Unioni civili: le leggi cambiano con noi di Michele Ainis Corriere della Sera, 27 febbraio 2016 La normativa Cirinnà è arrivata in porto, ma il suo viaggio è appena iniziato. È stata una navigazione lenta, accidentata. Ma infine la legge sulle unioni civili è approdata in porto, accolta da un doppio squillo di fanfara. E invece no, il viaggio è appena cominciato. Non soltanto perché la navicella dovrà ancora doppiare la boa di Montecitorio, salpando da Palazzo Madama. Soprattutto per un’altra ragione: la vita del diritto non si esaurisce nelle leggi. E del resto nessuna legge appartiene al legislatore che l’aveva concepita. È come un figlio, che quando spalanca gli occhi al mondo decide lui su quali strade incamminarsi, al di là dei desideri paterni. E il mondo del diritto s’intesse di prassi amministrative, applicazioni giudiziarie, sentenze costituzionali, direttive europee. In questo senso nessuna legge è mai per sempre, nemmeno quando sopravviva inalterata per decenni. Perché in quel lasso di tempo giocoforza cambiano i costumi, e il cambiamento carica di nuove assonanze le parole della legge. Da qui la prima lezione che ci impartisce la vicenda: il Parlamento ha fatto la sua parte, adesso tocca a noi. L’ha fatto con un maxiemendamento scritto dal governo, benché quest’ultimo avesse garantito libertà di coscienza ai senatori. E per giunta votando la fiducia per negare la fedeltà (dei gay), altro sentimento schizofrenico. Ma dopotutto questa è la politica, l’arte del possibile. Si fa quel che si può. O altrimenti si fa, ma non si dice. Per esempio: sicuro che la nuova disciplina vieti l’adozione del configlio (stepchild adoption)? Dopo lo stralcio della norma che intendeva regolarla, la legge Cirinnà è muta come un pesce. Ma può ben trattarsi di silenzio-assenso, per dirla in giuridichese. Toccherà ai tribunali valutare, caso per caso, coppia per coppia. Loro, d’altronde, già lo fanno, talvolta consentendo l’adozione alle famiglie omosessuali. Giusto così, i giudici si trovano davanti persone in carne e ossa, non gli stereotipi su cui ragiona volentieri la politica. E i giudici sono l’avamposto della società civile, l’antenna che ne diffonde gli umori nel Palazzo. Poi, certo, anche alla magistratura può capitare d’attardarsi su concezioni superate. Negli Usa accadde alla Corte suprema: benedisse la segregazione razziale per decenni, fino alla sentenza Brown del 1954. In Italia è successo alla Consulta: nel 1961 fece salvo il reato d’adulterio femminile, nel 1968 lo annullò in parte, nel 1969 lo demolì del tutto. Ma in entrambi i casi è stato decisivo un vento d’opinione pubblica - la lotta per i diritti civili dei neri americani, il Sessantotto. Insomma siamo noi, la legge. E i diritti vivono se c’è un popolo che vi s’affezioni, che sappia coltivarli. Ai diritti bisogna voler bene. Negli anni Trenta era in vigore una Costituzione (lo Statuto albertino) che proteggeva la libertà di stampa, di domicilio, di riunione; ma gli italiani, invaghiti del Duce e del fascismo, se n’erano ormai dimenticati. Sicché i diritti diventano di carta, quando nessuno li reclama. Non avviene forse, adesso, con il diritto di voto, mentre un italiano su due diserta l’appuntamento con le urne? È esattamente questa la vocazione della nostra Carta costituzionale: favorire le diverse stagioni dei diritti, senza ingessarli in un calco normativo. Per raggiungere tale risultato, nel 1947 i costituenti usarono un linguaggio a maglie larghe, una lingua duttile, elastica. Non a caso, per enunciare i limiti alla libertà di stampa e alla libertà di religione, s’appellarono al "buon costume", concetto che s’apre e chiude come una fisarmonica, in base al soffio dell’esprit du temps, dello spirito dei tempi. E non a caso l’articolo 29 definisce la famiglia come una "società naturale", dunque indipendente dal diritto, nella sua spontanea evoluzione; mentre non definisce il matrimonio. Per la Consulta (sentenza n. 138 del 2010), quest’ultimo è invece la somma di una mamma e di un papà. Però magari i giudici costituzionali sbagliano di nuovo, sta a noi farli ricredere. Ecco, è questa la responsabilità che cade su ciascun cittadino. Per esercitarla, dobbiamo ricordare che la costruzione dei diritti è sempre progressiva, non sbuca fuori in un amen come Minerva dalla testa di Giove. Ci abbiamo messo secoli per sbarazzarci dell’autorità sovrana del pater familias, celebrata da Leon Battista Alberti nel primo trattato in volgare della nostra storia letteraria (Della famiglia, 1433-1434). Merito della Costituzione, poi della riforma del 1975, che adesso la legge Cirinnà riforma daccapo. Ma il merito è soprattutto del popolo italiano. Siamo stati noi, attraverso i nostri parlamentari, a pretendere il divorzio (nel 1970), poi a trasformarlo in un divorzio breve (nel 2015), tagliando i tempi d’attesa da 5 anni ad appena 6 mesi. E sempre noi, attraverso i nostri giudici, abbiamo smantellato pezzo a pezzo la legge proibizionista sulla fecondazione assistita, con 33 sentenze in 11 anni. Ora tocca alle unioni civili, ma la morale è sempre una: se lasciamo sole le nostre istituzioni, loro ci lasceranno soli. Reati di opinione, la necessità di una svolta di Carlo Vulpio Corriere della Sera, 27 febbraio 2016 Probabilmente Matteo Salvini ha esagerato sostenendo che "la magistratura italiana è una schifezza", quanto meno perché la sua opinione è una generalizzazione troppo ampia per non risultare generica. Ma è la sua opinione ed egli ha il diritto di esprimerla, al di là del fatto che sia condivisa o meno dalla maggioranza (nel caso specifico, poi, siamo certi che la maggioranza degli italiani la pensi diversamente?). Però per aver espresso questa opinione Salvini è indagato dal procuratore di Torino, Armando Spataro, per vilipendio dell’ordine giudiziario. Una prima riflessione che questa vicenda suggerisce è la seguente: quando una persona, politico o cittadino comune, dice in pubblico - e come tutti sanno ciò accade spesso, "governo ladro" o "parlamento corrotto", finisce indagato per lo stesso reato di vilipendio, pur essendo il Parlamento e il Governo organi costituzionali? La risposta è no, nella realtà questo non succede, al di là di ciò che è scritto nei codici. E perché? Perché, di fatto, del Legislativo e dell’Esecutivo si può dire di tutto e di più, ma guai a toccare il Giudiziario con i suoi organi e i suoi membri. Questo è un dato difficile da confutare. Lo dimostra in maniera efficace uno studio di Lorenzo Morris Ghezzi, docente di Filosofia del diritto all’università statale di Milano, per la rivista Sociologia del diritto (Franco Angeli editore). La ricerca, che esamina il periodo 2000-2006, attesta lo schiacciante "successo", in termini di pene comminate e risarcimenti ottenuti, delle azioni giudiziarie per diffamazione promosse dai magistrati rispetto a quelle di tutti gli altri cittadini, politici compresi. La seconda riflessione che il caso-Salvini suggerisce è più radicale (anche nel senso di Partito radicale, che da quarant’anni si batte su questo fronte). Poiché tutte le condotte, diciamo così "molto critiche", nei confronti dei poteri pubblici e dei loro rappresentanti, vanno dalla diffamazione al vilipendio, e poiché queste ipotesi rientrano nei cosiddetti "reati di opinione", non sarebbe giunto il momento di "entrare in Europa" depenalizzando tutto ciò che configurerebbe un reato di opinione? Sono passati centocinquant’anni da quando John Stuart Mill, in "Sulla libertà", scriveva: "È vero che non condanniamo più a morte gli eretici. Ma non rallegriamoci di essere ormai liberi anche dalla macchia della persecuzione legale. Esistono ancora sanzioni legali contro le opinioni, o perlomeno contro la espressione di opinioni, e la loro applicazione non è così priva di esempi da rendere del tutto impensabile che un giorno tali sanzioni potranno essere ripristinate in tutta la loro forza". Il tema è impegnativo, ma semplice. E trovare in prima fila anche la Lega e Salvini è il minimo che ci si possa aspettare. Via il Tribunale dei minori? "Diritti a rischio" di Viviana Daloiso Avvenire, 27 febbraio 2016 Nessuna riorganizzazione a spese dei bambini e degli adolescenti. Il messaggio, forte e chiaro, arriva in queste ore all’indirizzo del Parlamento e dell’esecutivo da tutti i professionisti impegnati nel campo della giustizia minorile. Altro che spending review e accorpamenti: la proposta approvata il 27 gennaio scorso dalla Commissione giustizia della Camera che prevede la soppressione dei tribunali e delle procure per i minorenni (e l’introduzione di sezioni specializzate per la persona, la famiglia e i minori presso i Tribunali ordinari e di gruppi specializzati presso le Procure ordinarie) è "un disastro che non possiamo accettare". L’ultimo a intervenire sull’emendamento inserito nella delega al governo per la riforma del processo civile è il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca): "Siamo assolutamente contrari a questa proposta - spiega Liviana Marelli, responsabile Infanzia, adolescenza e famiglie del Cnca - che rischia seriamente di disperdere l’esperienza della giustizia minorile italiana, un punto di riferimento in Europa". A lanciare l’allarme erano stati i giudici dell’Associazione italiana magistrati per i minorenni e per la famiglia (Aimmf): "Si buttano alle ortiche cinquant’anni di cultura minorile - aveva denunciato senza mezzi termini il vicepresidente Cristina Maggia, procuratore dei minori di Genova -: noi non lavoriamo come la giustizia ordinaria, per noi al centro non c’è il fatto, il reato, per noi al centro c’è il ragazzo, il bambino". L’Aimmf rivendica la funzione esclusiva e l’autonomia nella gestione e nell’organizzazione dell’ufficio del Pubblico ministero minorile che ricopre un "insostituibile ruolo propulsivo nelle materie sia penali che civili, per la portata riparativa e rieducativa del processo penale minorile e, soprattutto, per la peculiare attribuzione della legittimazione attiva a tutela dei minorenni". Come dire, un conto è come la giustizia si pone nei confronti di un ladro, un altro è come si pone nei confronti di un ragazzo che ha picchiato un coetaneo, o scritto su un muro. Per "esigenze organizzative tese a ripianare carenze di risorse negli uffici per gli adulti - scrive ancora l’Aimmf - si rischia di compromettere il complessivo sistema di protezione dell’infanzia, già duramente provato dai tagli alla spesa pubblica". Dello stesso parere gli assistenti sociali: "Abbiamo sempre ribadito la necessità che solo uffici che si occupino di queste materie in via esclusiva e non siano distratti da altri compiti possano sviluppare nel tempo l’esperienza e la competenza specialistica di cui ha bisogno un settore di tale delicatezza" sottolinea Silvana Mordeglia, presidente del Consiglio nazionale della categoria, che si è più volte espresso sulla questione. L’auspicio è che nel corso dell’iter di approvazione del provvedimento "si possano correggere tutte quelle storture che rischiano seriamente di disperdere quel patrimonio di competenze e di esperienze che il sistema ha accumulato in questi decenni". Sul piede di guerra anche gli avvocati dell’Unione nazionale camere minorili, che invitano la Commissione giustizia della Camera a voler modificare integralmente l’emendamento presentato dalla stessa presidente della Commissione, Donatella Ferranti, per cui esprimono il "proprio fermo e totale dissenso". "È necessario garantire una effettiva e concreta specializzazione dei magistrati e di tutti coloro che operano nel settore minorile" sostengono, rilevando poi "il palese contrasto con l’art. 31 della Costituzione secondo cui ‘La Repubblica è tenuta a proteggere la maternità, l’infanzia e la gioventù favorendo gli Istituti necessari a tale scopo’". Competenze e professionalità a rischio anche per l’organizzazione internazionale Sos Villaggi dei bambini, impegnata nel sostegno dei minori privi di cure familiari o a rischio di perderle: "La comprensione delle situazioni di disagio dei bambini e delle famiglie in difficoltà richiede una cultura specifica", spiega Samantha Tedesco, responsabile dell’Area programmi e advocacy. La paura è "che i diritti dei bambini e dei ragazzi privi di adeguate cure vengano soppressi". L’eredità da non disperdere dei Tribunali dei minori di Mario Chiavario Avvenire, 27 febbraio 2016 Creati più di ottant’anni fa, i Tribunali e le Procure per i minorenni rischiano la soppressione? A dire il vero, si prospetta piuttosto una loro sostituzione con organismi pur sempre specializzati, ma in una più vasta area di tematiche - persona, famiglia, minori - e (soprattutto) non più autonomi, bensì operanti all’interno di uffici di tribunale e di procura aventi competenze e attribuzioni di carattere più generale. In questo senso va un recente voto della Commissione Giustizia della Camera su una dettagliata proposta di delega legislativa al Governo. La natura tecnica dell’intervento e le sue giustificazioni in termini di razionalizzazione della spesa pubblica non devono peraltro nascondere i problemi che ne vengono coinvolti. E le preoccupazioni suscitate dalla proposta nel mondo dei magistrati minorili non possono definirsi mere espressioni di gelosie corporative. Certo, non è da oggi soltanto che si discute dell’opportunità di un riassetto della distribuzione sul territorio dei giudici e dei pubblici ministeri chiamati ad occuparsi di minorenni; e anche l’istituzione di ‘tribunali della famiglia’ - ai quali devolvere tutto quanto concerne i minorenni insieme alle tutele, alle separazioni, ai divorzi, già di competenza dei tribunali ‘ordinari’ - era da tempo tra le aspirazioni di larga parte degli stessi operatori del settore, essendo in buona misura comune il retroterra sociale che alimenta i problemi giuridici in tutti questi campi. La discussione investe dunque, non tanto il ‘se’, ma il ‘come’ di un’operazione di più o meno consistente accorpamento. Così, se l’odierno progetto avrà un seguito, sarà importante vedere quale spazio e quale ruolo continueranno a trovare, nei nuovi uffici, i giudici ‘laici’, vale a dire gli ‘esperti’ in problematiche dell’età evolutiva che ora fanno parte degli attuali tribunali minorili. Oggi, come ebbe a rilevare anche la Corte costituzionale, essi sono essenziali per dare a tali organi un ‘vissuto’ più autenticamente in linea con le ragioni della loro istituzione; e ciò, non tanto in quanto si carichi quei soggetti di impropri compiti istruttori ma piuttosto per l’apporto che essi recano nel partecipare, paritariamente con i ‘togati’, alle camere di consiglio in cui si valuta a fondo la personalità degli adolescenti e si decidono soluzioni di primaria importanza per il loro percorso esistenziale: il che, peraltro, presuppone che tali ‘esperti’ siano sempre scelti sulla base, non di una generica propensione al volontariato, ma di un’affidabile padronanza di conoscenze e di esperienze peculiari. Quanto, poi, ai magistrati che verrebbero a comporre le ipotizzate ‘sezioni specializzate’ dei tribunali distrettuali e i corrispondenti ‘gruppi’ delle Procure, ci si chiede se si riuscirà ad evitare il rischio di farne dei ‘tappabuchi’ o, se non altro, dei ‘jolly’ privi di specifica professionalità che solo parzialmente finirebbero per dedicarsi alle loro qualificanti funzioni, potendo essere chiamati ad occuparsi, per gran parte del loro tempo, dei compiti più eterogenei all’interno degli uffici di appartenenza. Sotto questo profilo, il progetto votato in sede parlamentare pone un robusto ‘paletto’ per quanto riguarda le ‘sezioni’ giurisdizionali, prevedendone la composizione con magistrati destinati ad esse in via ‘esclusiva’; salvo errori di lettura, non mi sembra invece che la stessa cosa si configuri per i componenti degli ipotizzati ‘gruppi specializzati’ delle procure. In radice, c’è comunque da salvaguardare il meglio di una ‘cultura’ della giustizia minorile, formatasi principalmente negli anni sessanta e settanta, per merito di una generazione di magistrati che ‘ci credevano’ con intelligenza e convinzione. A chi ha la mia età vengono in mente nomi come quello di Uberto Radaelli, e poi di Giorgio Battistacci, Gian Paolo Meucci, Alfredo Carlo Moro, Paolo Vercellone. Solo in qualche epigono, quella ‘cultura’ ha potuto scivolare in un ingenuo buonismo, per lo più stimolando invece efficacemente a coniugare il fondamentale ruolo di ogni magistrato, come garante della legalità e del ‘giusto processo’, con un fecondo allargamento di orizzonti rispetto al tradizionale modo - tra l’autoritario e il paternalistico - di concepire il rapporto della giustizia con i minorenni, così da far sviluppare nei singoli consapevoli sensibilità per tutti i fattori idonei a influire nei modi più vari su personalità in fase evolutiva e da impegnarli a dar prova di un concreto, autentico rispetto per ognuna di tali personalità. E ne sono venute, altresì, efficaci spinte per l’introduzione di profonde novità legislative: si pensi all’istituto dell’adozione, con lo spostamento dell’attenzione dagli aspetti patrimoniali e dai desideri degli adulti alle preminenti esigenze di salvaguardia degli interessi dei bambini e dei ragazzi a una crescita serena; o alla ricezione, nel campo penale, di quello strumento di ‘giustizia collaborativa’ che va sotto il nome di ‘messa alla prova’, quale alternativa (pur non meramente indulgenziale) alla mera repressione. C’è perciò un’eredità da non disperdere, quali che siano le soluzioni organizzative più adatte alle odierne necessità di una razionalizzazione delle risorse a disposizione della macchina della giustizia. Il Sottosegretario alla Giustizia Migliore: "paese civile solo se saprà affrontare tema pena" Dire, 27 febbraio 2016 "Siamo stati condannati come Paese dalla Corte Europea per i trattamenti che erano determinati in particolar modo dal sovraffollamento. Da quando c’è stata questa condanna, cioè dalla sentenza Torreggiani, ad oggi c’è stata una diminuzione costante e strutturale con un’inversione di rapporto tra le persone detenute in carcere e quelle in esecuzione penale esterna. Ciò è stato realizzato grazie ad un’iniziativa legislativa fatta da questo governo, fatta dal ministro Orlando e dal ministero della Giustizia, che ha realizzato un percorso che si avvale, oggi, anche, dell’apporto straordinario degli Stati Generali dell’esecuzione della pena, che è stato un lungo e approfondito lavoro su come migliorare la condizione delle carceri e delle esecuzione della pena". Risponde così ai giornalisti Gennaro Migliore, sottosegretario di Stato alla Giustizia, al convegno napoletano "Attualità di Igino Cappelli - Dagli Avanzi della giustizia agli Stati Generali" in svolgimento a Napoli presso la sede del Consiglio Regionale. "Ci troviamo dinanzi ad una situazione che riguarda in concreto la civiltà del nostro Paese", spiega Migliore. "Se il nostro Paese - continua il sottosegretario - può dirsi civile sarà solo e soltanto se capace di affrontare il tema della pena secondo i dettami della nostra Costituzione, cioè reinserimento e riparazione e l’idea che non ci debba essere solo una pena afflittiva ma che ci debbano essere, come dice la nostra Costituzione, delle pene". "Stiamo lavorando - prosegue Migliore - su una popolazione di persone che deve scontare la propria pena, circa 80mila persone, ad una inversione di rapporto tra quelle che sono in carcere e quelle che hanno misure alternative. Le misure alternative non sono i detenuti a piede libero, io ci tengo a dirlo, perché’ il concetto sul quale stiamo lavorando e’ quello esattamente riavere al centro la vittima, i suoi diritti, la possibilità che possa essere riparata in un percorso di reinserimento e anche una maggiore sicurezza per i cittadini". "iGloss@1.0": agli studenti il manuale che insegna a difendersi dai crimini sulla Rete di Francesca Daga Ristretti Orizzonti, 27 febbraio 2016 L’Ufficio studi ricerche e attività internazionali del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità informa che, nell’ambito del progetto di ricerca sulle nuove forme della devianza e della criminalità online in età evolutiva "l’identità virtuale: teoria e tecnica dell’indagine socio psicopedagogica online", in collaborazione con l’Ifos (Istituto di formazione Sardo), è emerso che sia gli operatori della giustizia minorile, così come i genitori e i docenti dei ragazzi padroneggiano con poca agilità la terminologia legata ai reati penali e ai comportamenti a rischio commessi a mezzo internet. Un mondo degli adulti che spesso non dispone di elementi utili a decodificare i comportamenti online necessario alla costruzione di un approccio educativo adeguato. Il glossario "iGloss@1.0" nasce dall’esigenza di fornire ai diversi interlocutori uno strumento metodologico concreto per conoscere i potenziali rischi della rete, per meglio comprendere il reato o il comportamento a rischio online. Per ogni comportamento, criminale o deviante, sono stati indicati i principali riferimenti normativi, utili per inquadrare le caratteristiche antisociali e/o antigiuridiche dell’azione compiuta, con l’obiettivo di favorire la consapevolezza sulle conseguenze sociali e giudiziarie di quelle specifiche trasgressioni. Accessibile online al sito istituzionale del Ministero della Giustizia www.giustizia.it il glossario disponibile anche in lingua inglese, può essere consultato cliccando su ogni termine in elenco. L’istituto Siotto di Cagliari, prima scuola in Italia, ha adottato il glossario per informare ed educare alla legalità i propri studenti e renderli consapevoli delle conseguenze di determinati comportamenti in rete. Segue l’articolo dell’Unione sarda del 20 febbraio 2016. Funzionario della professionalità di servizio sociale Ministero della Giustizia, Dipartimento Giustizia minorile Agli studenti il manuale che insegna a difendersi dai crimini sulla Rete, di Sara Marci (L’Unione Sarda) Batte sul tempo ogni scuola d’Italia: il liceo classico Siotto è il primo istituto della Penisola ad adottare il manuale sul Cybercrime, per la prevenzione dei reati online. L’annuncio arriva dall’Aula magna, affollata come non mai. L’occasione è la presentazione di questo modernissimo decalogo, che mette nero su bianco le regole del quieto vìvere del mondo virtuale. "Non siamo contrari alle nuove tecnologie, tutt’altro", precisa il preside Peppino Loddo, "però ci piace insegnare ai nostri ragazzi a utilizzarle in modo che diventino forme di sviluppo e d’istruzione, non certamente per agevolare comportamenti inaccettabili", spiega. "Abbiamo tra le mani strumenti utilissimi:", aggiunge il dirigente scolastico, "che possono aiutarci a stare meglio, ma inevitabilmente ci mettono davanti a tanti pericoli. Il manuale è il primo passo per iniziare a riconoscerli e affrontarli". Si chiama iGloss@ 1.0, è disponibile in italiano o in inglese. È una sorta di abbecedario sulle nuove forme di devianza e di criminalità online in età evolutiva, curato da Isabella Mastropasqua, Luca Pisano e Valeria Cadau all’interno di un progetto pluriennale di ricerca condotto dall’Ufficio studi, ricerche e attività internazionali del Dipartimento giustizia minorile e dall’Ifos (Istituto di formazione sardo). Master in Criminologia clinica e Psicologia giuridica. conte una raccolta di termini specialistici sui comportamenti online a rischio", spiega Pisano "Ogni termine di iGloss@ offre una breve spiegazione delle principali caratteristiche della condotta e una nota sulle sue proprietà socio-giuridiche". Il microfono passa poi a Mastropasqua: "Uno degli obiettivi del nostro progetto è la tutela dei minorenni, che possono configurarsi come vittime o autori di reato. Vogliamo non soltanto informare, ma anche educare alla legalità adolescenti e adulti, rendendoli consapevoli delle conseguenze sociali e giudiziarie". L’incontro "Save your face! Proteggi la tua reputazione online", promosso dal Lions club Monte Urpinu, propone un tema attuale e particolarmente caro agli studenti del Siotto. Attentissimi, non perdono una sola parola degli interventi dei tanti ospiti. Ce anche il direttore de L’Unione Sarda, Anthony Muroni. "Il tema che mi è stato assegnato è il cyberbullismo: altro non è che un’evoluzione del bullismo vero e proprio", premette. "La differenza, ormai codificata, è legata al fatto che sui social perdiamo gran parte delle inibizioni che abbiamo nella vita reale", sottolinea. "Prima ancora di dare la colpa alla scuola, alla famiglia, alla chiesa, impariamo ad ascoltare la nostra autocoscienza, nella vita di tutti i giorni e anche sul Web". "Impegnatevi su tortura e omofobia". Noi contro violenze e norme liberticide di Marco Tarquinio Avvenire, 27 febbraio 2016 Caro direttore, personalmente ritengo che l’intervento del cardinale Bagnasco sul presidente del Senato per ottenere il voto segreto sui punti più controversi della legge sulle unioni civili costituisca una "ingerenza" della Chiesa nelle vicende italiane, in violazione del Concordato. Poiché però la Cei riafferma il diritto di rivolgersi ai cattolici italiani per richiamarli ai precetti della Chiesa, mi chiedo - e chiedo al suo giornale - perché i vescovi non si impegnino con lo stesso vigore per sbloccare due leggi certamente in linea con quei precetti. La prima è la legge che introduce in Italia il reato di tortura. Approvata alla Camera, essa è ferma al Senato da quasi un anno. Non sono bastati alla sua approvazione definitiva né le vicende del G8 di Genova né il massacro di Stefano Cucchi né i continui richiami dell’Europa per le vergognose condizioni delle nostre carceri. La seconda è la legge contro l’omofobia, ferma anch’essa al Senato, in questo caso da oltre due anni. Eppure siamo nell’anno del Giubileo straordinario dedicato alla "misericordia". Perché il Pontefice - che ha voluto fortemente questo Giubileo e al quale non mancano certo le tribune da cui lanciare un appello, come quello di oggi sulla moratoria per la pena di morte - non fa questo gesto, appunto, di misericordia. E se non ora, quando? Grazie e cordiali saluti Carlo Troilo - Associazione Luca Coscioni Risponde Marco Tarquinio Ognuno ha diritto alle proprie opinioni, caro Troilo. E ci conosciamo abbastanza per convenire che premessa al dialogo e al confronto su un qualsiasi fatto dovrebbe almeno essere una visione oggettiva e comune di un avvenimento o di una dichiarazione. Riguardo all’incipit della sua lettera, temo proprio che non sia così. Il presidente della Cei, infatti, non ha compiuto alcun "intervento" sul presidente del Senato per "ottenere il voto segreto", ma - interrogato da alcuni cronisti, nella città, Genova, di cui è vescovo - ha semplicemente espresso una motivata opinione sul valore della libertà di coscienza dei parlamentari di fronte a ipotesi di limitare drasticamente questo spazio che Costituzione della Repubblica alla mano (art. 67) dovrebbe essere intangibile, e soprattutto nel corso di votazioni su temi - in questo caso persona umana, genitorialità, famiglia e altre formazioni sociali - universalmente riconosciuti come eticamente sensibili. Penso che abbia fatto comodo, da un punto di vista politico, in quel frangente (in cui più di un partito e lo stesso governo rischiavano di infilarsi in un vicolo cieco in Senato e al cospetto dell’opinione pubblica) imbastire una smodata polemica sulle affermazioni del cardinal Bagnasco, inventando addirittura un "diktat procedurale" a un ramo del Parlamento. Esagerazioni deliberate e, certo, calcolate che colpiscono, ma che - purtroppo - sono qualcosa di non nuovo e di molto, molto "italiano" secondo il pessimo andazzo degli ultimi due decenni. Per intenderci quell’andazzo illiberale e censorio costantemente incentivato da chi, di fatto, teorizza un’inconcepibile riduzione del diritto di parola, e dunque di cittadinanza, dei vescovi e degli stessi credenti. Quanto ai due progetti di legge che lei, caro Troilo, vorrebbe "sbloccati" nel loro iter, le posso confermare volentieri, per quel che vale, la mia opinione. Riguardo alla previsione di un reato di tortura, con norme seriamente garantiste, sono favorevole nella consapevolezza di essere cittadino di un Paese civile e democratico che, già oggi, non pratica e non tollera la tortura, ma che ha conosciuto casi di violenza ingiustificabile assimilabile alla tortura come quello, da lei richiamato, di Stefano Cucchi. Casi che, per questo, sono al centro di processi importanti e rigorosi. Sono, invece, favorevole a sanzionare i comportamenti omofobi, come qualsiasi altra ingiusta discriminazione, ma contrario al reato specifico di omofobia così come è previsto nella proposta di legge Scalfarotto che considero mal congegnata e liberticida. Apprezzo infine molto che il Papa rivolgendosi a tutti inviti a gesti e scelte in grado di costruire giustizia e solidarietà, ma non intenda "immischiarsi" nelle questioni legislative italiane e di qualunque altro Paese. E condivido che i vescovi italiani richiamino, con passione cristiana e civile, i grandi valori e le prioritarie questioni che stanno al centro dell’umanesimo cristiano e danno forza alla dottrina sociale della Chiesa, ma non dettino specifici provvedimenti chiamando piuttosto i laici cattolici a dare gambe alle giuste idee assieme ad altri uomini e donne di buona volontà. Vuol essere proprio lei, caro Troilo, a suggerire qualche "ingerenza"? Ricambio il suo cordiale saluto. Campania: la Presidente D’Amelio chiama il Sottosegretario Migliore "riformare carceri" ottopagine.it, 27 febbraio 2016 "Faccio appello al Sottosegretario Migliore e al Ministro Orlando. Con gli Stati Generali annunciati dal Governo si può riprendere quel cammino interrotto di riforma del sistema carcerario sulla scia della strada indicata da Cappelli. Ci sono oggi le condizioni storiche per poterlo fare". Così la Presidente del Consiglio Regionale, Rosetta D’Amelio, conclude l’intervento al convegno "Attualità di Igino Cappelli - Dagli "Avanzi della giustizia" agli Stati Generali" organizzato dal Garante dei Detenuti della Campania, Adriana Tocco. "Il modello di carcere proposto da Cappelli - ha ricordato D’Amelio - è un modello sociale strettamente collegato al modello di "città" e comunità da costruire, ostile oppure solidale, inclusiva o esclusiva. E’ difficile pensare che una persona possa rieducarsi senza alcuna prospettiva nella vita sociale. E’ importante cosa succede alla persona mentre è in carcere, come muta. Alcuni si recuperano in pochi anni, per altri occorre più tempo. Per questo è importante il ruolo del giudice di sorveglianza. Per questo - continua la Presidente - occorre ribaltare l’ottica e l’impostazione della riflessione. Ripartire dagli "avanzi della giustizia" e ripensare il sistema del carcere ponendo al centro la reintegrazione sociale e l’idea della detenzione ai fini del reinserimento, non ai fini punitivi". "Il dettato costituzionale - sottolinea D’Amelio - è stato tradito dalle reali condizioni carcerarie, dalle condanne della Corte europea per i diritti dell’uomo. Da quei diritti negati - afferma la Presidente - occorre partire per ridisegnare un nuovo modello di carcere e di esecuzione della pena. Dignità umana, legalità della pena, reinserimento sociale - propone D’Amelio - sono tre direttrici sulle quali occorre muoversi. E per fare ciò occorre un cambio di passo culturale che veda protagoniste le istituzioni e gli operatori del carcere. Il contesto culturale, politico e sociale che c’è fuori dalle mura non è neutro. Occorre accendere nuovamente i riflettori". "Il governo Renzi - conclude D’Amelio - si sta caratterizzando per le riforme e per i nuovi diritti. Ora è possibile ripensare e riformare l’intero sistema dell’esecuzione penale". Campania: il Garante nazionale dei detenuti Palma "meno detenuti ma non migliora vita" Ansa, 27 febbraio 2016 "Dal punto di vista quantitativo si sono registrati sicuramente dei miglioramenti perché i numeri sono diminuiti. Dal punto di vista qualitativo, invece, c’è ancora molto da fare". Lo ha detto Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, a Napoli per il convegno "Attualità di Igino Cappelli - Dagli Avanzi della giustizia agli Stati Generali". "La qualità della vita negli istituti non è strutturalmente cambiata - ha affermato - Ci sono dei segni che vengono dagli Stati Generali e che vanno nel senso di un miglioramento della qualità della vita ma, ora, bisogna tradurre questi segni in una cultura diffusa e quotidiana affinché questi segni si traducano in azioni concrete". "La Campania è molto produttiva, per quanto riguarda il numero delle persone - ha aggiunto - Molti detenuti campani non scontano la pena detentiva in Campania perché numero dei posti disponibile in Campania "è inferiore alla necessità complessiva. Bisogna - dice - innanzitutto recuperare la territorialità della pena rispetto alla Campania". Rispetto al passato, la situazione del sovraffollamento del carcere di Poggioreale "é migliorata rispetto al passato, anche se ci sono situazioni nel resto della Campania che ancora languono". L’auspicio espresso da Adriana Tocco, garante regionale campano per i diritti dei detenuti, è che "il lavoro svolto durante gli Stati generali dell’esecuzione penale si tramuti infatti concreti, in leggi, per poter migliorare i livelli di vivibilità all’interno delle carceri". Campania: attività sportiva nelle carceri; numeri in aumento, intesa tra Coni e Ministero ottopagine.it, 27 febbraio 2016 È in continua crescita l’attività sportiva nelle carceri campane, realizzata grazie alla collaborazione tra il Ministero della Giustizia e il Coni Campania, come è emerso dall’incontro svolto questa mattina nella sede del Coni Campania. Per il 2016 saranno otto gli istituti penitenziari coinvolti, in tutte le cinque province. Oltre ad Avellino, Benevento, Carinola, Pozzuoli, Poggioreale, Secondigliano, Eboli e Salerno, è stata data disponibilità anche dal carcere di Santa Maria Capua Vetere, che potrebbe iniziare nel corso dell’anno l’attività sportiva per i detenuti. La valenza del progetto è supportata dalle numerose richiesta giunte al Coni nelle ultime settimane da parte di tecnici che si sono proposti per svolgere attività, a titolo volontario e gratuito. "Siamo soddisfatti di come questo progetto, giunto al quinto anno, sia in continua crescita - ha spiegato Claudio Flores, dirigente del Ministero della Giustizia-Provveditorato di Napoli. L’attività sportiva per i detenuti è fondamentale perché è l’unico modo per evitare la sedentarietà di una vita svolta, in gran parte, in spazi molto ridotti. Fa piacere sapere che anche a Santa Maria Capua Vetere c’è voglia di iniziare questo percorso, da parte nostra c’è la massima disponibilità per collaborare con il Coni per far crescere sempre di più questo progetto". I lavori sono stati conclusi dal presidente del Coni Campania, Cosimo Sibilia: "Dobbiamo ringraziare il dottor Flores, i direttori degli istituti e gli istruttori. Mi impegno a riportare, come già fatto in passato, le nostre necessità al presidente nazionale Malagò. Si è sempre dimostrato interessato al nostro progetto e gli farò presente quali sono le ulteriori necessità per lo sviluppo dell’attività sportiva nelle strutture penitenziarie, sperando nella sensibilità dimostrata finora". Sardegna: Caligaris (Sdr); garantire fondi sanità penitenziaria Ristretti Orizzonti, 27 febbraio 2016 "La sanità penitenziaria non può subire alcun taglio. Anzi, al contrario ha necessità di vedere incrementato il fondo di 2 milioni e 500 mila euro. A partire dal 2015, in particolare anche a seguito dell’attivazione dei nuovi quattro Istituti Penitenziari, sono aumentati notevolmente i cittadini privati della libertà. Nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta hanno ormai raggiunto il ragguardevole numero di 600, molti dei quali con patologie importanti. Ridurre il fondo significa ledere due principi costituzionali: la parità di trattamento tra cittadini e il diritto alla salute". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" avendo appreso che "in Commissione Sanità è emersa la volontà di ridurre il finanziamento destinato alla sanità penitenziaria a 2 milioni di euro". "Esprimiamo l’auspicio - sottolinea - che quanto abbiamo appreso dalle notizie di stampa sia solo un errore materiale. Sarebbe davvero paradossale che il Consiglio regionale impegnato a dare risposte alla non autosufficienza e alle povertà producesse un taglio laddove l’emarginazione sociale ha un timbro molto elevato: il carcere". "E’ pertanto indispensabile - conclude la presidente di Sdr - riconsiderare la situazione e ripristinare almeno il fondo di 2,5 milioni di euro. Rivolgiamo un appello al Presidente Francesco Pigliaru, all’assessore Raffaele Paci e al Consiglio regionale affinché sia salvaguardato il sostegno alla sanità penitenziaria altrimenti il disagio per chi sconta una pena non potrà che aumentare a dismisura producendo effetti deleteri". Parma: la Garante "Messa alla prova riduce carico giudiziario e in prospettiva presenze" Ristretti Orizzonti, 27 febbraio 2016 La figura di garanzia dell’Assemblea legislativa, Desi Bruno, sottolinea come "Il legislatore, sia pure in modo cauto, sembra indicare la strada di un giustizia più mite, meno ancorata alla idea di retribuzione, più attenta alla vittima e alle sue necessità" La messa alla prova per gli adulti introdotta nel nostro sistema giudiziario con la legge 67/2014 "ha certamente risposto ad esigenze di riduzione in primo luogo del carico giudiziario, poi, in prospettiva, anche delle presenze in carcere", perché "porta con sé germi di giustizia riparativa fuori dal circuito processuale in senso stretto, con la previsione, se possibile, del ricorso alla mediazione penale". A sostenerlo è Desi Bruno, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, che ieri ha partecipato a Parma al convegno "La messa alla prova per gli adulti: scenari e strumenti per una nuova penalità", promosso dal Dipartimento di giurisprudenza dell’Università della città ducale. "Il legislatore, sia pure in modo cauto, sembra indicare la strada di un giustizia più mite, meno ancorata alla idea di retribuzione, più attenta alla vittima e alle sue necessità, incoraggiando le prescrizioni riparative a favore anche della comunità- spiega la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa-, ma al contempo valorizzando il percorso della persona indagata o imputata a percorrere una strada che può facilitare il distacco da condotte illecite". "In questo senso va accolto positivamente anche il decreto legislativo del 2015 di attuazione, seppure parziale, della direttiva europea del 2012 che istituisce le norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato", specifica Bruno, che fa anche notare però come "resta non affrontato il tema delle risorse non previste per il potenziamento in particolare degli uffici per l’esecuzione penale esterna, chiamati a nuovi ed impegnativi compiti nei programmi di messa alla prova". Come spiegano gli organizzatori del convegno, "la norma sulla messa in prova richiede saperi e professioni differenti e l’utilizzo di metodologie e tecniche che appartengono sia alla cultura giuridica che a quella del servizio sociale. Come in ogni scenario di probation, tornano ad essere evocati i tradizionali pilastri della nostra cultura giuridica, che considera le risorse personali e sociali dell’imputato, valorizzandone la responsabilità nei confronti del tessuto sociale. Pur rimanendo in evidenza il modello della giustizia riabilitativa, caratterizzato da una dimensione reo-centrica, torna di interesse la restorative justice, spostata sulla valenza della dimensione di comunità e sull’attivazione di percorsi di riparazione e mediazione". Parma: interrogazione da M5S "il diritto non può essere violato, non siamo nel medioevo" Agenparl, 27 febbraio 2016 "Sono ben note le carenze nel mondo carcerario, come è anche noto il clima di violenza rivolto verso i detenuti". Così in una nota i deputati M5s. "Dalle denunce del detenuto - proseguono i parlamentari - di origine marocchina Assarag, ne abbiamo ulteriore conferma attraverso scandalose registrazioni audio. Assarag ha denunciato a diverse procure le percosse ricevute, consegnando le registrazioni dei suoi colloqui con gli operatori della polizia penitenziaria. Ad oggi le persone coinvolte non hanno ricevuto provvedimenti disciplinari e continuano a lavorare negli stessi istituti penitenziari, operatori che nelle registrazioni di Assarag affermano: "la legge nel carcere siamo noi, quindi comandiamo solo noi" ed ancora, rivolgendosi al detenuto: "come ti porto, così ti posso far sotterrare. Comandiamo noi: né avvocati, né giudici, comandiamo noi. Non sto scherzando. Nelle denunce tu puoi dire quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi che scrivo io". Inoltre c’è una forte anomalia, tra gli agenti coinvolti c’è anche l’attuale coordinatore del nucleo scorte del ministero della Giustizia, Lionello Catini. La sua posizione è stata archiviata, ma c’è opposizione dell’avvocato della difesa Anselmo. Una nomina che crea pregiudizio nello svolgimento di qualsiasi attività ispettiva interna dello stesso ministero della Giustizia. Come senz’altro è inaccettabile il fatto che nella richiesta di archiviazione, il sostituto procuratore di Parma, Podda, abbia definito le violenze e le minacce denunciate da Assarag, come lezioni di vita carceraria". I membri M5S della commissione Giustizia hanno presentato un’interpellanza urgente a firma del capogruppo Vittorio Ferraresi: "Chi commette un reato deve essere punito, ma nelle carceri non può sussistere uno stato di diritto ‘parallelo’, non può esistere un clima di violenza e di omertà perpetrato da coloro che devono rappresentare lo Stato italiano. Questi elementi non sono deduzioni, ma fatti accertati dalle registrazioni di Assarag. Non possiamo accettare il medioevo del diritto e della dignità dell’essere umano nei penitenziari italiani, in piena violazione dell’articolo 27 della Costituzione. La risposta del sottosegretario Ferri non è risultata insoddisfacente: è voler continuare a negare uno stato di cose, un clima di abusi che sappiamo esistere da sempre e a cui nessuno vuole porre la parola fine, soprattutto questo Governo". Monza: nasce lo Sportello Detenuti della Croce Rossa monzatoday.it, 27 febbraio 2016 Nella sede della Croce Rossa nasce lo sportello di supporto per i detenuti. Presentato giovedì il nuovo progetto è dedicato a coloro che dopo l’esperienza carceraria rischiano di andare incontro all’emarginazione sociale. E’ operativo da circa un mese e ha già accolto nel progetto due detenuti arrivati a fine pena interessati ad aderire all’iniziativa. A Monza, grazie alla collaborazione tra il Comitato Locale della Croce Rossa e la Casa Circondariale è nato lo sportello di supporto per i detenuti, dedicato a coloro che dopo l’esperienza carceraria rischiano di andare incontro all’emarginazione sociale. Il progetto vuole ascoltare le esigenze di coloro che hanno quasi finito di scontare la loro pena e fornire un supporto a quelle persone che per condizioni di salute o per difficoltà legate al contesto familiare o lavorative potrebbero trovarsi, una volta usciti dal carcere, in difficoltà e completamente sole con il rischio di finire ai margini della società o di reiterare i reati. Attraverso la rete di supporto alle attività della Croce Rossa con lo sportello si può garantire assistenza medica, psicologica insieme a un aiuto per le tossicodipendenze, alcol-dipendenze e ludopatie, fino alle esigenze quotidiane come i pasti e un letto. "È una collaborazione che vede al proprio centro il concetto di persona - spiega Maria Pitaniello, Direttore della Casa Circondariale di Monza - Quando si conclude l’esperienza carceraria, al rientro sul territorio, il rischio è che si vada incontro ad una esperienza di vita deprivata. Il carcere, dal canto suo, è un luogo sempre meno soltanto di pena e sempre più di recupero, ma il momento paradossalmente più critico è proprio quello dell’uscita". "Il numero di coloro che hanno bisogno di aiuto - precisa Orazio Nelson De Lutio, Commissario Croce Rossa Comitato Locale di Monza - sta crescendo. Lo vediamo ogni giorno con l’attività che svolgiamo attraverso le Unità di Strada. Sono aumentati i giovani e anche coloro che, in seguito a fallimenti, hanno perso casa e lavoro". "Purtroppo ci troviamo davanti a situazioni di grande fragilità - precisa Mirella Riva, responsabile Cri del progetto Sportello ex detenuti e già responsabile dell’Unità infermieristica di strada - Proprio ieri sera ci siamo imbattuti in un ultrasettantenne che, con la pensione minima, non può più permettersi una casa. L’idea di una persona che, a quell’età, debba trascorrere la notte in stazione, è preoccupante". Parma: "Manomissione delle parole", il progetto della Cooperativa Sirio piace al Ministro La Repubblica, 27 febbraio 2016 Il ministro della Giustizia concede il patrocino al laboratorio narrativo che coinvolge studenti, docenti e detenuti del carcere di Parma. Il Ministro della Giustizia, On. Andrea Orlando, ha concesso il patrocinio al progetto "La Manomissione delle parole" che proprio di recente ha visto la presenza a Parma, nel teatro del carcere prima e all’Università poi, dello scrittore Gianrico Carofiglio. "La manomissione delle parole" è un laboratorio socio-narrativo sul lavoro sociale in carcere proposto e coordinato dalla coop Sirio che vede la collaborazione degli Istituti Penitenziari di Parma, dell’Ateneo cittadino con l’insegnamento di Politiche sociali (corso di laurea in Servizio Sociale) e dei licei di Scienze Umane "A. Savitale" e artistico P. Toschi nonché della redazione radiofonica "Non ci sto più dentro". "La manomissione delle parole" si propone una manutenzione profonda di alcune parole mettendo a confronto studenti, docenti e detenuti del carcere di Parma. Prendendo spunto dall’omonimo libro dello scrittore Gianrico Carofiglio che mette al centro delle sue riflessioni le parole vergogna, giustizia, ribellione, bellezza e scelta. "Le parole servono a comunicare e raccontare storie - scrive lo scrittore nella prefazione del suo libro - Ma anche a produrre trasformazioni e cambiare la realtà. Quando se ne fa un uso sciatto e inconsapevole o se ne manipolano deliberatamente i significati, l’effetto è il logoramento e la perdita di senso. Se questo accade, è necessario sottoporre le parole a una manutenzione attenta, ripristinare la loro forza originaria, renderle di nuovo aderenti alle cose". Al progetto stanno lavorando un gruppo di studenti della professoressa Vincenza Pellegrino dell’Università di Parma, alunni del liceo delle Scienze umane Sanvitale coordinati dalla professoressa Marianna Vescovini e studenti del liceo Toschi con la professoressa Antonella Chiusa. E si confronteranno all’interno del carcere con i detenuti dell’area AS1, di alta sicurezza, coinvolti nei laboratori narrativi della cooperativa Sirio. Il progetto è infatti coordinato da Giuseppe La Pietra che da alcuni anni sta curando progetti che coinvolgono detenuti che trovano nei laboratori un canale di comunicazione con l’esterno e un momento di riflessione per se stessi. Ed ora, dopo il patrocinio della Regione Emilia Romagna, anche l’apprezzamento del Ministero di Giustizia. Varese: Filosofarti 2016, con "Equità e giustizia" per andare oltre le mura del carcere prealpina.it, 27 febbraio 2016 La filosofia incontra la giurisprudenza. Succede al Teatro delle Arti di Gallarate e negli altri luoghi coinvolti da Filosofarti 2016, il cui sottotitolo, "Equità e giustizia", anima gli eventi fino a marzo. L’invito del Festival è infatti quello di andare "Oltre le mura", cioè osservare la vita nelle carceri, ragionare sulla giustizia, sul rapporto fra legge e morale, sui diritti non scritti, sul dialogo interreligioso. Tra gli eventi da non perdere si annuncia il dialogo tra l’ex magistrato Gherardo Colombo e il filosofo Carlo Sini, sabato 27 febbraio alle 17.30, sul tema "Punire è necessario?". Gioca in casa la scrittrice gallaratese Marta Morazzoni, che martedì 1 marzo alle 15.15 al Melo di via Magenta condurrà il proprio pubblico "Oltre i confini del reale" sulle pagine dell’"Orlando Furioso", di cui darà una lettura personale (replica sempre al Melo una settimana dopo, lunedì 8 marzo). Il secondo dibattito da non perdere vedrà impegnati il filosofo Salvatore Natoli e la teologa Lidia Maggi a proposito delle "Ragioni della misericordia", martedì 1 marzo alle ore 21. Al confine fra filosofia e spiritualità religiosa, i due testimoni affrontano, in un dialogo che riproduce lo stile della cattedra dei non credenti già voluta dal cardinale Carlo Maria Martini, il tema della misericordia. Per ascoltare invece l’intervento di Luigi Manconi, mercoledì 2 marzo alle ore 21, bisognerà recarsi alla libreria Ubik di piazza San Giovanni a Busto Arsizio, dove l’ex parlamentare dei Verdi proverà a convincere i presenti della necessità di "Abolire il carcere", nella convinzione che la pena non riabiliti ma annienti il condannato. Venerdì 4 marzo al Teatro delle Arti sarà la volta del filosofo Umberto Galimberti, che si produrrà in un intervento sul tema del "Feticismo del mercato", secondo una definizione di Karl Marx riletta alla luce delle sperequazioni sociali in atto e degli inganni della finanza. Altri incontri sono fissati per il 5 e l’8 marzo, alle ore 17.30, rispettivamente con Gianrico Carofiglio e Helena Janeczek. L’intero programma del Festival su www.filosofarti.it. Libri: "Non solo carcere. Norme, storia e architettura dei modelli penitenziari", di De Rossi L’Opinione, 27 febbraio 2016 L’ultima fatica dell’architetto Domenico Alessandro De Rossi (autore e curatore del testo), in collaborazione con grandi esperti del settore penitenziario. Con la prefazione di Giovanni Puglisi presidente sez. Italiana Unesco, e la presentazione dell’on. Alfredo Arpaia, presidente della Lidu, Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo. In perfetto tempismo con le conclusioni degli "Stati generali della Giustizia" varati dal ministro Andrea Orlando, questo libro da non mancare nella lettura, è lo strumento essenziale per capire in tutte le sue problematiche lo Stato delle carceri italiane e ciò che si fa nel mondo: un serio approccio alla metodologia progettuale da adottare; un ausilio per comprendere meglio le disposizioni della Corte europea dei Diritti dell’Uomo che hanno condannato l’Italia, del come e del perché. Per conoscere le alternative sostenibili alla carcerazione evitando, quando possibile, l’umiliazione e il degrado e i suicidi in carcere. Uno strumento in più, necessario per capire, utile anche per gli "addetti ai lavori". C’è molto, e di più di quanto si pensi, per capire. Carceri sovraffollate, invivibili per detenuti e lavoratori. Il problema giace irrisolto da decenni sui tavoli della politica nonostante svariati e spesso improvvisati tentativi di soluzione. Non si può affrontare il problema carceri se non si affronta una visione sistemica che tenga conto di tutti gli aspetti normativi, architettonici, finanziari, sociologici e politici. Questo nuovo testo, che fa seguito a "L’universo della detenzione" pubblicato sempre da Mursia nel 2011, affronta il problema con una visione d’insieme grazie all’apporto multidisciplinare di esperti provenienti da varie discipline. Al centro, come nel primo libro, c’è la progettazione architettonica, la "pietra" come elemento determinante della qualità della pena. Un contributo per studiosi e professionisti che operano nel mondo penitenziario, che offre nuovi punti di vista, suggerimenti e analisi per ripensare finalmente l’esecuzione penale, al di là delle formule sbrigative e di facciata. Teatro: "La confessione di Agostino", il viaggio nel carcere bianco di Gianfelice Facchetti di Gioia Locati Il Giornale, 27 febbraio 2016 Storia di un uomo che continua a essere detenuto per povertà. La libertà non ha prezzo. Ci crediamo. Ce lo raccontiamo. Ma non è così. Nel mondo che abbiamo costruito solo chi è benestante ha diritto a tornare libero dopo aver scontato una condanna in carcere. Per gli altri, per chi ha perso il proprio lavoro e non ha più una casa (né affetti né reddito), l’opportunità coincide con una nuova prigione. Si chiama "carcere bianco" e può durare tutta la vita. Vivi - per modo di dire - in una casa penitenziaria, con gli agenti di polizia che controllano i tuoi orari; le sbarre fanno parte di te, hai voglia a sognare. È un regime carcerario "attenuato" e si auto rinnova ogni due anni a meno che non si riesca a trovare una casa o un lavoro. Per chi non ce la fa, si trasforma in ergastolo. Morale: anche la libertà ha un prezzo. È la storia (vera) di Agostino (nome inventato), scritta e diretta da Gianfelice Facchetti, attore e regista. Intitolata "La confessione di Agostino", andrà in scena allo Spazio Tertulliano dal 2 al 20 marzo (spaziotertulliano.it). Lo spettacolo, prodotto dalla compagnia Facchetti-De Pascalis, è patrocinato da Amnesty International e dall’Associazione Antigone per i diritti dei detenuti in Italia. Facchetti, da sempre attento alle realtà sociali, è da diversi anni impegnato con la Casa Circondariale di Monza dove dirige una compagnia di attori e insegna ai detenuti a esprimersi sulla scena. Come nasce la sceneggiatura? "Ignoravo del carcere bianco - racconta Facchetti - sono rimasto colpito da una lettera pubblicata su un quotidiano ormai più di sette anni fa. L’uomo che la scrisse, un ex poliziotto di 56 anni coinvolto in debiti di gioco e responsabile di furti, metteva a confronto la sua esistenza attuale - nel limbo del carcere bianco - con quella di sé bambino, quando, negli anni Sessanta il suo papà lo portava allo stadio a vedere la grande Inter". Così, Gianfelice Facchetti, figlio del terzino idolo dei tifosi interisti, inizia una corrispondenza con Agostino. E oggi ne mette in scena il dramma. Riflette Facchetti: "Agostino è costretto a una reclusione ulteriore, senza aver commesso alcun reato, la sua pena ora è reiterabile all’infinito. In quanto pericoloso o in quanto povero? Questo è il punto, parliamo di persone che minacciano l’ordine sociale perché nullatenenti, senza un tetto né occupazione ma la cui indigenza non può diventare colpa, per legge". Nel carcere bianco, Agostino lavora quattro giorni al mese, è il suo turno di pulizie e di addetto alla spesa. Questa è la storia di Agostino, prima poliziotto, poi ladro, quindi carcerato e oggi trattato ancora da criminale perché non ha il denaro per pagarsi la libertà. Chi controlla il codice domina il futuro di Gianni Riotta La Stampa, 27 febbraio 2016 Quando scoppiò lo scandalo metadati, la rete di comunicazioni personali raccolta dall’agenzia di intelligence americana Nsa e svelata dall’ex agente Snowden, "La Stampa" scrisse che la vera battaglia, oltre privacy e spionaggio, era sulle backdoor, porte d’ingresso riservate del software che regola telefoni e computer. Ora è scoppiata la battaglia, legale, politica e culturale, che oppone Apple a Fbi sul telefonino iPhone del terrorista Syed Riswaan Farook, che con la moglie ha ucciso 14 persone a San Bernardino. Lo scontro conferma che accesso al software, alle cloud che conservano le informazioni, a backdoor, codici e password è l’equivalente nel XXI secolo di Khyber Pass, Via della Seta, Gibilterra, transiti strategici del passato. Chi li controlla domina il futuro. Non abboccate alle opposte propagande. Apple non ha a cuore solo la privacy del clienti, come il suo amministratore Tim Cook proclama, né l’Fbi del direttore Jim Comey intende, con innocenza, acquisire prove contro la rete terroristica di Farook. Lo scontro, che arriverà forse alla Corte Suprema, dividendo campagna presidenziale e Congresso, è prologo di un cruciale dilemma strategico: chi comanda oggi, i vecchi Stati nazionali nati nel XVIII secolo, o impersonali network sovranazionali, aziende, lobby, gruppi di alleati? Nel copione dell’ultimo film di 007, Spectre, l’agente segreto combatte, in nome dell’antico servizio della Regina, proprio una rete sovrannazionale dove crimine e tecnologia si fondono. Apple non è certo la Spectre, ha clienti che sono militanti appassionati fin dai tempi di Steve Jobs, ma il referendum in cui Cook s’è infilato è nitido, vi fidate più dello Stato, dell’Fbi o di Apple, marchio che definisce la vostra personalità? È dunque fuorviante vedere nella battaglia Apple-Fbi la contraddizione Consumatore-Cittadino, mi schiero con il Brand o con la Bandiera? Molti americani non sanno come schierarsi, il 51% sta con Fbi, 38% con Apple, 11% incerti, perché, lo ha scritto bene Jeff Kosseff di Techcrunch, nessuno apprezza che la polizia faccia capolino nei messaggini, ma nessuno vuole attentati Isis protetti dalla petulanza di Silicon Valley. Apple osserva che, aprendo la "porta sul retro" all’Fbi o dando accesso ai codici, schiuderebbe a pirati informatici e terroristi pericolose scorciatoie. Fbi ribatte, invocando una legge del 1789, l’All Writs Act firmato di pugno dal presidente Washington, che non richiede accessi illimitati ma giusto una mano, che Apple sblocchi il cellulare di Farook. In realtà, Apple sa che oggi iPhone e il sistema iOs sono solidi, non più come ai tempi del kit russo Elcomsoft, bastavano 1500 euro e si guardava ogni iPhone. Ed Fbi sa altrettanto bene che il procuratore distrettuale di Manhattan, Cyrus Vance, ha già pronte 175 richieste per leggere la memoria di cellulari che bloccano inchieste in corso. È duello politico e culturale, la tecnologia fa da pretesto per ingenui e sentimentali. L’Fbi limita le richieste al minimo, e sceglie il caso estremo di Farook, per suscitare simpatia nella pubblica opinione, Apple parla di privacy e si fa appoggiare dai rivali di Facebook, Google, con la sola eccezione del prudente Bill Gates di Microsoft. Consapevole della posta in gioco, l’azienda dei Mac chiama a rappresentarla l’avvocato Theodore Olson, ex viceministro Giustizia che ha persuaso la Corte Suprema a far vincere Bush contro Gore nel 2000, ma poi ha ottenuto dalla stessa Corte via libera ai matrimoni gay. L’avvocato Marc Zwilliger http://goo.gl/Dn8QU7 lavorerà su diritto e cibernetica, ad Olson tocca combattere la battaglia politica, come ai tempi in cui consigliava il presidente Reagan sullo scandalo Iran-Contras. Nessuno potrà mai accusarlo di essere tenero con i terroristi, la terza moglie, Barbara, morì nelle stragi dell’11 settembre. È in ballo il nostro futuro: le mega aziende sono nazionali o "nuvole", cloud eteree anche nel diritto non solo in informatica? Impossibile deciderlo alla luce remota Destra-Sinistra, il populista Trump e la senatrice liberal Feinstein stanno con Fbi, Clinton e Sanders non si pronunciano per non dividere la base incerta. Se Apple e Google invocano status sovrannazionali per non pagare tasse in un certo Paese, la sinistra insorge contro di loro, se lo fanno in nome della privacy li difende con passione. La decisione ultima toccherebbe alla politica, ma la gente non si fida più dei leader e, vista la campagna Casa Bianca 2016, come dar loro torto? Aspettatevi dunque lunga battaglia ed esito incerto, prima di capire chi comanda nel nostro futuro, se un Presidente, un Poliziotto, un Giudice, un Manager o magari un Computer Intelligente. Migranti, l’Europa è alla rissa di Giovanni Maria Del Re Avvenire, 27 febbraio 2016 Il giorno dopo la difficile riunione dei ministri dell’Interno a Bruxelles, le tensioni sulla crisi migratoria restano alte. Anzitutto tra Austria e Grecia: Atene, dopo il richiamo del proprio ambasciatore a Vienna, ieri ha impedito una visita del ministro dell’Interno austriaco, Johanna Mikl-Leitner, nella capitale ellenica per spiegare la posizione del suo governo. Secondo fonti diplomatiche greche citate dalla stampa locale, per il governo di Atene la visita non ci sarà finché Vienna continuerà a prendere misure unilaterali. Resta l’irritazione per il vertice ristretto con i Paesi balcanici, organizzato dagli austriaci nella loro capitale mercoledì per impedire che i flussi oltrepassino il confine macedone. E ieri, del resto, i governi di Austria, Slovenia, Macedonia, Serbia e Croazia hanno concordato di limitare il flusso di migranti a 580 al giorno per Paese. "Siamo obbligati a limitare il transito giornaliero attraverso i Balcani Occidentali secondo un numero che consenta il controllo di ogni singolo migrante secondo le regole di Schengen", recita un comunicato della polizia slovena inviato all’agenzia Reuters. Bruxelles intanto cerca disperatamente di ritrovare un minimo di coordinamento europeo. Ieri il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk ha annunciato un tour proprio nei paesi della rotta balcanica, da Vienna ad Atene, a partire dal 3 marzo. "Gli sviluppi degli ultimi giorni - ha detto anche il cancelliere tedesco Angela Merkel - mostrano che dobbiamo trovare un approccio europeo per risolvere la questione dei rifugiati e della sicurezza alle frontiere esterne". Preoccupazioni anche dal segretario generale dell’Onu Ban-Ki Moon, che, ha riferito un portavoce, ha chiesto ad Austria e Paesi balcanici di "agire nello spirito di condivisione delle responsabilità e di solidarietà". E crescono i timori, confermati anche a Bruxelles, per la possibilità che i flussi, vista la chiusura della Macedonia, si spostino verso l’Albania, e di qui verso l’Italia. Ieri il premier albanese Edi Rama ha assicurato che Tirana non aprirà le frontiera, aggiungendo però che "se ci sarà una condivisione del peso, saremo disposti a fare la nostra parte". Secondo la Commissione Europea, le autorità greche stimano a circa 25.000 i migranti tuttora sul territorio dell’Ellade. "La priorità della Commissione europea è evitare che ci sia una crisi umanitaria in Grecia" ha detto Natasha Bertaud, portavoce della Commissione Ue per l’Immigrazione. "Siamo pronti ad utilizzare tutti gli strumenti a nostra disposizione". Atene sta a sua volta cercando di arginare i flussi. Allarme ha creato ieri inoltre la notizia, diffusa dal quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung, secondo cui il 13% dei profughi giunti in Germania (143.000) sono "scomparsi". Secondo fonti citate dal giornale, tra le spiegazioni vi è quella che molti siano proseguiti verso nord (soprattutto in Svezia), o si siano dati all’illegalità. Certo è che la situazione migratoria ora sta allarmando anche la Russia: ieri il presidente Vladimir Putin ha chiesto all’Fsb (i servizi di sicurezza) di rafforzare il controllo sul flusso di rifugiati dall’Europa alla Russia. "Dobbiamo essere pronti a gestire il pericolo legato all’incontrollato aumento del flusso dei migranti in Europa" ha detto Konstantin Romodanovsky, capo dell’agenzia federale per l’Immigrazione. Se salta Schengen un danno di oltre 100 miliardi l’anno di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 27 febbraio 2016 Cosa accadrebbe con il ripristino generale delle frontiere all’interno dell’Ue. Dalla commissione l’allarme agli stati per accettare il ricollocamento dei profughi. Non c’è dubbio, l’Europa trema come se stesse per spaccarsi. Preoccupano soprattutto le minacce che vengono dal naufragio dell’aquis di Schengen - altrimenti detto accordo o trattato ma si chiama con questo strano nome che significa pacchetto di regole sullo spazio comunitario di libera circolazione di beni e persone - che insieme alla moneta unica regge l’intera impalcatura della Ue. Matteo Renzi, intervistato dall’agenzia Bloomberg qualche giorno fa, ha usato la metafora, un po’ stantia ma sempre efficace, dei 28 paesi membri come l’orchestra che suona sul ponte del Titanic. Ma un’altra visione strategica non sembra averla neanche lui. Ciò che la Commissione ha studiato per convincere gli stati a rispettare Schengen e quindi a collaborare nei programmi di ricollocamento dei profughi e di controllo delle frontiere, è allora lo spauracchio di disastrose conseguenze economiche. Nella relazione della Commissione c’è infatti un dettagliato quadro dell’impatto che il fallimento di Schengen comporterebbe in termini di costi aggiuntivi per cittadini e imprese, mancati introiti e emorragia di posti di lavoro, un’analisi persino più fosca di quella condotta da France Strategie, think tank che elabora valutazioni per l’Eliseo, all’inizio del mese. Se infatti i francesi stimano in 100 miliardi di euro l’anno il colpo sferrato all’economia europea dall’addio a Schengen, per la Commissione si arriverebbe a 138 miliardi di conto finale per gli stati nella loro totalità. L’impatto più immediato del ripristino generale delle frontiere nazionali sarebbe, naturalmente, sul traffico delle merci, che - precisa la Commissione - rappresenta attualmente un volume di affari pari a 2.800 miliardi di euro e una massa di 1.700 milioni di tonnellate di beni che si spostano tra le frontiere annualmente. Il ripristino dei controlli doganali interni potrebbe costare tra 5 e 18 miliardi di euro, solo di costi diretti. Autotrasportatori e logistica, secondo le stime Ue, pagherebbero un grosso dazio, probabilmente reagirebbero aumentando i prezzi. Pesanti scelte si prospetterebbero per i lavoratori transfrontalieri, che sono molti anche se meno dell’1% della popolazione dell’area Schengen. L’industria del turismo con il ritorno dei visti subirebbe un colpo pesante, tra i 10 e i 20 miliardi, facendo arretrare il Pil della Ue tra lo 0,07 e lo 0,14 per cento. Secondo le stime di France Strategie gli scambi commerciali sarebbero decurtati del 10-20 per cento, i beni trasportati vedrebbero rincari del 3 per cento a causa delle tasse doganali e dell’aumento dei costi, mentre i danni al settore turistico sarebbero più limitati. Il centro studi d’Oltralpe si sbilancia a fare previsioni di calo del Pil sia a livello dei 28 (- 0,8) sia per i singoli paesi: alla Germania la fine irrevocabile di Schengen costerebbe 28 miliardi di euro, all’Italia 13 miliardi, alla Spagna 10 miliardi, all’Olanda 6 miliardi e così via. Ma non solo. Tra i documenti preparatori del vertice della prossima settimana a Bruxelles ce n’è anche uno sul mercato dei capitali che spiega come il settore finanziario sia ormai definitivamente cementato a livello continentale ma come possa svilupparsi grazie a finanziamenti pubblici (costerebbe 200 miliardi l’anno solo la transizione verso un’economia low carbon) e garanzie di stabilità. Cio che manca invece nei documenti redatti dalla Commissione per i rappresentanti governativi è invece un rapporto sui costi sociali dell’operazione di fili spinati e frontiere chiuse. E l’unico approfondimento è una mappa di Frontex che segnala un traffico di migranti interni alla rotta balcanica: albanesi, macedoni e georgiani, "migranti economici" secondo la dizione per segnalare quelli che l’Europa non vuole, perché questi paesi (Albania, Macedonia e Georgia) pur facendo parte dell’Unione europea non sono all’interno dello spazio Schengen, che come si vede dalla piantina proprio nell’area balcanica ha un evidente "buco" o zona grigia. Esattamente costoro sono quelli che tanto spaventano il governo britannico con il suo welfare state. Barriere e confini, il ritorno asburgico e la furia nazionalista di Claudio Magris Corriere della Sera, 27 febbraio 2016 L’impero austro-ungarico era minato da odi che divampavano all’ombra dell’idea sovranazionale. Uno spettro che ritorna, all’indomani della crisi dei rifugiati. "Ai miei popoli". Così iniziavano i manifesti dell’imperatore absburgico e così iniziava pure quello con cui Francesco Giuseppe annunciava lo scoppio della Prima Guerra Mondiale che avrebbe dissolto il suo impero. L’immagine dei "miei popoli" suggerisce un’atmosfera di concordia armoniosa, di nazionalità diverse pacificamente conviventi grazie al sentimento di appartenere a una compagine plurinazionale, garante delle singole culture. Alcuni ora si stupiscono di vedere che, nella chiusura di frontiere e nella costruzione di steccati e reticolati per respingere le ondate di migranti, si distinguano per particolare zelo gli Stati nati dalla dissoluzione dell’impero absburgico, dall’Austria all’Ungheria alla Repubblica Ceca e a vari Stati balcanici. Ciò è doloroso, ma non è tanto strano. Anzitutto lo stesso impero absburgico, ex patria comune di molti di quei Paesi, era minato da quegli odi nazionali che divampavano all’ombra della sua grande idea sovranazionale, certamente foriera di civiltà ma talora contraddetta dalla sua stessa politica e alla fine stravolta dalla distruttiva e autodistruttiva esplosione dei vari nazionalismi, sempre più scatenati all’interno dello stesso impero come pressoché dovunque in Europa. Le relazioni fra austriaci e ungheresi, nella Duplice monarchia austroungarica, ad esempio, erano tutt’altro che rosee. Una guerra doganale tra l’impero d’Austria e il regno d’Ungheria aveva indotto quest’ultimo a considerare e a risarcire come vittime di guerra commercianti ungheresi gravemente danneggiati dai dazi austriaci. I rapporti tra ungheresi e slovacchi e croati, italiani e sloveni, ruteni e polacchi erano spesso duramente conflittuali. In alcuni reggimenti ungheresi si brindò alla notizia dell’assassinio a Sarajevo di Francesco Ferdinando, perché quest’ultimo era fautore del trialismo ossia voleva dare ai diversi popoli slavi, numerosi nella compagine absburgica, una dignità e un potere pari a quelli degli ungheresi e degli austriaci. La Storia è ricca di contraddizioni: l’Austria, culla di un grande pensiero sovranazionale, è stata un fecondo vivaio del nazismo. Non c’è dunque solo da stupirsi se molti paesi ex-absburgici si rivelano non meno duramente chiusi di altri paesi all’accoglienza dei dannati della terra che arrivano da ogni parte. Già molti decenni prima dell’immigrazione attuale molti di essi hanno avuto i loro sogni e progetti nazionalisti: il sogno della Grande Ungheria, della Grande Romania e altri ancora, ognuno dei quali presupponeva la sopraffazione del vicino. Inoltre la durata della Storia è lunga, affonda nei secoli, ma è anche breve, almeno alla mutevole e violenta superficie. Tito si stilizzava come un Francesco Giuseppe per la sua creazione di una Jugoslavia plurinazionale e unita in un senso di comune appartenenza e destino e tale essa per un certo periodo è stata, ad esempio nel periodo delle tensioni con l’Italia. Pochi decenni dopo, quell’unità si è infranta in una guerra atroce e fratricida, che ha reso i popoli balcanici ferocemente stranieri e nemici gli uni agli altri. Se serbi e croati si sono massacrati per qualche spostamento di frontiere, non è strano anche se è drammatico che ora chiudano le frontiere a genti lontane e indistinte. Inoltre quasi tutti i paesi ex absburgici hanno vissuto molti decenni di giogo sovietico, che ha pesantemente influito sulla loro realtà e sulla loro identità e forse sono ancora troppo occupati a leccarsi quelle proprie ferite per poter aprirsi agli altri. Del resto altri Stati europei, che non hanno avuto quegli sconquassi, non si dimostrano certo più sensibili alle tragedie che arrivano alle nostre porte. Quelle frontiere chiuse, quei reticolati non si spiegano tanto col passato di chi li innalza, ma con la crescente e paurosa instabilità che sta cambiando il mondo in una misura apparentemente inarginabile e che sarà sempre più difficile fronteggiare umanamente. Il problema non è costituito dalle barbariche predicazioni di odio e di paura che si sentono spesso. Il fenomeno delle migrazioni sta diventando un processo mondiale che il nostro sistema di vita non è capace di ordinare. Quelle fiumane di gente sventurata che chiede solo di poter vivere potrebbero diventare così grandi da rendere oggettivamente difficile dar loro la possibilità di vivere. Forse quelle migrazioni sono l’avanguardia oscura di un grande e non lontano cambiamento simile alla fine del mondo antico, un cambiamento che non riusciamo a immaginare. I nuovi, arroganti e beoti padroni della terra si illudono che il loro dominio, i loro bottoni che spostano a piacere uomini, cose, ricchezza e povertà, sia destinato a durare in eterno. Esso potrebbe crollare come è crollata Babilonia e i migranti di oggi o meglio i loro prossimi discendenti si aggireranno fra le rovine della ricchezza tracotante e volatilizzata come un tempo i barbari fra le colonne e i templi abbandonati. Profughi in direzione Puglia: ora il premier lancia l’allarme di Fabio Martini La Stampa, 27 febbraio 2016 Il capo del governo ha espresso la sua preoccupazione al leader Ue: "Se i Balcani chiudono i confini c’è il rischio di una rotta dall’Albania". Nella sala dei Galeoni di palazzo Chigi, i due presidenti - dopo un duello a distanza durato mesi - ora sono uno a fianco dell’altro, da 25 minuti si stanno scambiando gentilezze, ogni tanto attraversate da qualche sfumatura agrodolce. Come quando Matteo Renzi dice: "Jean-Claude Juncker ha detto poco fa che l’austerity è stupida. Io sottoscrivo assieme a lui...". Dietro il suo podietto, il presidente della Commissione europea alza il sopracciglio sinistro e sul suo viso si disegna un enigmatico sorriso. Si intuisce un vago disappunto, che si può comprendere alla luce di quanto aveva precisamente detto pochi attimi prima lo stesso Juncker: "La Commissione europea, che non è raggruppamento di tecnocrati e burocrati, ma di politici, molti dei quali sono stati primi ministri, non è a favore di un’austerità sciocca e cieca...". Che è cosa diversa dall’essere contro l’austerità. Sfumature. Che confermano il permanere di una reciproca diffidenza, ma non cambiano il senso dell’incontro, che si è svolto in un clima positivo, con lo sforzo di entrambi di superare il contenzioso che separa Roma e Bruxelles. E i due presidenti si sono ritrovati d’accordo in particolare su un tema delicatissimo, che hanno evitato di enfatizzare nella conferenza stampa finale. Perché si tratta di un problema potenzialmente esplosivo, ma del quale si era parlato nell’incontro formale, un pranzo al quale hanno partecipato le due delegazioni. E in quella occasione il presidente del Consiglio ha fatto presente a Juncker i rischi che possono venire dalla nuova "rotta balcanica". Con la drastica chiusura delle frontiere dell’area Schengen, le rotte degli immigrati stanno gradualmente cambiando: tra Kosovo e Albania ci sono già quasi 150mila migranti bloccati che vorrebbero raggiungere i Paesi del Nord Europa, ma a questi se ne stanno aggiungendo ogni giorno altre migliaia. Rifugiati che, trovando ostruita la frontiera della Macedonia, potrebbero presto spostarsi verso ovest. Verso la frontiera albanese. E da qui, l’Italia e le coste pugliesi potrebbero diventare il punto di approdo "naturale". Con un bis di quanto avvenne nei primi anni Novanta quando migliaia di albanesi, in fuga da un Paese in rovina, approdarono in Italia. Certo, quello della nuova rotta balcanica è uno scenario in divenire, non ineluttabile che Juncker conosce bene. A Renzi che gli ha chiesto "una forte iniziativa su rimpatri e gestione dei rifugiati", il presidente della Commissione ha risposto con una promessa: "Io non mollo e su questo tema riconosco ai governi italiani una sensibilità "a partire dal 2011", che se fosse stata seguita da altri Paesi avrebbe evitato tanti problemi. E in effetti la rotta balcanica da settimane è sotto osservazione da parte del governo. Senza allarmismi e senza pubblici annunci nei giorni scorsi diversi militari sono stati trasferiti a Brindisi e a Bari e al tempo stesso sono stati avviati incontri informali con le autorità albanesi e montenegrine per non trovarsi travolti dall’emergenza. Ma c’è di più. Il 27 gennaio durante un’ audizione alla Commissione Difesa del Senato, il generale Guglielmo Luigi Miglietta, comandante della missione Kfor in Kosovo, aveva illustrato i rischi di una infiltrazione di miliziani dell’Isis proprio attraverso il Kosovo e ora l’ex ministro della Difesa Mario Mauro, presente all’audizione, chiosa così uno scenario paradossale: "Con la chiusura delle frontiere di Croazia, Ungheria e Austria, la rotta dei profughi - bloccata in Serbia e Macedonia - punterà sull’Albania dove i rifugiati, per poter essere salvati, già nelle prossime settimane potrebbero essere trasportati sulle coste italiane da mezzi militari. Della Nato". I pm: Regeni ucciso da torturatori addestrati di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 febbraio 2016 In attesa dei referti completi dell’autopsia la procura di Roma sgombera il campo e respinge i depistaggi: ucciso da seviziatori addestrati, e a causa delle sue ricerche. Lo aveva affermato il giorno prima tutto il mondo dell’associazionismo dei diritti umani, sindacati, partiti e perfino esponenti di enti locali convocati da Cild, Antigone e Amnesty International Italia davanti all’ambasciata d’Egitto a Roma (e ringraziati ieri dalla famiglia Regeni), e lo ha confermato anche la procura di Roma: il corpo martoriato di Giulio Regeni porta la firma di torturatori addestrati. Non criminali comuni. Un omicidio - questa è l’unica certezza degli investigatori italiani - maturato nel quadro delle attività di ricerca del giovane dottorando friulano. Da escludere anche qualunque legame con i servizi segreti italiani o stranieri. I referti completi dell’autopsia condotta dal prof. Vittorio Fineschi arriveranno al pm Sergio Colaiocco la prossima settimana, ma evidentemente il quadro appare già abbastanza chiaro per smentire i continui depistaggi provenienti dal Cairo. E alcuni punti fermi possono - e devono, a questo punto con urgenza - essere messi in chiaro pubblicamente. Punto primo: secondo gli inquirenti italiani, chi ha infierito su Giulio Regeni con "sevizie e crudeltà" fino ad ucciderlo sono persone abituate, se non addestrate, alla tortura. La procura esclude qualunque riferimento ad ambienti di criminalità comune. Men che meno a quelli legati allo spaccio e all’abuso di droghe, come vorrebbe l’ultimo depistaggio proveniente dagli apparati di Al-Sisi. E d’altronde - punto secondo - le analisi tossicologiche sul cadavere confermano che Giulio non faceva uso di sostanze stupefacenti, come confermato al manifesto anche dagli esperti che hanno eseguito l’esame autoptico al Policlinico Umberto I. Carabinieri e polizia hanno potuto accertare anche che Giulio, dottorando all’Università di Cambridge e visiting scholar all’American University del Cairo, conduceva uno stile di vita molto tranquillo e aveva un rapporto saldo con la fidanzata (il che esclude, se proprio fosse necessario, qualunque "pista" passionale). Punto terzo. La procura romana ha una sola convinzione: il movente dell’omicidio va ricercato nell’ambito della sua attività di ricerca. Che, va ricordato, verteva principalmente sui sindacati indipendenti e sui movimenti sociali egiziani dal 2011 in poi. Ma - punto quarto - dall’analisi del computer del giovane, consegnato al pm dalla famiglia, e dall’intera attività istruttoria, gli inquirenti di Piazzale Clodio avrebbero escluso che Regeni avesse alcun legame con i servizi segreti, né italiani, né stranieri. Nessun contatto con persone "equivoche", nessuna informazione sarebbe stata raccolta per altri o altri fini se non per le sue ricerche, che peraltro erano pubbliche. Studi sui quali si basava il noto articolo, pubblicato postumo dal manifesto, scritto sulla più grande assemblea sindacale tenutasi, l’11 dicembre 2015, negli ultimi tempi nel Paese. Ma - punto quinto, e fondamentale - secondo quanto trapelato dagli ambienti investigativi italiani (ma non è chiaro se su indicazioni della procura di Giza o del ministero dell’Interno egiziano) Regeni non era schedato in Egitto, né risulterebbero intercettazioni precedenti al giorno della sua scomparsa, il 25 gennaio 2016. Il che, se fosse confermato, porterebbe a pensare che il sequestro di Giulio non sia avvenuto in modo mirato, ma nell’ambito delle retate di massa che hanno caratterizzato il quarto anniversario delle proteste di Piazza Tahrir. E che solo in seguito, dopo essere stato identificato come persona scomoda, sia stato torturato e ucciso. Le prove nelle mani delRos e dello Sco sono però ancora poche. Non potendo contare sull’esame del telefonino che non è mai stato ritrovato, né sui dati delle celle telefoniche che le Autorità egiziane non hanno ancora fornito, i pm romani hanno richiesto da tempo ai social network le password utilizzate da Regeni, per poter ricostruire almeno una parte degli spostamenti attraverso la geolocalizzazione. Nessuna risposta. Come nessuna risposta è venuta ancora dal Cairo alle richiesta inoltrate da tre settimane dal pm Colaiocco di visionare i verbali delle testimonianze e gli atti del fascicolo aperto dalla procura di Giza, il referto dell’autopsia egiziana e i filmati delle telecamere di sorveglianza. In queste condizioni però si rafforza una domanda: come si può escludere che Giulio non fosse già "attenzionato" dai servizi egiziani? La procura sembra dire che non può più attendere per avere "la collaborazione e la disponibilità" che "l’Egitto ha immediatamente dato", come ha ricordato ancora ieri il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni su Radio 1 Rai. "Il problema è che questa disponibilità deve essere resa più efficace", ha aggiunto il ministro. Il messaggio è chiaro: "Escludo nel modo più totale che l’Italia si possa stancare di chiedere giustizia. Non è una pretesa a termine, che possa sfumare quando cesserà l’attenzione. Ammesso che cessi. Perché credo che il governo egiziano debba essere consapevole che su questa vicenda l’attenzione internazionale non è destinata ad attenuarsi". Regeni, lo scrittore Ala al Aswani: "In Egitto non c’è libertà" di Anna Lombardi La Repubblica, 27 febbraio 2016 L’intervista. Intellettuali in cella, cristiani condannati solo per una frase. "NON si può tacere. Quello che sta accadendo in Egitto è terribile. Nel mio paese la libertà, sotto qualunque forma, è sempre più sotto attacco". Non tace Ala al Aswani. Il più celebre scrittore egiziano - autore di bestseller come Palazzo Yacoubian, Chicago, Cairo Automobile Club - che fu al fianco della rivoluzione ai tempi di Piazza Tahrir, non smette di esprimere il suo dissenso. L’ultimo gesto è la firma, insieme ad oltre 500 esponenti del mondo dell’arte, della cultura e della società civile egiziana, di una dichiarazione di solidarietà con lo scrittore Ahmed Naji. Condannato a due anni di prigione per "offesa alla morale pubblica" a causa del contenuto del suo ultimo libro, Istikhdam al-Hayat, l’uso della vita. Un appello dove si esprime la preoccupazione di vivere in un Paese dove l’arte, la cultura, la critica e il libero pensiero sono sempre più sotto attacco da parte dello Stato. Cosa sta accadendo in Egitto? "C’è meno libertà d’espressione oggi che ai tempi di Mubarak: il regime di Al Sisi teme tutto ciò che non controlla. Non solo: nella lotta politica contro i Fratelli Musulmani il regime ha finito per sposarne certi valori. E ora è terrorizzato da tutto ciò che riguarda la religione e la morale. Pensi che solo ieri cinque ragazzini cristiani sono stati condannati per essersi fatti beffa dello Stato Islamico. Citavano un verso del Corano: è bastato a mandarli in prigione..." È in questa atmosfera che ha trovato la morte di Giulio Regeni? "Assolutamente sì. Che storia dolorosa, inaccettabile, inesplicabile. Purtroppo parte del problema è che qui l’apparato di sicurezza è ancora gestito da uomini di Mubarak che si muovono guidati da un sentimento di vendetta nei confronti della rivoluzione. Per loro qualsiasi elemento di novità è potenzialmente rivoluzionario. Può trattarsi di arte d’avanguardia così come di uno studio scientifico. Che poi a modo loro rivoluzionari lo sono anche. Ma non nel senso che teme il regime". Nel mirino non ci sono dunque solo gli oppositori. Oggi in Egitto anche artisti, intellettuali, studiosi sono in pericolo? "Viviamo ormai in uno stato di polizia dove nessuno è al sicuro. Qualunque attività fuori dal coro può portarti in carcere. Puoi finirci per aver partecipato a una manifestazione pacifica. Per aver scritto un romanzo con un passaggio erotico, come Ahmed Naji. O, come la poetessa Fatima Naoot, per aver definito lo sgozzamento degli agnelli in occasione della festa islamica di Eid al-Adha, "il più grande massacro dell’umanità". Una frase scritta su Facebook che le è valsa una condanna a tre anni per offesa alla religione. La mia impressione è che si sta rafforzando l’islamismo nella società nel tentativo di occupare il vuoto lasciato dall’uscita di scena dei Fratelli Musulmani a causa della repressione". Lei ha paura? "Sono abituato alla repressione e alla paura che comporta. Da quindici mesi, ormai, non posso pubblicare i miei articoli. Il regime ha fatto pressione sui giornali affinché non mi dessero spazio. Sono stato bandito dalla televisione. E dallo scorso dicembre anche i miei seminari sono stati cancellati. L’unica libertà che mi resta è Twitter. È lì che ormai esprimo il mio pensiero. Ma non mollo. Molti miei compagni sono in prigione: chi sta fuori ha il dovere di portare avanti la lotta". La gravità della situazione egiziana, soprattutto dopo la morte di Regeni, è sotto gli occhi di tutti. Eppure nemmeno l’attenzione internazionale sembra scalfire il regime... "La vita è sempre più dura e la gente è sotto pressione: anche perché da una parte il regime la ricatta, dall’altra la confonde. Il messaggio che arriva continuamente è che se non accettiamo quel che sta accadendo, se ci ribelliamo di nuovo, l’Egitto finirà come la Siria. Dall’altra, i giornali sono pieni di notizie assurde e complottiste. Il dramma è che la gente ci crede sempre di più. Pensano che tutto sia frutto di cospirazioni: che perfino la rivoluzione sia stata pagata da paesi stranieri per distruggere lo Stato. Sì: la libertà in Egitto è sempre più in pericolo". Siria: in vigore il cessate il fuoco, ma a Nord si continua combattere di Marta Serafini Corriere della Sera, 27 febbraio 2016 Alla mezzanotte tra venerdì e sabato iniziata la tregua (fragile e parziale) negoziata da Russia e Stati Uniti. Non si fermeranno però i bombardamenti contro Isis e Fronte Al Nusra. Un’autobomba a Salamiyeh nella provincia di Hama. Un accordo fragile e temporaneo. Ma pur sempre una tregua, dopo cinque anni di guerra. È entrato in vigore tra venerdì e sabato il cessate il fuoco in Siria, negoziato da Russia e Stati Uniti. A Damasco ed Aleppo testimoni riferiscono di aver sentito cessare le esplosioni subito dopo la mezzanotte. Qualcuno ha cominciato a circolare nelle strade. La televisione di stato siriana riferisce però di un’autobomba a Salamiyeh, nella provincia di Hama, e di almeno due morti nell’esplosione. Escluse dall’accordo le due formazioni terroristiche più pericolose, ovvero Isis e il braccio armato di Al Qaeda in Siria, il Fronte Al Nusra. L’intesa è stata sottoscritta da 97 gruppi della coalizione che si oppone al regime di Bashar al Assad. Il tutto mentre l’inviato speciale delle Nazioni Unite Staffan de Mistura ha annunciato che il 7 marzo potrebbero riprendere i colloqui di pace "se la tregua tiene". Si tratta del primo cessate il fuoco dall’inizio del conflitto a metà marzo 2011. Anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità una risoluzione che appoggia la tregua e invita tutte le parti coinvolte nel conflitto a rispettare gli accordi. "È la nostra migliore opportunità di ridurre la violenza in Medio Oriente", ha dichiarato il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon. I bombardamenti - La tregua è arrivata al termine di giornate di bombardamenti da parte dell’aviazione russa e governativa nelle regioni di Aleppo, Daraa e Damasco. Il presidente russo Vladimir Putin ha ribadito che "la guerra contro le organizzazioni terroristiche continuerà" nonostante il cessate il fuoco. Ma è chiaro come sul fronte jihadista non ci sia ancora nessuna intenzione di mettere fine alle ostilità. Il leader del gruppo qaedista Al Nusra Mohammad al-Jolani ha sottolineato: "Si tratta di un trucco dell’Occidente per rafforzare il regime". Tuttavia secondo quanto riportato dai testimoni sul campo Al Nusra si sarebbe ritirato da sei villaggi nella zona di Idlib. Gli analisti, secondo quanto riportato dal Guardian, sottolineano dunque come la tregua dovrebbe dare un po’ di sollievo alle popolazioni di Hama, Dara’a, al Ghaab, Homs e Qalamoun ma che il regime probabilmente continuerà a colpire la regione di Aleppo e Latakia. Turchia: Dundar e Gul liberi, sfida al legame Erdogan-Isis di Chiara Cruciati Il Manifesto, 27 febbraio 2016 Siria. I due giornalisti scarcerati da una sentenza della Corte Costituzionale. Ma il presidente minaccia: "Il processo si farà". Arriva il sì delle opposizioni siriane al cessate il fuoco. Ma poi accusano Mosca: "Raid su Damasco". Barba incolta, pullover rosso, un gran sorriso e il pugno chiuso: Can Dundar si è presentato così giovedì notte di fronte ad una folla in festa, fuori dal carcere di Silivri. Accanto a lui il collega Erdem Gul. Dopo 92 giorni di prigione si sono felicemente prestati a fotografie con i sostenitori e alle domande dei giornalisti che affollavano il piazzale. "La nostra battaglia continua, abbiamo ancora molti colleghi in prigione - hanno detto ai microfoni che li circondavano - Questa sentenza apre la strada alla libertà di stampa e di espressione. La Corte ha dimostrato di essere indipendente dal palazzo". Dundar e Gul erano stati arrestati il 26 novembre con l’accusa di spionaggio e sostegno al terrorismo. Da direttore e caporedattore del quotidiano Cumhuriyet avevano pubblicato nel maggio precedente foto, video e articoli che raccontavano dei traffici al confine tra Turchia e Siria, in particolare della tentata consegna da parte dei servizi segreti turchi di armi e equipaggiamento militare a membri dell’Isis. Ankara si era difesa: si trattava - disse il governo - di aiuti umanitari ai turkmeni. Su di loro si era quindi abbattuta la scure della repressione di Stato, impugnata dal presidente Erdogan contro decine di giornalisti e media turchi, "colpevoli" di raccontare una verità diversa da quella governativa. Era stato lo stesso Erdogan a presentare a giugno una denuncia contro i due giornalisti. Per questo la decisione della Corte Costituzionale, che fa cadere il castello di carte del presidente, lo lascia nudo: i giudici hanno ordinato la liberazione di Dundar e Gul perché l’incarcerazione viola i loro diritti di espressione e di libertà di stampa, secondo quanto previsto dagli articoli 19, 26 e 28 della Costituzione. Immediata la reazione di Ankara: l’ufficio del presidente ha tenuto a sottolineare che il processo non si ferma (comincerà il 25 marzo) e che i due rischiano ancora la pena chiesta il mese scorso dal procuratore di Istanbul, due ergastoli di cui uno aggravato, che prevede cioè il quasi totale isolamento in carcere. Ma la sentenza dell’Alta Corte fa sperare in un esito positivo, viste le basi della decisione. Uno schiaffo in faccia ad Erdogan. Fuori dalla prigione, Dundar non si è fatto scappare l’occasione di prenderlo in giro: "Oggi è il compleanno del presidente Erdogan. Siamo contenti di celebrarlo con una sentenza di scarcerazione". Una sentenza importante perché non solo prova a controbattere alla repressione istituzionalizzata di qualsiasi voce critica intrapresa dal governo dell’Akp (Reporter Senza Frontiere ha definito la Turchia "il carcere più grande del mondo per i giornalisti"), ma anche perché toglie il velo alla strategia militare in Siria, fatta di sostegno a gruppi islamisti in chiave anti-Assad e anti-kurda. Intanto, mentre scriviamo, la cessazione delle ostilità tra Damasco e opposizioni dovrebbe entrare in vigore. La giornata di ieri è oscillata tra via libera e intensificazione dei bombardamenti, con il solito scambio di accuse tra le parti. L’Hnc, l’Alto Comitato per i Negoziati, federazione delle opposizioni, ha annunciato l’accettazione della tregua da parte dei 97 gruppi attivi sul terreno: abbasseranno le armi per due settimane, tempo necessario a verificare la buona volontà del governo. Poco dopo, però, le stesse opposizioni denunciavano un’escalation dei raid russi e governativi su Aleppo e su quartieri controllati dai ribelli intorno Damasco. Almeno 40 bombardamenti che avrebbero ucciso 8 persone. Tra questi Ghouta, dove forte è la presenza di Jaysh al-Islam, gruppo salafita di cui per lungo tempo le due parti hanno negoziato la partecipazione al dialogo. Mosca ha negato: non sono stati compiuti attacchi sulla capitale, ma solo contro le postazioni di Stato Islamico e Fronte al-Nusra a nord. Tra i più preoccupati ci sono i turchi, ancora alle prese con un braccio di ferro con l’alleato statunitense sulla questione Rojava. Ankara ha più volte ribadito in questi giorni di non sentirsi obbligata a rispettare la tregua, palese minaccia alle Ypg. Washington, però, non intende abbandonare il più efficace alleato militare sul campo: secondo le Sfd (Forze Democratiche Siriane, formate da milizie kurde e arabe), negli ultimi 10 giorni sono stati liberati 315 villaggi prima occupati dall’Isis nella provincia nord-orientale di Hasakah. Ci si muove anche a Ginevra (dove l’Onu ha ospitato il primo meeting della task force che monitorerà la tregua) e a New York, dove ieri il Consiglio di Sicurezza Onu era chiamato a emettere una risoluzione che ufficializzasse la cessazione delle ostilità. Gli uffici diplomatici di Russia e Stati uniti, intanto, proseguono nel lavoro di mappatura del territorio nell’obiettivo di indicare le aree sottoposte a cessate il fuoco e quelle escluse. Ovvero le zone controllate da Isis e al-Nusra, dove continuare a bombardare. La possibile tregua ha rimesso in moto anche l’inviato Onu Staffan de Mistura che ha proposto il 7 marzo come nuova data di apertura del negoziato di Ginevra. Siria: la Croce Rossa chiede di poter visitare centri di detenzione Askanews, 27 febbraio 2016 Il presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa (Circ), Peter Maurer, ha dichiarato a Damasco di aver chiesto alle autorità siriane che la sua organizzazione possa visitare più centri di detenzione. "Dal momento che il conflitto continua, stiamo dialogando con le autorità siriane per avere accesso ai centri di detenzione e in passato abbiamo visitato nove prigioni centrali. Ci piacerebbe visitare altri luoghi di detenzione, è l’oggetto delle discussioni avute" con le autorità, ha detto in un’intervista alla France Presse al termine di una visita di cinque giorni in Siria. Interpellato sulle condizioni di detenzione, ha risposto: "Noi non parliamo in pubblico della situazione nelle prigioni, né sul numero né sulle situazioni che riscontriamo nelle nostre visite". Gli inquirenti dell’Onu sulla Siria avevano accusato a inizio mese il regime di Damasco di "sterminio" di detenuti, affermando che le morti massicce di detenuti sono il risultato di una "politica di stato". Medio Oriente: accordo con Israele su giornalista palestinese in sciopero della fame Aki, 27 febbraio 2016 È stato trovato un accordo con le autorità israeliane sul giornalista palestinese in carcere Muhammad al-Qiq, in sciopero della fame da 94 giorni per protesta contro la sua detenzione amministrativa. E’ quanto ha annunciato il Club del detenuto palestinese in una nota, dove si precisa che l’accordo "sancisce concretamente la fine della battaglia condotta da Qiq contro la sua detenzione amministrativa". L’accordo, di cui il sito di notizie palestinese Sama News pubblica una copia, prevede "la fine della detenzione amministrativa del detenuto Muhammad il giorno 21 maggio 2016", precisando che la data "non è prorogabile". Qiq "avrebbe potuto scegliere se continuare la cura dopo l’interruzione dello sciopero della fame in un ospedale governativo all’interno dei Territori occupati del ‘48, ma abbiamo preferito farlo rimanere all’ospedale di Afula" in Israele e "affidarlo alla cura di un team palestinese" locale, e questo "in considerazione del suo stato di salute, che non gli permette di fare spostamenti". L’accordo stabilisce infine che "al termine della cura, il giornalista detenuto Muhammad al-Qiq sarà ospite nel carcere di Nafha e non sarà mandato all’unità medica del carcere di Ramallah per garantire che l’occupazione mantenga l’impegno di rilasciarlo in giorno concordato".