Un anno di galera dura infinitamente di più di un anno di vita libera Il Mattino di Padova, 29 febbraio 2016 "Se l’illecito penale è, appunto, lacerazione, occorre chiedersi come sanare tale ferita e contenere il rischio che se ne producano di nuove. Dobbiamo riconoscere che il diritto penale è solo uno degli strumenti con cui si possono perseguire questi due obiettivi. Molto devono, infatti, contribuire gli sforzi sul piano dell’educazione, della costruzione di legami sociali, dell’adozione di politiche inclusive che riducano le sacche di marginalità, del potenziamento di azioni di prevenzione e di controllo. L’intervento sanzionatorio penale è uno strumento da riservare in modo sussidiario a quelle violazioni non altrimenti censurabili o efficacemente riparabili. Sempre maggiore attenzione, dunque, deve essere rivolta a quelle azioni riparative che molto più della punizione insegnano in termini di effettività ed efficacia": sono parole, queste, dette dal ministro della Giustizia Andrea Orlando in una audizione davanti alla Commissione Giustizia della Camera. E il ministro non è certo un estremista, ma è ben consapevole che, se vogliamo ridurre la recidiva e vivere in una società più sicura, dobbiamo smetterla di pensare a una giustizia vendicativa, e ragionare su una giustizia che ripara il male fatto. E ricordarci che un anno di galera dura infinitamente di più di un anno di vita "libera", e distrugge e consuma le vite di coloro che hanno fatto del male e delle loro famiglie, invece di mettere al servizio della collettività le loro risorse. Ma quanto deve durare una pena giusta? Oggi qualsiasi condanna inflitta ad una persona non basta mai, non è così importante capire quale sia stata la causa o l’errore del soggetto che ha commesso un reato, ma infliggere quanto più possibile dolore e sofferenza. Se si prende una condanna di 10 anni di carcere si pensa che è poca, se danno una condanna di 20 anni non si rimane soddisfatti, e quando la pena diventa di 30 anni si dice "tanto prima o poi uscirà". Perché anche quando danno l’ergastolo sono convinti che la pena non possa mai bastare? La mia domanda è: ma quanto deve durare una pena giusta? Ormai nel nostro Paese ci siamo fatti l’idea che più la condanna è alta e più viviamo sogni sereni, ma la cosa più assurda è quella di non capire che questo luogo poco umano, che è il carcere, è aperto per tutti, dai buoni ai cattivi, tutti rischiano di finirci dentro. Vorrei che si riflettesse su un punto. Prendete il giorno più brutto della vostra vita e moltiplicatelo per dieci o più anni, in cui vivete isolati e soli: questa è la galera, un anno di galera dura infinitamente di più di un anno di vita libera. La pena invece deve rendere giustizia certamente e prima di tutto a chi subisce il reato, ma in un certo senso anche alla persona detenuta, perché se no diventa pena ingiusta, e questo non lo prevede la nostra Costituzione. E invece sembra che ormai tutto questo non conti più nel nostro Paese, la Corte Europea ha sanzionato l’Italia più volte per trattamenti disumani e degradanti. Non è tanto la quantità della pena inflitta, ma il modo in cui la si sconta, che è importante, perché la condanna deve tendere al recupero del soggetto. E il soggetto viene recuperato solo quando si applicano tutte le regole previste dal nostro Ordinamento Penitenziario. Sarò pure "cattivo" ma anche io sono un essere vivente e non posso respirare una vita insapore, senza senso, devo avere la possibilità di rifarmi una esistenza decente, ho il diritto di riscattarmi, di continuare ad amare ancora, di ricucire lo strappo che ho causato rispettando quelle regole da me violate. Vivere in carcere 10/20/30 anni ti fa diventare un vegetale. Io per esempio non conosco più la vita fuori, non so come sia un telefonino, non l’ho mai visto se non nella pubblicità alla tv; in questo istituto per la prima volta vedo e scrivo con un computer, ho impiegato mesi per capirne le basi. E sono 20 anni che non vedo un bicchiere di vetro o un piatto di porcellana, ho perso davvero il senso della vita quotidiana; se dovessi uscire un giorno da queste mura, mi perderei, perché non saprei dove andare, non ho proprio orientamento, non so cosa possa significare essere libero, il mondo che conosco più di casa mia è il carcere. Perché non vedo altro che sbarre e cemento ogni santo giorno, in carcere non c’è una vita da vivere. E questo non è un trattamento umano. Giovanni Zito Il tempo INdeFINITO del carcere "Cos’è il tempo? Se nessuno me lo chiede lo so; se provo a spiegarlo, a chi me lo chiede, non lo so più!": questo è quanto diceva S. Agostino. Il carcere è un luogo che non si può spiegare, fatto di solitudine, perdita della parola e di rabbia, queste sono le tre componenti fedeli delle infinite giornate che chi ci finisce dentro inevitabilmente sperimenta! Si vive una vita monotona, meccanizzata, ogni giorno sempre le stesse identiche cose e ad un certo punto scopri che il tuo carattere, i tuoi pensieri e le tue speranze cambiano, e non in meglio; hai continui sbalzi di umore, stai sempre sulla difensiva e pensi che ogni cosa, anche un semplice saluto, abbia un secondo fine. Si perde la lucidità e si diventa egoisti e superficiali; non si riesce ad elaborare quella che è la realtà e la verità, così facendo si finisce con l’adattarsi a una vita piatta, priva di emozioni e priva di speranze, che è la cosa più grave perché ciò che spinge l’uomo al sacrificio e a migliorarsi è appunto la speranza. Tutto questo è il devastante effetto che ha il carcere "passivo" su un uomo. Esistono poche situazioni paragonabili alle sottili torture di tante carceri italiane, quella che più pesa è la lontananza dei familiari; spesso noi detenuti veniamo trasferiti fuori dalle nostre regioni e quindi diventa difficoltoso potersi incontrare, a questo bisogna aggiungere che il contatto con la famiglia non è favorito come sarebbe giusto, è concessa una sola telefonata a settimana da dieci minuti, con la quale si dovrebbe riuscire a mantenere un rapporto stabile con i nostri cari anche quando la condanna è molto lunga. Questo sistema provoca tensioni e lo scontro diventa inevitabile, sarebbe opportuno che si iniziasse a pensare che il carcere non deve essere un luogo in cui "punire con cattiveria", perché di certo non se ne trae un percorso significativo e rieducativo; si devono assolutamente favorire gli affetti in tutti i modi possibili, devono essere create le circostanze affinché la pena diventi davvero rieducativa e si faccia in modo di far comprendere il danno che qualsiasi reato arreca, a tutte le persone che ci stanno vicino e a chi lo subisce. Solo con una buona dose di educazione, cultura e disciplina sarà possibile accompagnare il detenuto al reinserimento sociale e farlo redimere da quel che è stato. Secondo me dunque occorre che vi siano continui stimoli e piccoli traguardi da porsi per non lasciarsi risucchiare dal sistema carcerario, un sistema che mira alla totale limitazione in tutto e per tutto, al punto da far nascere la rassegnazione, ed è proprio in questo stadio che l’uomo finisce per perdere la dignità e ritenere giusto sottostare a qualsiasi condizione. Ma questo non può essere accettato soprattutto in nome della nostra Costituzione. Personalmente mi reputo "fortunato" perché quanto meno dalla tragedia della mia vita ho la possibilità di finalizzare il tempo in maniera proficua attraverso un percorso di studi universitari, occorre volontà e forza perché provate a immaginare di dedicarvi a qualcosa con lo stress di ogni giorno e il pensiero al processo e ai familiari e a tutto il tempo sprecato e alla vita che passa. Ecco perché un altro tema da rivedere è la durata della pena e la qualità con la quale si sconta: non è facile devo dire, eppure l’uomo è una "bestia" così intelligente che adattandosi a qualsiasi tipo di evento riesce a dare il meglio di sé e a raggiungere notevoli risultati, ma solo se gli viene concessa fiducia e possibilità di dimostrare di valere qualcosa. Carmelo Vetro I diritti dei detenuti islamici ignorati: così le carceri italiane diventano palestre dell’Isis di Karima Moual La Stampa, 29 febbraio 2016 L’imam volontario di Genova: "I diritti dei detenuti islamici ignorati. E la religione diventa un modo per sfogare la rabbia del gruppo". Allahu Akbar. La voce del Muezzin chiama alla preghiera. Questa volta però, non arriva dal pulpito della Grande Moschea di Roma o da quello di Torino, ma da una fredda applicazione ad hoc, possibilmente da tenere in modalità volume basso nei pochi metri quadrati della cella. Nell’interminabile reclusione c’è chi nella fede prova ad attenuare e alleviare l’attesa con la voce del Muezzin, anche se virtuale. Said, Mohammed, Hassan, Mostafa e molti altri aspettano al Jumoa, il venerdì. È un giorno speciale per i musulmani, ancora di più per quelli detenuti, perché è un appuntamento riservato a chi è di fede islamica: momento di preghiera, di incontro, di scambio: domande, risposte. È il giorno nel quale ci si può purificare il cuore e la mente dal grigiore della cella. E l’identità islamica diventa una forza in un luogo dove difficilmente trova spazio la speranza. La palestra di Marassi - Quella che Salah Husein, un ingegnere e imam italo-palestinese, prova a trasmettere ogni Jumoa. A Genova, e non da una moschea: da una fatiscente palestra carceraria che il venerdì si veste di tappetini colorati rivolti verso la Mecca, tra detenuti accusati di crimini di varia natura che per quell’ora alla settimana provano a vestirsi da angeli. Salah è uno dei pochissimi imam ad avere il permesso di accedere al carcere in visita di detenuti di fede islamica, fa questo lavoro da 26 anni e non si è mai stancato di percorrere il tragitto da casa al carcere di Marassi, sotto braccio il corano e un tappetino, nel cuore lo spirito del volontario. Sono le 12,30. Come ogni venerdì lo aspettano una trentina di detenuti. Li deve guidare alla preghiera, ascoltare le loro richieste, pronunciare un sermone che possa essere tanto utile quanto educativo: per un buon musulmano e anche per un cittadino modello. I detenuti sono maghrebini ma anche - per esempio - albanesi. Così lui si alterna tra l’italiano e l’arabo. "Nel disorientamento che il musulmano incontra in carcere - spiega il sociologo Mohammed Khalid Rhazzali, che ha scritto "L’islam in carcere" (Franco Angeli editore) - il rapporto con la religione appare, spesso, come l’unica risorsa capace di garantire un punto di riferimento utile per capire la propria condizione. Lo si vede nelle carceri dei Paesi in cui la maggioranza della popolazione è musulmana, diventa ancora più vero in quelli nei quali essere musulmano significa appartenere a una minoranza". Diritti e necessità - "L’assistenza religiosa è un diritto dei detenuti. Oggi sta diventando un’esigenza sempre più forte, una necessità da gestire" aggiunge Youssef Sbai, docente del corso di formazione e aggiornamento sull’islam e suoi aspetti culturali, per il personale carcerario. Le differenze culturali, a cominciare da quelle alimentari, in carcere non vengono nemmeno prese in considerazione se non come un extra concesso solo in alcune. Tra le testimonianze dei detenuti musulmani raccolte da Ghazzali, Qais spiega come ci si organizza per il cibo: "Dimentica Halal o non Halal. Qui si rispetta solo la cosa del maiale. Però se hai soldi puoi ordinare se vuoi il pollo halal e te lo portano. Hanno delle convenzioni con delle macellerie islamiche. Questo è un grande giro commerciale nelle carceri italiane". Ricchi e poveri - Insomma c’è chi se lo può permettere, chi ne fa a meno e chi si adatta seguendo il consiglio di alcune interpretazioni religiose: "Il mio compagno è faqih, racconta Larbi a Al Ghazali, e dice che Bismillah (nel nome di Dio) rende tutto halal. Nella condizione carceraria non ti conviene aggiungere ai problemi un altro problema". Eppure i detenuti di fede islamica nelle carceri italiane non sono pochi. Una realtà sotto i riflettori soprattutto negli ultimi anni, a causa del terrorismo di matrice islamica e la minaccia jihadista che hanno dimostrato di trovare nel carcere la zona ideale per fare proselitismo e raccogliere adepti. Sono infatti oltre 200 gli osservati speciali negli istituti di pena italiani, su 10 mila e 400 detenuti di fede islamica, ha dichiarato solo qualche mese fa Santi Consolo, capo del dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap). Radicalizzazione in cella - Il dato preoccupa non tanto per il numero di osservati speciali quanto perché è chiaro che si fa poco o nulla in concreto per combattere la radicalizzazione in carcere. Sull’islam si procede ancora a tentoni, come quando si parla di aprire nuove moschee. Sul tavolo c’è un protocollo d’intesa appena firmato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e l’Ucoii, per la formazione di futuri ministri di culto (appena 14 candidati in attesa di formazione), per far fronte a un problema che è già passato, presente e futuro insieme. A Rossano Calabro (in provincia di Cosenza) sono recluse almeno 21 persone accusate di terrorismo internazionale. Negli istituti di pena, secondo le analisi e i monitoraggi dello stesso ministero, gli incontri di preghiera ci sono eccome, ma solo 52 istituti dispongono di un locale apposta, mentre in 132 il culto è esercitato nelle celle o in locali occasionali. Ma a preoccupare di più, in realtà, è la prevenzione specializzata. Perché a leggere la scheda di monitoraggio del ministero si scopre che sono solo 9 gli imam che hanno accesso alle carceri, 14 i mediatori culturali. Davvero pochi rispetto a una percentuale del 35% di musulmani tra i detenuti totali nelle carceri italiane. Lo stemma dell’Isis - Singolare il caso dell’ex detenuto Mohammed Carlos Gola, un giovane brasiliano convertito all’islam, che si è fatto conoscere alle cronache per aver denunciato e vinto la causa contro le discriminazioni subite in carcere in quanto musulmano. Oggi con lui è possibile parlare solo in presenza del suo avvocato. Ma a visionare un video dove lui e il suo legale spiegano ciò che gli era successo durante la detenzione, non può sfuggire la felpa che Carlos Mohammed indossa con lo stemma dell’Isis in bella evidenza. È senz’altro il caso di chiedersi come sia accaduto che questo ragazzo abbia abbracciato il radicalismo dell’Isis in carcere e perché, una volta uscito, non abbia poi più voluto farne a meno. Serve attenzione - "I sentimenti, di rabbia, discriminazione, disturbi psicologici di vario tipo, di vendetta e rivendicazione verso la giustizia italiana, vista dal proprio vissuto come ingiusta, possono trovare rifugio nel messaggio estremista - spiega Husein, per questo il rischio della radicalizzazione è presente e ha bisogno di strategia. Mi è capitato molte volte di correggere questo messaggio estremista, ma chi mi dice che io ci sia riuscito sempre e che invece non trovi risposta in altri luoghi di detenzione dove invece c’è il vuoto?". La comunità dei detenuti di fede islamica, insomma, può giocare due ruoli opposti. Se la si incontra con un modello costruttivo di integrazione, come prova a fare da volontario Husein, può produrre dialogo. Se rimane fuori controllo, gestita esclusivamente dai detenuti - come i dati del ministero dicono che accada oggi - non c’è da stupirsi se le carceri italiane si trasformano in una palestra di estremisti. In questi casi l’islam dà una solida ideologia, che ha dimostrato di far breccia anche su chi vive in condizioni migliori di un detenuto. Proprio il detenuto di cui parla il Corano al versetto 8 della Sura Al Insan, descrivendolo come bisognoso di attenzioni quanto l’orfano e il povero. Sulle intercettazioni irrilevanti l’outing in ritardo dei soliti magistrati di Luca Rocca Il Tempo, 29 febbraio 2016 Ora sono tutti d’accordo: vanno tenute segrete. Da un parte il concorso esterno in associazione mafiosa, messo sempre più in discussione anche dai giudici; dall’altra le intercettazioni, sulle quali, dopo gli abusi che hanno determinato sputtanamento mediatico, crisi politiche e il siluramento di Silvio Berlusconi, i magistrati fanno ammenda e annunciano miracolose autoregolamentazioni. Risultato: dopo decenni, quando i buoi sono già scappati, si tenta di riscrivere le regole del gioco. I fatti. Pochi giorni fa il gup di Catania, Gaetana Bernabò Distefano, emette una sentenza di "non luogo a procedere" nei confronti di Mario Ciancio Sanfilippo, editore del quotidiano La Sicilia accusato di aver preso parte a iniziative imprenditoriali in cui erano invischiati anche uomini di Cosa nostra. Nel prosciogliere Ciancio, il giudice, soffermandosi sul concorso esterno, spiega che "la creazione di una fattispecie di reato non può che essere demandata al legislatore, che deve farsi carico di stabilire i confini di tale figura, secondo precisi criteri di ermeneutica giuridica", così da non "lasciare all’interprete il compito di definire qualcosa che, allo stato, non è definibile". Per Distefano, dunque, allo stato il concorso esterno "non è previsto dalla legge come reato" e occorre intervenire per "tipizzarlo". Necessità espressa già da Giovanni Falcone. Da quanto riportato dal gup catanese, ha preso subito le distanze il presidente dell’ufficio del gip di Catania, Nunzio Sarpietro, persuaso che "la negazione del reato di concorso esterno è una decisione del tutto personale e isolata, poiché tutti gli altri giudici della sezione" lo ritengono "sicuramente ipotizzabile, come più volte stabilito dalla Corte di Cassazione". Il punto è che il concorso esterno, in effetti, non esiste nel nostro codice penale, ma è una "emanazione giurisprudenziale" su cui tentò di fare chiarezza, nel 1994, la sentenza Demitry (e successivamente altre), con la quale le sezioni unite della Cassazione sancirono l’esistenza di quel reato. Evidentemente non in modo inequivocabile, se è vero che ancora oggi ci sono giudici che chiedono al parlamento di normarlo. Le motivazioni di Distefano non sono piaciute all’ex procuratore capo di Palermo Gian Carlo Caselli, che ha parlato di "revisionismo negazionista", spiegando che in questo modo si fa "antimafia solo a metà". Le sentenze, si sa, piacciono solo quando seguono la solita corrente. Intanto Mario Giarrusso, componente della Commissione Antimafia del M5S, ha annunciato che chiederà formalmente la convocazione sia di Distefano che di Sarpietro. Iniziative sorprendenti, perché in colpevole ritardo, anche sulle intercettazioni. In attesa che il governo riempia di contenuti la legge delega in materia, il procuratore capo di Torino, Armando Spataro, ha varato delle linee guide per tutelare la segretezza delle conversazioni, stabilendo, ad esempio, che al termine delle indagini preliminari i magistrati dovranno estrapolare dal fascicolo quelle "irrilevanti" o contenenti "dati sensibili". Dunque, "l’inutilizzabilità di determinate conversazioni" e la "riservatezza delle comunicazioni" sarà garantita dalla procura. E le intercettazioni, tra l’altro, non potranno essere trascritte nei brogliacci dalla polizia giudiziaria, che dovrà limitarsi a indicare, nelle informative, "data e ora della registrazione, senza alcuna sintesi delle conversazioni o indicazione delle persone tra cui siano intervenute". Alla procura di Torino (che si è mossa dopo quella di Roma e sarà seguita da Firenze) si è subito accodata quella di Napoli guidata da Giovanni Colangelo, che solo oggi, dopo che da quegli uffici è uscito di tutto, si pone l’obiettivo di "evitare l’ingiustificata diffusione delle conversazioni estranee e irrilevanti per le indagini". Plaude all’iniziativa di Spataro anche Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm. Tutto bene, dunque? Non proprio. A parte il rischio di regole a "macchia di leopardo" e l’impossibilità di non notare che ci si sveglia con qualche decennio di ritardo e quando i danni sono stati tutti compiuti, ci si dimentica quanto spiegato persino dal segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati, Maurizio Carbone, il quale, pur d’accordo con Spataro, ha evidenziato che, in realtà, "cambia poco o nulla", perché la direttiva "ricalca norme già esistenti" e che prevedono lo "stralcio di conversazioni private che nulla hanno a che vedere con l’indagine". Esistenti e sempre ignorate. Mafia: il maxi-processo di Palermo 30 anni dopo di Attilio Bolzoni La Repubblica, 29 febbraio 2016 Sarà ancora vivo quello che si mangiava i chiodi per far finta di essere pazzo? Come si chiamava? Sinagra Vincenzo detto Tempesta, da non confonderlo con suo cugino - si chiamava come lui, Sinagra Vincenzo - che per tutti gli altri era pazzo per davvero perché si era pentito. E il vecchio Mario Labruzzo della Guadagna, è morto nel suo letto o è morto sparato? E che fine ha fatto Pietro Alfano "U zappuni" per gli incisivi a forma di zappa? E Giovanni Di Giacomo "Il Lungo"? E Ludovico Bisconti di Belmonte Mezzagno? E Vincenzo Buffa? E Gioacchino Cillari? E Rocco Marsalone? Chissà dove sono finiti quelli del maxi processo di Palermo, la "crema" di Cosa nostra processata e condannata nel dibattimento che trent’anni fa - dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre del 1987 - segnò l’inizio della fine di una mafia padrona. In quei mesi erano tutti lì, aggrappati alle sbarre e rinchiusi per la prima volta come animali in trenta gabbie disposte a semicerchio e affacciate su una gigantesca piazza che sembrava un Colosseo tecnologico, telecamere sospese nell’aria, microfoni, metaldetector, porte blindate, un camminamento sotterraneo - ad uno ad uno ci passavano loro, i 475 imputati - che dall’Ucciardone portava all’aula bunker. Dove sono oggi i sopravvissuti alle indagini del giudice Falcone? E che cosa fanno? E quanti se ne sono andati per cause naturali o per qualche "conto" che avevano in sospeso, come quell’ Antonino Ciulla che a poche ore dalla fine di tutto si ritrovò con un colpo alla schiena e con la faccia imbrattata dalla ricotta dei cannoli comprati per festeggiare l’assoluzione? Sfogliando l’album del maxi processo è come fare un salto nel passato. E a volte nel futuro. Qualcuno ha sempre in mente di rimettere su la Cupola. Fra reperti di archeologia mafiosa e nostalgici che non si arrendono mai, il nostro viaggio dentro la Cosa nostra degli Anni 80 non vi farà mancare qualche sorpresa. Quelli che avevano una certa età già allora - dalla classe 1908 alla classe 1912 - ovviamente non ci sono più. Il più longevo, Procopio Di Maggio, i suoi 100 anni li ha celebrati un mese fa con i fuochi d’artificio a Cinisi, il paese di Peppino Impastato. Ma non c’erano già più neanche quando li avevano condannati - alla fine del 1987 - nemmeno Calogero Bagarella (ucciso in viale Lazio nel dicembre 1969), Saro Riccobono (strangolato alla Favarella nell’82) e Filippo Marchese (vittima della lupara bianca in imprecisato giorno fra l’83 e l’84), la cui sorte fu rivelata in seguito da pentiti che confessarono le loro colpe in altri processi. Vivo e all’ergastolo per l’omicidio di un carabiniere è Masino Spadaro, un contrabbandiere che per quanto era ricco si autodefiniva l’"Agnelli di Palermo". Un paio di anni fa si è laureato in Filosofia nel carcere di Spoleto, la sua tesi: "La non violenza e i fondamenti della religione di Gandhi". Vivo e residente a Corleone è Carmelo Gariffo, nipote prediletto di Bernardo Provenzano. Vivo e libero è Pino Lipari, iscritto all’albo dei geometri ma in realtà diventato dopo il maxi una sorta di ministro dei Lavori Pubblici dei Corleonesi. Vivi e detenuti i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, al tempo sconosciuti ragazzini di Brancaccio e poi meglio conosciuti come "i Graviano delle stragi". C’è chi ha scontato la sua pena come Giovanbattista Inchiappa e fa l’elettricista, c’è chi è stato assolto come Giuseppe Urso e ha aperto una vineria, c’è chi ha preferito "cantare" come Salvatore Cocuzza, c’è chi si è suicidato come Giuseppe Giacomo Gambino e chi trafficava in morfina base ed è sparito dall’altra parte del mondo come il malese Lam Sing Choy. Ci sono capi sottoterra come Luciano Liggio e Bernardo Brusca e capi ai loro ultimi giorni come Totò Riina e Bernardo Provenzano e Pippo Calò. Morto Buscetta negli Usa, ancora vivo da qualche parte in Italia Totuccio Contorno. Ci sono famiglie scomparse dal panorama criminale e altre sempre presenti. Di Vernengo al maxi processo ce n’erano 5, di Tinnirello 8, di Fidanzati 5. Ma i più numerosi erano i Greco: 10. Una stirpe. Greco Giuseppe fu Nicola, Greco Ignazio fu Vincenzo, Greco Leonardo, Greco Nicolò, Greco Salvatore fu Giuseppe e Greco Giuseppe fu Salvatore, Greco Salvatore fu Pietro, Greco Salvatore fu Salvatore. E poi Michele Greco, il signorotto di campagna che i Corleonesi fecero "Papa" e che augurò la "pace eterna" al presidente della Corte Alfonso Giordano e al giudice Pietro Grasso mentre si ritiravano in camera di consiglio. Morto nel 2009, all’età di 84 anni, a Rebibbia. Morto nel 2011, all’età di 58 anni, anche suo figlio Giuseppe, uno dei pochi assolti del maxi che poi aveva cambiato nome (Castellani, quello della madre) e si era lanciato senza troppe fortune nel cinema. Produttore di una commedia all’italiana - "Crema, cioccolata e paprika" con Barbara Bouchet e Franco Franchi - e regista de "I Grimaldi", una saga familiare dove la mafia "buona" (quella di suo padre) si contrapponeva alla mafia "cattiva" della droga. Ma accanto ai personaggi più pittoreschi ci sono gli intramontabili. Come Benedetto Capizzi, condannato a 8 anni e tornato alla ribalta nel 2008 per avere riunito un po’ di "vecchi amici" per rifondare la Commissione di Cosa nostra. Arrestato in diretta dai carabinieri: potenza della microspie. O come Salvatore Profeta, 6 anni al maxi e scarcerato per la revisione del processo Borsellino, che nel dicembre scorso chiacchierava con i suoi di Villagrazia firmando il ritorno in cella: "Quando c’era Stefano Bontate, in famiglia eravamo 100-120, oggi solo 20-30". Ci riprovano sempre. Avverte il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi: "Anche dopo tanto tempo abbiamo la certezza che tentano sempre di rigenerarsi e che le regole dell’associazione restano immutate, la mafia continua a fare la mafia". Gli scarcerati del maxi processo sono sempre sotto controllo. Il più illustre a piede libero al momento è uno che era stato assolto, Giuseppe Guttadauro. Primario di chirurgia al Civico e capo-mandamento di Brancaccio, è il boss che ha messo nei guai il governatore Totò Cuffaro. Il dottore Guttadauro fa il volontario in una Onlus a Roma. Come libero è anche Alessandro Bronzini, conosciuto come "Il Vampiro" perché amava uscire solo di notte. Bronzini fa il pittore, dipingeva in cella anche i quadri che Liggio spacciava per suoi e uno schizzo del nottambulo è diventato la quarta di copertina dell’"Altra faccia dei pentiti", libro di Rosalba Di Gregorio. Nel 1986 era una ragazzina che difendeva undici imputati, noi l’avevamo chiamata "l’avvocatessa del diavolo". Oggi è una bella signora che guarda al maxi sempre con la sua cultura libertaria e radicale: "Il processo ha una sua sacralità e sono ancora convinta che la formale parità delle parti allora non è stata rispettata". La Di Gregorio aveva fra i suoi clienti anche Vittorio Mangano, quello passato alla storia come lo "stalliere" di Berlusconi. Deceduto il 23 luglio del 2000. Una mattina di questo febbraio 2016 siamo tornati all’aula bunker. Deserta. Dall’altra parte, in via Albanese numero 3 - un indirizzo che a Palermo conoscono tutti - c’è il portone dell’Ucciardone. Non c’è più un solo mafioso rinchiuso lì dentro, tutti deportati al 41 bis lontano dalla Sicilia dalla notte che uccisero Borsellino. Su un bastione del carcere sventolano due bandiere, una dell’Europa e un’altra dell’Italia. A pochi metri, sempre in via Albanese, al civico 46, sventolano altre due bandiere dell’Europa e dell’Italia. È l’ingresso dell’Ucciardhome, hotel a quattro stelle, legni, marmi, archi di pietra, design minimalista. Un’altra Palermo. Anm alle urne, l’ultima nata tra le correnti punta su Davigo come nuovo presidente Ansa, 29 febbraio 2016 Da domenica prossima, 6 marzo e sino all’8 marzo, gli 8mila giudici iscritti all’Associazione nazionale magistrati sono chiamati alle urne per rinnovare i 36 componenti del Comitato direttivo centrale, cioè del "parlamentino" che a sua volta dovrà scegliere al proprio interno i nuovi vertici del sindacato delle toghe, il che significa i successori degli attuali presidente e segretario, Rodolfo Sabelli e Maurizio Carbone e degli altri componenti della giunta. I candidati sono 141 divisi in cinque liste concorrenti e tra di loro non c’è nessuno dei componenti uscenti. Ogni elettore potrà votare per una sola lista e esprimere al massimo cinque preferenze. L’unica certezza che si ha sin da ora è che il parlamentino che uscirà dalla consultazione sarà più tinto di rosa, visto che tutti i gruppi hanno rispettato il principio della parità di genere candidando lo stesso numero di uomini e donne. I nomi noti al di fuori dell’ambiente giudiziario sono pochi. E senz’altro il più conosciuto è quello di Piercamillo Davigo. L’ex dottor Sottile del pool Mani Pulite, da anni consigliere in Cassazione, è il leader di Autonomia & Indipendenza, l’ultima nata tra le correnti, da una scissione di Magistratura Indipendente, il gruppo più moderato delle toghe e legato al sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. Sul peso di Davigo nella categoria conta il nuovo gruppo per conquistare la leadership dell’Anm. Con lui in lista c’è Ignazio De Francisci, appena nominato Pg di Bologna, e che all’inizio della carriera a Palermo ha fatto parte dello storico pool antimafia con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma c’è anche Manuela Comodi, che è stata uno dei pm del processo di Perugia sull’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. Magistratura Indipendente - che vinse le scorse elezioni, ma che è all’opposizione dell’attuale giunta composta da Unicost e da Area - ha candidato invece il gip del processo Telecom Mariolina Pasaniti, il pm veneziano del processo Mose Stefano Buccini e il presidente del tribunale per i minorenni di Bologna Giuseppe Spadaro, al centro di un caso appena qualche giorno fa: l’Anm è intervenuta a sua difesa dopo che il nuovo presidente della Consulta Paolo Grossi lo aveva definito "un giudice che non sa fare il suo mestiere". Con Unicost, la corrente di centro delle toghe, è invece in campo uno dei pm del caso Ruby Antonio Sangermano, ora procuratore a Prato. Area - il cartello elettorale che vede insieme da anni Magistratura democratica e il Movimento per la Giustizia, i due gruppi di sinistra - ha messo in lista Luigi Orsi, pm del processo Fonsai e appena nominato componente della Commissione incarica dal ministro Orlando di riformare la disciplina della responsabilità amministrativa delle società per contrastare e prevenire la criminalità economica. Ed anche Luca Poniz, il sostituto procuratore milanese titolare dell’ultima inchiesta su un presunto giro di tangenti al Comune, e Manuela Fasolato, pm nel processo sulla centrale Enel di Porto Tolle, che si è concluso in primo grado con la condanna degli ex Ad Franco Tatò e Paolo Scaroni. Trascrizione intercettazioni: nulla la nomina da parte del perito di un ausiliario di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 29 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 16 febbraio 2916 n. 6296. È affetta da nullità a regime intermedio, rilevabile e/o deducibile ex articolo 182, comma 2, del Cpp, la nomina da parte del perito officiato della trascrizione delle intercettazioni, di un esperto, quale suo ausiliario, che proceda alla traduzione delle conversazioni intercettate, trattandosi di attività non meramente meccanica, che richiede di scegliere, tra più significati equipollenti di una parola, quella nella sostanza più fedele al contenuto del dialogo. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 6296 del 2016 precisando che la traduzione deve essere quindi preceduta da un apposito incarico peritale, e non potrebbe a tal fine essere sufficiente l’autorizzazione del giudice al perito di avvalersi dell’ausiliario in qualità di interprete. Quando va sollevata la nullità - Qualora peraltro tale eventuale autorizzazione, pur impropriamente rilasciata, sia stata richiesta dal perito, nel contraddittorio, e sempre nel contraddittorio autorizzata, ciò si riflette sulla rilevabilità della nullità. Infatti, questa, in quanto a regime intermedio, deve essere rilevata o eccepita, ai sensi dell’articolo 182, comma 2, del Cpp, "quando la parte vi assiste … prima del suo compimento ovvero, se ciò non è possibile, immediatamente dopo": con la conseguenza che, avendovi le parti assistito, nel contraddittorio, la nullità deve essere eccepita prima del suo compimento, ovvero nel momento in cui il perito abbia chiesto di essere autorizzato ad avvalersi dell’ausiliario per la traduzione delle conversazioni intercettate, ovvero, al più tardi, nel momento in cui sia stato a ciò autorizzato dal giudice. Gli altri orientamenti - Già in precedenza la Cassazione ha escluso che rientri tra le facoltà del perito officiato della trascrizione delle intercettazioni nominare, quale suo ausiliario, un esperto che proceda alla traduzione delle conversazioni, trattandosi di un’attività non meramente meccanica, che richiede di scegliere, tra più significati equipollenti di una parola, quella nella sostanza più fedele al contenuto del dialogo. È necessario un apposito incarico peritale e l’eventuale irritualità della nomina integra una nullità a regime intermedio deducibile ex articolo 182 del Cpp (sezione III, 8 maggio 2013, Bugin e altri, in una fattispecie in cui, peraltro, il perito neppure era stato autorizzato ad avvalersi un ausiliario quale interprete; nonché, sezione I, 28 aprile 2014, Liuzzi e altri). Nella fattispecie esaminata, in cui irritualmente il perito era stato autorizzato ad avvalersi dell’ausiliario, la Corte, sul presupposto che si trattava di nullità a regime intermedio, ha rilevato che erroneamente tale nullità era stata dichiarata, giacché l’eccezione era stata proposta tardivamente: dopo l’esame dibattimentale del perito e/o nella prima udienza utile dopo il deposito della perizia (come sostenuto dalla difesa) ovvero prima della conclusiva lettura degli atti utilizzabili ai fini della decisione (come sostenuto dal procuratore generale ricorrente). Sull’effetto coercitivo delle minacce va valutata la vulnerabilità della vittima di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 29 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 21 gennaio 2916 n. 2702. In tema di estorsione, il giudizio in ordine alla effettiva idoneità coercitiva delle minacce è una valutazione di merito che deve tenere conto sia della consistenza oggettiva del comportamento, che della effettiva idoneità dello stesso a influire sulla volontà della vittima. Questo, per i giudici della Cassazione penale (sentenza 2702/2016 ), ovviamente, a meno che il comportamento minatorio non sia di consistenza tale da avere un potenziale offensivo di tale oggettiva incidenza da rendere non rilevante la verifica dell’efficacia in concreto della minaccia, con conseguente ininfluenza dell’indice di resilienza soggettiva della vittima. L’apprezzamento della minaccia - Quando, invece, è necessario apprezzare e considerare l’idoneità soggettiva della minaccia a coartare la volontà della vittima occorre considerare anche lo stato di vulnerabilità di questa e gli indici di vulnerabilità rilevanti sono ricavabili con chiarezza dalle indicazioni della direttiva 2012/29/Ue, che agli articoli 22 e seguenti fornisce delle indicazioni agli Stati per assicurare una protezione adeguata alla vittima del reato, con specifico riguardo a quella che presenti profili di vulnerabilità, attraverso una valutazione da effettuare in relazione alle caratteristiche personali della vittima e alla natura e alle circostanze del reato. Ne deriva che più marcata è la vulnerabilità, maggiore è la potenzialità coercitiva di comportamenti anche velatamente - e non scopertamente - minacciosi (nella specie, relativa alla contestazione del reato di tentata estorsione, è stata ritenuta correttamente motivata l’affermazione di responsabilità che aveva evidenziato come il contenuto di alcune lettere trasmesse dall’imputata alla vittima avesse avuto un effettivo contenuto intimidatorio, anche tenuto conto proprio dello stato di vulnerabilità della persona offesa, che si trovava in condizioni di depressione nevrotica, disturbo della personalità borderline e abuso alcolico). La direttiva Ue sui diritti umani - Per apprezzare la valenza dell’affermazione di principio, va considerato che con il decreto legislativo 15 dicembre 2015 n. 212, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 3 del 5 gennaio 2016 (con decorrenza dal 20 gennaio 2016), si è data attuazione alla direttiva 2012/29/Ue in tema di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Proprio a seguito di tale attuazione, è stato introdotto l’articolo 90-quaterdel Cpp, dedicato a fornire la nozione normativamente rilevante di vittima vulnerabile, attraverso una serie di parametri che sono non solo soggettivi, ma anche oggettivi, siccome correlati alla natura e alle circostanze del fatto incriminato. Ai sensi dell’articolo 90-quater del Cpp, in particolare, la condizione di particolare vulnerabilità va desunta, oltre che dall’età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede, e si deve tener conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato. Mezzi di prova: i motivi di ricusazione del perito. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 29 febbraio 2016 Prove - Perizia - Ricusazione del perito - Applicazione delle norme sulla ricusazione del giudice - Legittimazione del difensore a ricusare il perito in nome proprio - Esclusione - Carattere personale del potere di ricusazione. Le norme in materia di ricusazione dei periti prevedono che si osservino, in quanto applicabili, le norme sulla ricusazione del giudice. Consolidata giurisprudenza ritiene inammissibile l’istanza presentata non dalla parte personalmente, ma dal difensore non munito di mandato o procura speciale. Le Sezioni Unite hanno affermato che, ai sensi dell’articolo 37 c.p.p., il giudice può essere ricusato soltanto dalla parte, per cui è da escludere un’autonoma parallela legittimazione del difensore il quale, pur potendo validamente proporre l’atto di ricusazione, deve avere indefettibilmente ricevuto a tal fine apposito mandato, anche se non necessariamente nelle forme della procura speciale; infatti, in considerazione del dato testuale ricavabile dall’articolo 38 c.p.p., comma 4, che menziona separatamente il difensore e il procuratore speciale, attribuendo così rilievo al rapporto fiduciario fra il professionista e il cliente, il primo non è tenuto a documentare i suoi poteri con una procura avente i requisiti e il contenuto di quella prevista dal combinato disposto dell’articolo 122 del Cpp e articolo 38 del Cpp, comma 4, u.p.. Hanno osservato le S.U., che l’articolo 38, comma 4, non prevede deroghe al carattere personale del potere di ricusazione, ma soltanto consente che esso possa essere esercitato per mezzo di altre persone: difensore o procuratore speciale. L’alternativa posta in giurisprudenza - se al difensore sia da riconoscere la legittimazione a ricusare e cioè a esercitare il potere di decidere autonomamente la ricusazione e fare la dichiarazione relativa; oppure se questi abbia la sola veste di "nuncius", non autore della dichiarazione ma mero trasmettitore materiale - è mal posta, trattandosi semmai di stabilire se il difensore sia legittimato a fare la dichiarazione di ricusazione in nome proprio o soltanto in nome e per conto della parte rappresentata. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 31 luglio 2015 n. 33827. Prove - Perizia - Ricusazione del perito - Causa di ricusazione - Denunzia penale da parte del ricusante - Motivo di ricusazione - Esclusione. Non costituisce causa di ricusazione del perito, ai sensi dell’art. 36, lett. a) e d), cod. proc. pen., il fatto che questi sia stato oggetto di denunzia penale da parte del ricusante, poiché il sentimento di grave inimicizia, per risultare pregiudizievole, deve essere reciproco, deve cioè nascere o essere ricambiato dal perito e deve trarre origine da rapporti di carattere privato, estranei al processo, non potendosi desumere dal mero trattamento riservato in tale sede alla parte; mentre l’interesse personale quale causa di ricusazione deve circoscriversi all’influenza che per la sfera patrimoniale del ricusato possa avere la soluzione della controversia in un dato senso, la quale non consegue alla presentazione di una denunzia a carico del perito. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 16 febbraio 2015 n. 6805. Prove - Perizia - Ricusazione del perito - Motivo di ricusazione del perito - Pareri espressi in altri procedimenti o in sede scientifica e divulgativa - Esclusione. Non costituisce valido motivo di ricusazione del perito l’avere espresso pareri in altri procedimenti, o in sede scientifica e divulgativa, a meno che non emergano elementi concreti dai quali desumere un ragionevole dubbio circa la riconducibilità dell’opzione dell’ausiliario a interessi precostituiti invece che al libero e autonomo convincimento scientifico. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 2 dicembre 2014 n. 50362. Prove - Perizia - Incompatibilità - Conseguenze sugli atti compiuti - Estensione della disciplina prevista per il giudice - Esclusione. L’incompatibilità del perito se costituisce titolo per la ricusazione non determina tuttavia la nullità degli atti compiuti. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 21 settembre 2007 n. 35239. Sì al permesso di soggiorno alla compagna omosessuale di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 29 febbraio 2016 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sentenza 23 febbraio 2016, Pajic contro Croazia. Il partner di una coppia dello stesso sesso ha diritto a ottenere il permesso di soggiorno per ragioni legate al ricongiungimento familiare. È vero, infatti, che gli Stati hanno libertà nella scelta delle proprie politiche sull’immigrazione ma non possono violare il diritto alla vita familiare degli individui. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza Pajic contro Croazia, depositata il 23 febbraio. A rivolgersi a Strasburgo era stata una cittadina bosniaca cui era stata respinta la richiesta di permesso di soggiorno fondata sul ricongiungimento con la propria compagna che viveva in Croazia. Questo perché la legge interna in materia di immigrazione concede espressamente il diritto solo a partner di coppie eterosessuali, tacendo sulle altre. Una chiara violazione della Convenzione europea, scrive Strasburgo, che ha condannato la Croazia per violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare (articolo 8) e del divieto di discriminazione (articolo 14). Prima di tutto, i giudici internazionali hanno riconosciuto il diritto alla vita familiare - che include i legami di fatto e non solo quelli formalizzati dal matrimonio - alle coppie dello stesso sesso che godono, così, del diritto al pari delle coppie eterosessuali. Strasburgo, tra l’altro, sottolinea l’evoluzione nella nozione di famiglia e il fatto che un numero molto elevato di Paesi che hanno ratificato la Convenzione già prevede un riconoscimento giuridico alle coppie dello stesso sesso. È evidente che, nel prevedere l’attribuzione del permesso di soggiorno per il ricongiungimento unicamente a un partner eterosessuale e non a quello di una coppia same sex, lo Stato viola la Convenzione compiendo una disparità di trattamento. Tra l’altro, se lo Stato gode di un ampio margine di apprezzamento in materia di immigrazione, tale margine è limitato per questioni legate all’orientamento sessuale. Questo vuol dire che anche se non è previsto espressamente nella legislazione interna, il diritto ad ottenere il permesso di soggiorno per il partner dello stesso sesso va riconosciuto. Mediazione, per gli assenti multa pari al contributo di Marco Marinaro Il Sole 24 Ore, 29 febbraio 2016 Tribunale di Roma - Sezione XIII civile - Sentenza del 17 dicembre 2015. L’ingiustificata assenza in mediazione dei convenuti che hanno proposto domanda riconvenzionale nel processo comporta non solo la condanna al pagamento di una somma pari al contributo unificato, ma determina anche la dichiarazione di improcedibilità della riconvenzionale. Il Tribunale di Roma (estensore Moriconi) con la sentenza del 17 dicembre 2015 in una controversia relativa all’investimento di un pedone fuori dalle strisce pedonali, chiarisce alcuni profili interpretativi, valorizzando gli elementi di fatto emersi nel processo. Il Tribunale capitolino aveva formulato una proposta conciliativa (ex articolo 185-bis del Codice di procedura civile) e subordinato la mediazione al suo mancato accoglimento. Avviata la mediazione la procedura era pervenuta ad un esito negativo, poiché la parte attrice aveva partecipato solo con un avvocato in sostituzione del procuratore costituito (un legale della compagnia di assicurazioni munito di procura speciale)mentre per i convenuti (attori in riconvenzionale) nessuno era presente e l’intento di non partecipare era stato comunicato via fax, senza addurre alcuna giustificazione. Il giudice ha quindi ribadito la necessità della comparizione personale delle parti sostanziali con l’assistenza dell’avvocato, ritenendo che solo eccezionalmente possa ammettersi la rappresentanza a mezzo di procura speciale (preferibilmente notarile), per "validi e comprovati motivi che impediscano la partecipazione personale". L’orientamento della giurisprudenza di merito sull’effettivo svolgimento della mediazione sin dal primo incontro, inaugurato dal Tribunale di Firenze con l’ordinanza del 19 marzo 2014, si sta quindi consolidando anche presso altri tribunali che ribadiscono l’esigenza della presenza della parte sostanziale e segnalano come il mediatore di fronte all’assenza dovrebbe "verificare la sussistenza, o meno, di un eventuale impedimento transeunte a presenziare … ovvero, in mancanza di tale verifica, a rinviare "tout court" il suddetto primo incontro". Se, poi, come nel caso di specie, il procedimento è regolarmente iniziato ma non ritualmente condotto a termine dalla parte attrice il giudice "dispone che le parti proseguano il procedimento di mediazione" (Tribunale di Salerno, ordinanza del 5 novembre 2015, estensore Ietto). Il Tribunale di Firenze (estensore Ghelardini), con la sentenza dell’ 8 gennaio 2016, in una controversia sui "bond Argentina", ha inoltre dichiarato l’improcedibilità della domanda in quanto nei due "primi incontri" svolti in mediazione è sempre mancata la presenza della parte sostanziale (aveva partecipato solo l’avvocato quale assistente tecnico e non anche in rappresentanza sostanziale). Sardegna: Caligaris (Sdr); impegno Ministro Orlando per direttori Istituti penitenziari Ristretti Orizzonti, 29 febbraio 2016 La carenza di Direttori negli Istituti Penitenziari della Sardegna è all’attenzione del Ministro della Giustizia Andrea Orlando e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Lo ha precisato il Ministro rispondendo alla domanda che la presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" gli ha rivolto a margine della premiazione del concorso di pittura "Gramsci visto da dietro le sbarre" organizzato dall’associazione "Casa Natale Antonio Gramsci di Ales" in collaborazione con l’amministrazione comunale del piccolo centro. "È una questione - ha detto il Ministro - che stiamo esaminando congiuntamente con il Dipartimento". "In Sardegna - ricorda Maria Grazia Caligaris - a fronte di dieci Istituti Penitenziari, comprese tre Colonie Penali, ci sono soltanto cinque Direttori e nessun Vice. L’ultimo concorso per colmare i vuoti dell’Amministrazione risale al 1997. La situazione è particolarmente delicata considerando la dislocazione delle carceri nel territorio dell’isola e le oggettive difficoltà, con doppi e tripli incarichi, a curare in ogni aspetto la vita degli Istituti. La Sardegna è l’unica regione italiana con questa gravissima carenza che incide pesantemente sulla vita quotidiana dei detenuti, dei loro familiari e degli operatori. Tra gli altri adempimenti attribuiti ai Direttori, che è responsabile in toto di quanto avviene nel Penitenziario, ci sono infatti anche i costanti colloqui con i detenuti. Le parole del Ministro Orlando però fanno presagire che in tempi brevi saranno assunte iniziative ad hoc. Speriamo quindi di vedere presto nell’isola almeno i titolari stabili di Badu e Carros, Tempio-Nuchis e Mamone-Onanì, tre realtà attualmente assegnate rispettivamente ai Direttori di Sassari-Bancali, di Isili e Lanusei e, l’ultima, di Alghero". "Particolarmente apprezzate - sottolinea la presidente di Sdr - le parole del Ministro relativamente alla funzionalità della pena e al ruolo risocializzante della detenzione con la convocazione degli Stati Generali. Significativa l’iniziativa dell’associazione "Casa Natale Antonio Gramsci di Ales" che con il presidente Alberto Coni e il contributo dell’amministrazione comunale ha posto al centro dell’interesse la cultura e la forza evocatrice dell’arte facendo riflettere - conclude - sulla necessità di rafforzare le dinamiche della conoscenza come emancipazione sociale e conquista della propria identità. L’auspicio è che possa divenire itinerante". Roma: insicurezza "percepita", quando il rischio è sottovalutarla di Flavio Haver Corriere della Sera, 29 febbraio 2016 Diffusa, radicata, come una "malattia" cronicizzata dal tempo. E contro la quale non c’è nulla da fare, se non rassegnarsi e conviverci. Nella speranza che non degeneri, che non diventi irreversibilmente letale. L’"(in)sicurezza" ormai non salva nessun angolo della Città Eterna: dal centro storico - preso di mira dagli scatenati hooligan, che siano olandesi o turchi nulla cambia - alle periferie, da sempre dominate dalla criminalità e costrette a fare i conti con poche pattuglie di polizia e carabinieri. Ai quartieri come i Parioli e Prati, dove impazzano - raramente catturati - i banditi a caccia di orologi preziosi e gioielli che, pistole alla mano, aggrediscono professionisti e donne sole, e non solo con l’aiuto del buio. Per non soffermarsi poi sulle audaci rapine dei soliti criminali incalliti che assaltano uffici postali e filiali di istituti di credito, ristoranti e farmacie, tabaccherie e supermercati. Nel cuore della Capitale come nelle zone periferiche, indifferentemente, a qualsiasi ora del giorno. Da queste colonne Goffredo Buccini e Pierluigi Battista hanno denunciato la precarietà della situazione e le allarmanti conseguenze per la vita quotidiana di cittadini e turisti. Gli ululati delle sirene non sorprendono ormai più, sono diventati una sorta di suono domestico, di drammatica melodia che "impregna" il sottofondo acustico di una metropoli di per se già fin troppo fastidiosamente rumorosa. Come, del resto, quasi tutti i giganteschi agglomerati abitativi. Ma tant’è. Lungi da noi l’idea - anzi il solo pensiero - di proporre una città militarizzata. Quei soldati con il mitra imbracciato a guardia di monumenti e stazioni ferroviarie, ambasciate e luoghi di culto sono un formidabile deterrente per rendere più complicati gli eventuali attacchi terroristici dei famigerati fanatici dell’Isis. E, sicuramente - lo hanno già dimostrato in più di un occasione - quegli stessi uomini con le stellette sono in grado di intervenire di fronte a un qualsivoglia accenno di comportamento criminale. Il punto, però, non è questo. Gli anni 70 sono un lontano ricordo. La città non è più in balia della malavita. Roma, la Capitale d’Italia, però non può essere lasciata sola. Sì, perché la sensazione è che - al di là degli sforzi di agenti e carabinieri, finanzieri e vigili urbani e delle rassicurazioni di Questore e Prefetto - ci sia la necessità di una maggiore presenza di uomini delle forze dell’ordine nelle strade. Perché le divise - almeno quelle - riescono ancora a scoraggiare i criminali. E a dare sicurezza. Napoli: i delitti e la trappola dei luoghi comuni di Vittorio Del Tufo Il Mattino, 29 febbraio 2016 Una rapina è una rapina, a tutte le latitudini e sotto ogni cielo. Il rapinatore che sabato notte ha puntato la pistola in faccia a Insigne mentre era in auto con la moglie Genny e una coppia di amici non è antropologicamente diverso dai rapinatori che rigurgitano dalle strade di tutte le città d’Italia e del mondo. Anche se gli ha usato la "carineria" aggiuntiva di chiedergli un gol "dedicato" a Firenze. E l’assalto subito da un calciatore famoso, al di là del clamore giornalistico che deriva dalla notorietà del personaggio, non va caricato di altri significati - o di suggestioni ulteriori - perché non è diverso dagli assalti subiti dai tanti signor nessuno il cui nome non comparirà su alcun quotidiano del giorno dopo. Quello che va segnalato è piuttosto il rischio della narrazione stereotipata: il rischio cioè che da un episodio di cronaca così simile a tanti altri - e che non fa di Napoli una città diversa dalle altre - derivi un florilegio di luoghi comuni dai quali vorremmo invece affrancarci. Che se ne tragga linfa, cioè, per scatenare canee, e trascinare ancora una volta la città nel gorgo del fango e del tanfo. Qui non ci riferiamo alle speculazioni politiche (eccole, puntualissime: "Napoli è una città fuori controllo", e via banalizzando) ma al danno d’immagine che rischia di tracimare da questi episodi. Gravissimi, intendiamoci: com’è gravissimo, per l’economia del turismo, che anche un solo visitatore venga braccato dai malviventi al Molo Beverello e bastonato nei vicoli del centro storico; com’è gravissimo che anche un solo imprenditore venuto a fare affari in città venga pestato da una baby gang; com’è gravissimo che anche un solo cittadino debba invocare l’intervento dell’esercito per sentirsi più tranquillo. Ogni rapina ci depaupera e ci deumanizza: non conta il bersaglio. Napoli fa quotidianamente fatica a produrre gli anticorpi sociali, prima ancora che repressivi, per liberarsi dalla zavorra del crimine disorganizzato, per non parlare di quello organizzato; ma fa oggettivamente fatica anche a liberarsi da questa zavorra, per così dire, "narrativa", e viene risucchiata ogni volta nel gorgo. È un unicum: altrove non accade. Nel dicembre dello scorso anno il calciatore dell’Inter Icardi fu rapinato in pieno centro a Milano, in zona Sempione, a mezzanotte. Su quell’episodio nessuno ha ricamato per pennellare di nero l’intera città, da quell’episodio non sono derivate considerazioni antropologiche sul destino della metropoli, quell’episodio non ha infangato l’intera città nella stessa misura con la quale un episodio - gravissimo, ripetiamo - come quello accaduto sabato sera a Mergellina rischia di infangare Napoli. Siamo in bilico su troppi crinali, appesi al paradigma che fa di Napoli una città perduta, inguaribile e irredimibile. Così la rapina con beffa subita da Insigne ("Lunedì dedicami un gol a Firenze") rischia di diventare qualcosa di più e di diverso, di rilanciare antichi sospetti e teorie complottiste. Quando alcuni calciatori azzurri subirono, negli anni scorsi, rapine in rapida successione (ne furono vittime tra gli altri Hamsik, Berhami e Cavani, ma anche alcune mogli e compagne) fu ipotizzata l’esistenza di un disegno dei clan per intimidire la squadra, e per punire i giocatori che non partecipavano alle manifestazioni organizzate dagli ultrà oche avevano avuto l’ardire di levare la loro voce contro la violenza che appestava (e appesta) gli stadi. Il dubbio era lecito, l’indagine doverosa. Un pentito di camorra fece mettere a verbale la teoria del complotto, ma la Dda chiuse l’inchiesta con un nulla di fatto per l’assenza di qualsiasi riscontro. Importerà a qualcuno? Una rapina è una rapina, a tutte le latitudini e sotto ogni cielo. Vorremmo non arrenderci all’idea che il cielo di Napoli sia sempre sporco di fango e luoghi comuni. Genova: il Garante dei detenuti "carcere Marassi caso nazionale, in cima alle priorità" di Matteo Macor La Repubblica, 29 febbraio 2016 Mauro Palma dopo il dossier di Repubblica: "Serve un carcere più piccolo con strutture alternative". "Abbiamo da garantire i diritti in tutti quei luoghi di privazione della libertà dove serve tutelarli: carceri, caserme, commissariati, Cie, ex ospedali psichiatrici". Mauro Palma, 68 anni, romano, è da pochi giorni il Garante nazionale dei detenuti. Fondatore e primo, storico presidente dell’Associazione Antigone, l’associazione impegnata sui diritti e le garanzie nel sistema penale, di qui ai prossimi mesi il suo ruolo sarà quello di organizzare il sistema di "monitoraggio delle situazioni di privazione della libertà". Un lavoro fatto di dialogo costante con le strutture sul territorio e visite sul posto, che potrebbe partire proprio dal carcere di Marassi, e dalla Liguria. A Marassi troppi detenuti dovrebbero essere semplici internati in strutture alternative. "È un problema di quasi tutta Italia, soprattutto dei circondariali. È qui che vengono portate le persone nell’immediatezza dei reati di strada. Che per la gran parte coinvolgono soggetti affetti da disturbo di comportamento, e che in linea di massima dovrebbero essere in carico al Dipartimento di salute mentale, e destinati alle Rems". E cioè le residenze sanitarie di messa in sicurezza, che però in Liguria non esistono. "Dalla settimana scorsa, proprio per questo, esiste un commissario per le regioni che non hanno le Rems, Franco Corleone. Nei prossimi mesi dialogherà con le regioni inadempienti, e mi auguro che nel giro di sei mesi anche il problema in Liguria finisca". Come si è arrivati a questi punti, Palma? "La legge che ha abolito gli ospedali psichiatrici giudiziari è stato un passo di grande civiltà, l’ultimo pezzo ancora inevaso di una riforma lunga 30 anni. Però ha richiesto e richiede un impegno considerevole, è normale che sul territorio si fatichi nell’adeguarsi al nuovo sistema". Però, in Liguria, non mancano solo le Rems. Siamo l’unica regione italiana, insieme alla Calabria, senza una legge che preveda la figura del garante dei detenuti "locale". "È vero. Alcune regioni non hanno ancora un garante, ma la legge ce l’hanno tutte. So però che in Liguria ci si stanno lavorando". La proposta di legge c’è, ma nel frattempo lei cosa può fare per la situazione di Marassi, come Garante nazionale? "Il Garante nazionale ha assoluto bisogno di poter contare sulla rete dei garanti regionali. In queste fasi iniziali di mandato, in cui da neo eletto ho ancora da avviare lo staff, per ora posso solo programmare visite o affrontare sul posto eventuali situazioni di emergenza. Appena sarà tutto avviato, da metà aprile, inizieremo le visite programmatiche dalle realtà che occorre seguire da vicino". Marassi fa parte delle strutture segnalate? "Genova potrebbe essere tra le prime destinazioni. Di Marassi conosco le difficoltà, tipiche di una struttura così grande e ancora senza un progetto. In futuro penso andrà ridotto nei numeri, e supportato da una struttura decentrata. Ma non ho avuto segnalazioni recenti a riguardo". Cosa vuol dire, per un carcere, "avere un progetto"? "Far sì che chi entra abbia ben chiare regole e dinamiche. Mantenere i tanti progetti ricreativi, dai corsi di ceramica al teatro, preziosi ma forse un po’ infantilizzanti. E puntare di più su attività che responsabilizzino, diano certificazioni professionali e competenze, preparino i detenuti al momento dell’uscita e alla ricostruzione di una vita all’esterno". E dal mondo "esterno", chi dovrebbe fare qualcosa di più? "Penso alle strutture sanitarie, alla Asl. Dovrebbero farsi carico dei detenuti con disagio psichico, per esempio, ma non si sono ancora abituate a considerare il carcere un quartiere di propria competenza". Belluno: fuoco in cella e tubi dell’acqua rotti, nel carcere affollato scoppia la rivolta di Michela Nicolussi Moro Corriere del Veneto, 29 febbraio 2016 A 24 ore dall’arrivo in Veneto del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che stamattina, lunedì, presenzierà al taglio del nastro del nuovo carcere di Rovigo, nell’istituto di pena di Belluno è scoppiata la rivolta. Intorno alle 21 i detenuti hanno iniziato a sbattere pentole e altri oggetti contro le sbarre e le porte delle celle per contestare il sovraffollamento, la carenza di educatori e di colloqui: qualcuno ha lanciato le bombolette a gas concesse per cucinare lungo i corridoi. L’apice si è raggiunto quando un nomade, condannato per furto aggravato, insieme al cugino e a un terzo compagno di cella extracomunitario, ha cominciato a dare in escandescenze. Poco prima si era rifiutato di rientrare dopo le ore a stanze aperte previste dal nuovo regime di detenzione, perché non era stata esaudita la sua richiesta di parlare con il comandante della polizia penitenziaria, avanzata la mattina e reiterata nel pomeriggio. Quando gli agenti l’hanno convinto a tornare in cella, con l’aiuto del cugino ha preso la branda e l’ha usata come ariete per rompere i tubi dell’acqua, danneggiando anche altre stanze, dopodiché ha dato fuoco alle lenzuola con l’accendino usato per accendersi le sigarette. A quel punto è scattato l’allarme generale, sono stati richiamati i poliziotti in riposo per organizzare un cordone di sicurezza imponente e indispensabile a evitare che la protesta divampasse in una rivolta generale. A Baldenich sono infatti recluse 90 persone. Il piano operativo per le emergenze ha diramato la richiesta di rinforzi alle altre case di reclusione della regione, perciò dal Due Palazzi di Padova è accorsa in supporto una trentina di agenti. Si è precipitato a Belluno pure il provveditore alle carceri del Triveneto, Enrico Sbriglia, che insieme al direttore dell’istituto di pena Tiziana Paolini e al comandante della polizia penitenziaria ha cercato la mediazione. E alle 2 di notte è riuscito a riportare la situazione alla normalità. Ora però si farà la conta dei danni e sarà aperta un’inchiesta per appurare le responsabilità dei tre rivoltosi, che rischiano nuove imputazioni e che intanto sono stati separati. "Ho ritenuto opportuno seguire da vicino l’evolversi di un evento critico, affrontato da tutti, personale in primis, con ragionevolezza - racconta Sbriglia. In questi casi bisogna agire con calma, senza farsi prendere dall’ansia, quindi ho ascoltato le lamentele rappresentate dai detenuti e sulle quali faremo accertamenti, ma che non possono giustificare una simile e inadeguata condotta. È stata una reazione incomprensibile a un torto che gli attori della contestazione pensano di aver subito: i reclusi dispongono di strumenti idonei a far valere i loro diritti, quindi dovrebbe prevalere il buon senso. In quest’istituto almeno la metà dei presenti lavora, grazie anche alla disponibilità delle imprese del territorio, e non è una percentuale trascurabile. Quanto al sovraffollamento, nel Triveneto è già stato notevolmente abbattuto ma il problema sarà ulteriormente ridimensionato con l’apertura delle nuove carceri di Rovigo, Bolzano e San Vito al Tagliamento". Tuttavia il provveditore non può esimersi dal sottolineare un’esigenza prioritaria: "La redistribuzione dei detenuti agevolata dall’attivazione di altri istituti ci consentirà di rimodernare le vecchie strutture, come quella di Belluno, che in effetti ha fatto il suo tempo e necessita di essere adeguata alle nuove esigenze della popolazione detenuta. Confido nel ministro Orlando, che incontrerò a Rovigo e che ha sempre dimostrato grande attenzione per la comunità penitenziaria". "La rivolta di Baldenich è l’ennesima testimonianza di un sistema in sofferenza - denuncia Gianpiero Pegoraro, segretario regionale di Cgil Penitenziari - che accusa carenze soprattutto di personale. Parlo di polizia e di educatori, che avrebbero anche bisogno di una maggiore e migliore formazione". Rovigo: nuovo carcere, oggi il taglio del nastro alla struttura che dà sulla tangenziale rovigoindiretta.it, 29 febbraio 2016 Il Sindaco Bergamin: "proporrò le mie idee ai ministri Delrio e Orlando". "Oggi, finalmente, si inaugura il nuovo carcere di Rovigo. Come Sindaco della città reputo che l’apertura della nuova struttura rappresenti un fattore positivo. In primis per chi vi dovrà scontare la pena. Auspico che le associazioni del nostro territorio possano interagire e siglare forme di collaborazione affinché il nuovo carcere non sia visto come un "ghetto", ma come un luogo dove, chi già sta scontando una pena, possa mirare alla rieducazione e al reinserimento nella società civile". A dirlo è il sindaco di Rovigo, Massimo Bergamin. Al taglio del nastro del nuovo carcere saranno presenti anche i ministri Delrio e Orlando. "La nostra città potrà ottenere interessanti vantaggi dallo sviluppo di una struttura che, ad oggi, posso finalmente dire non sarà più una cattedrale nel deserto - dice Bergamin. Nuovi posti di lavoro e nuovi servizi offriranno una ricaduta positiva su Rovigo e su tutto il territorio polesano. Se, come ho sempre affermato con forza, non voglio cattedrali nel deserto, men che meno le voglio in centro città. La mia attenzione, infatti, è già rivolta al futuro della ex struttura detentiva di Via Verdi di Rovigo centro. Insieme alla maggioranza, stiamo progettando possibili utilizzi. In previsione della costituzione della cosiddetta "Area vasta" e di un Tribunalone, l’intenzione della riqualificazione è quella di creare nuovi uffici, parcheggi e servizi per gli addetti ai lavori che ogni giorno operano a Rovigo e che provengono da diverse zone limitrofe. Detto questo - visto che reputo le opportunità senza colore politico - domani, in occasione della inaugurazione del nuovo carcere, proporrò in via informale queste idee ai ministri della Giustizia Andrea Orlando e delle Infrastrutture Graziano del Rio, grazie all’ interessamento dell’Onorevole Diego Crivellari. Il deputato rodigino che siede nelle fila del Pd, partito ad oggi al Governo, si è reso disponibile al dialogo per lo sviluppo e per la crescita della nostra città fin dall’insediamento della mia amministrazione. Come allo stesso modo hanno già fatto i senatori Bartolomeo Amidei ed Emanuela Munerato. Chiederò il massimo sostegno in questo impegno al Governatore del Veneto Luca Zaia, che sarà presente domani, a conferma dell’interesse relativo alla crescita del nostro territorio. Ribadisco che, di fronte a delle concrete possibilità di cambiamento, è intenzione mia e della mia amministrazione superare le divergenze ideologiche per il bene di Rovigo e dell’intero Polesine. L’apertura del nuovo carcere, che tanto ha interessato l’opinione pubblica nei primi mesi del mio mandato e che sembrava cosa impossibile fino a pochi mesi fa, oggi diventa finalmente un fatto concreto. Rovigo sta davvero cambiando. E tutti noi ne siamo protagonisti". Cosenza: il Sappe "quel carcere non è sicuro, terroristi via da Rossano Calabro" di Luca Rocca Il Tempo, 29 febbraio 2016 Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre scorso, nel penitenziario in provincia di Cosenza, alcuni terroristi di Al Qaeda avevano esultato al grido "viva la Francia libera". Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre scorso, nel carcere di Rossano, in provincia di Cosenza, alcuni terroristi di Al Qaeda hanno esultato al grido "viva la Francia libera". Da quel momento l’attenzione sul penitenziario è cresciuta, fino a far emergere interrogativi sulla difficoltà di prevenire il proselitismo, l’opportunità di detenere prigionieri così pericolosi in un istituto di pena troppo vicino al centro abitato, i possibili, anche se per ora non confermati, legami con la ‘ndrangheta calabrese. In quella che ormai viene chiamata la Guantánamo italiana sono rinchiusi 21 detenuti accusati di terrorismo internazionale, seguaci di Al Qaeda e qualcuno sospettato di essere affiliato all’Isis. L’imam di Zingoia (Bergamo), ad esempio, oppure il pakistano Hafiz Muhammad Zulkifal, presunto capo spirituale di una cellula di integralisti islamici con base in Sardegna e, secondo la Direzione distrettuale antimafia di Cagliari, coinvolto negli attentati di Stoccolma del 2010. Da quel carcere sono passati anche il tunisino Khalil Jarraya, alias "il colonnello", che ha combattuto nelle milizie bosniache ed è stato espulso dopo la condanna per associazione terroristica, e Dridi Sabri, anche lui cacciato dal nostro territorio per lo stesso motivo. Il penitenziario, dopo la strage di Parigi, ha alzato i livelli di sicurezza, attivando un pattugliamento 24 ore su 24, ma per Donato Capece, segretario del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, la sezione speciale ha un livello di sicurezza scarso, anche perché servirebbero quattro agenti specializzati per coprire turni massacranti e invece ce n’è uno solo. Ed è stato proprio Capece a chiedersi perché "terroristi islamici debbano essere ristretti in un carcere così vicino al centro abitato e non in posti isolati". Fra l’altro, come sottolineato nell’interrogazione parlamentare indirizzata al ministero della Giustizia dal deputato del M5S Paolo Parentela, i detenuti che si professano musulmani all’ingresso nelle carceri italiane sono oltre 5.700, e negli ultimi dieci anni, su 202 istituti censiti, in 52 hanno riservato uno spazio adibito a moschea per la preghiera, mentre in 9 è permesso l’ingresso di un imam accreditato dal ministero dell’Interno. Ciò significa che il rischio proselitismo è alto, soprattutto a causa della lingua utilizzata, l’arabo, con la quale i detenuti musulmani comunicano e che spesso gli agenti non sono in grado di comprendere. C’è, infine, un ulteriore aspetto più volte evidenziato, anche in interrogazioni parlamentari destinate al Viminale, dalla deputata del M5S Federica Dieni. Si tratta di quanto affermato nei mesi scorsi dal procuratore capo di Reggio Calabria, Cafiero De Raho, secondo il quale se è vero che "al momento non emergono collegamenti tra ‘ndrangheta e terroristi", è altrettanto certo che "questo sia un campo investigativo da approfondire, perché il terrorismo internazionale troverebbe nella ‘ndrangheta un alleato particolarmente utile, sia per le coperture dal punto di vista territoriale, sia per il tornaconto che la stessa ‘ndrangheta potrebbe avere per le forniture di droga e armi". Milano: a San Vittore detenuti "in cammino", un pellegrinaggio interiore in 4 tappe di Luisa Bove chiesadimilano.it, 29 febbraio 2016 I cappellani hanno proposto un pellegrinaggio interiore in 4 tappe che prevede la richiesta di perdono e gesti di riparazione verso chi ha sofferto. Hanno aderito 60 persone, ma le richieste crescono. Detenuti di San Vittore in pellegrinaggio. Sì, avete capito bene. Anche se non si tratta di uno spostamento fisico, ma di un cammino interiore. L’idea, in occasione dell’Anno santo della Misericordia, l’hanno lanciata i cappellani prima di Natale. "La proposta è stata accolta subito con interesse - assicura don Roberto Mozzi, anche se non compresa immediatamente, perché parlare di pellegrinaggio come percorso interiore non è scontato. Al momento hanno aderito in ogni reparto alcune persone che hanno voglia di mettersi in discussione". Di che cosa si tratta? "È un pellegrinaggio spirituale, come dovrebbero essere tutti, anche quelli che prevedono un movimento spaziale. Le persone in carcere sono già spinte dalle circostanze a fare un pellegrinaggio interiore per comprendere come mai si trovano lì e cosa vuol dire per la loro vita. È ciò che facciamo abitualmente come pastorale carceraria. Ora però abbiamo proposto in modo esplicito un percorso di rinascita interiore a partire dal Vangelo, dalla situazione di privazione della libertà in cui ognuno si trova". Come è strutturata la proposta? "È un percorso penitenziale che prevede quattro passaggi. Come ci ha insegnato il cardinale Martini, si parte rendendo grazie, guardando in positivo. Fissare lo sguardo su Gesù è il primo passo: come riferimenti proponiamo la Messa domenicale e le altre occasioni di preghiera comunitaria e personale. Il secondo passaggio è la preparazione a un momento penitenziale globale per lasciarsi abbracciare dalla misericordia in Dio. Anche noi, come le persone detenute, siamo spesso concentrati sul momento presente, che però è l’esito di un percorso. Vogliamo che la misericordia di Dio abbracci tutta la nostra vita fino in fondo, ma dobbiamo rivisitarla e ripercorrerla alla luce del Signore". E dopo la richiesta di perdono? "Chiedere perdono a Dio è un percorso: inizia prima, giunge alla confessione e procede anche dopo. È un cammino di riconciliazione con se stessi, con gli altri, con la società, con la Chiesa, e prevede alcuni passaggi. Il più immediato è quello di riconciliarsi con le persone coinvolte nel proprio male e costrette a rimanere lontane. Molti lo raccontano: "Io ho fatto del male ad altre persone attraverso il reato che ho commesso, ma i primi che soffrono sono quelli della mia famiglia che ora sono lontani e che ho abbandonato". Chiedere perdono è molto liberatorio, anche se richiede umiliazione, e si concretizzerà secondo la fantasia di ciascuno". Qual è l’ultimo passaggio? "Dare al perdono un contenuto concreto, per non lasciarlo solo come intenzione. Quindi provare a ricucire la ferita che si è creata col male, proporre un gesto di riparazione. Questo è tutto da inventare, da costruire... A volte la riparazione può essere diretta, altre volte non è possibile e quindi si può pensare a un aiuto indiretto alla società. In tutto questo chiediamo alle persone di non rimanere sole a compiere il percorso". E chi può accompagnarle? "Lo abbiamo chiamato, forse con supponenza, "angelo custode". È una persona che accompagna, si confronta e diventa come uno specchio. Più che un consigliere o un direttore spirituale è un fratello, una sorella che sta loro accanto e li aiuta a rialzarsi. Sono persone che hanno già un ruolo di accompagnamento spirituale: suore, cappellani, diaconi, seminaristi. I "pellegrini" si sono iscritti compilando una scheda e indicando il loro "angelo custode", che poi li contattata e li accompagna attraverso i colloqui. Vogliamo che ognuno scelga per sé, perché è una delle poche cose che possono fare liberamente: nessuno è obbligato e nessuno trae vantaggi. Tra uomini e donne si sono iscritti in 60 e c’è già chi ha iniziato il cammino. Poi lo proporremo ancora perché a San Vittore c’è un turn-over altissimo". Roma: detenuto romeno scavalca una rete e tenta l’evasione da Rebibbia, fermato tusciaweb.eu, 29 febbraio 2016 Un sabato movimentato ieri al nuovo carcere di Rebibbia. Un detenuto romeno di 33 anni, nuovo giunto del reparto g9, verso le 13.15, ha cercato di evadere, scavalcando una rete, ma la sentinella prontamente ha dato l’allarme evitando la fuga. Mentre sempre 2 detenuti italiani hanno litigato tra loro e nelle fasi di divisione è stato ferito un sovrintendente, il quale ha avuto 5 giorni di prognosi per lesioni. Un plauso al personale che in questi casi ha evitato l’evasione, solidarietà al personale coinvolto per una pronta guarigione. Per la Fns-Cisl Lazio occorrono comunque interventi da parte del Dap per la manutenzione per la sicurezza del carcere del NC Rebibbia. Teramo: detenuti contribuiscono a banchetto di beneficenza "per riconquistare speranza" di Giuseppina Pimpini (docente scuola carceraria) Il Centro, 29 febbraio 2016 In occasione della fiera di S. Berardo alcuni detenuti hanno voluto contribuire al banchetto di beneficenza allestito dai ragazzi del Gruppo Scout Teramo 3, con alcuni oggetti realizzati in cella con materiale povero o di riciclo, una delle tante esperienze che in carcere servono per riconquistare la speranza di ricostruire la storia spezzata della propria vita, di comprendere fino in fondo gli errori commessi e tutte le conseguenze, di essere un giorno riaccolti. Esperienze che non devono cadere nel buonismo a buon mercato, ma che trasmettano uno spirito accogliente che sproni alla riflessione e alla presa di coscienza. Per questo alcuni detenuti hanno pensato di offrire il loro contributo verso i più bisognosi, i più deboli, mettendo a disposizione il loro tempo, le loro capacità, la loro fantasia e in tal modo superare l’atteggiamento di vittimismo tipico dell’ambiente. Il carcere, infatti, per sua stessa natura, a causa delle privazioni connaturate con l’ambiente stesso spinge spesso i detenuti a vivere in un perimetro molto ristretto, non solo fisico, ma anche affettivo, umano. Mettersi a disposizione per un bene più grande, che superi le sbarre e le mura di recinzione rappresenta, dunque, un’occasione importante che ridona dignità, in quanto fa sperimentare l’essere utile, l’essere ancora, l’essere vicino. Le ore trascorse a scuola sono una valvola di sfogo (intervista realizzata dalla docente Giuseppina Pimpini a un detenuto) È stato il primo Natale trascorso in carcere? "Purtroppo no, sono in carcere da tre anni e mezzo, ormai dovrei essere abituato alla malinconia delle feste. In realtà sono momenti a cui non ci si abitua mai; ma quest’anno, nonostante tutto, c’è stata una novità che ci ha permesso di trascorrere qualche ora in armonia". Parli della costruzione dell’albero? "Certo e non solo. Voglio partire dall’inizio. Quest’anno è stata istituita la scuola superiore, ed io ho sfruttato subito questa occasione. Dopo un primo colloquio con le prof. È scattato in me il desiderio di frequentare la scuola. Era la prima volta che mi confrontavo con persone estranee al mondo carcerario. All’inizio mi sentivo un po’ a disagio, ma poi le prof, con il loro impegno e soprattutto con tanta pazienza mi hanno iniziato ad un’esperienza bella e significativa". Perché hai deciso di iscriverti a scuola? "Sicuramente per arricchire il mio bagaglio culturale, ma in quelle ore evado con la mente dal contesto in cui mi trovo, soprattutto, le ore nell’aula scolastica sono una valvola di sfogo ai diversi momenti di sconforto". Non pensavi che potessimo realizzare una tale impresa? "Ero un po’ scettico, dato l’ambiente e soprattutto dato il nostro stato d’animo a ridosso delle feste. Siamo riusciti a trascorrere qualche ora in armonia, in cui la volontà di creare qualcosa di nostro per rendere migliore l’ambiente carcerario durante le feste, era costantemente accompagnata dal pensiero per la mia famiglia, mio figlio e mia moglie, di quanto sarebbe stato bello fare tutto questo con loro". Frosinone: spettacolo teatrale per i detenuti della Casa circondariale di Cassino ilpuntoamezzogiorno.it, 29 febbraio 2016 Venerdì 26 febbraio, all’interno della Casa Circondariale di Cassino, si è tenuto uno spettacolo teatrale in dialetto per i detenuti, dal titolo "…Né a me, né a te…", del Gruppo Teatrale "Castrum Coeli", una esilarante commedia in tre atti scritta da Isabella e Aurora Di Murro, quest’ultima anche regista. La commedia raccontava la contesa fra due cugini che ambivano ognuno a ereditare i beni dello zio defunto, lo zio Jack che, emigrato in America, vi aveva fatto fortuna fino ad accumulare una più che discreta ricchezza. Ovviamente, dopo molte controversie e litigi e una causa in tribunale, l’eredità tanto ambita non andrà né all’uno né all’altro dei cugini, come si può intuire dal titolo… e il messaggio finale è positivo, perché le ipocrisie e le menzogne vengono punite e a trionfare sono i buoni sentimenti ed il buon senso. La vicenda viene rappresentata in modo molto brillante, la comicità prorompe da ogni battuta e da ogni personaggio, facendo ridere e divertire il pubblico. Bravissimi gli attori, adatti i costumi e le trovate comiche. Molti i detenuti che vi hanno assistito, in prevalenza italiani, che hanno mostrato a suon di applausi l’alto grado di apprezzamento della rappresentazione. Lo spettacolo teatrale è stato organizzato dalla Direzione della Casa Circondariale, nella persona della dott.ssa Irma Civitareale, insieme al Funzionario dell’Area Giuridico-Pedagogica Anna Guglielmi, in collaborazione con la Compagnia teatrale di Castrocielo, ed è propedeutico ad una più ampia collaborazione per la realizzazione di attività trattamentali per i detenuti finalizzate al loro recupero umano e sociale. Al termine, la dott.ssa Civitareale ha ringraziato la Compagnia, annunciando che ci saranno altre manifestazioni e attività in collaborazione con il gruppo "Castrum Coeli". Poi, alla presenza di personaggi dello sport, tra cui il sig. Giannichedda, marito della regista e padre del calciatore, oggi allenatore, Giuliano Giannichedda, sono state fatte pubblicamente, guidate e coordinate dall’Educatore Enzo Tozzi, le estrazioni delle squadre di calcio organizzate tra i detenuti, in vista di un torneo interno che si svolgerà nel mese di marzo, altra attività tesa al recupero e reinserimento sociale dei detenuti. Cosa manca all’Unione. Lettera dall’Europa di Arthur Rutishauser* La Repubblica, 29 febbraio 2016 A tutto ci si abitua, anche alla crisi. Da oltre un anno, gli Stati europei lo dimostrano quasi ogni giorno: dapprima sulla questione dei fondi alla Grecia, poi sull’inarrestabile afflusso dei migranti, e da ultimo sulla richiesta di statuto speciale della Gran Bretagna. Questi tre punti sono seguiti con grande attenzione dalla Svizzera, che per i suoi stretti rapporti economici con l’Ue è direttamente esposta, nel bene e nel male, a ogni decisione sulla valuta europea. Quanto poi al problema del flusso migratorio, i legami di Berna con Bruxelles sono anche più stretti di quelli di Londra, per i suoi trattati bilaterali con l’Ue. La Svizzera fa parte dello spazio Schengen. E benché non sia uno Stato membro, i suoi rapporti con l’Unione Europea sono perennemente in crisi. Mentre il problema Grecia (tutt’altro che risolto) è scomparso come per miracolo dai titoli di testa, la crisi migratoria e i timori suscitati dalla Brexit sembrano destinati a occupare a lungo le prime pagine dei giornali. In fondo si tratta di un unico problema: la paura di "invasioni" fuori controllo - che si tratti di profughi o di extra-comunitari non graditi, soprattutto dall’Est europeo. La libera circolazione, nelle sue varie forme - dalla cultura dell’accoglienza promossa dalla Germania al libero scambio della forza lavoro sancito dalle norme di Bruxelles - non può più contare sul favore maggioritario dei cittadini europei; al contrario, suscita paure crescenti, fino agli eccessi xenofobi che credevamo ormai superati da settant’anni. È come se nelle capitali della vecchia Europa la nomenclatura avesse perso quasi ogni contatto con la realtà; al suo posto è subentrato un timore degli elettori che rasenta il panico. Altrimenti non si comprenderebbe come mai la Commissione, col polacco Donald Tusk alla presidenza del Consiglio europeo, abbia potuto redarguire il governo austriaco per aver fissato un tetto massimo all’afflusso dei profughi, e ciò benché l’Austria sia notoriamente uno dei pochi Paesi disposti ad aprire le porte a un numero consistente di rifugiati. O perché Viktor Orbán venga tacciato di populismo per la volontà di indire un referendum sulla ripartizione dei rifugiati - anche se tutti sanno che quando contesta le direttive europee sull’immigrazione, il premier ungherese non fa altro che esprimere una percezione diffusa nei Paesi dell’Est europeo. Ed è quella stessa paura a spiegare la decisione dei capi di governo dell’Ue di indire un vertice straordinario per venire incontro alla richiesta di statuto speciale della Gran Bretagna. Anziché ascoltare la gente e agire in maniera più pragmatica per realizzare il sogno di un’Europa unita, i responsabili non fanno altro che formulare pseudo-accordi, che da subito si rivelano destinati a rimanere lettera morta. Come la decisione, semplicemente ignorata, di distribuire tra i Paesi europei 160.000 rifugiati. O la promessa di tre miliardi di euro alla Turchia (una tangente?) affinché assista i rifugiati sul suo territorio, per evitare che premano in massa sull’Europa occidentale. Finora, di quei miliardi nei campi profughi non si è vista neppure l’ombra. Il premier britannico viene rispedito a casa con un viatico di mini-riforme in campo sociale, i cui effetti saranno praticamente nulli. Partito con la promessa di arginare l’afflusso di immigrati in Gran Bretagna, David Cameron deve accontentarsi della vaga promessa di una clausola di salvaguardia che non ha neppure la facoltà di attivare direttamente. Evidentemente si pensa di poter condurre una campagna imperniata sulla paura, per indurre i britannici a seppellire una volta per tutte, il prossimo 23 giugno, qualunque progetto di uscita dall’Ue. Sui tre grandi problemi dell’Ue - la permanenza della Grecia nell’Eurozona, l’immigrazione di massa e la libera circolazione in un’Unione sempre più estesa - c’è da fare una considerazione che li accomuna: si è preteso troppo dal progetto europeo. E si chiede troppo ai cittadini dell’Unione. In tutti e tre questi campi manca la legittimazione democratica. E anche se i relativi progetti potrebbero apportare vantaggi ad altri livelli, nell’immediato comportano maggiori costi per i cittadini, più disoccupazione e insicurezza sociale. Che fare? Nel processo di unificazione europea servirebbe probabilmente una battuta d’arresto, per tornare a dare la priorità alla politica del fattibile e al conseguimento di vantaggi tangibili per la popolazione. È ora di accantonare i principi di Bruxelles, che nessuno più vuole, per passare a una politica più duttile, aperta alle eccezioni e alle soluzioni pragmatiche. Una politica in grado di dare a tutti gli interessati la sensazione che le loro preoccupazioni vengano prese sul serio. Solo così si potrà evitare che le élite europee entrino in crisi ogni qual volta si annunci - in Gran Bretagna, in Ungheria o magari in Svizzera - la decisione di indire un referendum. *Direttore del quotidiano svizzero "Tages-Anzeiger" (Traduzione di Elisabetta Horvat) Italia, un Paese che non sa discutere di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 29 febbraio 2016 I caratteri negativi dell’Italia emergono e persistono perché abbiamo un tessuto sociale intriso di irragionevolezza, esasperazione ed estremismo che esplode facilmente. Ha ragione Angelo Panebianco: dietro gli slogan dei suoi aggressori dell’Università di Bologna ci sono, oltre qualche probabile buona dose di frustrazione personale, la mancanza di moderazione, l’estremismo, ingredienti abituali della debolissima educazione democratica del nostro Paese. Ma perché questi caratteri negativi - bisogna allora chiedersi - continuano ad avere nel tessuto sociale italiano la persistenza che hanno? Perché da noi a ogni stormir di fronda rispuntano ovunque - anche se oggi per fortuna con un’esigua capacità di mobilitazione - gruppetti di No Tav, frequentatori di centri sociali, "anarchici insurrezionalisti", "bene comunisti" radicali, "collettivi" vari, invariabilmente pronti quando non a cose peggiori alle affermazioni più estreme e ingiuriose, a considerare chiunque non la pensi come loro un "assassino" o un "servo" (i loro due epiteti preferiti)? Ciò accade, io credo, perché da noi esiste un vasto brodo di cultura che, seppure involontariamente, nutre di continuo gli slogan più esasperati alimentando ogni giorno questa cieca irragionevolezza, questo pensare in bianco e nero. È il brodo di cultura costituito dal conformismo fortissimo che caratterizza tutto il nostro discorso pubblico, politico e non, che permea tutta la nostra atmosfera culturale e le idee che vi hanno corso. La furibonda faziosità italiana è figlia innanzi tutto dell’unilateralità del Paese che pensa, che parla e che scrive. Quando "Bombardare non serve a nulla" diventa perfino uno slogan pubblicitario (ascoltare la radio per crederci), quando si va ripetendo instancabilmente da decenni che all’Italia la guerra è interdetta a norma del testo della Costituzione (beninteso manipolato, ma nel silenzio assenso di quasi tutti i costituzionalisti), quando si divulga in barba a ogni principio di realtà e nel consenso apparentemente generale che un’operazione militare che faccia vittime civili equivale a un crimine da processo di Norimberga, c’è da sorprendersi se poi a qualcuno un po’ eccitabile viene in mente di dare dell’assassino a chi osi pensare e dire il contrario? Ciò che è peculiare dell’Italia è la spessa uniformità, l’unanime consenso in ogni sede che da noi il pensiero dominante, una volta che ha conquistato tale posizione, raccoglie sempre. Ciò che ci caratterizza è l’assenza del gusto e del piacere per la discussione, per una discussione vera tra opinioni diverse che interloquiscono tra loro nel mutuo rispetto. Parlo naturalmente di opinioni articolate, motivate con dati di fatto, frutto di conoscenza del mondo, di cultura, di esperienza. Non dei miserabili slogan, dei brandelli smozzicati di pensiero, che le televisioni e i loro spettrali talk show politici cercano di far passare per "il dibattito". Così, al di fuori della finta rissa politica e delle arene ad essa dedicate, per il resto il conformismo regna tra noi: non obietta mai nulla nessuno. Che si tratti della scuola o dell’immigrazione, del ruolo dei magistrati o della religione, di quali diritti e perché spettino a ogni individuo, su qualsiasi argomento è dato ascoltare dappertutto, salvo che nei suddetti talk show, una pressoché unica opinione. Nelle sedi più frequentate e accreditate si fa sentire solo il punto di vista buonista democratico. Un punto di vista diverso, diciamo conservatore, è regolarmente assente (fatta eccezione, talvolta, per qualche scialbissima posizione cattolico-clericale). Si badi: non voglio dire che tale punto di vista diverso venga fatto oggetto di una sistematica censura. Forse esso non esiste o è davvero quasi impossibile trovare chi lo sostenga con un minimo di dignità. Ma mi chiedo: non è forse ciò in certo senso ancora più grave? È normale un Paese che pensa e parla in una sola direzione? Anche perché di solito il punto di vista che da noi passa per "democratico" è un punto di vista povero di profondità storica e quindi di ogni drammatica complessità: proprio per questo sempre incline ad un irenismo di maniera, alla più disarmata benevolenza verso l’"altro". Tentato di continuo dall’indulgenza verso il male - a meno che non sia quello convenzionalmente designato (gli xenofobi, la mafia, Donald Trump) - esso predica sempre un vibrante rifiuto morale per tutto quanto sappia di disciplina e di autorità, mentre è pronto all’approvazione incondizionata per ciò che appare "autentico" e soprattutto "libero": meglio se all’insegna dell’"amore". È il punto di vista per il quale il passato è sempre sinonimo di sorpassato, la tradizione vale solo per le ricette della marmellata e le sciarpe della nonna, e le caselle dei buoni e dei cattivi sono sempre occupate dai nomi giusti. Siamo diventati così un Paese dove nel dibattito pubblico in genere e in quello politico in particolare, a sostenere delle sciocchezze non è l’estremismo. Quasi sempre è il pensiero comune autorizzato. L’estremismo non fa che portare alle estreme e più aggressive conseguenze le sue banalità e le sue idee. Rafforzate dal fatto che in Italia tra il pensiero comune autorizzato e l’opinione dei colti tende sempre più a non esserci alcuno scarto significativo. In Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti, non è così. Là, nel campo della cultura, della riflessione sul mondo, su molte questioni importanti d’interesse pubblico ci sono posizioni anche assai diverse che si scontrano e colloquiano ad armi pari tra di loro. Sicché in quei Paesi anche il pensiero comune è costretto a tenerne conto: attenuando la propria rigidità, legittimando il punto di vista diverso, facendo spazio al dissenziente. Da noi invece no. Sarà almeno qualche decennio che da queste parti non si sente, dico per dire, un pubblico elogio della grammatica o della bocciatura nelle aule scolastiche; che non si leva una voce alta in difesa dell’idea di identità, che non si legge uno scritto autorevole in difesa, che so, della fede religiosa o dell’eroismo militare. Sembrano ormai svaniti pure il gusto per la dissacrazione divertita o la passione per la provocazione colta. Svaniti i Manganelli, gli Sciascia, i Fruttero e Lucentini, soli ancora a parlare qualche volta restano i Ceronetti e gli Arbasino. E così ogni giorno che Dio manda in terra ci tocca solo la scodella di compunto perbenismo maggioritario travestito da satira che ci prepara Michele Serra. Califfato: i trucchi per reclutare italiane nell’Isis di Marta Serafini Corriere della Sera, 29 febbraio 2016 Le due militanti islamiche che agganciavano su Skype le adepte del nostro Paese partivano dai pop corn, poi si parlava di fede e di Isis. Al primo approccio il tono è ironico, confidenziale. Ci si guadagna la fiducia. Sara ha gli occhi stanchi. Di giorno lavora in un call center alla periferia di Milano. Di notte, dopo che ha messo i bambini a letto, passa le ore attaccata al suo smart-phone. Facebook, Skype, Whatsapp, le mail. "Ho paura che mi arrestino solo per le mie opinioni". La maestra Bushra - Sara (il nome è di fantasia) non è una terrorista. Ma è entrata in contatto con le reclutatrici di Isis. Il punto di partenza è il blog Storie dell’Occidente. L’autrice è Bushra Haik, la "maestra" di Maria Giulia Sergio alias Fatima, la 28enne di Torre del Greco partita per la Siria. Bushra nasce a Bologna nel 1985. Origini siriane, passaporto canadese, si trasferisce a Riad in Arabia Saudita. Lì sposa un imam. I suoceri vivono in Siria, nei territori controllati da Isis. Bushra mantiene un legame con l’Italia, tutti la conoscono come una maestra di arabo e di Corano. Ma dalle indagini coordinate dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dal pm Paola Pirotta emerge come prepari Fatima alla partenza per la Siria. "Un uomo non dovrebbe prima salvaguardare la sua famiglia e poi partire per combattere?", chiede Maria Giulia. E Bushra: "Se tutti dovessero pensare alla famiglia nessuno combatterebbe più e lo Stato islamico sarebbe finito". I primi approcci - Oggi sia Bushra che Fatima sono latitanti. La prima si trova a Riad dove ha dato alla luce un bambino. I suoi account Skype non sono più attivi ma sul suo blog sono comparsi nuovi post come questo: "Ero in quarta superiore. Le compagne erano diverse da me: a loro non interessava parlare di fede e a me non interessava parlare di trucco e ragazzi!". Il blog non fa mai riferimento esplicito all’Isis. Ma il filo rosso è l’esaltazione della fede come elevazione verso la superiorità spirituale. Il modus operandi è semplice. Le donne reclutano altre donne, che a loro volta reclutano altre donne. Le vittime diventano carnefici. Al primo approccio il tono è confidenziale, ironico. Ci si guadagna la fiducia. "In una lezione via Skype Bushra parlò di come fare i pop corn e poi spostò il discorso su Isis", racconta Loredana (nome di fantasia). Bushra introduce il concetto di hijra, la migrazione del Profeta, che in un’ottica di reclutamento coincide con la partenza per il Califfato. Le allieve - Italiane, sulla trentina, le allieve quasi sempre hanno figli. Alcune, le più istruite e le meno manipolabili, si fermano ai primi discorsi. Altre, no, vanno avanti. "Spiegava quanto fosse inutile andare all’università: "Hanno successo solo le ragazze che fanno sesso con i professori", diceva". La manipolazione mira a isolare la recluta. "Cercava di convincerci che i nostri uomini non fossero abbastanza religiosi e poi prometteva di trovarcene degli altri". Attira l’attenzione anche aims-uk.org, portale dedicato alle musulmane italiane emigrate in Gran Bretagna. Tra loro, Barbara Aisha Farina, da tempo nota alle autorità. Nata a Milano, Farina si converte nel 1994, a 22 anni. Sposa l’imam Abdelkader Fall Mamour. "In anni in cui internet era poco diffuso pubblicava la rivista al-Mujahidah (La Combattente). C’era una sezione per bambini chiamata il Mujaheddino e osannava Osama Bin Laden", spiega Lorenzo Vidino, direttore del Programma sull’estremismo della George Washington University. La rete di proselitismo ha attecchito - Oggi Farina non ha smesso con le sue pubblicazioni e gestisce, tra gli altri, il blog Madrasa di Baraka. In un documento si legge: "Le personalità femminili famose nei mass media (…) sono donne depravate e corrotte (…). Che Allah tranci le loro lingue e liberi la terra e i Suoi servi da costoro". Contattata via Facebook ci ha spiegato di "non voler essere associata ad alcun gruppo radicale". E se è difficile capire dove si fermi l’attività di tipo culturale-religiosa e dove inizi quella di reclutamento, è chiaro come la rete di proselitismo abbia attecchito in Italia. L’ultimo caso quello di Meriem Rehaily, la 19enne partita dalla provincia di Padova lo scorso luglio per la Siria. Anche lei forse vittima di una reclutatrice che, promettendole il paradiso, l’ha fatta precipitare nell’inferno del Califfato. L’Isis vuole colpire l’Italia dalla Libia di Francesca Musacchio Il Tempo, 29 febbraio 2016 Su Internet nuove minacce: Roma obiettivo dei miliziani del Califfato L’ordine per combattere i "miscredenti": fatevi esplodere tra la folla. Roma è la destinazione finale dei terroristi. La propaganda jihadista non si ferma. Il web continua ad essere inondato quotidianamente da foto e messaggi che lanciano minacce all’Italia e all’Europa. Tra gli ultimi post su Twitter, pubblicati da account di affiliati all’Isis, è apparsa un’immagine della Capitale messa ancora una volta a ferro e fuoco dallo Stato islamico. Scene di guerra e violenza sulle quali appare la scritta "Rome is the destination". Sempre sul social network, Al hayat media center ha divulgato un audio in lingua francese in cui si invitano i "fratelli in Occidente" a colpire "i miscredenti". "Fatevi esplodere dove c’è più gente", ordina una voce per conto del Califfato. Una minaccia costante e sempre più vicina all’Italia, dunque, che adesso sembra avere in Libia il nuovo quartier generale. Nel paese nordafricano, nel caos dopo la caduta di Gheddafi e dilaniato dalla presenza jihadista, si sarebbero stabiliti alcuni degli elementi più pericolosi ai vertici del gruppo terroristico. Mentre la comunità internazionale per mesi ha lavorato per la creazione di un governo di unità nazionale, l’Isis ha messo radici in Libia e proprio da qui, secondo alcune fonti, si sta preparando a sferrare l’attacco all’Italia e all’Europa. Tra gli elementi di spicco della compagine jihadista ci sarebbero Abu Amer al Jazrawi, un saudita al comando dell’organizzazione, e Abu Abdullah Al Shishani, un ceceno dato per morto in passato, che dopo la sua conversione all’Islam si è spostato dalla Georgia alla Siria e ora sarebbe in Libia. E proprio qui, a pochi chilometri dalle coste italiane, l’Isis ha preso possesso di molte zone e la situazione sta precipitando. Oggi è previsto il voto di fiducia del Parlamento di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale, per la creazione del governo di riconciliazione. I contorni della vicenda, però, sono ancora sfumati. Se da una parte la fiducia è attesa per dare il sigillo formale all’intervento militare dei Paesi stranieri, dall’altra parte le pressioni e le minacce di chi è contrario all’esecutivo guidato dal premier incaricato, Fayez al Sarraj, hanno spinto diversi parlamentari a chiedere lo spostamento della sede per il voto da Tobruk ad al Jafra. Tutto questo avviene mentre sul paese non si fermano i raid aerei che, secondo i media e le fonti della sicurezza locale, sarebbero compiuti da francesi, inglesi e americani che da tempo hanno anche i loro uomini sul territorio. Per il Sunday Telegraph, la Gran Bretagna avrebbe messo piede a Misurata, dove le forze speciali sono pronte a combattere contro l’Isis in supporto ai locali. E ieri, secondo fonti vicine al governo di Tripoli, durante un raid aereo è stato colpito e distrutto un convoglio dell’Isis a 150 chilometri a sud-ovest di Sirte, roccaforte dello Stato islamico nel Paese. Sempre da Tripoli ieri è arrivata la notizia di un arresto eccellente tra le fila jihadiste. Si tratterebbe di Ahmeda Najme al Sharef, alias Al Tashif, catturato dalle forze speciali libiche che avrebbero trovato il presunto numero 2 del ramo dell’Isis a Sabrata in un appartamento sulla costa. Nel corso del blitz sarebbe stato sequestrato materiale esplosivo, armi e munizioni. Al Tashif, inoltre, è ritenuto il responsabile di un attacco avvenuto lunedì scorso contro le guardie islamiste della milizia cittadina, 12 delle quali furono decapitate. La Grecia offre cibo e cure agli afghani anche se non ha siringhe negli ospedali di Francesco De Palo Il Fatto Quotidiano, 29 febbraio 2016 Sulla piana delle Termopili mobilitazione di cittadini e personale sanitario per i profughi accampati in alcuni autogrill. Il presidente dell’Ordine dei medici di Lamia: "In attesa che la politica europea decida qualcosa abbiamo allestito un ambulatorio tra le pompe di benzina: facciamo esami e visitiamo i bambini". Ma intanto il sistema sanitario è di nuovo alle corde. Mentre al confine con la Repubblica di Macedonia da sabato è consentito il passaggio a 300 migranti, con altri 25mila che restano però bloccati in tutta la Grecia, sulla piana delle Termopili scatta la mobilitazione di cittadini e professionisti. È la solidarietà greca sulla strada dei migranti. Che arriva, paradossalmente, dagli abitanti di un Paese di nuovo alle prese con la carenza di siringhe negli ospedali pubblici del Pireo e delle isole dell’Egeo. Pochi giorni fa alcune centinaia di afghani si sono incamminati dalla piana per raggiungere la Macedonia. Ma sono partiti solo uomini e ragazzi: donne, bambini, anziani e ammalati (circa 300) sono rimasti in alcuni autogrill alle porte della città di Lamia, nel centro esatto dalla Grecia. Dove la solidarietà dei greci arriva prima di piani europei e decisioni politiche. L’Ordine dei Medici del Comune di Lamia, in attesa che qualcuno dica loro cosa fare e come procedere, ha infatti deciso di darsi da fare e ha allestito una sorta ambulatorio tra le pompe di benzina, dove sono parcheggiati gli autobus che avevano a bordo gli afghani: fanno elettrocardiogramma ai più gravi e curano i bimbi, così come di solito fanno le Ong. "Da Berlino e Bruxelles sui migranti promesse e annunci. Dai greci, poveri, in crisi e senza futuro, un gesto concreto - dice a ilfattoquotidiano.it Michalis Barbarousis, presidente dell’ordine dei medici di Lamia - Per quanto ci riguarda abbiamo fatto solo ciò che era giusto, senza polemiche e senza nessuna velleità politica". "Al di là delle decisioni politiche, i soloni d’Europa si riempiono la bocca con grandi progetti e compiti da farci fare e casa, mentre noi qui con tutti i problemi che abbiamo non perdiamo la nostra umanità - aggiunge Vassilis Christopulos, cardiologo - e come ci insegna Ippocrate curiamo gli ammalati". Sul posto, da due giorni, anche una forma autogestita di distribuzione alimentare. Alcuni cittadini, con l’aiuto degli studenti, si sono presentati nel piazzale degli autogrill con alcune auto private. Hanno aperto i bagagliai e hanno iniziato a distribuire cibo e acqua al gruppo. Altri, soprattutto quelli con bimbi piccoli, sono stati accompagnati nei capannoni della vicina fiera cittadina e in alcune palestre per non trascorrere la notte in tenda. I volontari lamioti giocano a palla con i bambini e improvvisano momenti di apparente normalità, in attesa che sia più chiaro il destino del gruppo. Intanto il ministero della Sanità di Atene ha detto che ha già preso provvedimenti per garantire che non vi sia alcuna mancanza di siringhe nel sistema sanitario pubblico, dopo che un report aveva dato conto di carenza di strumenti negli ospedali di Pireo e nelle isole dell’Egeo. In una nota ha dichiarato che si trova in "costante contatto" con i nosocomi che si sarebbero già assicurati le quantità necessarie di siringhe. Anche se non va dimenticato che proprio le isole più piccole, come prima conseguenza della crisi economica, da tempo avevano denunciato la mancanza cronica di materiali e ambulanze, così come alcune sedi della mutua (in greco Ika) che versano in condizioni difficilissime per i tagli degli ultimi anni al comparto sanitario. Il ministro per le Politiche migratorie, Iannis Mouzalas, ha stimato che il mese prossimo resteranno bloccate in Grecia tra le 50mila e le 70mila persone, confermando che il governo Tsipras per questa ragione ha presentato un piano di emergenza all’Unione europea per la gestione dei flussi di rifugiati. Qualcuno parla di ben 120 campi di accoglienza, sull’asse Atene-Salonicco. Mentre dai turisti già arrivano le prime disdette per le vacanze nelle isole del Dodecaneso come Chios, Lesbo e Kos. Migranti, l’appello del Papa "non lasciate sola la Grecia" di Paolo Rodari La Repubblica, 29 febbraio 2016 "Non si possono lasciare da soli i Paesi impegnati in prima linea nella gestione dei profughi e i pesi dell’accoglienza debbono essere distribuiti equamente". Francesco, che sul dramma dei migranti e profughi accampati in condizioni disastrose in Grecia si tiene quotidianamente informato, ha chiesto ieri con forza alla comunità internazionale "una risposta corale", che arrivi attraverso "negoziati senza riserve". Sono tra i 50mila e i 70mila, infatti, secondo le stime del ministro delle politiche migratorie di Atene, Yannis Mouzalas, i migranti che rischiano di rimanere bloccati in Grecia nel prossimo mese di marzo dopo la stretta agli ingressi decisa dai Paesi balcanici. Una situazione insostenibile che allarma Francesco da sempre attento a questo problema. In Europa, diversi Paesi stanno inasprendo le posizioni verso i migranti, dopo che lo scorso anno sono arrivate nel vecchio continente oltre mezzo milione di persone. Eppure ieri, dalla Svizzera, è arrivato un segnale in contro tendenza. Gli elettori elvetici, infatti, hanno respinto la proposta per l’espulsione automatica dei criminali stranieri, anche per reati non gravi. In un referendum sei anni fa, più di mezzo milione di elettori votò l’espulsione automatica per i cittadini stranieri condannati per reati sessuali. Il partito del popolo svizzero (Svp), formazione populista di destra, ha proposto norme più rigide sottoponendole ieri all’opinione pubblica. Ma il 58,9 per cento degli elettori ha detto "no". "Una vittoria storica del popolo", ha esultato il partito socialista. "Respinto un attacco ai diritti umani", il commento di Amnesty International. Papa Bergoglio ha parlato ieri durante la recita dell’Angelus da piazza San Pietro, dove ha avuto parole di speranza per la Siria chiedendo ai fedeli di continuare a pregare perché la cessazione delle ostilità porti realmente ad una svolta nel martoriato Paese del Medio Oriente. Francesco sa che, in Europa, alcuni Paesi fanno più di altri. "In particolare, la Grecia e gli altri Paesi che sono in prima linea - ha detto - stanno prestando ai migranti un generoso soccorso che necessita della collaborazione di tutte le nazioni". Nel suo piccolo, anche il Vaticano si adopera in merito. È di ieri la notizia che è stato aperto - l’inaugurazione avviene oggi - un altro servizio per i senza fissa dimora che ruotano attorno al Vaticano: dopo la distribuzione di alimenti, la barberia, le docce, il dormitorio, la visita alla Sistina, il concerto nell’Aula Nervi, ora arriva, sotto il colonnato del Bernini, anche l’ambulatorio medico. Ultima fermata Zeebrugge: quei migranti respinti da Calais di Marco Imarisio Corriere della Sera, 29 febbraio 2016 Le migliaia di profughi che aspettano di attraversare la Manica per andare in un Paese che non vuole neppure sentir parlare di loro, hanno capito che non possono farcela. Le porte della chiesa rimangono chiuse. La Stella Maris era il luogo dove le famiglie si trovavano a pregare di notte per i loro marinai, un piccolo edificio proprio accanto alle dune, quando Zeebrugge era soltanto un villaggio di pescatori. Sono cambiate molte cose, da allora. Adesso il porto è una realtà industriale. Da una parte della strada le spiagge bianche del Mare del Nord per il turismo, dall’altra centinaia di container e le gru che li devono sollevare. Ogni giorno partono almeno due cargo diretti in Inghilterra, a Hull, e ogni giorno, lo sbocco sul mare di Bruges, la Venezia delle Fiandre, è l’ultima stazione europea di una migrazione interna e senza speranza. La giungla di Calais ha i giorni contati. Certo, l’allontanamento sarà "progressivo", come ha stabilito l’ultima sentenza. I "luoghi di vita", ovvero le moschee, le biblioteche e le aree giochi sorte in questi anni sugli otto ettari dell’accampamento rimarranno in piedi. Ma il messaggio è chiaro. Da qui non si passa, è finita. Le migliaia di profughi che, da anni, aspettano di attraversare la Manica per andare in un Paese che non vuole neppure sentir parlare di loro, hanno capito che non possono farcela. L’ultima spiaggia (belga) per i migranti - A 140 chilometri di distanza dalla giungla, la belga Zeebrugge è l’ultima possibilità. "Ma io non posso aprire e ospitarli, me lo proibiscono le autorità". Armand Ferre, il parroco della Stella Maris, è un cittadino obbediente. Ai migranti iracheni e afgani giunti da Calais, concede il permesso di appoggiare le loro cose e i sacco a pelo alle pareti esterne. Agli abitanti è stato detto di comportarsi come se i profughi accampati tra il campo di bocce e la chiesa non esistessero. "Non nutrite i rifugiati" ha detto all’inizio di febbraio e dei primi arrivi il governatore delle Fiandre occidentali Carl Decaluwè, cristiano-democratico. "Altrimenti saremo invasi". Non è mai stato un modello di accoglienza, ma la politica sull’immigrazione del Belgio è ormai di chiusura totale. Nel 2014 i rimpatri dei migranti erano stati appena 57. Nel 2015 sono saliti a quota 3.870, secondo i dati forniti dall’Organizzazione internazionale per l’immigrazione. Tra la domanda di asilo e l’eventuale risposta ci sono in mezzo 240 giorni di attesa, che trascorrono senza la garanzia di alcuna sistemazione per la maggior parte dei rifugiati, con le associazioni umanitarie che denunciano l’uso della burocrazia come arma di dissuasione. I controlli alla frontiera fra Francia e Belgio - Nei giorni scorsi, quando lo sgombero di Calais è diventato questione di tempo, il governo ha ripristinato i controlli alla frontiera con la Francia. "Dovete fermarli: noi abbiamo paura". Il fuori onda del ministro dell’Immigrazione Theo Franken all’ultimo Consiglio d’Europa mentre litigava con il suo collega greco è la rappresentazione plastica di un sentimento che non appartiene solo alla classe dirigente. All’ora di pranzo Pierre Mannaerts spinge la sua carriola piena di viveri al centro del campo di bocce. "Non possiamo restare senza fare niente. Ci venga il governo, a dire che non dobbiamo sfamare questa gente". Gli ex portuali come lui hanno fatto una scelta di campo. Anche gli anziani soci del Petanque club Stella Maris, il circolo delle bocce, trascorrono il pomeriggio sfidando i migranti e accompagnandoli dopo la partita nei caffè per farli ritemprare a loro spese. Persino padre Ferre ha promesso, su intercessione dei fedeli amanti delle bocce, di aprire la porta della chiesa nelle notti più fredde. Il clima cambiato d’accoglienza - Ma questa piccola piazza è ormai un’isola nella città. Il prossimo 6 marzo è prevista davanti alla spiaggia una manifestazione degli abitanti contrari alla presenza degli immigrati. L’associazione alberghiera fa sapere di avere ricevuto "centinaia di disdette", il comitato di quartiere distribuisce volantini apocalittici. Nei bar sul lungomare, il silenzio che cala ogni volta che fa ingresso un migrante vale più di ogni parola. "Fanno di tutto per farci capire che non ci vogliono" dice sconsolata Sava, una giovane informatica irachena, reduce da quattro mesi trascorsi a Calais. Andrete via? "Prima proviamo ad andare in Inghilterra, in ogni modo". I poliziotti a cavallo disperdono qualunque gruppo di migranti che osano affacciarsi sul lungomare. A ognuno di loro viene posto in mano un foglio di via. Cinque giorni, poi diventa illegale a tutti gli effetti, costretto a nascondersi tra le dune. Quelli che sono già stati sottoposti a controlli vengono segnati con un numero impresso a pennarello sul dorso della mano destra. Appena scende l’oscurità tentano in ogni modo di scavalcare le inferriate del porto, inseguiti dagli agenti che li riprendono per riportarli ai loro bivacchi. Eppure i numeri non sono ancora a tali da giustificare in modo razionale questa sindrome collettiva da assedio. Intorno al campo da bocce ci sono al massimo quaranta profughi, un altro centinaio si nasconde tra le dune. "Ci è stato ordinato di impedire in ogni modo che qui nasca un altro campo" spiega Ivens Pelkman, dirigente della sicurezza portuale. Sorride: "Stiamo facendo opera di dissuasione e prevenzione". Lungo la statale dal confine francese conduce a Zeebrugge si vedono gruppi di immigrati in marcia. La giungla di Calais sta per essere sgomberata. Nuove giungle nasceranno. Svizzera: l’esito del referendum "no all’espulsione degli stranieri che commettono reati" di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 29 febbraio 2016 La proposta dei partiti di destra respinta dal 59% degli elettori, il governo di Berna tira un sospiro di sollievo. Solo in Ticino i sì prevalgono con un margine ampio. La Svizzera dice non con una maggioranza piuttosto netta (59%) alla proposta di legge per espellere gli stranieri che commettono reati sul territorio elvetico. È il risultato del referendum tenutosi oggi, domenica, nella Confederazione e che il governo di Berna ha accolto con un sospiro di sollievo: una vittoria dei sì avrebbe messo in ulteriore imbarazzo la Svizzera di fronte alla comunità internazionale. La proposta di legge era stata avanzata dall’Udc, partito nazionalista e di destra, che alle elezioni parlamentari dell’autunno scorso era uscito vincitore: proprio questo precedente aveva reso incerto il risultato fino alla vigilia del voto. D’altro canto proprio il 59% uscito dalle urne conferma il controverso rapporto tra l’opinione pubblica svizzera nei confronti degli stranieri, un sentimento che oscilla tra rifiuto e accoglienza tra le più organizzate d’Europa. L’imbarazzo internazionale - Il disegno di legge chiedeva l’allontanamento degli stranieri che si fossero macchiati di reati dopo che questi ultimi avessero scontato la pena in Svizzera: un meccanismo contestato dagli oppositori perché in questo modo rischiavano di cadere nei meccanismi repressivi anche i moltissimi rifugiati politici che stanno ogni giorno affluendo in Svizzera. Rimandare al paese d’origine queste persone, per quanto avessero infranto la legge, avrebbe significato riportarle in zone di guerra o dove sarebbero state sottoposte a persecuzioni di natura politica. Questa è la ragione per cui le autorità elvetiche avevano invitato la popolazione a respingere la proposta dell’Udc. Berna si trova già in serio imbarazzo nei suoi rapporti internazionali, in particolare con la Ue, in seguito a un primo referendum, quello del febbraio 2014, che ha introdotto quote per immigrati e lavoratori stranieri. Voto rimasto però lettera morta proprio a caso della netta opposizione di Bruxelles. La questione ticinese - Da notare che il voto con il quale il referendum domenicale è stato bocciato, ha avuto un esito pressoché uniforme in tutto il territorio svizzero, con una sola eccezione: il Canton Ticino, dove i sì hanno sfiorato il 60%. La regione di lingua italiana si conferma dunque la più sensibile ai temi dell’immigrazione e non a caso. Chiasso, infatti, è il principale punto di approdo degli stranieri che chiedono asilo politico mentre tutta la fascia di confine è oggetto da anni di un fenomeno di "pendolarismo criminale": malviventi che arrivano dall’Italia, commettono rapine - lampo e poi tornano al di qua del confine rendendo difficili le indagini. Anche per questa ragione da tempo numerosi partiti, non solo di destra, chiedono da tempo il rafforzamento della vigilanza lungo il confine italo - svizzero Turchia: Erdogan; non rispetto la sentenza sul rilascio dei giornalisti di "Cumhuriyet" Nova, 29 febbraio 2016 Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha criticato una recente sentenza della Corte costituzionale che apre la strada per la liberazione dei due giornalisti arrestati, dicendo che non "accetta, e rispetta" la decisione. "Questo non ha nulla a che fare con la libertà di espressione, si tratta di un caso di spionaggio", ha aggiunto Erdogan in merito a una sentenza del tribunale turco su Can Dundar e Erdem Gul, rispettivamente direttore e caporedattore del quotidiano turco "Cumhurriyet". La Corte costituzionale turca ha ordinato il rilascio, dopo 92 giorni di prigione, di Can Dudar ed Erdem Gul, che con una loro inchiesta avevano denunciato il traffico di armi verso i ribelli siriani. I due erano stati arrestati con l’accusa di spionaggio, divulgazione di segreti di stato e tentativo di colpo di Stato in Turchia. La liberazione è avvenuta venerdì scorso in seguito alla sentenza della Corte costituzionale; i giudici supremi hanno stabilito che l’arresto dei due giornalisti "ha violato il loro diritto alla libertà personale". Al momento della liberazione erano presenti all’uscita del carcere di Silivri, nei pressi di Istanbul, i loro parenti, diversi attivisti per i diritti umani nel paese e due deputati del Partito popolare repubblicano (Chp). Al momento del rilascio Dundar ha commentato "siamo molto contenti di poter festeggiare oggi (il 26 febbraio) la nostra liberazione ed il compleanno del presidente Recep Tayyip Erdogan". In merito alla sentenza emessa dalla Corte costituzionale, Dundar l’ha definita storica, auspicando che possa essere il preludio alla liberazione di tutti i giornalisti turchi imprigionati e aggiungendo: "I tre mesi che abbiamo passato in prigione sono nulla in confronto a quello che altri nostri colleghi hanno subito e stanno subendo". Dundar ha sottolineato che lui e il collega continueranno a svolgere il loro lavoro con ancora più forza e determinazione. In merito alla vicenda che li ha portati in carcere: Dundar ha spiegato: "Avremmo preferito che la nostra denuncia avesse evitato il pantano siriano, anche perché alcune recenti dichiarazioni del presidente Erdogan e del premier Ahmet Davutoglu hanno confermato il nostro scoop". In merito alla scarcerazione dei due giornalisti, il leader del Chp, Kemal Kilicdaroglu, ha pubblicato un tweet in cui scrive: "Dire la verità non è un crimine. Ora vengano liberati tutti i giornalisti". Anche l’esponente del Partito giustizia e sviluppo "Akp" Bulen Turan, ha espresso la propria felicità per la liberazione dei due giornalisti, aggiungendo che "è sbagliato accusare l’Akp di interferire nei procedimenti giudiziari". Erkan Akgay, vicepresidente del Movimento del partito nazionalista (Mhp), ha in parte sminuito la vicenda, dicendo: "Nessuno poteva rivelare un segreto conosciuto da tutti", con riferimento alla storia dell’intelligence turca che trasportava armi in Siria. Mentre il vicepresidente del movimento filo curdo Partito democratico dei popoli (Hdp) ha sottolineato: "L’ingiusto arresto di Dundar e Gul ha ferito la coscienza dell’opinione pubblica mondiale". Lo scorso 27 gennaio un giudice della procura di Istanbul aveva chiesto di condannare all’ergastolo Dundar e Gul, accusati di spionaggio militare e politico. Il processo a carico dei due giornalisti si riferisce ad un’inchiesta pubblicata sul quotidiano, nella quale veniva denunciato un presunto traffico di armi verso i ribelli siriani che combattono il presidente siriano Bashar al Assad. Subito dopo la pubblicazione del servizio giornalistico, avvenuta lo scorso giugno alla vigilia delle elezioni politiche, era stata avviata l’inchiesta a carico dei due redattori, arrestati lo scorso 26 novembre. Il quotidiano aveva anche diffuso alcune foto che proverebbero il coinvolgimento dell’intelligence turca, il Mit, nella vicenda. Nel corso di un discorso pronunciato il 24 novembre, Erdogan ha dichiarato: "Che differenza fa se i camion contenevano armi o meno? La pubblicazione di quella notizia è stata un tradimento verso la Turchia". Pakistan: impiccato assassino del governatore anti-legge su blasfemia Aki, 29 febbraio 2016 I movimenti conservatori lo consideravano un eroe, attese proteste. È stato giustiziato per impiccagione, in Pakistan, il poliziotto che uccise l’ex governatore del Punjab, Salman Taseer, perché si era opposto alla controversa legge che prevede la pena di morte per chi commette blasfemia. L’uomo, Mumtaz Qadri, è stato impiccato nel carcere di Rawalpindi, nei pressi della capitale Islamabad. Era stato arrestato nel 2011, ma il suo arresto aveva scatenato forti proteste da parte delle componenti più conservatrici della società, che lo consideravano un eroe. Prima di essere ucciso, il governatore Taseer, da sempre critico nei confronti della legge sulla blasfemia adottata negli anni Ottanta, aveva incontrato in carcere Asia Bibi, la donna cristiana tuttora detenuta con l’accusa di blasfemia, che rischia la condanna a morte. Il suo assassino, Qadri, era stato condannato a morte in primo grado da un tribunale anti-terrorismo e la condanna è poi stata confermata dalla Corte Suprema. La sua esecuzione è avvenuta tra ingenti misure di sicurezza intorno alla prigione e anche nella capitale. Un ingente numero di poliziotti e paramilitari è stato schierato inoltre in tutto il Punjab e nella città di Karachi, dove i conservatori di Sunni Tehreek (Movimento sunnita) hanno minacciato proteste.