Giustizia, una riforma forte e totale di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 28 febbraio 2016 Di riforma della giustizia si parla ogni volta che si procede a piccoli o meno piccoli ritocchi. Di fronte ai difetti dell’attuale sistema di giustizia, è necessaria però un’ampia riflessione per una vera prospettiva riformatrice. Il tradizionale apparato concettuale non è l’unico possibile ed è ora sfasato rispetto a una realtà che è cambiata e di cui va considerata la direzione. In crisi sono la giustizia ordinaria, quella amministrativa e la loro interazione. Alcuni primi appunti possono servire a una discussione, utile a identificare un’idea di fondo, che dia coerenza a un percorso per tappe senza continui ritocchi e andirivieni legislativi. Senza rincorsa a messaggi urgenti da lanciare all’opinione pubblica, senza l’illusione di trovar tutti d’accordo, occorre il concorso di opinioni fondate sull’esperienza di magistrati e avvocati, insieme all’elaborazione degli studiosi, preliminare alle scelte del legislatore. Senza tralasciare ciò che di buono può esser tratto da quei modelli europei, che si dimostrano meno carichi di problemi. L’eccessiva lunghezza dei processi civili, penali e amministrativi, vista in rapporto alla realtà odierna, perde il carattere di difetto organizzativo, per rivelarsi debolezza strutturale. L’accelerazione della dinamica economica e sociale non sopporta più l’esasperante lentezza e l’incertezza del diritto. Il gran tempo che passa impone l’ampio ricorso a misure urgenti e provvisorie. Si tratta di misure cautelari, patrimoniali o personali nel corso di un processo penale destinato a trascinarsi per anni e magari estinguersi per prescrizione; di misure urgenti ma provvisorie e poi magari destinate alla revoca, nelle procedure civili; di sospensive di atti amministrativi oggetto di ricorsi al giudice amministrativo. Le misure urgenti e provvisorie hanno un effetto devastante quando diventano il principale strumento di impatto rapido ed efficace, non in vista, ma sostanzialmente in luogo della sentenza definitiva. La precarietà e l’incertezza paralizzano l’azione di cittadini, imprese, amministrazioni pubbliche. Piccoli aggiustamenti o miglioramenti organizzativi non sono più sufficienti, senza la riduzione dei ricorsi ai giudici e delle impugnazioni e la drastica semplificazione delle procedure. Il primo risultato si ottiene rendendo obbligatorie ed efficaci le vie di tipo conciliativo o di mediazione. Esse non sono nella tradizione italiana, che preferisce la litigiosità giudiziaria, ma sono indispensabili. L’avvocatura può dare in proposito l’indispensabile apporto. La semplificazione delle procedure, rese flessibili secondo la valutazione del giudice, è un’altra esigenza ineludibile in vista di ciò che conta: il contraddittorio tra le parti, garantito e regolato dal giudice. Vi sono troppe oscillazioni della giurisprudenza; in quella dei singoli giudici e persino in quella della Corte di Cassazione. Quest’ultima, per l’enorme numero di ricorsi che la investono ed anche per il conseguente gran numero di magistrati che la compongono, ha difficoltà ad assicurare una ragionevole stabilità, conoscibilità, generalità dell’applicazione della legge. L’esorbitante numero degli avvocati ammessi a difendere in Cassazione è un aspetto rilevante del problema del numero e della qualità dei ricorsi. La costante qualità professionale dell’avvocatura concorre a garantire quella giudiziaria. Le oscillazioni della giurisprudenza sono uno dei motivi dei troppi ricorsi; la certezza della giurisprudenza ha un forte effetto deflattivo. Naturalmente una ragione importante dell’instabilità della giurisprudenza discende dalle continue modifiche legislative, spesso di pessima qualità, e dai frequenti compromessi che rinviano alla fase applicativa ciò che il Parlamento non è riuscito a sciogliere. Troppo scarsa è poi la presa della giurisprudenza della Cassazione sulla pratica quotidiana dei giudici di merito. Occorre ora pensare a misure che assicurino la rapidità del formarsi della giurisprudenza della Cassazione e la sua incidenza su quella dei giudici di merito. Si tratta di un’esigenza dell’equo processo, come inteso a livello europeo e preteso dai principi dello Stato di diritto. Nessuna riforma della giustizia, può evitare di intervenire sulla magistratura. Sarebbe ora di prendere atto del mutamento profondo di un dato che ancora, contro l’evidenza, si ritiene reale e necessario. L’attuale assetto della magistratura (reclutamento, destinazione alle varie funzioni, valutazione di professionalità) ancora suppone che il giudice sia il puro e semplice applicatore della legge. Sempre più al giudice è richiesto di effettuare valutazioni svincolate da criteri legislativi precisi. Un esempio, ma non il solo, è il criterio dell’interesse del bambino nelle cause di famiglia, espressione della tendenza non solo italiana a dar spazio alla ricerca dell’adeguatezza della soluzione giudiziaria rispetto al caso concreto. La legge, per natura generale e astratta, in molti campi si rivela da sola inidonea, senza un ampio spazio di valutazione del giudice. E l’interazione tra leggi nazionali e norme europee o internazionali apre spesso largo margine alle valutazioni in concreto. Certo il ruolo giocato dal giudice nella decisione è diverso per entità e natura nei vari campi del diritto. Le richieste di professionalità, cultura, esperienza sono distinte, così che l’idea stessa dell’unità indifferenziata della magistratura merita ripensamento alla luce della necessità di specializzazione. In questo senso è un brutto segnale la decisione di abolire i Tribunali per i Minorenni e di confonderne le competenze nel Tribunale ordinario. In molti campi, l’accettabilità sociale delle decisioni e il rispetto che richiedono non possono più legarsi all’indiscutibile autorità della legge: accettabilità e rispetto dipendono invece dalla riconosciuta autorevolezza di chi l’applica. Ma si tratta di tema che implica un profondo ripensamento dell’attuale ordinamento. Renzi: adesso basta derive giustizialiste di Antonio Calitri Il Messaggero, 28 febbraio 2016 Garantismo, riforma delle adozioni e alleanze spurie. La nuova strada dem ribadita ieri da Matteo Renzi alla scuola di formazione politica del Pd agita sia la minoranza del partito che i centristi. Ieri il premier ha deciso di fare il punto di una settimana molto travagliata per lui, il governo e il suo partito dopo che il gruppo di Denis Verdini ha votato la fiducia. Invece è andato tutto bene e il segretario Pd davanti a una platea di under 35 si è detto "stra-orgoglioso del risultato sulle unioni civili, so che tra di voi ci sono opinioni diverse. Tuttavia è vero che per essere idealisti bisogna sognare l’impossibile, ma poi bisogna portare a casa il possibile" rivelando che "il disegno politico che c’era, era quello di non fare nessuna legge, l’obiettivo era la melina. E se noi avessimo fatto zero a zero sui diritti anche in questa legislatura, ci sarebbe stato da vergognarsi". Poi Renzi è passato a un altro tema delicato per una parte Pd, quello del garantismo a lungo abbandonato dalla sinistra. "Troppo spesso negli ultimi anni è bastato un avviso di garanzia per decretare la condanna di una persona, ma questa è una stortura pazzesca, e il merito del Pd è aver cambiato approccio ed è una cosa di cui vado fiero" aggiungendo che "non bisogna accettare una certa deriva della stampa e di una parte dei cittadini che confonde giustizia con giustizialismo". Riaprendo infine le porte del Pd a Salvatore Margiotta che "qualche anno fa ha ricevuto un avviso poi è stato prosciolto in primo grado e condannato nel secondo ha lasciato il gruppo Pd ed è andato in Cassazione e ieri ha avuto una assoluzione piena e totale, lo abbraccio e lo aspetto lunedì al gruppo Pd". Le tensioni - Ma le unioni civili ottenute con i voti seppur non determinanti di Verdini e l’annunciata strategia di rimediare alla stepchild adoption con la riforma delle adozioni ha messo in agitazione sia la minoranza Pd che centristi. Ad attaccare è Roberto Speranza che ha definito il voto di Ala una scelta "che tocca l’identità profonda del Pd". Muro del vicesegretario Lorenzo Guerini bollando le polemiche come "un tentativo strumentale che sporca un risultato storico". Poi la ministra Maria Elena Boschi ha chiesto a Speranza Come mai non ha votato l’Italicum e "poi ci venga a dire che non vanno bene le coalizioni e le maggioranze spurie". Alla Boschi ha risposto Miguel Gotor: "È difficile sostituire Vendola con Verdini senza pensare che ciò non snaturi l’identità del Pd, facendolo diventare il fulcro di un progetto neo-centrista e moderato di stampo trasformistico". Anche i centristi non hanno gradito l’impegno della Boschi "su una legge sulle adozioni che però riguardi tutti, i gay, i single e le coppie di fatto". Maurizio Sacconi ha criticato il suo partito perché "dovevamo tenerci le mani libere per una battaglia culturale" facendo sapere che sull’uscita da Ncd "ci devo riflettere, alla luce di ciò che è accaduto e dei futuri assetti politici". Lorenzo Cesa e Rocco Buttiglione dell’Udc hanno avvisato che chi vuole modificare "l’equilibrio raggiunto nella legge sulle unioni civili e senza l’adozione gay, vuole la fine del governo Renzi". Il premier conferma la svolta garantista, ma la riforma del processo penale è al palo di Silvia Barocci Il Messaggero, 28 febbraio 2016 La sua generazione, quella di un premier che studiava giurisprudenza in piena Tangentopoli, era cresciuta con "l’idea che tutti i politici fossero ladri e che un avviso di garanzia equivalesse a una condanna". Non è più così. E Matteo Renzi rivendica questo "merito" di "civiltà giuridica" a se stesso e al suo Pd. L’occasione è l’intervento alla scuola di formazione del partito. Racconta, Renzi, di aver ricevuto la sera prima la telefonata del senatore del Pd Salvatore Margiotta, appena assolto in via definitiva dalle accuse di turbativa d’asta e corruzione per la costruzione in Basilicata del centro oli della Total. La Cassazione ha annullato la sua condanna in appello a un anno e sei mesi, dopo un calvario giudiziario iniziato nel 2008 con l’inchiesta condotta dall’allora pm di Potenza Henry John Woodcock. Ecco, partendo dal caso emblematico del senatore potentino e arrivando a quello paradossale del deputato siciliano Francantonio Genovese (finito in carcere con i voti dei suoi colleghi del Pd e poi passato in Forza Italia), Renzi chiarisce: "Troppo spesso negli ultimi anni è bastato un avviso di garanzia per decretare la condanna di una persona. Ma questa è una stortura pazzesca e il merito del Pd è aver cambiato approccio". Quel "ne vado fiero" è una chiosa che va letta, alla luce del recente passato ma anche di fatti che presto potrebbero verificarsi. Le riforme - Che il clima sia cambiato è evidente da almeno un paio d’anni. La svolta "garantista" del Pd è andata di pari passo con il declino berlusconiano. Lo si è visto con i primi due provvedimenti della riforma della giustizia targata Renzi: la responsabilità civile dei magistrati e il taglio alle ferie delle "toghe". Terreni di scontro con l’Anm che sembravano aver fatto tornare le lancette ai tempi in cui a palazzo Chigi c’era Berlusconi. La diffidenza tutt’oggi permane, ma la "crisi" di due estati fa sembra superata. Il Guardasigilli Orlando ha portato a casa numerose riforme - la nuova anticorruzione, la custodia cautelare, la tenuità del fatto, la depenalizzazione dei reati minori, il nuovo falso in bilancio - ma almeno un paio, le più controverse, restano al palo: il processo penale (con la delega al governo per rivedere le norme sulle intercettazioni) e la prescrizione (Pd e Ndc restano divisi). I nuovi avvisi - Chissà, il richiamo di Renzi alla svolta garantista potrebbe non essere casuale. Considerare colui che riceve un avviso di garanzia come "un cittadino con tutti i diritti" può avere un significato pro futuro. Cosa accadrà mai se Pierluigi Boschi, padre del ministro per le Riforme Maria Elena, venisse indagato per bancarotta fraudolenta dopo la dichiarazione dello stato d’insolvenza di Banca Etruria? Le opposizioni, M5S in testa, chiederanno nuovamente le dimissioni del ministro? Il copione, d’altronde, è né più né meno che quello della mozione di sfiducia presentata nei confronti del ministro dell’Interno Angelino Alfano, raggiunto l’altro giorno da un avviso di garanzia per abuso di ufficio nell’ambito dell’inchiesta sull’università Kore di Enna. Così comanda la nuova mafia: basta stragi, ora colonizza l’economia legale di Attilio Bolzoni La Repubblica, 28 febbraio 2016 È sempre la stessa o è cambiata? La Cupola c’è ancora? Chi sono i nuovi capi? Che rapporto ha con la politica? A 30 anni dall’inizio del maxi processo e a quasi 25 dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, la faccia di Totò Riina non basta più a spiegare cosa è la mafia oggi. A confronto i pareri del procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e dello storico Salvatore Lupo. Il Pg Scarpinato "la nuova Cupola ora colonizza l’economia legale" Cosa è la mafia oggi? "Non ce n’è una sola. C’è una mafia popolare che è in crisi, ce n’è un’altra che offre sul libero mercato beni e servizi illegali per i quali vi è una domanda di massa, poi c’è un’aristocrazia mafiosa che ha fatto un salto in circoli ristretti che gestiscono legalmente grandi affari". Procuratore Roberto Scarpinato, cominciamo dalla mafia che ha fatto il salto. "Anche nel mondo mafioso c’è stata una selezione della specie. Solo alcune élite criminali partecipano al gioco grande del potere, dove a livello apicale gestiscono le leve della residua spesa pubblica e dei business che richiedono competenze complesse multilivello: dal settore dell’energia a quello delle privatizzazioni. Da anni uso la denominazione "sistemi criminali", network nei quali esponenti di mondi diversi mettono in comune risorse di potere politico ed economico - e se occorre anche militare - per colonizzare interi comparti economici o territoriali". Una mafia lontana da quella che abbiamo conosciuto. "Non si può capire che cosa è oggi la mafia se si continua a guardarla con gli occhi della Prima Repubblica e con un’ottica regionalistica. Tutti i paradigmi del passato stanno diventando obsoleti, perché è completamente mutato lo scenario socio-economico nel quale le mafie operano e di cui sono una componente organica". Mondo legale e mondo illegale che si avvicinano sempre di più confondendosi? "È dal 2014 che l’Unione Europea ha stabilito che, per calcolare il Pil, il prodotto interno lordo degli Stati dell’Europa, bisogna inserire anche i fatturati dello stupefacente, della prostituzione e del contrabbando. Quando calcoliamo il Pil nazionale, da due anni inseriamo per l’Italia anche i 12 miliardi di euro del fatturato degli stupefacenti e i circa 3 miliardi e mezzo di euro di quello della prostituzione". Quali sono le cause che hanno portato grandi cambiamenti nel mondo criminale? "Nella prima Repubblica la politica governava l’economia, la spesa pubblica era una risorsa potenzialmente illimitata e il Paese aveva ancora la sovranità monetaria. Da qui, derivava una determinata tipologia di rapporti di scambio e di convivenza tra mafia- politica- economia. La mafia offriva il suo sostegno elettorale ai partiti governativi che, in cambio, garantivano la compartecipazione alla spartizione della spesa pubblica e protezioni per il rischio penale derivante dall’attività predatoria sui territori. Il rapporto era "democratico", nel senso che qualsiasi mafioso di medio livello poteva interfacciarsi con politici e amministratori locali che gestivano in autonomia la spesa pubblica". E oggi invece? "Oggi è l’economia che governa la politica, i centri decisionali si sono verticalizzati e spesso sono sovranazionali, la spesa pubblica è divenuta una risorsa strutturalmente contingentata perché, con l’euro, il Paese ha perduto la sovranità monetaria. Gli appalti pubblici si sono ridotti in percentuali elevatissime. Tutto ciò sta scardinando la tipologia di rapporti preesistenti con la mafia. I mediatori politici hanno sempre meno da offrire in cambio". E la mafia come sopravvive a questa crisi profonda? "Dalle intercettazioni emerge la difficoltà dei mafiosi popolari persino di garantire le spese per il mantenimento delle famiglie dei carcerati e per quelle legali. Le attività criminali predatorie tradizionali proseguono per forza d’inerzia su territori sempre più impoveriti". Altre associazioni criminali in questi anni si sono organizzate diversamente, la camorra e la ‘ndrangheta per esempio. "In Sicilia ancora esiste una struttura mafiosa che tiene l’ordine, anche se in alcune zone si sta sfilacciando. In Campania, dove quella struttura d’ordine non esiste, i vuoti di potere determinati dagli arresti hanno scatenato una guerra per bande. Interi quartieri di Napoli, come le favelas sudamericane, sono isole di un’economia criminale della sussistenza che coinvolge migliaia di nuclei familiari". Poi c’è la mafia che ha invaso le regioni da Roma in su. "Lì operano componenti evolute delle mafie - soprattutto la ‘ndrangheta - quelle che non solo si sono de-localizzate ma si sono anche internazionalizzate. È la mafia mercatista, che cavalca la logica del mercato. Offre quello che chiedono migliaia di persone normali: stupefacenti, prostitute, falsi griffati. E ci sono anche tantissimi imprenditori ai quali queste mafie offrono servizi che abbattono i costi o incrementano i profitti, come lo smaltimento illegale di rifiuti o la fornitura di manodopera sottopagata o schiavizzata. Questa è la cosiddetta mafia silenziosa che con i territori non ha un rapporto aggressivo ma collusivo. La violenza viene utilizzata solo se è indispensabile. È uno spaccato che emerge da tante inchieste, come quella recente sulla colonizzazione mafiosa di intere aree dell’Emilia Romagna". Uno scenario cupo. "È solo il più visibile. Poi ve n’è un altro più sofisticato, trasversale ai territori, prodotto dalla trasformazione strutturale del modo di essere del potere nella società. Dopo la chiusura della parentesi democratica del Novecento, che aveva redistribuito ricchezza e potere, è in corso un ritorno alla società delle élite che concentra ricchezza nel 10% della popolazione. Questo fenomeno attraversa anche il mondo criminale. Il ceto medio delle mafie tradizionali sta subendo la stessa parabola discendente del ceto medio legale. La "democrazia" è finita anche dentro la mafia". Chi è aristocrazia mafiosa in Sicilia? "Matteo Messina Denaro". Come si fronteggiano queste élite criminali? "Le categorie penali del concorso esterno e dell’associazione mafiosa mostrano la corda. Non si sa più se si tratti di concorso esterno di colletti bianchi negli affari delle mafie o, viceversa, di concorso di aristocrazie mafiose negli affari loschi di strutture criminali che la stampa definisce cricche, comitati d’affari, P3 o P4. Per fronteggiare il nuovo che avanza serve un salto culturale, come quello compiuto da Falcone 30 e passa anni fa, quando mostrò al Paese la realtà della mafia della Prima Repubblica". Lo storico Salvatore Lupo "non ci sono più stragi ma molti affari occulti" Cosa è la mafia oggi? "È cambiata ma è cambiata meno del mondo che ha intorno. Ed è nascosta come sempre nelle pieghe della mala politica e della mala economia. Certo, nell’era corleonese si è clamorosamente palesata con i suoi misfatti. Ma quell’era è finita, la guerra non c’è più. La Repubblica italiana è uscita da quella stagione di emergenza estrema". Professore Salvatore Lupo, è almeno dal 2000 che tutti continuano a ripetere che la mafia si è "inabissata", che è "invisibile". "Nel corso della sua lunga storia, la mafia ha più che altro cercato di mantenersi coperta. Ha sempre saputo che, se le autorità o l’opinione pubblica non la cercano, non la vedono neanche. A meno che non si riveli essa stessa con le armi o con le bombe, come ha fatto per un ventennio. Oggi semmai nessuno ci può più dire che la mafia non esiste. In passato tanti siciliani, nei ranghi della classe dirigente ma non solo, l’hanno fatto. Magari per pruderie regionalistica, perché le polemiche sul tema suonavano come un’offesa alla sicilianità. La fine di questa cultura omertosa è stata anche causata da una repressione molto forte a partire dalla metà degli anni 80. Si sono segnati risultati senza precedenti anche rispetto al molto celebrato, ma in realtà blando, periodo fascista. Lo dico da storico che ha studiato quelle vicende a fondo: la maggior parte degli imputati dei processi del 1928 e del 1929 furono oggetto di leggere condanne, ed erano già fuori nel 1931 per amnistia, qualcuno andò al confino ed era già al lavoro già negli anni 30". Questa sua affermazione va dritta al cuore del problema. Da più parti si dice che dopo le stragi del 1992 la mafia sia stata colpita ma solo nella sua struttura militare, non in quella "politica". È andata così? "Non mi pare che nella considerazione di questo fenomeno possa essere introdotta una distinzione così netta. La mafia è un incrocio di criminalità violenta, politica e affari. Lo era tra 800 e 900, quando i mafiosi erano uomini di fiducia dei proprietari fondiari. "Facinorosi della classe media", li chiamava Franchetti nel 1877. Lo era anche dopo, quando i mafiosi servivano da terminale periferico di macchine politico-elettorali. Non possiamo insistere su schemi dicotomici come quelli cui lei accennava. Riveleremmo un’incapacità di fondo di capire di che si tratta". Ci spieghi lei di che si tratta. "La mafia è stata sempre un potere minore rispetto a quello ufficiale dello Stato e delle élite sociali. Dobbiamo considerare l’era dei Corleonesi come una parentesi nella storia della mafia. La stagione del terrorismo mafioso è terminata, spero definitivamente. Io non posso certo prevedere il futuro, però non ci sono elementi che indichino ritorni a quel passato tragico, ve ne sono invece che indicano il contrario. Quella guerra è finita. Il numero degli omicidi in questo Paese è drasticamente diminuito, il Mezzogiorno sta nella media nazionale, in Sicilia si ammazza meno che in Lombardia. Se penso al 1991". Perché proprio al 1991? "Perché quell’anno, in Italia, c’è stato il picco degli omicidi per cause riconducibili alla criminalità organizzata: 700. Praticamente quasi il doppio dei morti di violenza politica - 490 - registrati in tutti gli anni di piombo che vanno dal 1969 al 1985. L’impatto delle mafie sulla storia generale italiana è stato enorme. Poi lo Stato ha reagito". Dunque, secondo lei, lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. Molti però dicono che c’è una nuova mafia... "Sì, e allora? Questo non cancella ciò che è avvenuto: uno scontro tremendo conclusosi con l’annientamento del gruppo di comando di Cosa nostra. Si tratta di una vittoria transitoria? Ciò non toglie che sia storicamente molto rilevante. Niente trionfalismi, certo. Lo stato di salute cagionevole (uso un eufemismo) della democrazia e della morale pubblica in Italia, e in particolare in Sicilia, esclude rivolgimenti palingenetici. Però non è giusto né utile dimenticare che questa nostra epoca è diversa da quella sanguinosa di 35 anni fa. C’è un pezzo di opinione pubblica che ragiona come se quei fatti tragici fossero avvenuti ieri, anzi che si sente come bloccata in quel passato. Vogliamo ammetterlo che tanti sforzi, tanti sacrifici - anche della vita - sono serviti a qualcosa? È paradossale e frustrante che uno dei pochi risultati conseguiti in questo Paese non sia riconosciuto". Chiaro, i fatti sono fatti: ma perché c’è questo rifiuto? "Perché l’Antimafia più generosa e ideologica non si accontenta di sapere Riina, Provenzano e soci in galera. Il risultato oggi, una volta ottenuto, appare piccolo: ma non così appariva quando sembrava impossibile conseguirlo, nel 1985 o nel 1991! Perché resta inappagata la nostra esigenza di buona politica e buona economia, e non troviamo un altro bersaglio che sia adeguato al nostro tempo". Le voci dal di dentro, già dopo il 1992, svelavano "Cose Mondiali"... "I sistemi criminali di scala planetaria e senza volto, il complotto universale? Lasciamo perdere. Troppi osservatori ed interpreti, anche in buona fede, cadono nel mito dell’onnipotenza della mafia. Troppi danno credito ai mafiosi più o meno pentiti, che si raccontano come se ogni essere umano e ogni forza istituzionale devono essere sempre, per forza, "nelle loro mani". Questa retorica rischia di paralizzarci. La verità è che ogni mafia può essere battuta e, in gran parte, quella che abbiamo imparato a chiamare Cosa nostra è stata battuta. Fermo restando che, purtroppo, ogni vittoria può di seguito trasformarsi in sconfitta". Che fine hanno fatto i patrimoni accumulati con i grandi traffici? "Da qualche parte saranno. E saranno attivi. Come molti degli imprenditori, dei professionisti, e naturalmente dei politici, già interni alla rete mafiosa. Attivi e più liberi di muoversi in proprio, ora che i gruppi di fuoco corleonesi non li tengono più sotto il mirino. Ma non è una nuova mafia. Diciamo meglio che si tratta dei residui della vecchia". Come al solito bisogna seguire l’odore dei soldi. "E bisogna seguire anche le tracce dei trasformismi. In una ricerca sull’economia criminale coordinata dal mio collega Rocco Sciarrone dal titolo Alleanze nell’ombra, ad esempio, scopriamo che tutte le imprese top della connection mafiosa in provincia di Palermo hanno aderito ad associazioni antiracket o antimafia". Castelli, hotel 5 stelle, tenute e cantine: ecco l’Immobiliare Mafia di Antonello Caporale Il Fatto Quotidiano, 28 febbraio 2016 È grande quanto Perugia. È la città dell’illegalità e ogni anno che passa s’allarga, avanza, si fa ricca. Case, casette, tuguri, villone, tenute, boschi, frutteti, aranceti, uliveti. Palazzi enormi e centrali, appartamentini di periferia, hotel di gran lusso, case abusive, cantine, ammezzati: 18.869 immobili sono i beni confiscati alla criminalità organizzata e ai delinquenti di diversa estrazione e generazione. Un popolo che affiora e una città che si erige e ogni anno si espande sempre più. Il capitale dell’agenzia dei beni si arricchisce come petali infiniti di una rosa che si gonfia fino a trasformarsi da fiore ad albero. E non sfiorisce mai: "Ogni mese ci arriva qualcosa, ogni settimana dobbiamo rifare i conti, ogni giorno c’è una novità" dice Matilde Pirrera, vice prefetto delegata a far funzionare la sede di Reggio Calabria, il centro nevralgico della gestione di questo software criminale. L’invenzione di Pio La Torre Ricordare sempre, perché gli italiani hanno la memoria corta, che dobbiamo a Pio La Torre, un dirigente politico comunista siciliano, naturalmente ammazzato dalla mafia, se in Italia esiste dal 1982 la legge che confisca ai condannati anche i beni, se finalmente oltre al carcere si fruga nelle tasche, si sequestra il portafogli, si mettono lucchetti alle ville. L’energia vitale di questa legge e la sua forza simbolica sono racchiuse in un’insegna che campeggia a Palermo: una grande cancellata, la scritta Carabinieri e sullo sfondo un grande immobile di colore bianco. Era la villa di Totò Riina ed è divenuta la caserma dei carramba, nella stanza da letto del boss oggi è insediato il maresciallo che comanda la stazione. Si fa festa all’agenzia dei beni confiscati perché nell’ultimo anno si è riusciti a trasferire al demanio o agli enti territoriali (comuni, province, regioni) circa quattromila immobili. "Solo a Palermo ci sono 30 scuole, quattro palazzi che ospitano altrettanto assessorati, la sede della polizia municipale, 400 alloggi di servizio per poliziotti, la sede della commissione tributaria regionale, gli archivi del tribunale e notarili. Tutti immobili confiscati, che bellezza!", dice Umberto Postiglione, il prefetto che dirige l’Agenzia. Il tesoro sommerso è ancora enorme È una bellezza sì, ma è anche pauroso come il tesoro mafioso, ‘ndranghetista, camorristico non abbia fine, perché i beni confiscati sono la velina sotto cui transita il grande portato industriale del malaffare. Non esiste la possibilità di una percentuale tra i beni sequestrati e quelli ancora liberi, ma il rapporto continua a essere purtroppo irrilevante. È schiuma finora quella che ha bagnato le mani dello Stato, resta l’oceano d’acqua, il deposito criminale, i miliardi di euro che allagano i caveau, il cemento che ospita il lusso sfarzoso nelle metropoli del mondo, le aziende che producono sotto nomi di incensurati e magari anche di illibati e riveriti concittadini il fatturato della Mafia Spa. E man mano che il tempo passa, le confische avanzano verso nord. Se oggi Sicilia, Campania e Calabria sono le reginette del deposito finanziario e immobiliare del crimine, tra qualche anno Lombardia, Lazio, Piemonte e Abruzzo (i finanziamenti destinati alla ricostruzione de L’Aquila c’entrano qualcosa?) scaleranno la vetta. "Abbiamo 702 ettari in Toscana, a Monteroni, dovremo pur farci qualcosa. Il comune è piccino, pensiamo a un’azienda di agricoltura sociale", dice Postiglione. E a Novara ha appena affidato il castello di Miasino nelle mani della Regione, ha concesso a delle cooperative le aziende di Pasquale Galasso e quelle di Zagaria, nel casertano. A Milano si tiene il Festival Antimafia nel bosco (sei ettari) della tenuta Chiaravalle (1.600 metri quadrati di casale extralusso). A Reggio Calabria è sorta una sartoria sociale per donne in difficoltà, ed è lo sviluppo benigno, curato dalla dirigente della Provincia Daniela De Blasio, di un catasto altrimenti cancerogeno, inutilmente afflittivo. Per dire, a Caltanissetta la prefettura è installata in un palazzo dell’ex presidente della Confindustria! Sebbene quest’anno siano stati collocati quattromila beni immobili, decuplicando le consegne rispetto agli anni scorsi, preoccupa la progressione delle confische che al nord si moltiplicano e divengono la certezza di uno spostamento geografico definitivo degli interessi e degli investimenti. Non sono soltanto i forzieri delle banche a custodire il pegno della sopraffazione, quanto la linea del mare, le riviere, le ville, le villone, gli hotel, i residence. Beni al sole, mattoni ardenti, percolato mafioso che allaga piazze e vie di borghi lontani da quelli tradizionali. Nelle maglie bucate dello Stato La pianta organica dell’Agenzia che deve far transitare questa montagna da mani sporche a mani pulite, prevedeva la miseria di trenta unità. E nella miseria la ancor più miserabile destinazione di un solo funzionario in via definitiva a questa occupazione nevralgica. Poi tutto il resto (siamo a 70 addetti) è frutto di spostamenti pro tempore, trasferimenti e distacchi. Una provvisorietà figlia della distrazione colpevole dello Stato che ancora a fatica riesce a scovare e poi a piazzare il frutto del maltolto. L’agenzia ha ancora in gestione 8.672 immobili. Li tiene in mano e non li cede. Tenerli ha però un costo. E li tiene o perché sono frutto di confische di primo grado, quindi ancora soggette a giudizio, oppure perché sono porzioni di immobili indivisi con altri abitati, spesso, da familiari del condannato. O anche perché parecchi di questi beni sono totalmente abusivi, o in condizione di grave degrado. Ma resiste comunque una quota che fa fatica a essere destinata, e questa fatica timbra il disinteresse, se non l’omertà, la codardia di amministrazioni periferiche che prediligono l’assenza di questa ricchezza. Non vedono, non chiedono, non sanno. Ma l’economia illegale è fatta soprattutto di aziende. Lo stock storico ne conta 2.768 e solo 822 sono nelle condizioni di una navigazione autonoma e affrancata dal vizio capitale. Dentro questi numeri purtroppo ci sono evidenze di collusioni tra uffici dello Stato, custodie affidate ai soliti nomi, che sono i soliti commercialisti o avvocati contigui agli uffici, che timbrano il cartellino trasformando in rendita personale questo nuovo segmento industriale. L’Italia non è certo la Colombia di Escobar, certo. Ma fanno impressione gli sforzi che si compiono per somigliarle. Nicola Gratteri: "non avevo intenzione di offendere l’onorabilità degli avvocati" linkiesta.it, 28 febbraio 2016 Secondo l’Unione delle Camere Penali Italiane, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria avrebbe offeso "l’onorabilità della avvocatura penale" in una intervista rilasciata a Linkiesta. Il chiarimento del magistrato. Pubblichiamo un chiarimento inviatoci dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri. Secondo l’Unione delle camere penali italiane, il magistrato avrebbe offeso "l’onorabilità della avvocatura penale" nell’intervista rilasciata a Linkiesta e pubblicata il 17 febbraio 2016. "L’offensività dell’affermazione", scrivono gli avvocati, "sarà oggetto di richiesta di intervento, anche in via disciplinare, nei confronti del Dott. Gratteri". L’Ucpi si riferisce al passaggio in cui Gratteri, parlando degli svantaggi del trasferimento degli imputati detenuti in regime di alta sicurezza, dice: "Nel tribunale di Reggio questi detenuti stanno insieme sette-otto ore. Qui hanno il tempo di incontrarsi, parlare, fare affari, trasmettere attraverso gli avvocati messaggi di morte o richieste di mazzette, minacciare i testimoni". Di seguito il testo: "In merito alla intervista da me rilasciata e pubblicata sul sito Linkiesta in data 17.2.2016, corre l’obbligo di precisare, per il rispetto che nutro nei confronti della professione forense, che il passaggio del mio pensiero ove si fa riferimento agli avvocati deve essere meglio chiarito. Purtroppo, infatti, è venuta fuori, a causa di un passaggio poco felice, una generalizzazione che mi preme correggere perché non voluta, né pensata. Esso era, nel contesto del discorso in cui ho parlato in merito agli svantaggi del trasferimento degli imputati detenuti in regime di alta sicurezza, una esemplificazione, che lungi dal descrivere la fisiologia e la normalità dei rapporti tra legale e proprio assistito, prendeva spunto da circoscritti episodi che, purtroppo, in passato si sono verificati. Questo è il senso del mio discorso. Non vi era la benché minima intenzione di riferirmi alla categoria e alla funzione svolta dagli avvocati, né tantomeno di offendere l’onorabilità della professione forense o contestare il diritto di difesa, che viene spiegato dai legali anche nel corso delle necessarie interlocuzioni con i propri assistiti nelle strutture carcerarie. Era una mera esemplificazione, ribadisco, basata su episodi specifici che costituiscono una patologica eccezione alla regola. Il rispetto che nutro per la avvocatura l’ho sempre dimostrato sul campo, nello svolgimento delle mie funzioni in circa trent’anni, garantendo costantemente ai legali degli indagati e imputati delle cause da me curate il pieno spiegamento del diritto di difesa e mantenendo con loro sempre un rapporto cordiale, nel rispetto dei ruoli. A dimostrazione di ciò, per quel che mi consta, nessuna segnalazione che mi abbia riguardato è stata mai inoltrata ai Consigli dell’Ordine del distretto di Reggio Calabria o di altro distretto da parte di alcun legale per condotte da me tenute asseritamente lesive dei diritti e della onorabilità dell’avvocatura o di un singolo professionista. Ribadisco il pieno rispetto per la professione forense e l’alta considerazione per la tutela del diritto di difesa da essa salvaguardata". Concorso "Gramsci visto da dietro le sbarre", il ministro Orlando premia detenuto sardo Corriere Quotidiano, 28 febbraio 2016 È stato attribuito a Marco Tavoletta, detenuto nel carcere di Nuchis (Tempio Pausania) il primo premio (del valore di 500 euro), del Concorso di pittura Peppinetto Boy, "Gramsci visto da dietro le sbarre", promosso dall’Associazione Casa Natale Antonio Gramsci di Ales al quale hanno partecipato detenuti di 28 carceri italiane. Il quadro premiato alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando, è un lavoro in bianco e nero che raffigura un’affollata manifestazione di piazza, su cui risalta il volto di Antonio Gramsci. La giuria, presieduta dall’artista Pinuccio Sciola e composta anche dai pittori Alberto Scalas e Massimo Spiga, ha deciso di attribuire il secondo premio del concorso (300 euro) a un gruppo di detenuti della casa circondariale di Siena e il terzo premio (200 euro) a una detenuta del carcere di San Vittore, Blanca Delgado. Dal quarto al settimo posto, invece, si sono classificati ex aequo Giuseppe Bolzon detenuto nel carcere di Santa Bona (Treviso), Roberto Di Giovannantonio, detenuto nel carcere di San Vittore, Alessandro Capatti, detenuto a Monza e Vincenzo La Neve, detenuto nella Casa circondariale di Lecce (ai quali andrà un premio di 100 euro ciascuno). L’Associazione ha deciso, inoltre, di assegnare un altro premio a un quadro mai pervenuto, quello del detenuto Ben Moktar, autore di una lettera con cui spiega i motivi della sua mancata partecipazione, esposta peraltro nella mostra che riunisce tutte le opere in concorso, mostra allestita nei locali attigui agli uffici del Comune di Ales. La componente Sel del Gruppo Misto del Senato della Repubblica, dal canto suo, ha voluto assegnare un premio speciale al detenuto Luigi Strazzera del Carcere Is Arenas (Arbus), che ha ricostruito con minuziosa precisione, in un plastico, la cella in cui Gramsci, seduto a un tavolo, scrive i suoi "Quaderni". Oristano: Gramsci visto da dietro le sbarre, di Nicola Pinna (La Stampa) Dentro una cella qualcuno immagina Antonio Gramsci ancora giovane in una piazza di Mosca. E qualcun altro lo rappresenta in un improbabile dialogo con l’ex presidente Sandro Pertini. Ma c’è anche chi purtroppo non è riuscito a dar forma alle sue idee: "Sono appassionato di pittura - dice Hamed Ben Moktar, detenuto a Cremona - Ma qui nessuno mi ha dato gli strumenti per dipingere. E per questo vi posso mandare solo una lettera". La giuria del premio dedicato al grande pensatore sardo l’ha premiato ugualmente. Gli ha assegnato un premio speciale, tra quelli assegnati ai detenuti di 28 penitenziari italiani che hanno partecipato al concorso "Gramsci visto da dietro le sbarre". Ad Ales, paese natale del fondatore del partito comunista, sono arrivate oltre cento opere. E per proclamare i vincitori è arrivato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Tante opere, quasi tutti ritratti, sono arrivate da San Vittore, uno dei penitenziari in cui Gramsci ha trascorso la sua lunga detenzione. Il primo premio l’ha vinto Marco Tavoletta, recluso a Tempio, considerato dai magistrati campani come affiliato di spicco al clan dei Casalesi. L’opera più originale è arrivata da Monza. Alessandro Capatti non aveva a disposizione né tela né pennello e così ha riprodotto la sua cella arrotolando una ciocca di capelli su uno stuzzicadenti. "L’attività culturale è stata di grande stimolo per i detenuti - ha detto il ministro - Investire in cultura nelle carceri produce sicuramente buoni risultati". In carcere libertà di melodia di Mauro Meazza Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2016 Se conoscete quella particolare colletta via web che si chiama crowdfounding, allora possiamo azzardare un neologismo per spiegarvi l’iniziativa CO2, Musica in carcere, ideata da Franco Mussida e raccontata sul sito co2musicaincarcere.it. Il neologismo potrebbe essere music-founding, perché Mussida, musicista - già Premiata Forneria Marconi - e fondatore del Cpm Music Institute, ha lanciato in queste settimane un appello per ampliare una specialissima audioteca: quella del progetto da lui stesso avviato tre anni fa - proprio con il Cpm e con il sostegno della Siae, che con iniziative come questa vuole aprire una sua nuova fase - per portare la musica nelle carceri italiane e farne sia occasione di sollievo per i detenuti sia parte di un vasto esperimento su musica ed emozioni. Nei suoi primi tre anni, CO2 ha raccolto circa 1.200 brani solo strumentali, suddivisi non per genere ma per emozioni e sentimenti che possono suscitare. Un esperimento che fa parte della ricerca artistica di Mussida, che da tempo, anche con installazioni e sculture, lavora sulla connessione tra intervalli delle note e stati d’animo, sui legami tra scrittura musicale e emozioni. Con CO2 i detenuti possono selezionare e ascoltare i brani e confrontare le loro reazioni emotive e la loro sensibilità con quella dei musicisti. Già attivo in quattro istituti di pena (Opera, Monza, Secondigliano, Rebibbia femminile) con la partecipazione di un centinaio di detenuti, CO2 si estenderà presto ad altri istituti: una decina entro il 2016, per poi diventare 25 nel 2017. È proprio questa estensione del progetto - sostenuto dal ministero della Giustizia col patronato della Presidenza della Repubblica - che fa scattare il music founding: Mussida ha lanciato un appello non solo ai musicisti ma anche a tutti gli appassionati per segnalare brani strumentali (non canzoni) sul sito co2musicaincarcere.it. "Li inseriremo - ha spiegato Mussida - in speciali audioteche e, attraverso un particolare metodo di ascolto, la vostra Musica risuonerà nel cuore dei detenuti che l’ascolteranno e confronteranno le loro emozioni con le vostre". La musica nelle carceri - spiega il sito di CO2 - "per rendere più salda la struttura affettiva individuale; per dare fiducia, incoraggiando a considerare emozioni e sentimenti come il vero cuore del nostro sistema di relazioni". Gli stati d’animo in cui è divisa l’audioteca sono 9 principali, e 18 relativi per un totale di 27 possibilità. "CO2" è un’opera "di solidarietà sociale assolutamente gratuita", come precisato sul sito. "Chi suggerisce brani di qualsiasi natura (anche se originali) lo fa con la consapevolezza di non ricavarne alcun profitto. È un’iniziativa senza alcuno scopo di lucro a totale beneficio dei detenuti delle carceri". Una colletta artistica grazie alla quale, per riprendere l’appello di Mussida, "la genialità dei musicisti di tutte le epoche, di tutti gli stili, potrà cosi essere goduta anche in quei luoghi in cui l’unica libertà che non deve essere assolutamente persa, è quella del sentire del cuore". Reggio Emilia: un detenuto di nazionalità nigeriana si è impiccato nella sua cella Gazzetta di Reggio, 28 febbraio 2016 Sabato 13 febbraio nel carcere della Pulce un uomo 25enne di nazionalità nigeriana si è impiccato nella sua cella. Erano circa le 21 quando in carcere è scattato l’allarme per il giovane detenuto. La corsa dei mezzi di soccorso non ha potuto niente: all’arrivo di ambulanze e automedica, il personale sanitario non ha potuto fare altro che constatare la morte del giovane. Ora il suo corpo si trova all’obitorio di Coviolo, a disposizione dell’autorità giudiziaria. Le ricerche in internet su questo caso ne hanno fatto emergere un altro, finora non censito (NdR). "Si uccise il giorno del processo: è giallo", di Tiziano Soresina (Gazzetta di Reggio, 14 ottobre 2015) Morire in carcere a 28 anni, poche ore prima del processo. Una storia triste che i familiari ritengono però misteriosa se non inquietante e piena di dubbi. Da qui il passo di presentare una denuncia in procura tramite l’avvocato Nino Ruffini. La vicenda si snoda nella notte fra il 17 e il 18 settembre scorso. Riguarda il giovane tunisino Hesen Ben Fadhel: il nordafricano è da dieci anni in Italia, un muratore che lavora in nero perché clandestino e quando gli ingaggi finiscono per la crisi cade sempre nello stesso errore, cioè spacciare droga. Un volto, quindi, noto per la giustizia e per il carcere della Pulce. A riportarlo in cella il 28 luglio è sempre la stessa accusa legata agli stupefacenti. Dice che stavolta non c’entra, fa istanza per parlare con il magistrato di sorveglianza e con la famiglia, vuole cambiare avvocato difensore, fa lo sciopero della fame e della sete oltre a non voler più sottoporsi a terapie farmacologiche. È il suo modo di manifestare contro un arresto che ritiene ingiusto. La situazione precipita nella notte precedente il processo. È in cella da solo e alle 23.50 del 17 settembre sta guardando la televisione quando gli agenti penitenziari passano per il controllo di routine. Mezz’ora dopo la macabra scoperta: il 28enne, con una cintura di stoffa, è impiccato alla finestra della cella. Gli agenti, il medico della struttura carceraria e i sanitari del 118 cercano disperatamente di salvargli la vita, ma all’1.05 del 18 settembre viene dichiarata la sua morte. Un suicidio che, però, non convince fin dal primo momento la famiglia ("Hesen non ha mai pensato di uccidersi") ed incarica l’avvocato Ruffini di visionare gli atti d’indagine. E i dubbi dei familiari sono ora in una denuncia in cui chiedono come primo "passo" l’autopsia, basandosi su una serie di anomalie riscontrate: la sciarpa usata dal 28enne quella tragica notte non è sua (non risulta dalla perquisizione effettuata giorni prima); i bigliettini lasciati in cella con frasi contro la giustizia sono scritti in italiano ma lui era analfabeta; le foto della tragedia hanno una data diversa da quella dell’impiccagione; Ben Fadhel sapeva che presto sarebbe uscito dal carcere perché l’attendeva una lieve condanna. Tanti motivi che spingono a non credere che il familiare si sia ucciso. Catanzaro: a 75 anni muore in carcere per un’infezione, aperta inchiesta di Leonardo Orlando Gazzetta del Sud, 28 febbraio 2016 L’imprenditore Michele Rotella, 75 anni, che dal 25 novembre scorso dai domiciliari era stato trasferito in carcere per effetto della sentenza definitiva, è morto improvvisamente nel reparto di rianimazione dell’ospedale "Pugliese-Ciaccio" di Catanzaro dove era stato ricoverato la sera del 23 febbraio scorso, all’insaputa dei familiari. Rotella infatti il 27 gennaio era stato trasferito dal carcere di Gazzi alla Casa circondariale di Catanzaro. Nel carcere calabrese, secondo le poche informazioni acquisite dai familiari, da circa una settimana aveva accusato sintomi da enterite, ma il quadro clinico, evidentemente sottovalutato si era rapidamente aggravato fino al ricovero in terapia intensiva. Il certificato di ricovero ottenuto dai familiari reca la data del 23 febbraio ed una diagnosi di ingresso di paziente in stato di shock multiorgano, con enterite da clostridium difficilis ed una prognosi di imminente pericolo di vita. Ieri notte, intorno all’una, il decesso. Adesso i familiari, con l’avv. Nino Favazzo, hanno presentato una denuncia perché vogliono sapere se ci sono responsabilità per la morte di un uomo che doveva scontare tre anni di reclusione e poteva ottenere i domiciliari o l’affidamento in prova. Denuncia che ha provocato l’apertura di una inchiesta e l’autopsia che sarà effettuata lunedì. "questa morte assurda - afferma l’avv. Nino Favazzo - non solo poteva, ma doveva essere evitata. Senza entrare nel merito di un giudicato di condanna che non ho mai condiviso, è certo che esistevano tutte le condizioni di legge per consentire a rotella di espiare la pena residua ai domiciliari, se non addirittura di affidamento in prova ai servizi sociali. Ed in tal senso mi sono speso - inascoltato - fin dal giorno della condanna definitiva". Genova: a Marassi malati psichici e mutilati lasciati dietro le sbarre di Matteo Macor La Repubblica, 28 febbraio 2016 Abuso della carcerazione per l’assenza dei Rems previsti dalla legge: ecco le storie di chi non dovrebbe essere in cella. Molti casi di carcerazione sconcertanti a Marassi. Malati psichiatrici, senza fissa dimora, sieropositivi, disabili. Non c’è il solo Emanuele Rubino, il genovese ottantunenne che nei giorni scorsi ha fatto il giro del web per essere finito in carcere per oltraggio a pubblico ufficiale, a ritrovarsi "dietro le sbarre quando dovrebbe essere altrove". Tra i quasi 700 detenuti attualmente reclusi nel carcere di Genova, a Marassi, ci sarebbero infatti decine di altri casi simili al suo. Anziani, malati e "ultimi degli ultimi", finiti in cella per oltraggi verbali, resistenza a pubblici ufficiali e piccoli reati, che - "proprio perché anziani, malati e ultimi degli ultimi" - dovrebbero tendenzialmente essere ospitati da strutture di messa in sicurezza, i Rems (le cosiddette "Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza", le strutture residenziali sanitarie che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari), e invece scontano le rispettive pene dietro le sbarre, come tanti altri. E non perché sia previsto per legge, ma più semplicemente perché in Liguria le strutture che dovrebbero ospitarli non ci sono. A voler raccontare di questo mondo invisibile all’interno della casa circondariale genovese, e a spiegare le falle infinite di un sistema giudiziario "che si regola su misure burocratiche assurde e finisce per penalizzare chi non ha un soldo, né famiglia, né nessuno al mondo", sono alcune delle persone che all’interno del carcere ci lavorano tutti i giorni. Fonti che tengono a restare anonime, ma raccontano a cuore aperto le tante storie di ordinaria assurdità che si incontrano nella vita quotidiana di Marassi. Dal quarantenne disabile "senza entrambe le gambe" costretto da anni a vivere in carrozzina in una cella di pochi metri quadrati (che in carcere è finito per truffe informatiche ma "non si può pensare possa vivere il suo periodo di reclusione in modo dignitoso"), ai tanti che per mesi e mesi "aspettano si liberi un posto in strutture assistenziali che non siano il carcere". Nel carcere-lazzaretto passano le giornate decine di casi psichiatrici che la Magistratura non sa a chi affidare, malati di Aids con patologie correlate molto gravi, "psicotici che non hanno nessuna capacità di intendere e di volere, e per questo non dovrebbero stare in carcere". "Ci sono moltissimi stranieri, che sono finiti dentro per reati ridicoli - continua la testimonianza da Marassi. Ci sono detenuti che non hanno ancora una pena da scontare, ma rimangono in carcere in attesa di giudizio". Ci sono, ancora, casi come quello del ventenne africano affetto da disturbi psichiatrici che sta scontando un anno e mezzo di reclusione preso per direttissima nei giorni caldi del blocco della frontiera a Ventimiglia: "non sa una parola d’italiano, non capiva perché non lo facessero passare in Francia, ha reagito ed è stato denunciato per resistenza a pubblico ufficiale". Uomini di tutte le lingue e le età (per lo più stranieri, ma anche tanti italiani) che fino a due anni fa sarebbero stati probabilmente destinati agli Opg: gli ospedali psichiatrici giudiziari aboliti nel 2013 (e definitivamente chiusi l’aprile scorso), la cui naturale alternativa, oggi, sono i Rems. Le strutture residenziali gestite dalla sanità territoriale insieme al Ministero della Giustizia, che agli internati garantiscono l’esecuzione della misura di sicurezza e al tempo stesso l’attivazione di percorsi di cura, ma di cui la Liguria non dispone. "A Marassi decine di detenuti sono evidentemente casi psichiatrici, non processabili, a cui basterebbe una sola perizia per farsi affidare a strutture alternative - continua il racconto dal carcere genovese - Ma data l’indisponibilità dei Rems su territorio regionale, i giudici finiscono per preferire di condannare a pene lievi, e affidarli al carcere". E se la sua residenza di messa in sicurezza, in realtà, la Liguria ce l’avrebbe pure (anche se a 300 chilometri da Genova: la Regione ha stipulato una convenzione milionaria con la struttura di Ghisiola, a Castiglione Delle Stiviere, nel mantovano, ma solo per 17 posti che non bastano), la situazione critica c’è tutta, e a confermarlo più o meno direttamente è la stessa neo direttrice di Marassi, Maria Milano, da tre mesi chiamata ad amministrare quella piccola città da mille abitanti - tra detenuti, personale penitenziario, medici, insegnanti, volontari - che è la casa circondariale genovese. "È un problema che riguarda in realtà tanti istituti diversi, dalla Regione alla Magistratura fino all’Asl 3, cui dal 2008 spetta la gestione della salute in carcere, - spiega l’ex direttrice dei penitenziari di Chiavari e Pontedecimo - ma è vero: diversi tra i detenuti di cui si parla dovrebbero essere sottoposti a misura di sicurezza in un Rems, e non stare in carcere. Sappiamo però che un futuro Rems in Liguria è in via di individuazione, e per ora sta a noi gestire al meglio questa situazione di transizione. Il nostro è un lavoro complesso, spesso molto faticoso, logorante, ma questo lo sappiamo". Un mondo che si potrebbe "aiutare a fare passi avanti", nel frattempo, con l’istituzione del Garante dei detenuti. "Non solo Genova e la Liguria non hanno un Rems, ma non hanno neanche un Garante dei detenuti che garantisca la tutela delle persone private o limitate della libertà personale, e possa verificare caso per caso" spiega Gianni Pastorino, consigliere regionale di Rete a Sinistra che giovedì scorso ha presentato in Commissione la proposta di legge sul tema. "Ad oggi - prosegue il consigliere regionale - i carcerati liguri avrebbero a garanzia il solo Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti: occorre recuperare il gap rispetto alle altre regioni d’Italia". La proposta di legge dovrebbe andare in porto in due mesi, è condivisa anche da Pd e Forza Italia, e trova l’appoggio non così scontato dell’amministrazione carceraria. "Il Garante potrebbe essere una figura importante per tutto il mondo carcere - conclude Maria Milano - dare garanzie ai detenuti e aiutare il lavoro di chi, con grande fatica, ci lavora insieme". Frosinone: Sappe; trovata telecamera nascosta in carcere per spiare agenti Adnkronos, 28 febbraio 2016 Una telecamera nascosta è stata scoperta dalla polizia penitenziaria nel reparto colloqui del carcere di Frosinone. "Era abilmente nascosta all’interno di una scatola elettrica utile a spiare, evidentemente, lo stesso personale di polizia penitenziaria addetto al controllo pacchi famiglia", denuncia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "I colleghi si sono accorti che la cassetta elettrica era chiusa male e, nel sistemarla, hanno fatto lo sconcertante rinvenimento. Una cosa assurda, palesemente illegittima ed illegale" dice Donato Capece, segretario generale del Sappe precisando che il direttore e comandante non ne sapevano nulla e che tutto è stato smontato e sequestrato. "Trovo questa una cosa gravissima, tanto che mi appello al ministro della Giustizia ed al Garante della Privacy perché adottino provvedimenti", sottolinea Capece. "Chi l’ha messa, quella telecamera? A cosa e a chi serviva? Di certo, la sicurezza interna e degli operatori è stata messa seriamente a rischio ed è necessaria una immediata ispezione che chiarisca tutto quel che è accaduto. Si tenga conto che sono tantissimi i detenuti ad Alta Sicurezza ristretti a Frosinone", aggiunge. Nei giorni scorsi il Sappe aveva denunciato le gravi criticità del carcere di Frosinone. "Le istituzioni si dovrebbero vergognare per come vengono trattati i poliziotti in carcere e per le pessime condizioni nelle quali sono costretti a lavorare", avevano evidenziato i dirigenti del Sappe di Frosinone Franco D’Ascenzi e Piero Pennacchia. "Il degrado è vergognoso, ancor più se si pensa che il carcere è una istituzione dello Stato. Per i poliziotti in servizio nelle sezioni detentive mancano adeguati servizi igienici, non c’è acqua calda, i rubinetti sono rotti, gli scarichi non funzionano, i lavandini sono color ruggine, sul pavimento c’è acqua stagnante conseguenza di tubature rotte. C’è da vergognarsi a far stare 24 ore al giorno i poliziotti in queste situazioni", ha evidenziato il Sappe. "E ora, persino una telecamera nascosta nel reparto colloqui conferma che quello di Frosinone è un carcere nel quale troppe sono le cose che non vanno". "Life. Da Caino al Califfato: verso un mondo senza pena di morte", di Mario Marazziti recensione di Gianfranco Ravasi Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2016 Alle mie spalle, nella cosiddetta "Sala del Prefetto", quando dirigevo la Biblioteca Ambrosiana di Milano, si levava una libreria interamente occupata dal Fondo Beccaria. In esso, con la segnatura Becc. B. 202, si notava una sorta di reliquia custodita in un astuccio in pelle e con una legatura altrettanto solenne scandita da uno scudo stellato vagamente massonico: era l’autografo, dalla stesura piuttosto tormentata, dell’opera massima di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764). Il testo, con l’intera sua biblioteca, era passato attraverso gli eredi al presidente della Camera di Commercio e consigliere comunale di Milano Angelo Villa Pernice, un appassionato bibliofilo, la cui vedova aveva donato all’Ambrosiana nel 1910 l’intero patrimonio librario del marito. Ricordo ancora l’emozione con cui i due presidenti Ciampi e Napolitano - in visita a quell’istituzione fondata dal cardinale Federico Borromeo - sfogliarono il manoscritto. L’opera è un po’ alla base della moderna civiltà giuridica: anzi, Napolitano mi aiutò a ricostruire persino l’influsso che questo saggio ebbe su Caterina di Russia e sul suo fallito tentativo di riforma del codice penale zarista. Questa premessa autobiografica vuole idealmente attestare la personale condivisione dell’appello implicito che regge tutte le pagine del volume di Mario Marazziti della Comunità di S. Egidio che, inseguendo la scia di sangue che nella storia va da Caino al Califfato, spinge "verso un mondo senza pena di morte", come recita il sottotitolo. Il genere letterario di queste pagine è molto fluido ed è simile a un arcobaleno, se vogliamo adottare un simbolo pacifista abusato ma pertinente. Si oscilla, infatti, da un lato tra dati brutali, basati su eventi sconcertanti e cifre impressionanti, e d’altro canto riflessioni articolate e puntuali. Si introducono le voci che escono da quell’oltretomba anticipato che sono le carceri ove i detenuti sono nel limbo dell’inferno e ove si consumerà l’esecuzione capitale, vere e proprie "voci dal silenzio". Si producono i documenti elaborati dall’Onu e da altre istituzioni perché cessi questa barbarie, ma si offre una parallela documentazione della mattanza che continua serena in molti stati, anche in quelli spesso elevati a vessillo di civiltà (leggi gli Usa). Non ci si appella a vaghi alibi quando si analizza il fenomeno scandaloso dei condannati innocenti, così come non si hanno esitazioni nel coinvolgere in questo dibattito rovente le grandi religioni e le loro ambiguità. E qui entra in scena il grande rischio del fondamentalismo e l’assenza di una corretta ermeneutica dei testi sacri, a partire dalle pagine bibliche. O anche si denunciano certe esitazioni, come nel caso del n. 2267 del Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, poi superato dai reiterati interventi contro la pena di morte di s. Giovanni Paolo II, nella linea di una coerente tutela integrale della sacralità della vita, posta - nella concezione religiosa - sotto il sigillo esclusivo della suprema cassazione divina, come suggerisce il celebre asserto biblico su Caino (Genesi 4,15: "Il Signore pose a Caino un segno perché nessuno, incontrandolo, lo colpisse"). Le rievocazioni storiche nel libro di Marazziti si associano alle testimonianze che grondano umanità, miseria, incubo, ma anche illuminazione, redenzione, speranza: emblematico è il dialogo con Ray Krone, liberato dopo dieci anni di inferno nel braccio della morte di Tucson in Arizona, "uscito innocente, pieno di ferite della vita, ma ancora vivo". Alla genealogia cronologica di questa atroce storia delle esecuzioni di stato, a partire dall’antico Egitto e dal codice di Hammurabi (in esso 25 reati contemplano la pena capitale), giù fino all’ultima votazione per l’abolizione di questa prassi, il 27 maggio 2015 nel Nebraska, si unisce un altro curioso elenco, quello dei "tredici modi per vivere senza la pena di morte", pagine da far meditare non solo ai politici ma anche ai molti cittadini che si lasciano abbandonare ai fremiti delle reazioni "di pancia", spegnendo ogni collegamento con la ragione. Marazziti non teme anche di affrontare l’altro versante speculare ove sono insediati i familiari delle vittime, senza incorrere nella banalità dell’intervistatore televisivo che col microfono impugnato domanda: "Lei perdona?". È, questo, un altro capitolo del complesso rapporto tra giustizia e amore, tant’è vero che, se è necessario che "nessuno tocchi Caino", è altrettanto decisivo che si stia dalla parte di Abele. Al contrasto senza "se" e senza "ma" alla logica della vendetta proclamata dal truce personaggio biblico Lamek (Genesi 4,23-24: "Uccido un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamek settantasette"), si deve però associare la voce dei profeti che, senza esitazioni, esige che "come acqua scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne" (Amos 5,24). In questo anno giubilare posto all’insegna della misericordia sarebbe significativa una moratoria per la pena di morte. È, perciò, significativo ascoltare le ragioni che Marazziti, attraverso pagine striate di esperienze personali e di passione, cerca di comporre in un caleidoscopio, scuotendo le coscienze. È questa la vera opposizione contro chi, invece, imbraccia la spada della violenza criminale: è noto, infatti - e la statistica lo conferma - che la pena capitale non è un deterrente al terrorismo o ai delitti di sangue e ai crimini in genere. Un appello, certo, alla giustizia vera, efficace, celere ma anche un impegno a elaborare un sistema educativo che ritrovi il senso trascendente (laicamente e religiosamente) di ogni vita e del suo rispetto. Incisivo è il monito divino proposto nel libro del profeta Ezechiele: "Forse che io, il Signore, ho piacere della morte del malvagio o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?... Io non godo della morte di chi muore" (18,23.32). Ho iniziato con l’evocazione di Cesare Beccaria e della sua opera più nota. Il personaggio pieno di complessi e tormentato, non di rado incoerente nella vita rispetto alle sue idee, è stato considerato un alfiere dell’Illuminismo anche per le sue frequentazioni testuali europee (da Rousseau a Voltaire, da Montesquieu a Diderot, da Hume a d’Alembert e Helvétius e così via), pur conservando una sua religiosità (aveva come segretario un sacerdote, tale Gaspare Secchi). A lui, dunque, in finale vorremmo lasciare la parola attraverso quel suo scritto fondamentale Dei delitti e delle pene che, però, pubblicò anonimo: "Parmi assurdo, che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e che per allontanare i cittadini dall’assassinio, ne ordinino uno pubblico". Parole da accompagnare forse con la visione del potente film Decalogo cinque, di Kieslowski (1988) e dell’esemplare Dead Man Walking di Tim Robbins (1996) con una formidabile Susan Sarandon, che incarna la suora paladina contro la pena di morte Sister Helen Prejean (e, forse, ripescando anche il Non uccidere di Claude Autant- Lara del 1961). Mario Marazziti, "Life. Da Caino al Califfato: verso un mondo senza pena di morte", Francesco Mondadori, Milano, pagg. 253, € 18. "L’anatomia della violenza", di Adrian Raine. Criminali, questione di cervello intervista all’autore realizzata da Andrea Lavazza Avvenire, 28 febbraio 2016 Siamo "punitori naturali". Il nostro senso di giustizia incorpora di solito un’innata tendenza alla "retribuzione", ovvero a ritenere che sia doveroso punire - in forme varie e, oggi, possibilmente "umanitarie" - chi si macchia di delitti e gravi reati. Ma quest’idea, che le interpretazioni evoluzionistiche riconducono all’utilità della pena per la cooperazione in società, è sempre più contestata dal punto di vista filosofico. Non merita di essere punito chi agisce sotto costrizione - non va in prigione il cassiere di banca che apre il caveau ai banditi armati. E secondo numerosi pensatori, soprattutto di orientamento analitico, questa sarebbe in realtà la condizione di tutti noi. Non siamo davvero liberi nel nostro agire o, comunque, il caso ha un peso tale nelle vicende umane che la responsabilità delle azioni compiute dovrebbe essere molto spesso attenuata. E, dunque, anche la punizione non sarebbe più giustificata. Ma non ci sono soltanto gli argomenti teoretici. Ciò che, su erronee basi scientifiche e con esiti eticamente inaccettabili, sosteneva già nell’Ottocento Cesare Lombroso, è oggi la nuova frontiera della cosiddetta neurocriminologia. E di essa è un pioniere Adrian Raine, psichiatra e criminologo di origine inglese, docente presso l’Università di Pennsylvania, che da decenni studia le basi biologiche della violenza e che ha riassunto le sue ricerche e le loro applicazioni alla giustizia penale in un volume ora tradotto in italiano, "L’anatomia della violenza". Professor Raine, le sue ricerche pionieristiche hanno fatto compiere un salto alla neurocriminologia. Che cosa sappiamo delle basi biologiche della violenza? E che cosa dobbiamo aspettarci? "Ciò che oggi sappiamo con maggiore certezza riguarda il fatto che il crimine non è provocato soltanto da un ambiente sfavorevole, dove per ambiente si intende i genitori, l’abitazione, il vicinato... Il crimine è causato anche da un cattivo funzionamento del cervello a livello biologico. Si tratta di un’idea che è stata contrastata dagli scienziati sociali, ma non sembra vi siano più dubbi, almeno dal punto di vista scientifico, sul ruolo della biologia nella genesi del crimine. Siamo però all’inizio. La sfida più importante per il futuro sta nell’individuazione dei processi sociali che danno origine al cattivo funzionamento cerebrale e all’espressione genetica "anomala", entrambi alla base del comportamento criminale. La biologia non è un destino già scritto. Possiamo intervenire sulle basi biologiche del crimine se facciamo ricorso a u- na nuova scienza, la neurocriminologia, che è potenzialmente rivoluzionaria". Ci può raccontare un caso esemplare che lei ha studiato in questi anni? "Mi viene subito alla mente la vicenda di Donta Page, un giovane afro-americano che violentò e uccise brutalmente una ragazza bianca. Un delitto efferato, a sangue freddo. L’avvocato difensore si mise in contatto con me per una valutazione psichiatrica. Sottoposi Page a una risonanza magnetica cerebrale e confrontai poi i suoi dati con quelli di 60 soggetti non violenti. Emerse un funzionamento meno efficiente delle regioni frontali, la zona del cervello che controlla i picchi emotivi e regola il comportamento impulsivo. Al processo sostenni che l’imputato non poteva contrastare il funzionamento meno efficiente delle regioni frontali e che esso era, con buona probabilità, dovuto a un ambiente familiare fortemente deprivato: padre assente, madre distaccata, povertà, malnutrizione e abusi fisici e sessuali. Il fatto che un cattivo funzionamento delle regioni frontali del cervello possa aumentare la probabilità di diventare violenti - come cominciai a mostrare 20 anni fa studiando alcuni assassini con il brain imaging - è ormai un dato consolidato". Lei scrive che già a tre anni di età è possibile individuare la predisposizione a comportamenti aggressivi. E che si può intervenire con procedure poco costose... "I bambini malnutriti, come indicano gli studi condotti dal mio gruppo, sono maggiormente esposti alla possibilità di commettere crimini violenti. Inoltre, influisce negativamente sul cervello vivere in un ambiente deprivato. Ma tutto ciò si può cambiare. Abbiamo provato a modificare per 24 mesi l’ambiente in cui sono cresciuti bambini fino ai tre anni: abbiamo dato cibo migliore, fatto svolgere più esercizio fisico e fornito maggiori stimoli cognitivi. Si è poi messo a confronto il grado di sviluppo raggiunto da questo gruppo con quello raggiunto da un gruppo di controllo che era rimasto in un ambiente deprivato. Il risultato è che i bambini che hanno vissuto in un ambiente complessivamente arricchito, 8 anni dopo, manifestano un miglior funzionamento cerebrale e un grado più alto di attenzione. All’età di 23 anni, due decenni dopo, il gruppo "privilegiato" registra, nel suo complesso, il 34% in meno di crimini commessi". Sono di particolare interesse alcuni studi che lei ha condotto a Mauritius. Ce li può illustrare brevemente? "Abbiamo studiato 1.795 bambini di tre anni in un ambiente omogeneo. Ciò che è emerso sono alcuni indicatori biologici, i cosiddetti marker, che sembrano in grado di predire, almeno a livello di gruppo, una tendenza a commettere crimini violenti. Si tratta del battito cardiaco a riposo e della quantità di sudorazione prima di subire una punizione annunciata. Sono marcatori che manifestano mancanza o un livello più basso di paura rispetto alla media della popolazione". Avremo scenari alla Minority Report, il famoso film con Tom Cruise in cui si potevano prevedere i delitti e arrestare le persone prima che li commettessero? "Stiamo aumentando la conoscenza a nostra disposizione. E scopriamo quali fattori sociali, psicologici, biologici e genetici presenti già nell’infanzia possono condurre a mettere in atto comportamenti violenti. Certamente, sarebbe un’enorme compressione delle libertà civili catturare e tenere in detenzione una persona per un crimine che non ha ancora commesso. D’altra parte, se sappiamo - in base ai marker di cui si è parlato - che alcuni giovani hanno un’alta probabilità di delinquere, potremo restare inerti e assistere all’uccisione di vittime innocenti? Si tratta di un dilemma lacerante, che dovremo affrontare". Il rischio maggiore sembra quello di trattare le persone come macchine guaste, senza la dignità che viene attribuita anche ai condannati, che possono sempre pentirsi e reinserirsi nella società. "Siamo chiamati a fare i conti con i dati di fatto che le neuroscienze ci propongono. E la scienza ci dice che non siamo così speciali come ci piace considerarci. Siamo il punto d’arrivo di complesse catene causali e dobbiamo prenderne atto. Sorgono così domande decisive su come agire rispetto al crimine, domande che non si potranno eludere". Il Brain Forum a Milano. L’anatomia della violenza. Le radici biologiche del crimine è la summa della ricerca dello psichiatra Adrian Raine in tema di neurocriminologia applicata. Il volume (pagine 544, euro 28,00) sarà in libreria dal 3 marzo per i tipi di Mondadori Education/Università e in concomitanza con l’uscita della traduzione Raine verrà nel nostro Paese per alcune conferenze. In particolare, terrà una lectio magistralis al Brain Forum 2016, dedicato a "Cervello e violenza", che si svolge a Milano, presso il Teatro Parenti, il 7 marzo alle ore 18 (ingresso libero fino a esaurimento dei posti; www.brainforum.it). L’evento, organizzato da Viviana Kasam, presidente di BrainCircleItalia, farà anche dialogare lo studioso della University of Pennsylvania con alcuni scienziati, filosofi e giuristi italiani: Edoardo Boncinelli, Giulio Giorello, Marco Marchetti, Alberto Oliverio e Amedeo Santosuosso. Modera Armando Massarenti. Brexit e migranti sono i nuovi "incubi" del G20 di Antonio Sciotto Il Manifesto, 28 febbraio 2016 Il vertice di Shangai. I maggiori paesi cercano leve per sostenere la crescita, per ora "al di sotto delle aspettative". Bene il Qe di Draghi, ma da solo non basta: servono riforme e investimenti, anche agendo sui margini di bilancio. Una ripresa che non soddisfa, i timori per una possibile Brexit e per la crisi dei rifugiati. Il G20 di Shangai aggiorna le preoccupazioni dei leader dei maggiori paesi, e prende atto che per stimolare la crescita in Europa non basta la sola politica monetaria con le misure messe in campo dalla Bce di Mario Draghi. Vanno usate anche le politiche di bilancio e le riforme: parole in sintonia con il messaggio del governo italiano, che con il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan si è detto pronto a utilizzare i margini di bilancio. La ripresa economica globale - dice il comunicato finale del G20 - è "irregolare e al di sotto delle nostre ambizioni per una forte, sostenibile ed equilibrata crescita". Si evidenziano quindi le "crescenti preoccupazioni circa il rischio di un’ulteriore revisione al ribasso". Di qui l’impegno a utilizzare le leve della politica monetaria, di bilancio e le riforme strutturali per sostenere la crescita. Tre diverse leve, appunto, perché il solo intervento della Bce non si è rivelato sufficiente: le politiche monetarie, dicono i 20 Grandi, "continueranno a sostenere l’attività economica e ad assicurare la stabilità dei prezzi, ma da sole non possono condurre a una crescita bilanciata". Insomma, si deve ricorrere a "tutti gli strumenti di politica" possibili, inclusi quelli monetari, fiscali e strutturali, per irrobustire la fiducia economica e "rafforzare la ripresa". Sintetizzando i lavori, il ministro Padoan ha sottolineato proprio il punto che sta più a cuore all’Italia, quello appunto dell’utilizzo dei margini di flessibilità sul bilancio: il G20, ha spiegato, si è aperto all’idea che "laddove ci sia spazio fiscale questo debba essere utilizzato per misure favorevoli alla crescita, ad esempio per spese per investimenti che sostengono sia la domanda sia la crescita di medio termine". Commentando i recenti report sull’Italia di Ue e Ocse, Padoan ha ricordato che il nostro Paese "ha fatto molti progressi nell’agenda strutturale, ma ancora resta molto da fare". "Il debito è elevato e va abbattuto, perché un debito elevato che continua a crescere è elemento di fragilità: comincerà a scendere e diminuirà". Quanto alla possibile Brexit - l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue: il referendum è il 23 giugno - i 20 Grandi concordano nel vederla come uno "shock" per l’economia globale. Il ministro britannico delle Finanze George Osborne definisce la situazione "terribilmente seria", una "minaccia per i posti di lavoro e la capacità di sostentamento delle famiglie". "La Brexit - ha confermato il ministro Padoan - ove dovesse portare, e mi auguro vivamente di no, a una uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, sarebbe uno choc che classifichiamo sotto il titolo di choc geopolitico importante, quindi di choc negativo". Alle misure per sostenere la crescita, e in particolare al quantitative easing attivato dalla Bce, si è riferito nel suo intervento il governatore di Bankitalia Ignazio Visco: "Non siamo arrivati al capolinea e la nostra responsabilità è evitare tendenze deflattive", ha spiegato. Dopo che aveva già dichiarato che la Banca centrale europea agirà "con tutti gli strumenti che ha a disposizione per mantenere una politica monetaria molto accomodante", il governatore ha aggiunto: "Per ora non si vedono rischi di possibili bolle speculative su particolari mercati" come effetto indesiderato di politiche monetarie troppo espansive. In ogni caso, "abbiamo strumenti migliori qualche anno fa" e "il sistema è più resistente". Non è stata decisa nessuna vera e propria azione comune, o concertata, ma i componenti del G20 si sono impegnati se non altro, in conclusione dell’incontro di Shangai, a non effettuare svalutazioni competitive e a una stretta collaborazione sulle politiche valutarie. L’Europa vista dalla Giungla di Calais di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 28 febbraio 2016 Le associazioni, tra cui Secours Catholique, Auberge des Migrants e Emmaus, hanno fatto ricorso al Consiglio di Stato, dopo la sentenza del tribunale amministrativo di Lille, giovedì scorso, che ha autorizzato l’evacuazione dei migranti che vivono nella zona sud della "giungla" di Calais. Le associazioni si basano sulle ambiguità della sentenza, che da un lato dà il via libera all’operazione di evacuazione prevista dal governo, ma dall’altro ne limita l’estensione. Il testo del tribunale parla di allontanamento "progressivo" degli abitanti, escludendo quindi esplicitamente l’invio di bulldozer, e proibisce lo smantellamento di "luoghi di vita", tra cui "i luoghi di culto, una scuola, una biblioteca, un riparo riservato all’accoglienza di donne e bambini, uno spazio dedicato ai minorenni", tutte strutture che sono nate nella precarietà degli otto ettari della zona sud. Per il momento, quindi, sul posto continua l’attesa, mentre il governo è nell’imbarazzo e non sa più cosa fare. L’intenzione, all’origine, era smantellare questa zona, come era stato fatto a gennaio, quando era stata evacuata una striscia di un centinaio di metri tra l’accampamento e l’autostrada. L’idea del governo resta sempre la stessa, accusano le associazioni: rendere sempre più difficile, per non dire impossibile, la vita nel bidonville, in modo da attirare sempre meno ospiti. Il problema è che la "giungla" di Calais continua a riempirsi, perché i migranti vogliono raggiungere la Gran Bretagna, che non ne vuole sapere di loro. Con i contagocce qualcuno riesce a passare. Per il momento le minacce di evacuazione fatte dal governo francese hanno ottenuto un solo risultato: far salire il prezzo che i passeurs chiedono ai migranti per aiutarli ad arrivare dall’altra parte della Manica. Adesso, dei funzionari francesi dell’Ofpra (Ufficio francese di protezione dei rifugiati e degli apolidi) cercano di convincere i migranti del campo di Calais a chiedere l’asilo in Francia. Questa mossa significa avere la possibilità di venire ospitati in uno dei 102 Cao (Centri di accoglienza e di orientamento) sparsi in Francia. Molti migranti sono evidentemente reticenti, non vogliono essere spediti lontano da Calais (e quindi dalla speranza di poter passare la Manica un giorno o l’altro) e hanno paura ad avviare qui le pratiche per l’asilo, visto che la Francia non è molto generosa. Sul posto il prefetto sperava di poter sistemare gli abitanti della zona sud della "giungla" nei container che sono stati installati a Calais. Ma questi container sono circondanti da filo spinato, si entra avviando un dispositivo di riconoscimento palmare (quindi devono essere date le impronte). Per di più, il prefetto aveva calcolato che ci fossero 800-1.000 persone da sistemare. Mentre, come avevano insistito le associazioni che operano nella zona, le persone sono molte di più: 3.500 almeno, tra cui quasi 400 minorenni soli. Nei container ci sono 1.500 posti e buona parte sono già occupati (di qui l’estenuante operazione di cercare di convincere gli occupanti attuali ad andare in un Cao e lasciare così il posto ad altri). Il governo è ambiguo, da un lato promette che le pratiche dell’asilo saranno accelerate per chi accetta la sistemazione in un Cao e assicura di aver sospeso le regole di Dublino, cioè che nessuno sarà rispedito nel primo paese di sbarco nella Ue. Ma nei fatti ci sono stati casi di rinvio (uno anche in Italia, rispedito da Nantes). Le informazioni circolano in fretta, grazie ai telefonini. Il Belgio ha rimesso i controlli ad alcuni varchi di frontiera, dove i migranti cercano di passare per tentare di attraversare la Manica, in particolare da Zeebruges. Ogni Paese, cioè, tenta soluzioni nazionali per sbarazzarsi del "fardello", in una confusione che si traduce in una tragedia umanitaria senza prospettive di soluzione. Turchia: "sulla questione kurda Erdogan vuole silenzio" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 28 febbraio 2016 Intervista. Giornalisti incarcerati o uccisi, emittenti tv e giornali chiusi. "Ma nonostante la repressione e il sostegno allo Stato Islamico, Ankara ha fallito contro Rojava", spiega Irfan Aktan, editorialista kurdo dell’agenzia al-Monitor. Il rilascio dei giornalisti Dundar e Gul, direttore e caporedattore di Cumhuriyet, ordinata giovedì dalla Corte Costituzionale turca, segna un importante passo in avanti per la libertà di stampa in Turchia e, contemporaneamente una sconfitta per le politiche mediorientali del presidente Erdogan, a partire dalla strategia di escalation militare in Siria. Ma gli attacchi contro la stampa non cessano: nel mirino resta soprattutto l’informazione indipendente pro-kurda, spiega al manifesto Irfan Aktan, editorialista kurdo per al-Monitor. Con la scarcerazione di Dundar e Gul si è aperta una breccia nel muro della repressione interna? "Dundar e Gul sono stati rilasciati, ma ci sono ancora 31 giornalisti dietro le sbarre e 20 di loro sono kurdi. E poche ore dopo il rilascio l’ufficio del procuratore ha chiesto alla Turksat, la compagnia statale di telecomunicazioni, di interrompere la messa in onda del canale pro-kurdo Imc-Tv. Inoltre il caporedattore di un quotidiano pro-kurdo, Azadiya Welat, è stato ucciso insieme ad altri civili nella città sud-orientale di Cizre durante scontri tra combattenti kurdi e forze armate turche. Per questo temo che la Turchia stia cercando di far calare la pressione rilasciando Dundar e Gul per poter aumentare la repressione contro la stampa kurda. Sebbene la loro scarcerazione sia un passo importante per la libertà di stampa in Turchia, potrebbe anche essere frutto di una decisione calcolata". Come viene percepita dall’opinione pubblica turca la campagna anti-kurda in atto nel paese e fuori? "L’opinione pubblica turca èspaccata. Una parte condivide la politica islamista e nazionalista dell’Akp e non si oppone ai bombardamenti contro le Ypg in Siria. C’è però una parte che, seppur conservatrice e vicina al partito di Erdogan, non è convinta di un tale livello di aggressività sia contro Rojava che contro il sud-est turco. Infine c’è quella sezione di pubblico (che è o di origine kurda o che si oppone per ragioni politiche e ideologiche all’Akp) fortemente contraria. È molto probabile che i kurdi turchi reagiranno ad un eventuale intervento di Ankara in Rojava, così come reagirono nel 2014 quando lo Stato Islamico attaccò Kobane e la Turchia rimase a guardare: nella sollevazione kurda che seguì all’assedio di Kobane oltre 50 civili furono uccisi. E anche stavolta le conseguenze potrebbero essere terribili". Oggi una campagna militare in Siria è già in corso: l’artiglieria turca sta bombardando le postazioni kurde ad Azaz. Un intervento di terra è immaginabile? "Nonostante le posizioni di Russia e Stati Uniti, l’Akp ha fatto capire che non cambierà la sua attuale politica siriana. Ma, avendo il solo sostegno dell’Arabia Saudita, dovrà pagare un prezzo alto. L’intervento militare in Siria complicherebbe il conflitto, avrebbe effetti devastati perché è ovvio che non solo la popolazione kurda non accetterebbe un intervento, ma avrebbe contro anche la coalizione occidentale, la Russia e l’Iran. Provocherebbe una reazione interna alla stessa Turchia e non penso che il governo voglia assumersi questo rischio. Senza un segnale positivo di Usa e Russia, Erdogan non oserà muoversi". Quindi Ankara agisce da sola, senza l’avallo degli Stati Uniti e della Nato? "Non ci sono indicazioni che la mano della Nato muova la politica turca contro i kurdi siriani. Al contrario, è Ankara che sfrutta l’appartenenza alla Nato per dare vita ad una coalizione che sia anche anti-kurda. Ma non sta ottenendo l’appoggio che sperava. Se si guarda alle politiche interne dell’Akp, è ovvio vedere come l’approccio anti-kurdo sia il risultato delle radici nazionalistiche e islamiste del partito. L’Akp non tollera il movimento kurdo perché di sinistra, laico, volto all’autonomia territoriale. Questi caratteri, tipici di Pkk e Pyd, contraddicono i piani di Erdogan che punta ad implementare le sue politiche nazionalistiche e turco-centriche sia nel paese che in Medio Oriente". E per farlo non esita a sostenere anche lo Stato Islamico, come dimostrato da molti giornalisti e attivisti kurdi ma anche dagli stessi Dundar e Gul. "Qualche anno fa il presidente ha provato a realizzare il suo progetto nazionalista con il "sostegno" kurdo, ovvero sfruttando a proprio favore il negoziato del 2013 con il Pkk L’obiettivo era stravolgere i progetti di autonomia kurdi e assorbirli nei piani del governo. Aveva invitato all’epoca anche il Pyd per persuaderlo del progetto. Tuttavia il movimento kurdo ha resistito e non ha voluto abbandonare la propria strategia laica e di auto-governo. L’Akp ha puntato allora sullo Stato Islamico sperando che schiacciasse i kurdi e li costringesse, per salvarsi, a rivolgersi alla Turchia. Non è successo e Ankara ha cominciato a colpire direttamente Rojava". Quanto vale la vita di un afgano di Emanuele Giordana Il Manifesto, 28 febbraio 2016 Risarcimento? Gli Usa offrono 6 mila dollari per le vittime del raid di ottobre sull'ospedale di Kunduz. Per Msf è "ridicolo". Intanto, tra attentati e guerra infinita, si tenta ancora la carta negoziale coi talebani. Quanto vale la vita di un afgano? Quanto costa un cadavere della nazionalità respinta in questi giorni alle eurofrontiere? A giudicare da quanto gli Stati uniti hanno offerto per compensare le vittime dell’ospedale di Kunduz, che agli inizi di ottobre venne fatto segno di un bombardamento mirato che lo ridusse in cenere, la morte di un afgano - anche se con laurea - vale seimila euro. Tremila se è stato solo ferito, anche in modo grave. Lo hanno raccontato all’Associated Press i parenti delle vittime dell’attacco al nosocomio di Msf di Kunduz e la risposta dei Medici sena frontiere, che l’ospedale gestivano con personale soprattutto locale, non si è fatta attendere: Guilhem Molinie, portavoce di Msf in Afghanistan, definisce "ridicolo" il cosiddetto pagamento di sorry money. Insufficiente per molte famiglie che avevano nei loro morti l’unico salario con cui sopravvivere. Il Paese della guerra infinita è intanto alle prese col tentativo di rinegoziare l’ennesimo incontro tra governo e talebani mentre ieri due attentati della guerriglia (uno a Kabul, l’altro nella provincia orientale di Kunar) hanno ucciso almeno venti persone, in gran parte civili. Il che rende il negoziato - messo in piedi da una Commissione quadrilaterale formata da afgani, pachistani, americani e cinesi - estremamente in salita. La vicenda di Kunduz e del bombardamento dell’ospedale di Msf è una delle tante vicende della guerra infinita e uno dei capitoli più bui per militari afgani e internazionali, responsabili di mezze ammissioni, scuse e reticenze fustigate anche da un recente rapporto dell’Onu. A quanto si sa, gli americani - che chiamati dagli afgani fecero il raid sull’ospedale - dopo aver espresso le loro condoglianze a oltre 140 famiglie e individui hanno reso noto che la ricompensa sarà per tutto lo staff. Ma al di là dei numeri (14 morti tra il personale, 24 tra i pazienti, 14 altri civili) la cifra sembra per ora quella lamentata dalle vittime - e ritenuta inadeguata e offensiva - quando in altre occasioni (come nel caso del militare "impazzito" che fece una strage nel 2013 andando di casa in casa da solo a fare giustizia sommaria) gli Stati Uniti sborsarono fino a 50mila dollari per ogni vittima. E non c’è solo la questione dei soldi. Secondo l’Ap, un documento congiunto Nato-Usa che l’agenzia ha potuto visionare ammette che un Ac-130 sparò con 211 colpi per mezz’ora prima che ci si rendesse conto del disguido. Il documento dice anche che, contrariamente a quanto sostennero inizialmente le autorità militari di Kabul, non c’era nessuna evidenza che nell’ospedale vi fossero dei guerriglieri. Il raid avrebbe anzi dovuto colpire un edificio a poca distanza: un tragico "errore". Sarebbe anche pronta l’indagine condotta in proprio dagli americani: un dossier di 3mila pagine che però non è ancora stato reso pubblico. Quanto alla commissione indipendente che Msf ha chiesto per far luce sulla vicenda, niente è successo poiché sarebbero necessarie alcune procedure di indagine che devono ricevere luce verde da Washington e Kabul. E a Kabul intanto si prepara quello che dovrebbe essere il primo vero negoziato tra guerriglia e governo. Il piano, coordinato soprattutto da Islamabad ma col beneplacito di Kabul, Washington e Pechino, prevede un incontro già nei primi giorni di marzo. I pachistani hanno invitato tutti i gruppi e le fazioni della guerriglia ma regna scetticismo: i talebani sono divisi e ognuno sembra andare per proprio conto. Com’è noto l’attuale capo, mullah Mansur, è in contatto con Islamabad ma l’ufficio politico di Doha, che i talebani hanno aperto anni fa proprio per avere un canale diplomatico ufficiale, sostiene di non essere stato consultato. Inoltre è noto che Mansur gode solo dell’appoggio di una parte del movimento. Quanto a Hekmatyar, che controlla la fazione guerrigliera dell’Hezb e Islami (che ha anche un braccio "legale" in parlamento) l’adesione non è ancora arrivata. E infine ci sono una miriade di capi bastone in turbante che non è chiaro a chi rispondano. Senza contare la variabile Daesh che vorrà mettere in piedi nel piatto. Per boicottarlo. Egitto: il Sindacato dei giornalisti chiede inchiesta su maltrattamenti reporter in carcere Nova, 28 febbraio 2016 Il Sindacato dei giornalisti egiziano ha accusato il ministero dell’Interno di maltrattamenti nei confronti dei giornalisti detenuti in carcere, chiedendo alla procura di aprire un’inchiesta. In una dichiarazione diffusa sul proprio sito web, citata dal quotidiano filo-statale "al Ahram", il sindacato ha affermato che i giornalisti nel carcere di al Aqrab sono stipati celle ammuffite e scarsamente ventilate, e hanno visto ridursi o azzerarsi le ore d’aria a disposizione. Il sindacato ha affermato che un numero imprecisato di giornalisti detenuti ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro tali condizioni. Secondo il Comitato internazionale per la protezione dei giornalisti, l’Egitto è il paese con il più alto numero di giornalisti in carcere subito dopo la Cina. Il governo egiziano ha ripetutamente negato che i giornalisti detenuti siano stati arrestati a causa del loro lavoro. Le autorità negano inoltre violazioni sistematiche nelle carceri egiziane. Il Sindacato ha sollecitato un’inchiesta sulle violazioni contro i giornalisti all’interno delle carceri egiziane. Lo scorso 5 febbraio Reporter senza frontiere (Rsf) ha lanciato un nuovo appello per il rilascio immediato e incondizionato dei giornalisti detenuti in Egitto "semplicemente per aver fatto il loro lavoro". In un comunicato pubblicato sul proprio sito internet, l’organizzazione non governativa francese ricorda che a breve inizierà il processo a Mahmoud Abu Zeid, fotoreporter sotto processo insieme ad altri 700 imputati accusati di essere membri dei Fratelli musulmani, organizzazione bandita dalla giustizia egiziana dopo l’estromissione del presidente della repubblica Mohamed Morsi, leader del partito Giustizia e Libertà, ramo politico della confraternita islamica. Abu Zeid, meglio noto con il nome di Shawkan, ha trascorso più di 900 giorni in carcere in attesa di giudizio. Secondo Rsf si tratta di "uno dei più lunghi periodi di detenzione preventiva nella storia dell’Egitto" e di una "flagrante violazione della costituzione e delle leggi". Il fotoreporter è stato arrestato il 14 agosto 2013 mentre stava coprendo le manifestazioni di piazza al Rabaa al Adawiya per le agenzie "Demotix" e "Corbis". La prima udienza del processo è prevista lunedì prossimo, 8 febbraio. Molti imputati, inclusi alcuni giornalisti, sono stati condannati all’ergastolo nella sentenza di primo grado emessa nell’aprile 2015. Rsf "sostiene sei dei 14 giornalisti sotto processo perché non è stato chiaramente dimostrato che gli altri otto sono stati arrestati relativamente al lavoro giornalistico". La Corte di Cassazione siriana ha ordinato un nuovo processo nel mese di dicembre. "In Egitto, qualsiasi forma di critica al regime viene sistematicamente soppresso dalle autorità e i giornalisti stanno pagando un prezzo molto alto", ha detto Alexandra el Khazen, capo desk per il Medio Oriente di Reporter senza frontiere. "Chiediamo l’assoluzione dei giornalisti imprigionati e sottoposti a un processo politico di massa con accuse molto gravi. La loro detenzione costituisce una flagrante violazione di tutte le norme nazionali e internazionali", ha aggiunto l’esponente di Rsf. Il fotoreporter Shawkan è accusato di omicidio, tentato omicidio e appartenenza a un gruppo fuorilegge (i Fratelli Musulmani) e rischia una possibile condanna a morte o l’ergastolo. Malato di epatite, Rsf riferisce che la salute dell’uomo è peggiorata rapidamente a causa delle pessime condizioni di detenzione e della mancanza di cure mediche appropriate. I giornalisti sono accusati di pubblicazione di notizie false, incitamento alla violenza e aver fatto parte a una presunta "sala operativa" che avrebbe organizzato gli attacchi contro il governo durante le manifestazioni a sostegno del deposto presidente Morsi nell’estate del 2014. La cosiddetta strage di piazza Rabaa Adawiya rappresenta uno degli episodi più sanguinosi della storia recente dell’Egitto. Tre giornalisti sono stati uccisi durante l’intervento delle forze di sicurezza per disperdere un sit-in dei manifestanti pro-Morsi. L’Egitto figura al 157mo posto su 180 paesi nella classifica sulla libertà di stampa di Reporter senza frontiere. Secondo Rsf, ad oggi sono 23 i giornalisti "trattenuti ingiustamente dalle autorità egiziane". Libia: 18 pescatori egiziani arrestati da guardia costiera Agi, 28 febbraio 2016 Un totale di 18 pescatori egiziani sono stati arrestati dalla guardia costiera libica. Lo ha annunciato oggi Ahmed Nassar, capo del Sindacato dei pescatori egiziani, al quotidiano locale "Youm7". Gli egiziani sono originari del governatorato di Kafr el Sheikh, nel Delta del Nilo, ed erano a bordo del peschereccio "Mohamed el Kareem". Nassar ha smentito che l’imbarcazione egiziana possa aver violato le acque territoriali libiche, precisando che i pescatori si stavano in realtà dirigendo verso l’Isola di Malta. Decine di pescatori egiziani sono stati arrestati in Sudan, Libia e Tunisia nelle scorse settimane. Molti di loro sono stati rilasciati, altri si trovano ancora in stato di detenzione. A inizio febbraio, 15 pescatori egiziani sono stati rilasciati dopo otto mesi nelle carceri della Libia. Secondo Nassar, gli egiziani sarebbero stati arrestati da una milizia armata islamista libica. Altri 12 pescatori egiziani sono scomparsi nelle scorse settimane al largo delle acque territoriali sudanesi dopo che la loro barca si è ribaltata: solo tre di loro sono stati trovati vivi, mentre gli altri risultano ancora dispersi. Nel mese di agosto, il Sudan ha rilasciato 14 pescatori dopo averli arrestati con l’accusa di pesca illegale in acque sudanesi. Più volte il ministero degli Esteri egiziano ha messo in guardia i pescatori dal rischio di entrare senza autorizzazione nelle acque territoriali dei paesi limitrofi dove sono in corso conflitti armati. L’ultimo appello è stato lanciato proprio lo scorso 25 febbraio dal viceministro degli Esteri egiziano, Hisham al Naqib, e si riferiva anche ai cittadini egiziani che intendono recarsi in Libia per cercare lavoro, nonostante la situazione di instabilità e caos nel paese.