla categorialità. Come ha più volte sostenuto la sociologa Chiara Saraceno, i sussidi al reddito per le famiglie bisognose sono usate per segmentare il corpo sociale in categorie e sotto-categorie (per età, status lavorativo o pensionistico, ad esempio) e hanno come risultato di mantenerlo nella "trappola della povertà". Questo è accompagnato dalla sistematica contrazione dei criteri di accesso ai sussidi. Insomma, tutto è lasciato al caso e all’arbitrio: se si appartiene a una categoria "fortunata" si percepisce il fondo. Altrimenti si resta soli. Così si riproduce l’esclusione sociale. La deliberata volontà del governo Renzi di sottrarsi a una sistemazione generale del reddito minimo sta producendo altre conseguenze. Il "piano contro le povertà" non affronta l’enorme e confusissima legislazione prodotta negli ultimi due anni dalle regioni. Anzi, aggrava la situazione. Ci troviamo, ormai, in una situazione in cui la Valle d’Aosta ha un reddito strutturale che può essere erogato per cinque mesi anche alle partite Iva. In Puglia, invece, c’è un sussidio da 600 euro per i poveri, ma i requisiti escludono chi lavora e i precari. Tutto è occasionale e improvvisato in Italia. Tranne la povertà. La Corte Ue sui profughi: non basta essere irregolare per finire in cella di Marco Zatterin La Stampa, 2 febbraio 2016 La sentenza mette a rischio i centri di accoglienza e identificazione (hotspot). L’interno dello spazio europeo senza frontiere. È un potenziale problema per l’Europa che sta creando dei siti di accoglienza (gli hotspot, appunto) in cui sono e saranno custoditi i migranti in attesa di essere registrati come rifugiati. Dati i tempi della pratica - sino a 18 mesi - l’idea è quella di accoglierli in una struttura chiusa sino a fine pratica. Il che, ad ogni buon conto, assomiglia a una detenzione. La storia comincia il 22 marzo 2013, quando la signora Sélina Affum, cittadina ghanese, viene fermata dalla polizia francese al punto di ingresso del tunnel sotto la Manica, mentre si trova a bordo di un autobus proveniente da Gand (Belgio) e diretto a Londra. Avendo ella esibito un passaporto belga recante la fotografia e il nome di un terzo - ed essendo sprovvista di qualsiasi altro documento di identità o di viaggio a proprio nome - la donna è sottoposta, in un primo tempo, a fermo di polizia per ingresso irregolare nel territorio francese, per poi essere trattenuta in attesa della sua riammissione in Belgio. Di qui la contestazione. La signora Affum ha rifiutato la regolarità del fermo. E la Corte di cassazione francese ha chiesto alla Corte di giustizia europea se, alla luce della direttiva sul rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, l’ingresso senza documenti di un cittadino di paesi terzi nel territorio nazionale possa essere represso con la pena della reclusione. L’avvocato generale Szpunar, nelle conclusioni, dice che non si può, non almeno in questo caso. Perché alla reclusione si può ricorre solo in due casi: 1) quando sia stata applicata la procedura di rimpatrio stabilita dalla direttiva e il cittadino continui a soggiornare irregolarmente nel territorio dello Stato membro senza un giustificato motivo. 2) quando la procedura di rimpatrio sia stata applicata ed il cittadino entri nuovamente nel territorio dello Stato membro in violazione di un divieto di ingresso. Poiché la signora Affum non intendeva entrare nello spazio Schengen (nel quale essa già si trovava in virtù del suo soggiorno in Belgio e in Francia), bensì abbandonarlo (non facendo il Regno Unito parte dello spazio Schengen), non poteva essere messa agli arresti. Per il futuro degli hotspot, un problema mica da ridere, anche se le conclusioni dell’avvocato generale non vincolano la Corte di giustizia. Difficilmente, però, il conclave si esprime contro il suo avvocato. Noi, la Siria e la Libia: quale soluzione? di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2016 L’avanzata militare di Bashar Assad, dovuta essenzialmente all’intervento della Russia e al sostegno dell’Iran e degli Hezbollah libanesi, e i negoziati di Ginevra mettono ancora una volta sotto i riflettori il più clamoroso errore compiuto dalla politica internazionale negli ultimi anni: pensare che nel 2011 il regime di Damasco potesse cadere in pochi mesi. Adesso che sono partiti questi improbabili negoziati di pace qualcuno si dovrà ricredere, anche di fronte agli attentati terroristici come quello che ha colpito il mausoleo di Zeynab vicino a Damasco. In primo luogo la Turchia e l’Arabia Saudita che hanno appoggiato i gruppi jihadisti ma anche gli Stati Uniti e la Francia che pensavano di bombardare Assad nel 2013 ritenendo che la sua fine fosse vicina. L’ambasciatore americano in Siria Robert Ford e quello francese il 7 luglio 2011 andarono in visita ad Hama ai ribelli presumendo che il regime barcollasse e fosse opportuno guadagnare credito con l’opposizione. Eppure si continua nello stesso solco: la Turchia ha messo il veto alla partecipazione alle trattative dei curdi siriani di Rojava, gli eroi di Kobane, e nessuno dice una parola. Le potenze regionali in competizione tra loro - Arabia Saudita, Iran, Turchia - non sono state in grado di risolvere la crisi siriana che è diventata nella nostra aerea il maggiore disastro umanitario dai tempi della seconda guerra mondiale: devono essere Mosca e Washington a spingerli verso una soluzione altrimenti sarà ancora la guerra, non la diplomazia, a risolvere il conflitto. Ma anche Usa e Russia devono risolvere i loro problemi: in Siria cooperano contro l’Isis ma sono anche in competizione. Mosca intende mantenere in sella Assad fino a quando non ci sarà una soluzione politica, gli Stati Uniti devono salvare la faccia della Turchia, membro della Nato, e dell’Arabia Saudita, pilastro sempre più fragile della politica americana nel Golfo impantanata nella guerra in Yemen. La via di uscita, forse l’unica percorribile, è simile a quella che mise fine alla Guerra del Golfo tra Iran e Iraq nell’88: un cessate il fuoco che non assegni la vittoria nessuno. È questo il lavoro della diplomazia e che Staffan de Mistura conosce perfettamente avendo studiato la storia e i precedenti. Fu un italiano dell’Onu, Giandomenico Picco, a trattare con le parti e a mettere a punto la risoluzione di tregua nell’88. Il segretario di Stato americano John Kerry viene a Roma domani per una conferenza sull’Isis e il terrorismo e chiede all’Italia un maggiore impegno nella lotta al Califfato. Il ministro della Difesa francese Le Drian ci avverte che a Lampedusa possono infiltrarsi terroristi: perché non lo sapevamo? Lo aveva già detto l’ex ministro degli Esteri Emma Bonino. Ma all’epoca non pareva proprio che gli europei fossero così attenti a dare una mano all’Italia di fronte alle ondate migratorie. Anzi. E non sembra che l’intelligence francese sia così sveglia a prevenire gli attentati neppure a casa propria. In realtà Stati Uniti e Francia intendono avere l’Italia sul terreno nel caso di un intervento internazionale, ma per attuarlo occorre un mandato del Consiglio di sicurezza Onu oppure l’invito di un governo libico rappresentativo, che per ora non c’è ancora. Andare in Libia significa esporre l’Italia ad attentati dentro e fuori il territorio nazionale e queste cose i francesi e gli americani le sanno perfettamente. Quanto ai raid aerei contro il Califfato si possono pure fare ma hanno un effetto limitato, e gli esempi nel recente passato non mancano. Gli errori, preceduti dalla disastrosa invasione dell’Iraq nel 2003, li hanno compiuti proprio gli Stati Uniti e i loro alleati europei e musulmani, scatenandosi contro il regime di Assad e quello di Gheddafi in Libia, senza neppure consultarci. La logica vorrebbe che toccasse a loro rimediare: l’Italia ha pagato e sta pagando con gravi danni economici e ondate di migliaia di profughi nel Mediterraneo. Ci sarà qualcuno che avrà il coraggio di dirglielo? Il puzzle siriano: stragi, basi militari, raid e resistenza di Chiara Cruciati Il Manifesto, 2 febbraio 2016 L’Isis attacca Damasco, la Turchia apre una base militare in Qatar, la Russia colpisce Jaysh al-Islam (considerata opposizione legittima) e gli Usa fanno visita ai kurdi di Kobane. Per questo il negoziato stenta a partire: non ci sono basi comuni. Stragi dello Stato Islamico, la visita Usa alla Kobane esclusa dal negoziato, raid russi contro i salafiti che volano a Ginevra, una nuova base turca in Qatar: le notizie dalla Siria sono tasselli di un puzzle ogni giorno più chiaro, nell’apparente caos mediorientale. Un puzzle che spiega le ragioni dello stallo del negoziato sponsorizzato dall’Onu, non ufficialmente partito: ieri l’inviato de Mistura ha incontrato le opposizioni, rimandando il meeting con il governo. Il primo tassello è il sangue di 71 siriani, versato domenica a sud di Damasco, a pochi passi dal sito religioso sciita Sayyida Zeinab, mausoleo che contiene le spoglie della nipote di Maometto e figlia di Ali, capostipite dello sciismo. Luogo di pellegrinaggio per milioni di sciiti e per questo protetto da milizie paramilitari e combattenti di Hezbollah, è il target simbolico ideale per lo Stato Islamico, nel momento in cui in Svizzera si dovrebbe discutere di pacificazione. Il triplice attacco, rivendicato dagli uomini di al-Baghdadi, è reso più odioso dalle modalità con cui è stato perpetrato: prima un’autobomba, poi due kamikaze saltati in aria mentre venivano soccorsi i feriti. Le immagini che giungevano dalla capitale raccontavano l’inferno: un enorme cratere aperto sulla strada, auto in fiamme, palazzi danneggiati e anneriti dal fumo, 100 feriti che si trascinavano a terra. Il messaggio inviato dal gruppo che controlla un terzo del paese è lapalissiano: il dialogo è fine a se stesso se non affronterà la minaccia "califfato", sul terreno vera opposizione al governo di Damasco. Non servirà fino a quando non si impronterà il futuro governo di transizione anche sulla lotta al nemico comune, l’estremismo dell’Isis. Il secondo tassello è il raid dell’aviazione russa che ieri ha distrutto le scorte di petrolio di Jaysh al-Islam, gruppo salafita da dicembre entrato a far parte della federazione delle opposizioni Hnc. L’Alto Comitato per i Negoziati, voluto dall’Arabia saudita (stretto alleato di Jaysh al-Islam) e fondato dai moderati della Coalizione Nazionale, ha nella propria delegazione il leader della milizia, Mohammed Alloush. Ieri Jaysh al-Islam ha fatto sapere di aver inviato un proprio team a Ginevra, pronto a sedersi al tavolo. Considerato gruppo terrorista da Damasco e Mosca, non è stato mai accettato come partner per il dialogo. E il raid di ieri è un chiaro segnale del fronte guidato dalla Russia: non ci sarà negoziato con il gruppo né con Ahrar al-Sham, milizia islamista alleata dei qaedisti di al-Nusra. L’ennesima rottura in un dialogo già privo di basi comuni. Il terzo tassello è la visita a Kobane di Brett McGurk, inviato speciale del presidente Usa Obama per la coalizione anti-Isis. McGurk è arrivato domenica nella città simbolo della resistenza kurda contro lo Stato Islamico e lì ha incontrato le Ypg, le Unità di difesa popolare del Partito dell’Unione Democratica (Pyd). Un meeting volto a stemperare le tensioni per l’esclusione dal negoziato di Ginevra del partito kurdo, dietro preciso diktat della Turchia: "La visita serve agli sforzi dell’inviato speciale nel cercare modi per fare pressioni sull’Isis", ha detto un funzionario Usa anonimo. La vecchia strategia di un colpo al cerchio e una alla botte: i kurdi sono considerati validi alleati nella lotta all’Isis, ma non abbastanza quando si tratta di dialogo con governo e opposizioni, dove la Turchia ha ancora voce in merito. Se la simbolica visita a Kobane riconosce la centralità militare dei kurdi, la loro esclusione dal dialogo ricorda che la lotta all’Isis resta ai margini dell’interesse delle opposizioni e di chi delle opposizioni muove le fila, Golfo e Turchia. A reagire è l’intero spettro kurdo-arabo: ieri il Consiglio Democratico Siriano, nato a dicembre dalla nuova compagine Forze Democratiche Siriane (alleate di Usa e Russia), ha sospeso la propria partecipazione al negoziato, a cui era stato invitato dall’Onu, fino a quando i delegati del Pyd non saranno fatti entrare. Infine, l’ultimo tassello: la Turchia ha avviato la costruzione di una base militare per l’aviazione e la marina in Qatar. La cooperazione militare tra i due paesi non è una novità ed era stata cementata da una serie di accordi già la scorsa primavera. Ora diventa realtà tangibile, in un momento in cui le tensioni da guerra fredda tra Nato e Russia sono all’apice. La base servirà ai turchi - e di conseguenza al Patto Atlantico, che ha dato il beneplacito alla costruzione insieme agli Usa - a partecipare a operazioni nel Mar Rosso e nel Golfo, sfida aperta all’Iran e alla stessa Russia. Che ieri ha indirettamente reagito pubblicando un video che mostra l’artiglieria pesante turca bombardare il territorio siriano. Secondo la tv libanese al-Mayadeen, vicina ad Hezbollah, è stato ucciso un soldato siriano in un’area in cui l’esercito governativo sta compiendo operazioni in chiave anti-al Nusra. Il generale Konashenkov, portavoce del Ministero della Difesa, ha chiesto alla Nato e al Pentagono "spiegazioni immediate". Mosca ha poi confermato il dispiegamento di quattro Su-35 nel distretto nord di Latakia, a fini di sorveglianza e distruzione delle postazioni terroriste. Una risposta alle notizie pubblicate da media israeliani, secondo i quali il satellite di Tel Aviv Eros-B avrebbe individuato nei mesi passati 30 aerei e alcune batterie di missili terra-aria in una base militare di Latakia. Turchia: raddoppiato numero detenuti Isis in 5 mesi Agi, 2 febbraio 2016 Il commando generale delle forze di sicurezza di Ankara ha emesso un comunicato con il qual ha reso noto che il numero di arresti di sospetti miliziani dell’Isis in territorio turco è raddoppiato nel secondo semestre del 2015. In base a quanto si legge, sarebbero 1139 i detenuti attualmente nelle carceri turche, perché sospettati di aver combattuto al fianco dell’Isis o di voler raggiungere il territorio sotto il controllo del califfato di Raqqa. In particolare emerge come il numero di arresti sia aumentato del 90% negli ultimo 5 mesi dello scorso anno, in seguito a un giro di vite che Ankara ha deciso dopo agli attentati kamikaze di Suruc e Ankara, in seguito ai quali, lo scorso 20 luglio e 10 ottobre, hanno perso la vita rispettivamente 31 e 102 persone. I numeri si riferiscono agli arresti effettuati al confine, con 643 terroristi fermati mentre cercavano di riparare in Turchia, mentre altri 496 cercavano di raggiungere il territorio sotto il controllo del califfato attraverso la Turchia. Il confine di Kilis, nella regione di Gaziantep, rappresenta il punto di transito più battuto e dove il maggior numero di arresti è stato eseguito. Nella giornata di ieri I media turchi hanno riportato la notizia dell’arresto di 7 foreign fighters nella città di Kahramanmaras, nel sud est della Turchia, dove i miliziani si apprestavano a raggiungere gli uomini del califfato oltreconfine. Lo scorso 12 gennaio, il saudita Nabil Fadli ha ucciso 10 turisti tedeschi dopo essersi fatto esplodere nella celebre piazza Sultanahmet, cuore turistico di Istanbul. In seguito al tragico attacco il governo di Ankara ha deciso di implementare ulteriormente i controlli e intensificare le indagini, rispetto alle quali già dopo gli attentati degli ultimi mesi era stato compiuto un giro di vite. Stati Uniti: Brandon Jones, iniezione letale per il detenuto 73enne della Georgia di Rossana Spartà thinknews.it, 2 febbraio 2016 Nel braccio della morte del Carcere di Jackson in Georgia, stato situato a Sud Est degli Stati Uniti, che nel 2015 aveva sospeso per qualche mese le esecuzioni in ragione di una controversia sui prodotti utilizzati per le iniezioni letali, ci sono oggi settantasei detenuti. Brandon Jones, settantadue anni, è tra questi ed è il più anziano nelle celle della morte. Oggi alle 19:00 ora locale, Brandon Jones verrà giustiziato. L’uomo, condannato a morte per l’omicidio di un commerciante nel 1979, riceverà un’iniezione letale nel penitenziario dove si trova detenuto da trentasei anni, a pochi giorni dal suo 73 compleanno. La sorte giudiziaria di quest’uomo simboleggia il dramma della "doppia pena" alla quale vengono spesso sottoposti, negli Stati Uniti, alcuni detenuti che trascorrono decenni in carcere, in regime di isolamento, avendo come unica prospettiva la morte. Stephen Breyer, giudice della Corte Suprema, l’anno scorso si è pronunciato in merito denunciando che le lunghezze del periodo di detenzione "sfidano la ragione e minano il fondamento punitivo della pena di morte". Brandon Jones non ha voluto scegliere il suo ultimo pasto, possibilità offerta ai condannati a morte. Cina: "Io vescovo, dentro e fuori dal carcere solo perché consacro preti" di Gianni Valente La Stampa, 2 febbraio 2016 Julius Jia Zhiguo, 81 anni, è a capo della diocesi di Zhengding, nella provincia dell’Hebei. È un vescovo cosiddetto "clandestino", cioè non riconosciuto dalle autorità del governo cinese e ormai ha perso il conto di tutte le volte che è finito in prigione o in residenze "forzate". La voce è mite e paziente. Nelle parole non c’è ombra di lamento, di paura o di vittimismo. Lei è stato ordinato vescovo nel 1980. Come sintetizzerebbe questa sua lunga esperienza? "La mia vita è parlare di Gesù. Non ho altro da dire e da fare. Tutta la mia vita, ogni giorno, serve solo per parlare di Gesù agli altri. A tutti." La chiamano il "vescovo pendolare del carcere". Quante volte l’hanno tenuta in detenzione? "Non ho tenuto il conto. Negli ultimi due anni è accaduto raramente. Ma prima, c’erano periodi in cui venivano a prendermi più di una volta nello stesso mese". L’ultima volta? "A maggio dell’anno scorso. Ma mi hanno fatto tornare per la messa di Pentecoste. Mi hanno portato in un albergo, non mi hanno fatto niente di speciale. In quei giorni ho pregato, ho letto, ho celebrato la messa, e ho parlato con loro. Ripetevano ancora una volta che non devo fare quello che ho fatto". Cioè che cosa? "Avevo ordinato dei sacerdoti. Ho ripetuto che questa è la mia vita, il mio lavoro. I preti li ordina il vescovo, e il vescovo sono io, non posso farci niente. Se non li ordino io, non li ordina nessuno. Loro ripetevano: no, tu non sei vescovo, non hai l’approvazione del governo. E allora io rispondevo: ma si che sono vescovo. Il popolo di Dio mi riconosce come il suo vescovo legittimo. E anche il Papa. Abbiamo continuato a ripetere queste cose a lungo. Ma senza litigare, senza agitarsi, parlando con tranquillità. Alla fine mi hanno riportato a casa. Siamo rimasti in pace". Anche le altre volte è andata così? "I motivi sono sempre gli stessi. Io non faccio niente contro nessuno. Non voglio sfidare il governo, non ho niente contro il governo e non parlo male di loro. Ma sono un vescovo della Chiesa cattolica. E loro mi vengono a prendere sempre perché faccio ciò che devono fare i vescovi". Come ha vissuto gli anni delle persecuzioni, durante la Rivoluzione Culturale? "I problemi grossi cominciarono che io ero seminarista. Dal 1963 al 1978 sono stato ai lavori forzati in posti sperduti, freddi e inospitali". Che cosa ha custodito la sua fede? "Ci bastava avere Dio nel cuore. Questo mi ha accompagnato e custodito per tutto quel tempo. Ci sono state tante difficoltà, ma Dio mi era accanto, e questo bastava". La "Lettera ai cattolici cinesi" di Benedetto XVI è stata accolta e seguita da tutti? "Papa Benedetto ci ha esortato a unirci. Ma poi su quella lettera c’è stato chi ha alimentato confusione diffondendo interpretazioni contrastanti, soprattutto in certi ambienti delle comunità clandestine". Riesce a seguire il magistero di Francesco? "Lo seguiamo ogni giorno, ogni cosa che fa o che dice. Tutti sono colpiti dalle sue parole e dai gesti con cui esprime la carità e la predilezione per i poveri, per i sofferenti e quelli feriti dalla vita. Sono cose che in Cina hanno un grande impatto, su tutti". Francesco ha detto di voler dialogare, vorrebbe anche incontrare il presidente Xi Jinping. Sarebbe una cosa buona? "Certo, come inizio è una cosa ottima. Poi bisognerà guardare ai fatti, oltre alle parole. Ma vedersi e parlare è meglio che non vedersi, perché solo vedendosi e parlandosi si possono affrontare i problemi". Se la Santa Sede va avanti in questo dialogo con il governo, come reagiranno i cattolici cinesi? "Ci fidiamo del Papa, è il successore di Pietro. Abbiamo fiducia nel Signore che sostiene e guida la Sua Chiesa, e ci affidiamo a Lui. Sono tanti anni che si parla di come risolvere questo problema. È una questione complessa, ma tutto è nelle mani di Dio e noi siamo tranquilli. Non ci preoccupiamo. Sappiamo che il Papa non rinuncerà alle cose essenziali che fanno parte della natura della Chiesa". Che cosa rischia oggi di spegnere la fede in Cina? "Tanti si stanno intiepidendo per il materialismo e il consumismo crescenti. Tanti non vengono più in chiesa a pregare, anche perché sono sempre indaffarati e non trovano mai il tempo. Dobbiamo darci da fare. La Cina è un grande campo dove dobbiamo seminare il Vangelo di Gesù".