Carceri di nuovo sotto accusa: fondi insufficienti per il reinserimento dei detenuti di Paolo Fantauzzi L’Espresso, 26 febbraio 2016 Un documento del Dap punta il dito sul sistema attuale: gli investimenti sono inadeguati e questo incide sul recupero e la qualità della vita nei penitenziari. Dove meno di un terzo dei reclusi svolge un’attività. Mentre chi fa ricorso perché la retribuzione è ferma da vent’anni vince sempre. Cesare Beccaria è solo un lontano ricordo. Il giurista illuminato, che propugnava il valore sociale della rieducazione dei detenuti, appare sempre più siderale rispetto al modo in cui l’Italia gestisce la questione carceraria. E se non rappresenta certo una novità, come dimostra la condanna irrogata dalla Corte europea di Strasburgo per trattamento inumano, fa comunque impressione leggere il documento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dedicato al reinserimento lavorativo, che nei giorni scorsi il ministero della Giustizia ha trasmesso al Parlamento. A metà 2015 erano 14.570 i reclusi che svolgevano un’attività di qualche tipo: il 27 per cento circa. Ma se i numeri sono confortanti (erano 13.727 nel 2013 e 14.099 nel 2014), il problema resta prettamente economico, come mette in chiaro nella relazione il capo del Dap Santi Consolo: "Nel corso degli ultimi anni le inadeguate risorse finanziarie non hanno consentito l’affermazione di una cultura del lavoro". Il paradosso è che i soldi che lo Stato non mette in bilancio è costretto a tirarli fuori in tribunale. La legge prevede che i detenuti che lavorano nelle falegnamerie, tipografie o sartorie all’interno delle carceri (attualmente oltre 10 mila) abbiano diritto a una paga pari ad almeno i due terzi dei contratti collettivi di categoria. Solo che dal 1994, per carenza di fondi, le somme non sono più state aggiornate. Risultato: i ricorsi davanti al giudice del lavoro si moltiplicano e l’amministrazione penitenziaria perde sempre. Ed è costretta a pagare agli ex reclusi non solo le differenze retributive ma anche gli interessi e le spese legali. Quando un paio di anni fa la commissione ministeriale calcolò quanto potesse volerci per chiudere i contenziosi, stimò che solo per il 2014 ci sarebbero voluti 50 milioni. Così, per fare prima ed evitare un salasso, adesso la soluzione allo studio è di sganciare le paghe dai contratti collettivi e introdurne uno specifico per i detenuti-lavoratori. Ma non è questa l’unica conseguenza. Molti carcerati svolgono infatti i cosiddetti "lavori domestici" nelle case circondariali, come servizi di pulizia, cucina o manutenzione ordinaria. Con risorse insufficienti, le condizioni di igiene ne risentono e questo di riflesso incide negativamente sulla qualità della vita all’interno dei penitenziari. Tanto nelle celle quanto nelle aree comuni. Del resto basta guardare ai numeri: nel 2015 per il lavoro nelle carceri c’erano a disposizione 60 milioni. Divisi per i 10.175 detenuti che svolgono attività negli istituti, fa meno di 350 euro al mese. Per quanto basse, si tratta di somme che rappresentano per moltissimi l’unica fonte di sostentamento. Solo che, per far bastare i soldi per le retribuzioni e impiegare il numero più alto possibile di persone, le ore da lavorare vengono ridotte. E così anche la cifra che è possibile racimolare rimboccandosi le maniche diminuisce ulteriormente. Con la facile previsione che, una volta abbandonate le sbarre, sarà più facile tornare a commettere reati. Va un po’ meglio il lavoro in esecuzione esterna, grazie anche agli sgravi contributivi e fiscali introdotti nel 2000 dalla legge Smuraglia a favore di imprese e cooperative che assumono reclusi o ex. Incentivi ampliati ulteriormente con la legge Svuota carceri nel 2013, che ha introdotto fra i beneficiari anche i detenuti in stato di semilibertà ed esteso gli incentivi fino a 18 mesi dopo la scarcerazione (che in alcuni casi possono salire a 24). Un paio di anni fa, ultimo dato disponibile, erano 1.413 i datori di lavoro che avevano ottenuto un credito d’imposta per questo motivo, più del doppio di un decennio prima. A conferma che se le risorse ci sono, le cose possono funzionare. Sempre se poi non prevale la tentazione di metterci le mani sopra, come accaduto l’anno scorso. Per aiutare il reinserimento, nel 2013 si era deciso di raddoppiare gli stanziamenti per gli sgravi: da meno di 5 milioni a oltre 10. Ma è durata poco: preso dalla necessità di raggranellare soldi qua e là, il ministero della Giustizia l’anno scorso ha già drenato qualche centinaia di migliaia di euro. E non è escluso che nei prossimi anni, in tempi di magra, decida di attingere ulteriori risorse da questo capitolo di bilancio. Responsabilità civile, i numeri segreti di Claudio Cerasa Il Foglio, 26 febbraio 2016 A un anno dalla riforma sulla responsabilità civile dei magistrati cosa è successo nelle procure? I ricorsi ammessi sono triplicati passando da 16 all’anno a 51. Dossier inedito scovato dal Foglio (con una email dell’Anm). Un anno dopo cosa è cambiato? Riavvolgiamo il nastro e torniamo al 24 febbraio 2015. È un giorno importante per il governo Renzi. A un anno dal suo insediamento il presidente del Consiglio presenta una riforma che l’Italia aspettava da tempo e che per molti anni è stata annunciata e mai realizzata: la responsabilità civile dei magistrati. Bum! Il 24 febbraio la legge venne approvata dalla Camera. Con 265 sì, 51 no e 63 astenuti e una serie di svenimenti maldestri nel mondo Anm. "Il problema - disse in quelle ore il capo dell’Anm Rodolfo Sabelli - è il valore simbolico della riforma, ma ci sono anche degli effetti processuali con il turbamento degli equilibri processuali. Si tenterà di intimidire il giudice, anche se i giudici non si lasceranno intimidire". Un anno dopo, dunque, cosa è cambiato? Che effetti ha avuto la legge sulla responsabilità civile dei magistrati? Il Foglio è entrato in possesso di un documento riservato del dipartimento per gli Affari di giustizia che sintetizza nel dettaglio l’impatto avuto dal provvedimento che ha riformato la legge Vassalli. I numeri sono significativi. Con la legge Vassalli in vigore, dal 1988 al 2015, sono state proposte in tutto 410 cause civili nei confronti di magistrati ritenuti responsabili di una qualche colpa grave da cittadini incorsi in un procedimento giudiziario. Significa una media di 16 all’anno. Nulla. Di queste richieste, quelle ammesse al vaglio di un tribunale sono state in tutto 35, in 27 anni. E quelle accolte dagli stessi tribunali sono state ancora meno, solo sette, sul totale delle 410 iniziali. Nulla di nulla, al punto che lo scorso anno, in una formidabile performance a "Bersaglio Mobile" di Enrico Mentana, il capo dell’Anm, rispondendo a una domanda di chi scrive, ammise candidamente di non conoscere un solo nome di un magistrato giudicato dalla legge Vassalli. E oggi? Dall’introduzione della riforma sulla responsabilità civile (riforma che ha abrogato il vecchio filtro di ammissibilità della domanda risarcitoria) la situazione è questa. I ricorsi pendenti relativi al 2015 sono il triplo di quelli registrati mediamente durante gli anni della Vassalli (51, contro i 16 precedenti). Quelli registrati nel corso del 2016 sono già undici. Significa che in appena due mesi, nel 2016, è stato preso in esame un numero di ricorsi praticamente identico a quello che ai tempi della legge Vassalli veniva registrato nel corso di dodici mesi. Dei 51 ricorsi del 2015, inoltre, sono 19 quelli la cui causa è penale e non civile. Le motivazioni dei ricorsi sono diverse. Stiamo solo a quelle penali. "Nell’ambito di un procedimento penale per truffa e appropriazione indebita il magistrato avrebbe erroneamente disposto in merito all’istanza di dissequestro dell’autoveicolo societario dichiarando la propria incompetenza trattandosi di bene sequestrato dalle autorità tedesche". "Nell’ambito del procedimento penale sarebbero stati commessi gravi errori in fase di indagine anche nelle attività delegate alla Guardia di Finanza di Brindisi". "La parte attrice lamenta che nel corso di una perquisizione presso il proprio studio legale è stato sottoposto a sequestro materiale cartaceo non costituente corpo di reato né connesso all’affare illecito ipotizzato nonché erronea formulazione delle imputazioni dalle quali il ricorrente è stato poi assolto con la formula il fatto non sussiste". "Asserito il travisamento dei fatti nell’ambito del procedimento penale… il magistrato avrebbe reso edotti terzi di notizie attinenti alla posizione processuale". "Si lamenta l’illegittimità di due ordinanze applicative di misura cautelare". Il documento del dipartimento per gli Affari di giustizia ricevuto qualche giorno fa dall’Avvocatura di stato offre anche una geografia completa dei luoghi in cui è stato registrato il ricorso. Venti ricorsi arrivano dal sud (cinque da Palermo). Quattordici dal centro (cinque da Roma). Diciassette dal nord (cinque da La Spezia, solo uno da Milano). I numeri, in attesa di capire quanti di questi ricorsi verranno accettati, ci dicono che contestualmente con l’entrata in vigore della legge sono oggettivamente aumentati i ricorsi anche se non è stato registrato un particolare boom. L’incremento c’è stato ma probabilmente non come temevano gli stessi magistrati. E non a caso chi ha avuto modo di consultare in questi giorni le mailing list interne all’Anm non ha potuto non notare una mail sorprendentemente gioiosa arrivata dall’indirizzo di posta elettronica del vicepresidente dell’Anm Valerio Savio, il numero due di Sabelli. Un passaggio in particolare: "Questa legge - ha scritto Savio - non è poi così male". A questo punto, però, resta solo da capire se sono i magistrati ad aver cambiato verso o se sono gli stessi magistrati ad aver capito che in fondo la legge non ha cambiato verso al sistema della giustizia come si poteva temere, essendo sempre i magistrati coloro che alla fine devono giudicare altri magistrati. Il fantasma del Gip. Indagine sull’ultimo buco nero del sistema giudiziario di Giuseppe Sottile Il Foglio, 26 febbraio 2016 Ricordate come cadevano le teste ai tempi di Tangentopoli? Ricordate con quale ritmo e con quanta alterigia i pm ammanettavano corrotti e corruttori, mafiosi e fiancheggiatori? Ricordate con quanto cinismo e con quale clamore sputtanavano uomini politici e ladri di passo, traffichini e ruffiani, colpevoli e innocenti? Erano i giorni della rivoluzione e del furore giacobino, delle tricoteuses in delirio e delle monetine lanciate in faccia a Bettino Craxi. Ed erano soprattutto gli anni in cui l’immensa folla dei forcaioli non vedeva altro dio se non la procura della Repubblica. Sì, quell’ufficio situato al secondo piano del Palazzo di giustizia di Milano dove accanto a Saverio Borrelli si stringevano le nuove divinità della giustizia sommaria: da Antonio Di Pietro a Gherardo Colombo, da Gerardo D’Ambrosio a Piercamillo Davigo. Tutti bravissimi e preparatissimi. Tutti zelanti, onnipotenti e soprattutto intoccabili. Del resto, chi avrebbe mai potuto toccarli? Quale giudice avrebbe mai trovato il coraggio di contestare un ordine di cattura se, a quel tempo, bastava un avvertimento lanciato a mezzo stampa dal potentissimo pool per mandare all’aria un decreto sulla carcerazione preventiva appena varato dal governo? Eppure il codice Vassalli, quello entrato in vigore nell’Ottantanove, per arginare e controbilanciare i larghi poteri assegnati alle procure, aveva istituito in ogni tribunale l’ufficio del Giudice per le indagini preliminari, meglio conosciuto come Gip. Un ufficio di garanzia il cui compito principale è quello di verificare se il magistrato inquirente svolge con equilibrio e serenità il proprio lavoro e se nel fascicolo vengono inserite anche e soprattutto le prove a favore dell’indagato. Una garanzia formalmente ineccepibile, tanto è vero che il Pubblico ministero non può privare della libertà una persona: deve chiedere l’arresto al Gip che, teoricamente, lo firma solo dopo avere valutato tutti gli elementi messi insieme dall’accusa. Prima domanda: quanti procuratori dei tanti che hanno costellato con le loro iniziative quei giorni tremendi hanno avvertito il pugno fermo del cosiddetto potere di controllo? Se qualcuno volesse scavalcare le miserie della cronaca giudiziaria per confrontarsi con gli insegnamenti della Grande Storia potrebbe rileggersi il "Journal d’un bourgeois de Paris sous la Révolution", scritto a partire dal gennaio 1793, anno del Terrore, dal cittadino Célestin Guittard, 67 anni, residente a Parigi in place Saint-Sulpice. Il quale, da bravo possidente terriero, annota ogni giorno se c’è un bel sole o se piove. Poi elenca gli ospiti che ha invitato a pranzo e, nelle ultime righe, descrive anche i fatti e i fastidi della Rivoluzione: i proclami, i processi, le rivolte, le teste tagliate. Alle dieci e venti del 21 gennaio, quando in piazza viene ghigliottinato il re, Guittard non batte ciglio: si limita a dire che fa freddo e che il termometro segna tre gradi. Nel marzo del 1794 assiste all’esecuzione di Hébert e di altri diciannove cospiratori ma non perde occasione per salutare la nuova primavera. Da vero bourgeois vede soltanto quelli che cadono e quelli che restano in piedi. Ma senza esaltazione e senza orrore: l’acqua lo bagna, il vento lo asciuga. "Passerà", scrive a margine di ogni contabilità di morte. E il giorno dopo ricomincia, magari annotando che "Mr. Genet m’a apporté une culotte de peau noire turque". Per carità, come si legge alla fine di un film ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale. Ma quanti Gip, durante la rivoluzione giustizialista degli anni Novanta, se ne sono rimasti nel calduccio dei loro uffici a guardare da lontano le teste che rotolavano nel paniere di tante inchieste nate male e cresciute peggio, magari con l’aggiunta di una testimonianza non proprio cristallina o con il colpo grosso di una confessione estorta a colpi di galera e altre umiliazioni? Acqua passata, si dirà. Ed è per questo, per non cadere cioè nella trappola del latte versato che è forse più opportuno vedere che cosa sono diventati i Gip ora che le procure, al pari delle quattro stagioni, non sono più quelle di una volta e che i pubblici ministeri con tendenza alla sovra esposizione si contano ormai sulle dita di una mano. I capi degli uffici non lo ammetteranno mai ma, da Milano a Palermo, da Napoli a Firenze, i magistrati più avveduti non hanno difficoltà ad ammettere che le procure, soprattutto negli ultimi dieci anni, si sono molto indebolite. Sostanzialmente per due motivi. Primo: perché è intervenuto un logoramento naturale: basti pensare ad Antonio Di Pietro e alla sua parabola politica; oppure alla caduta di Antonio Ingroia, il fantasioso procuratore aggiunto di Palermo che appena due anni fa voleva alzare l’Italia con un dito ed è finito accucciato in un posticino di sottogoverno messogli a disposizione dal suo fraternissimo amico Rosario Crocetta, governatore della Sicilia. Secondo motivo: perché le procure giacobine, durante la loro folgorante e spesso sbracata rivoluzione, ne hanno combinate di cotte e di crude, fino a ingrottare nella mente stessa di quelli che pure avevano agitato il cappio, il dubbio dell’abuso, delle forzature, delle regole che si allentano e si restringono secondo l’interesse o l’opportunità del momento. Obiettivamente, poteva scattare la controrivoluzione. O, più semplicemente, una sana restaurazione del diritto. Ma la debolezza delle procure non ha restituito centralità ai Gip. Anzi, in molti casi li ha disorientati fino alle incongruenze più appariscenti, fino alle polemiche spesso talmente ruvide da rasentare la rissa. Due esempi: uno lo prendiamo da Palermo, l’altro da Catania. Prima di andare in Corte d’assise, dove si trascina a fatica da quasi tre anni, il processo sulla fantomatica Trattativa imbastito da Ingroia e poi lasciato in eredità a Nino Di Matteo, è passato al vaglio di un Gip molto autorevole, Piergiorgio Morosini, che per assurdo poteva rimandare tutti quei faldoni al mittente ma preferì accordare ai baldanzosi inquirenti, così amati in quel tempo dallo star system di giornali e televisioni, un minimo di fiducia. E decise per il rinvio a giudizio. Tutto normale, si dirà. Perché sullo sfondo si intravedono princìpi sacrosanti, come la dialettica tra le parti e il libero convincimento del giudice. E invece no. Perché nella stanza accanto a quella di Morosini, un altro Gip, Marina Petruzzella, si è trovato dopo qualche mese a dovere giudicare la stessa Trattativa. Lo ha fatto perché uno dei nove imputati, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, ha chiesto il rito abbreviato. Ma dopo avere soppesato e valutato, per quasi due anni, le carte che erano passate dalle mani di Morosini la dottoressa Petruzzella è giunta alla conclusione opposta: della Trattativa c’è solo fumo e niente arrosto. Da qui l’assoluzione di Mannino per non avere commesso il fatto. Più complicato e più legnoso l’esempio di Catania. Qui galleggiava da anni un’inchiesta per concorso esterno contro Mario Ciancio, ricco editore del quotidiano La Sicilia e bersaglio preferito di tutte le antimafie riunite. Nel 2012 la procura, stretta dai termini di legge, chiude la fase dei preliminari e chiede l’archiviazione. Ma il Gip non ci sta e chiede un approfondimento delle indagini. La procura acconsente e dopo due anni riporta il fascicolo nelle mani del capo dell’ufficio, Nunzio Sarpietro che assegna la palla alla collega Gaetana Bernabò Distefano. La quale, però, decide a sorpresa per l’archiviazione di Ciancio e per una batosta senza precedenti al fumosissimo reato del concorso esterno: per definirlo serve una legge che ancora non c’è, scrive il Gip, in un sussulto di rivolta contro la banalità e il luogo comune. Apriti cielo. Le mura del Palazzo di giustizia cominciano a tremare e la polemica si arroventa. Sarpietro non incassa e rilancia: "La negazione del reato di concorso esterno", dice, "è una decisione del tutto personale e isolata della dottoressa Bernabò Distefano, poiché tutti gli altri giudici della sezione ritengono il suddetto reato ipotizzabile". Riapriti cielo. Insorgono le Camere penali che invocano interventi drastici di Csm e Associazione nazionale magistrati: dove è finita, si chiedono, l’autonomia del giudice, chi garantirà da oggi in poi la sua libertà? Peccato. La rivoluzione è morta e la controrivoluzione non si sente neppure tanto bene. Il diario di Célestin Guittard - lo ricordiamo per non perdere il filo della narrazione - si chiude nel dicembre del 1795. Il bilancio del Terrore è disastroso, la retorica dei puri non lo incanta più. Avverte nella testa solo un rumore, come un gran vento che soffia tra gli alberi senza foglie. "Tous le beaux discours ne flattent plus l’oreille". Vietato farsi i brogliacci altrui di Maurizio Tortorella Tempi, 26 febbraio 2016 Da Torino a Napoli, è partita in Italia una inedita crociata contro lo spaccio illegale di "intercettazioni irrilevanti". A guidarla, a colpi di circolari interne, sono i capi procura. Finisce l’era della gogna mediatico-giudiziaria? Dobbiamo augurarcelo. Magari aggiungendo un paio di nota bene. E tre. Il primo fu il procuratore di Roma, Giuseppe Pigliatone. Nel novembre 2015 stabilì con un’ordinanza che "la polizia giudiziaria e il pubblico ministero dovranno evitare d’inserire nelle note informative, nelle richieste e nei provvedimenti, il contenuto di conversazioni irrilevanti e manifestamente non pertinenti rispetto ai fatti oggetto d’indagine". Il secondo è Armando Sparato, procuratore di Torino: il 15 febbraio scorso ha varato una direttiva destinata ai suoi sostituti che stabilisce che tutte le intercettazioni "irrilevanti o contenenti dati sensibili" (per esempio preferenze sessuali di un indagato o di un terzo estraneo alle indagini) debbano essere "estrapolate dal fascicolo al termine delle indagini preliminari". I magistrati informeranno gli avvocati che intendono chiederne la distruzione e questi, se lo desiderano, potranno ascoltare le conversazioni o consultare le carte ed eventualmente opporsi alla soppressione immediata. Il terzo è il procuratore di Napoli, Giovanni Colangelo, che il 16 febbraio ha firmato una circolare sulle intercettazioni non rilevanti: la pohzia giudiziaria non potrà indicarle per esteso né in sintesi, ma dovrà "limitarsi a riportare, sul brogliaccio di ascolto, l’annotazione "intercettazione irrilevante ai fini dell’indagine"". In caso di dubbi, gli investigatori dovranno sottoporre il contenuto del colloquio al pubblico ministero. Se poi il pm dovesse propendere per l’inutilizzabilità o l’irrilevanza dell’intercettazione, "trasmetterà la nota della polizia giudiziaria, previo visto del procuratore aggiunto competente, alla segreteria del procuratore capo". Qui gli atti verranno conservati in un protocollo riservato ed eventualmente distrutti "se e quando il giudice lo ordinerà". Le intercettazioni inutilizzabili perché viziate all’origine, ad esempio per mancata convalida o perché proseguite al di là del termine della scadenza, "non dovranno ricevere alcuna forma di documentazione" e il pm dovrà immediatamente chiederne la distruzione. In realtà siamo già a tre e mezzo, perché a Firenze il procuratore Giuseppe Creazzo ha appena annunciato provvedimenti simili. Certo, sembra la nuova moda delle procure italiane: è una corsa a regolare le intercettazioni (che in realtà sono già perfettamente regolate dal Codice di procedura penale). Anche se a Milano, tradizionalmente apripista in molte mode giudiziarie, per ora, tutto tace: forse anche perché il procuratore Edmondo Bruti Liberati è andato in pensione e il suo successore non è stato ancora nominato. Lo strano plauso dell’Anm - Per ora soltanto a Palermo il capo della procura Francesco Lo Voi ha preso le distanze: "Non serve una specifica disciplina, la legge c’è già". A Venezia il procuratore aggiunto, Carlo Nordio, ha correttamente ricordato che in realtà l’articolo 268 del Codice di procedura penale, al sesto comma, già prescrive che le intercettazioni possano essere utilizzate soltanto dopo la loro trascrizione nella forma della perizia, sentite le parti, e se queste ne fanno richiesta. "Invece - ha aggiunto Nordio - con una discutibile propensione accusatoria, la nostra giurisprudenza si è compiaciuta di interpretare la norma in modo opposto, e i brogliacci della polizia sono finiti, transitando attraverso le richieste del pubblico ministero e le ordinanze del giudice, su tutti i giornali". Comunque sia, le direttive interne male non fanno, non c’è dubbio. Certo, sono molto tardive. E desta qualche perplesso stupore il favore con cui le saluta adesso perfino l’Associazione nazionale magistrati, da sempre schierata sulla sponda oltranzista. Il segretario generale dell’Anm, Maurizio Carbone, dichiara: "Io capisco che il diritto di cronaca sia sacrosanto. Ma noi come magistrati non possiamo permettere che il diritto alla riservatezza venga leso. E comunque non possiamo essere noi, in fase di indagine, a stabilire cosa sia interessante per la stampa e per i lettori. Noi dobbiamo semplicemente spiegare, nei nostri atti, il perché siano stati emessi provvedimenti dall’autorità giudiziaria. E dobbiamo riferire solo i comportamenti o intercettazioni pertinenti che sono rilevanti al fine delle indagini". Fino a oggi, in realtà, non è andata esattamente così: dalle procure, per anni, è uscito praticamente di tutto; e quel tutto è stato usato (in realtà continua a essere utilizzato anche oggi) a fini di lotta politica sui giornali. "È vero", risponde Carbone. "Ma le regole del buon senso erano già note a tutti i miei colleghi. Ancora prima della direttiva di Torino. Di certo non lo scopriamo oggi. E di certo già doveva essere stato fatto prima". La magra figura della politica - Sarà. Un fatto è sicuro: a uscire male da questa nouvelle vague giudiziaria non è la magistratura, che pure si mostra incoerente e in buona misura doppio-pesista. Il vero disastro investe in pieno la politica, che dimostra ancora una volta di essere pienamente succube delle procure e del populismo giudiziario che purtroppo governa la maggior parte dei mass media italiani. Il disegno di legge per la riforma del Codice di procedura penale è fermo al Senato dallo scorso settembre; e il governo nel giugno 2014 aveva inserito le intercettazioni tra i 12 punti di una grande riforma della giustizia ancora ben al di là dell’orizzonte ottico. L’iniziativa delle procure di Roma, Torino e Napoli conferma peraltro un’altra verità incontrovertibile: che già oggi esistono gli strumenti, le norme e le regole che potrebbero e dovrebbero impedire i mille abusi derivanti da un uso indebito delle intercettazioni. E che per troppo tempo, è evidente, ci sono stati magistrati e/o ufficiali di polizia giudiziaria che queste regole hanno violato impunemente. A dire il vero, e va detto anche questo, non è la prima volta che un procuratore, sensibile ai temi dei diritti, interviene sui suoi sostituti per responsabilizzarli sulle intercettazioni. Piero Tony, fino al luglio 2014 procuratore capo di Prato, ha raccontato questa storia: "Quando arrivai a Prato, nel 2006, prescrissi ai miei sostituti di fare un riassunto delle intercettazioni, evitando ogni inserimento testuale delle trascrizioni. È il riassunto la soluzione: i terzi indebitamente coinvolti restano protetti, e nessuno, per restare all’esempio, saprà mai che il sottosegretario è omosessuale. Ma così il pm dovrebbe fare fatica. Quindi preferisce il maledetto taglia-e-incolla, che troppo spesso si trasforma in un ferro incandescente". Parole sante. Anticorruzione senza più risorse, la protesta di Cantone con il governo di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 26 febbraio 2016 Sulle spalle dell’Authority si stanno rovesciando addosso tutte le rogne di un Paese che secondo Transparency International è il più corrotto d’Europa. Prima i guai dell’Expo, poi quelli del Mose, quindi le toppe del Giubileo, e i compiti in materia di trasparenza stabiliti dai decreti sulla pubblica amministrazione, e il nuovo codice degli appalti. Perfino gli arbitraggi per risarcire i correntisti delle banche truffati. Oltre all’ordinaria amministrazione, ovvio. Sulle spalle di Raffele Cantone stanno rovesciando addosso tutte le rogne di un Paese che secondo Transparency international è il più corrotto d’Europa con l’unica eccezione della Bulgaria. Dopo averlo però messo nelle condizioni di fare le nozze con i fichi secchi, perché non può nemmeno spendere i soldi che ha in cassa. Questo paradosso rischia ora di creare problemi tanto grossi all’Autorità anticorruzione, da farle rischiare di non poter gestire le nuove pesanti incombenze previste che le sono state affidate. Cominciando proprio da quelle più delicate come le nuove procedure per gli appalti pubblici stabilite dalla riforma pronta per il debutto. Per evitarlo adesso è necessaria una norma che consenta di superare gli ostacoli imposti al bilancio, e ci deve pensare il governo. Più in fretta possibile. Questo c’è scritto in un documento che si intitola "Nota di aggiornamento al piano di riordino dell’Autorità nazionale anticorruzione", che porta la data del 28 gennaio scorso. E si può leggere nelle ultime righe, sia pure in un linguaggio felpato: "Non può non evidenziarsi che il bilancio dell’Autorità sconta una rigidità della spesa tale da non consentire per il futuro, a quadro normativo vigente, ulteriori norme di contenimento oltre quelle finora adottate se non a prezzo di una ridotta funzionalità dell’Anac che, nella circostanza, non sarebbe tra l’altro coerente con l’implementazione delle funzioni (…) la quale, anzi, indurrebbe ad una nuova riflessione nelle sedi opportune sul mantenimento degli obiettivi di contenimento della spesa". Più chiaro di così... Alla stregua di tutte le altre autorità indipendenti, anche quella di Cantone ha dovuto sottostare ai tagli fissati da un decreto approvato dal governo di Matteo Renzi nel giugno 2014. Ma allora l’Anac aveva appena visto la luce nell’attuale configurazione. Soprattutto, non era ancora diventata il parafulmine per ogni bufera. E con l’andare del tempo le misure previste da quel provvedimento si sono rivelate un’armatura troppo stretta per un organismo che invece avrebbe bisogno di estrema agilità. Il personale, per esempio. Per assolvere tutti i compiti, all’Anticorruzione servirebbero 350 persone, mentre oggi non ce ne sono in servizio che 302. Se ne dovrebbero assumere 48, ma i limiti di bilancio imposti da quel decreto di due anni fa lo impediscono. La beffa è duplice. Perché l’Anac non può spendere soldi che pure ha in cassa, una cinquantina di milioni, grazie anche ai risparmi ottenuti in questi anni. E poco importa se quei denari non sono nemmeno pubblici, visto che l’authority viene finanziata dai soggetti vigilati. Questa situazione kafkiana fa venire in mente il calvario che gli ottusi vincoli di stabilità impongono ai Comuni più virtuosi, a scapito di quelli meno efficienti: i primi non possono impiegare risorse che risparmiano, ai secondi lo Stato copre senza battere ciglio i buchi di bilancio. Nel solo 2015 la cura dimagrante è stata particolarmente dura. L’Anac ha tagliato il bilancio del 25%, da 62,9 a 47,2 milioni. Il costo del personale è sceso del 19%, da 38,5 a 31,2 milioni. Quello per gli immobili del 33,4%, da 7,2 a 4,8 milioni. Compensi e rimborsi per gli organi istituzionali sono stati ridotti del 53%, da 2,4 a 1,1 milioni. Mentre l’esborso per l’acquisto di beni e servizi si è ridimensionato del 32%, da 14,8 a 10 milioni: ne hanno fatto le spese i servizi resi da terzi (meno 34,9%), i collegi, i comitati e le commissioni (meno 71,1), la Camera arbitrale (meno 44,7), gli onorari per gli esperti esterni (meno 83,4), gli avvocati (meno 46,1), i giornali (meno 48)... Tagli drastici, con i quali si è arrivati a raschiare il fondo del barile. Anche se non si può dimenticare il punto di partenza. L’Anticorruzione che conosciamo oggi è il risultato della fusione fra due authority preesistenti: la Civit, che doveva sovrintendere alla pubblica amministrazione, e l’autorità per la vigilanza dei contratti pubblici, dove sprechi e inefficienze erano di casa. I costi erano astronomici: due sedi nel centro di Roma, sei direzioni, personale esterno profumatamente pagato, un addetto alle relazioni esterne da 238 mila euro l’anno. Nel piano di riordino dell’Anac è descritta un’organizzazione tutta appiattita verso l’alto, con una pletora di dirigenti "non commisurata alla missione istituzionale né al numero complessivo di personale". Erano 58, uno per ogni cinque impiegati, con punte di uno ogni tre per alcuni servizi. E i dipendenti? Ben 336, per giunta non sempre "reclutati con criteri coerenti". La conflittualità interna era fortissima, e le tracce dolorose della battaglia sono ancora lì da vedere. Cantone ricorda il concorso a 8 dirigenti di seconda fascia "avvenuto quasi otto anni fa e annullato dal consiglio di Stato", con sentenza passata in giudicato ma attualmente sospesa. Per non parlare dei procedimenti penali "anche con accuse gravi di corruzione" nel quale sono coinvolti due ex presidenti e due ex consiglieri, nei quali sono indagati "alcuni dirigenti e dipendenti attualmente in servizio presso l’Autorità per i quali, non essendo intervenuto nemmeno un decreto che dispone il giudizio, non è stato possibile adottare alcun provvedimento disciplinare". Criticare i giudici è legittimo, rispettando la legge di Luigi Ferrarellla Sette - Corriere della Sera, 26 febbraio 2016 Due sentenze dimostrano che le accuse rivolte ai magistrati, come per tutti, devono essere documentate. Altrimenti sono guai. Dure. Anche aspre. Perfino feroci, se lo si ritiene: non c’è motivo perché, al pari che su altri argomenti, non si possano argomentare critiche ai magistrati e fare polemiche sui vari temi della giustizia, ad esempio (come in due sentenze di questi giorni) sul processo Ruby o sulle proteste dei "No Tav". Ma è come se la qualità del dibattito pubblico si sia talmente abbassata da consistere spesso solo nell’involucro della polemica, totalmente svuotata del contenuto di argomentazione che la legittimi. Nel 2012, ad esempio, era stato l’allora deputato pd Stefano Esposito (poi senatore e inventore dell’emendamento "canguro" che ne fece decadere 35.000 dell’opposizione sulla legge elettorale, e per pochi mesi assessore ai Trasporti a Roma con il sindaco Ignazio Marino) ad aprire una polemica "trasversale" nei confronti di un notorio oppositore della costruzione della Tav in Val di Susa quale l’ex giudice di Cassazione Livio Pepino, tra i fondatori della corrente di sinistra di Magistratura democratica e autore con Marco Revelli del libro Non solo un treno. La democrazia alla prova della Valsusa. "Il figlio di Pepino ha abbandonato momentaneamente le montagne valsusine per recarsi in Kurdistan, forse per migliorare alla scuola del Pkk lo studio di tecniche di guerriglia", aveva ammiccato il parlamentare da sempre favorevole alla linea ferroviaria ad alta velocità tra Torino e Lione, chiedendo al padre-magistrato "cosa pensasse delle azioni del figliolo: neo partigiano in pectore o aspirante terrorista?". In un’intervista aveva poi rincarato la dose: "Ho le prove, il figlio del giudice frequentava i terroristi del Pkk". E in una lettera a un quotidiano aveva inquadrato le "faziose critiche" di Pepino, mosse "alla Procura di Caselli", nel solco di "quello stalinismo nel quale evidentemente si è formata la cultura politica, giuridica e morale del dottor Pepino". Senonché - nota ora la sentenza civile che a Torino ha condannato Esposito a risarcire Pepino con 15.000 euro -, dal politico "non sono state prodotte quelle copie di email asseritamente "scritte dal Kurdistan dal figlio di Pepino" che dovevano dimostrare "la frequentazione dei guerriglieri del Pkk". Anzi, "gli unici documenti prodotti a supporto delle affermazioni" del parlamentare (un’informativa della Questura di Torino dell’8 novembre 2013) "non soltanto non confermano un coinvolgimento del figlio in attività illegali del tipo delineato nel pezzo pubblicato, ma parrebbero bensì condurre ad escludere il fondamento della stessa circostanza del viaggio". "Totale" è dunque "l’assenza di prova in ordine alla veridicità delle gravi accuse" affermate "invero con stupefacente disinvoltura", sicché - rileva il giudice Sergio Pochettino - "le connotazioni negative riferite alle convinzioni ed all’attività del figlio si palesano chiaramente strumentali a sminuire la credibilità e l’autorevolezza delle opinioni contrarie alla Tav ripetutamente e pubblicamente espresse dal padre". caso ruby. Interessante anche la motivazione della sentenza civile che a Brescia ha riconosciuto 140.000 euro a due giudici del processo Ruby di primo grado che avevano fatto causa a Piero Ostellino per alcuni articoli del 2013. "Dire che un giudice ha usato la propria funzione istituzionale per perseguire finalità "rivoluzionarie" e quindi eversive - premette la sentenza scritta da Elisabetta Sampaolesi - equivale a dire che quel giudice era in evidente malafede e aveva agito con la piena volontà di nuocere all’imputato": non si può dire? Certo che si può dire, se lo si ritiene, ma a condizione di "darne rigorosamente prova": perché qui non si è più nel campo di una questione di libertà di pensiero, ma di "un fatto svincolato dalla manifestazione di un’opinione personale (sia pure aspra e pungente) di dissenso da una sentenza". E invece nel caso concreto "nessuna prova è stata fornita al riguardo, sicché deve ritenersi che il giornalista abbia posto in essere una vera e propria "aggressione" dei giudici del caso Ruby, travalicando i limiti della critica lecita". Legge Pinto. Risarcimento anche quando non c’è l’istanza di prelievo di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2016 Corte Ue - Sentenza 25 febbraio 2016. Un processo amministrativo durato oltre 18 anni. E oneri di carattere procedurale che bloccano la liquidazione dell’indennizzo in base alla legge Pinto. Un mix di fattori che hanno portato a una condanna all’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Con la sentenza Olivieri e altri depositata ieri, Strasburgo non solo ha, ancora una volta, accertato la violazione dell’articolo 6 della Convenzione che assicura la durata ragionevole del processo, ma ha anche considerato violato l’articolo 13, che garantisce il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva. A rivolgersi alla Corte erano stati alcuni impiegati di un Comune che avevano chiesto, nel 1990, al Tar della Campania una correzione nel calcolo degli anni di servizio. Nel 2008 il Tar aveva chiesto ai ricorrenti di presentare una nuova domanda di fissazione dell’udienza. Al tempo stesso le parti, senza dubbio vittime di un processo troppo lungo, avevano presentato un ricorso per ottenere un indennizzo in base alla legge n. 89/2001 (la cosiddetta legge Pinto). Tuttavia, poiché non avevano depositato l’istanza di prelievo, la richiesta era stata dichiarata irricevibile, conclusione confermata dalla Cassazione. Di qui l’azione alla Cedu, che ha dato ragione ai ricorrenti. Nessun dubbio circa la violazione dell’articolo 6, tenendo conto che il procedimento amministrativo è durato 18 anni. Per quanto riguarda la legge Pinto e le condizioni di ricevibilità inserite con la legge 133/2008, la Corte constata che, in materia di procedimenti amministrativi, il presidente del Tar, a seguito della domanda di fissazione d’urgenza (istanza di prelievo), ha una semplice facoltà di fissare la data. Non solo. Per la Corte, la legislazione nazionale non ha stabilito criteri specifici per rigettare o accogliere le domande. Respinta poi la tesi del Governo secondo cui il sistema italiano funzionale all’accelerazione del processo amministrativo sarebbe analogo a quello utilizzato in altri Stati. Non solo l’Italia non ha fornito esempi, ma - anche a guardare la durata dei procedimenti amministrativi dopo la presentazione dell’istanza di prelievo - si evince che non si sono verificate accelerazioni in ogni caso. Di qui la conclusione che l’istanza di prelievo non ha un effetto significativo sulla durata del procedimento. Classificato il meccanismo come aleatorio, tenendo conto che i ricorrenti già vittime di processi lunghi sono gravati da ulteriori oneri e che la domanda ex lege Pinto è automaticamente respinta per la mancanza dell’istanza di prelievo, Strasburgo ha condannato l’Italia. Mancano - scrive la Corte - malgrado alcune modifiche legislative, rimedi effettivi per la durata eccessiva dei processi amministrativi. A ciascuno dei nove ricorrenti, la Corte ha concesso un indennizzo per i danni non patrimoniali pari a 22mila euro. Atti pubblicati, niente danno ai privati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 3727/2016. Nessun risarcimento alle parti per la pubblicazione arbitraria degli atti di un procedimento penale. Infatti, l’articolo 684 del Codice, che sanziona questa condotta, ha come obiettivo esclusivo l’interesse dello Stato al corretto funzionamento dell’attività giudiziaria. Il privato non è quindi legittimato a richieste di indennizzo legate alla trasgressione di questa sola norma. La Cassazione ha così respinto le richieste di Mediaset nel confronti del quotidiano La Repubblica, che il 23 marzo 2005 aveva pubblicato un articolo dal titolo "Ora il dovere di fare chiarezza", in cui si traeva spunto dall’avviso di conclusione indagini della Procura di Milano sulla presunta frode fiscale nella compravendita di diritti televisivi commessa dai vertici della società fondata dall’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Mediaset aveva chiesto la condanna dell’editrice, il Gruppo editoriale L’Espresso, dell’allora direttore della testata, Ezio Mauro, e dell’autore dell’articolo, Giuseppe D’Avanzo, al risarcimento dei danni subiti, effetto della violazione sia delle norme sulla privacy sia dell’articolo 684 del Codice penale. Su quest’ultimo punto si sono concentrate le Sezioni unite civili, con la sentenza n. 3727 depositata ieri, che ha sposato una tesi sinora minoritaria in Cassazione. La pronuncia dà infatti conto dell’indirizzo prevalente, che individua nell’articolo 684 un reato di natura pluri-offensiva, diretto a tutelare nella fase istruttoria dignità e reputazione di tutti i partecipanti al processo e non solo l’interesse dello Stato al funzionamento della giustizia. Le Sezioni unite invece ritengono che, in assenza di un’espressa violazione a riservatezza e reputazione, nulla possano chiedere le parti del procedimento. In questo senso è determinante l’articolo 114 del Codice di procedura penale, che consente sempre la pubblicazione degli atti non più coperti da segreto. Negando la riproduzione testuale, ma permettendo sintesi o parafrasi che ne divulghino il contenuto, il legislatore, osservano le Sezioni unite, ha fatto il massimo possibile per conciliare impianto accusatorio e diritto di informare e di essere informati. "La scelta operata dal legislatore nel 1988 - scrivono le Sezioni unite - si rivela tuttavia priva di senso ove la si voglia ritenere preordinata a tutelare anche la dignità e la reputazione dei soggetti che, in varia guisa, partecipano al processo. Non si vede, invero, come siffatti beni possano essere conculcati dalla riproduzione testuale degli atti processuali più che dalla esplicitazione del loro contenuto, che mette in ogni caso sulla piazza vicende personali della parte di volta in volta interessata". Ma le Sezioni unite fanno anche un passo ulteriore, favorendo la cronaca giudiziaria, Ritengono infatti legittima la pubblicazione di atti non più coperti da segreto secondo una valutazione da effettuare caso per caso dal giudice di merito e certo nel segno della "modica quantità". Di contro è infondato l’orientamento più rigorista, nel segno di un divieto assoluto di pubblicazione, senza eccezioni. Per le Sezioni unite, infatti, una riproduzione comunque limitata si presta comunque a essere valutata nel giudizio di idoneità lesiva della condotta, tenendo presente oltretutto la nuova causa di non punibilità per tenuità del fatto in ambito penale e, in quello civile, l’irrisarcibilità del danno patrimoniale di lieve entità. Sì al sequestro del conto con delega a operare di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 7553/2016. È legittimo il sequestro preventivo di un conto corrente di una società estranea al reato in cui l’indagato ha solo una delega a operare senza limiti di importi, poiché rappresenta espressione di disponibilità. Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza n. 7553 di ieri. Il Gip del Tribunale aveva disposto il sequestro preventivo per equivalente nei confronti di una contribuente anche su un conto corrente bancario intestato a una società terza estranea ai fatti delittuosi sul quale l’indagata aveva una delega a operare. Il Tribunale del riesame aveva confermato il provvedimento, affermando che ai fini della confisca per equivalente era sufficiente la disponibilità fattuale in capo all’indagato. La società titolare del conto ha proposto ricorso per Cassazione, lamentando che la semplice esistenza di una delega, senza alcuna precisazione agli atti del suo concreto contenuto, era insufficiente per fondare la misura. La Cassazione, respingendo il ricorso, ha precisato che la titolarità di una delega a operare su un conto intestato ad altri configura l’ipotesi di disponibilità richiesta dalla norma ai fini dell’ammissibilità del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente. Ciò a maggior ragione, nell’ipotesi in cui la delega non preveda limitazione, nel senso che il delegato è autorizzato a operare incondizionatamente su tale conto corrente Ricorso straordinario per errore di fatto Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2016 Impugnazioni - Ricorso in Cassazione - Ricorso straordinario per errore di fatto - Imputato condannato solo agli effetti civili - Legittimazione. È legittimato alla proposizione del ricorso straordinario, a norma dell’articolo 625-bis, cod. roc. pen., anche l’imputato condannato al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile, il quale prospetti un errore di fatto nella decisione della Corte di cassazione relativamente al capo concernente le statuizioni civili, a condizione che la pronuncia abbia un contenuto specificamente idoneo a radicare, in capo al ricorrente, la qualifica soggettiva di "condannato". • Corte cassazione, sezione III, ordinanza 10 novembre 2015 n. 45031. Impugnazioni - Ricorso in Cassazione - Ricorso straordinario per errore di fatto - Persona offesa - Legittimazione - Esclusione. Il ricorso straordinario per errore di fatto è consentito esclusivamente in favore del condannato poiché tale rimedio è esperibile contro una decisione della Corte di cassazione solo quando questa, rigettando o dichiarando inammissibile il ricorso, renda definitiva una sentenza di condanna, sicché la persona offesa è soggetto non legittimato a proporre tale impugnazione. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 3 gennaio 2014 n. 91. Impugnazioni - Ricorso in Cassazione - Ricorso straordinario per errore di fatto - Imputato condannato solo agli effetti civili - Legittimazione - Sussistenza. È legittimato alla proposizione del ricorso straordinario, a norma dell’articolo 625 -bis, cod. proc. pen., anche l’imputato che risulti condannato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, per errore di fatto prodottosi nella decisione della Corte di cassazione. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 9 luglio 2010 n. 26485. Impugnazioni - Ricorso in Cassazione - Ricorso straordinario per errore materiale o di fatto - Decisioni avverso le quali è ammesso ricorrere. È inammissibile il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto avverso un’ordinanza della Corte di cassazione che ha dichiarato l’inammissibilità’ di un ricorso proposto dall’imputato nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere per essere il reato estinto per prescrizione del reato, essendo il citato rimedio previsto unicamente a favore del condannato. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 10 luglio 2008 n. 23150. Perché non ho votato una legge monca di Luigi Manconi (Senatore Pd) Il Manifesto, 26 febbraio 2016 Non ho partecipato al voto sulla questione di fiducia, posta dal governo sul disegno di legge Cirinnà. Questo è il motivo. Un provvedimento che aveva come motivo ispiratore il principio di non discriminazione rischia di introdurre, con lo stralcio della norma sulle adozioni, un’illegittima disparità di trattamento. Non tanto e non solo tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali, quanto tra figli adottandi di coppie eterosessuali e di coppie omosessuali. Ritengo, cioè, che dallo stralcio della norma sulle adozioni derivi una legge monca, tale da neutralizzare il valore profondo dell’unione civile e ridurla a mero sistema di garanzie economiche e sociali: un contratto privato. E ciò in cambio della rinuncia al suo riconoscimento giuridico-morale. Il che risulta confermato dalla cancellazione, nel testo approvato, del "dovere di fedeltà", quasi che venisse esclusa la dimensione affettiva del rapporto. Una disciplina che riconosca le unioni civili tra persone dello stesso sesso avrebbe dovuto rispondere, appunto, al principio di non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale, come chiarito anche dalla Corte europea dei diritti umani. Questo vincolo impone, tra l’altro, di applicare la disciplina prevista per l’adozione del figlio del partner a prescindere dall’orientamento sessuale di quest’ultimo, valutandone esclusivamente l’idoneità a svolgere la funzione genitoriale e la qualità del legame stabilito con il bambino, a tutela del superiore interesse di quest’ultimo. È quanto ha riconosciuto la giurisprudenza, negando che il carattere omosessuale della coppia possa di per sé determinare alcun pregiudizio alla qualità delle relazioni instaurate con il minore e, quindi, rappresentare un elemento ostativo all’applicazione della disciplina generale. Chi abbia instaurato con il minore un legame importante, in virtù della convivenza con l’altro genitore, non può essere considerato, insomma, al pari di qualunque altro estraneo, solo perché omosessuale. La norma stralciata del disegno di legge si limitava a rendere diritto positivo quanto la giurisprudenza prevalente ha già riconosciuto. Espungerla dal testo ha significato demandare ancora una volta alla mutevolezza degli orientamenti giurisprudenziali il riconoscimento del diritto del minore a veder legittimato un rapporto essenziale per la sua crescita, sottraendolo al limbo giuridico che altrimenti lo caratterizzerebbe. Si è trattato, in altre parole, di una scelta conservatrice, che ha subordinato il superiore interesse del bambino a una presunzione, indimostrata e discriminatoria, di inidoneità della persona omosessuale a crescere un figlio. E non è nemmeno ragionevole ipotizzare che, negando l’adozione coparentale, si ottenga il risultato non voluto di disincentivare la surrogazione per altri. Anche a non distinguere i casi, tutti particolari, della surrogazione per mera gestazione (in cui gli ovuli della madre sono impiantati nell’utero altrui, così da mantenere il legame genetico) e della surrogazione altruistica (che esclude ogni possibile sfruttamento della gestante), si può davvero negare al bimbo già nato da gestazione per altri il diritto al riconoscimento del rapporto con il genitore "sociale"? Queste alcune delle questioni che la normativa approvata ignora o liquida sbrigativamente e negativamente. Ed è la ragione per la quale che non ho sostenuto il disegno di legge Cirinnà nella sua nuova versione e non ho votato la fiducia. Si aggiunga ciò che in apparenza può sembrare un dettaglio: dal testo, come ho anticipato, è stato espunto il riferimento all’"obbligo di fedeltà" perché, si è detto, assimilerebbe le unioni civili all’istituto del matrimonio. Qui davvero lo spirito vacilla. È chiaro che emerge un rimosso particolarmente cupo e ingombrante. Un conto sarebbe stato eliminare l’obbligo di fedeltà per qualunque vincolo di coppia, un conto ben diverso è cancellarlo per le sole coppie omosessuali. Comunque la si metta, e qualunque affinità col matrimonio possa paventarsi, dietro c’è un pregiudizio grande come una casa: l’omosessuale è considerato, per natura e vocazione, persona dissoluta ("tan’è vero che è omosessuale"), incapace di impegno reciproco, monogamia e, dunque, fedeltà. Un porcellone, insomma (due o più porcelloni) cui attribuire alcune garanzie economiche e sociali, ma non certamente il riconoscimento giuridico-morale di un’unione civile, dotata di pienezza di diritti e di pari dignità. Non si avverte, in ciò, l’eco di una irriducibile omofobia? Liguria: Ferrando (Pd) "approdata in Commissione pdl per l’istituzione del Garante dei detenuti" Riviera24.it, 26 febbraio 2016 Figura fondamentale per far rispettare i dettami dell’articolo 27 della Costituzione. "Anche la Liguria istituisca un garante per i diritti dei detenuti". A chiederlo, con una proposta di legge presentata nei mesi scorsi e oggi approdata in Commissione I, è il consigliere regionale del Partito Democratico e primo firmatario Valter Ferrando. "Il Pd con questa pdl - sottolinea Ferrando - è il primo a chiedere la costituzione di un organismo che, sul modello delle amministrazioni indipendenti, vigili e promuova il rispetto dei diritti fondamentali delle persone che si trovano soggette a restrizione della libertà personale, per assicurare il rispetto dei principi della Costituzione italiana e delle Convenzioni di Strasburgo e New York. Una condizione indispensabile, a nostro avviso, per assicurare il rispetto dei principi democratici dell’ordinamento nazionale, comunitario e internazionale e promuovere l’attività rieducativa dei carcerati, favorendo il loro reinserimento nella società, una volta espiata la pena. Oggi in Commissione anche Pastorino, capogruppo di Rete a Sinistra, ha presentato una proposta analoga: l’idea è quella di arrivare a una sintesi delle due pdl, coinvolgendo i consiglieri regionali di tutti gli schieramenti". A livello statale, precisa il consigliere regionale del Pd, "è stata recentemente istituita la figura del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, mentre a livello regionale già tredici Regioni hanno istituito per legge un soggetto analogo. Anche la Liguria deve fare questo importante passo avanti di civiltà". Secondo Ferrando: "è necessario che la nostra Regione si doti di strumenti propri per accertarsi delle condizioni dei detenuti, in modo particolare per le materie di propria competenza come sanità, lavoro e formazione". Nello specifico la proposta di legge presentata dal Pd prevede di istituire la figura del Garante regionale presso il Consiglio regionale della Liguria, dando vita a "un organismo di garanzia che non intenda sostituirsi alle competenti autorità giurisdizionali e amministrative, ma che operi in raccordo con questi soggetti. Il nostro obiettivo - precisa Ferrando - è la leale collaborazione tra i vari organismi, con la finalità di segnalare irregolarità, disfunzioni, ritardi o manifeste violazione dei diritti di tali persone". "Questa proposta di legge - sottolinea il consigliere regionale del Partito Democratico -non riguarda soltanto i detenuti, ma tutto il sistema carcerario". "Il Garante - spiega Ferrando - vigilerà anche sulle condizioni di lavoro della polizia penitenziaria, segnalando eventuali sofferenze e problemi che interessano in prima persona gli agenti che lavorano all’interno delle carceri". "L’attività di questa figura di garanzia, inoltre, - aggiunge il consigliere del Pd - "deve essere estesa anche ad altri tipi di persone soggette alle restrizione della libertà personale, come per esempio, i pazienti psichiatrici sottoposti a Tso, con conseguente ricovero coattivo". Per assicurare le caratteristiche di indipendenza e autonomia del Garante, la proposta di legge prevede un meccanismo di elezione analogo a quello del Difensore Civico regionale, richiedendo per la sua nomina una maggioranza particolarmente qualificata e svincolando la durata del suo mandato a quella della legislatura. "La pdl - continua Ferrando - individua in modo preciso competenze e poteri del Garante. Fra questi spicca la possibilità di effettuare sopralluoghi e visite nei diversi istituti carcerari, sempre in collaborazione con le autorità". "In particolare sono due le modalità di intervento prevista dal Garante regionale: la prima - dice Ferrando - riguarda irregolarità, disfunzioni o ritardi addebitabili al sistema dell’amministrazione regionale, che può condurre a un ‘invitò formale rivolto agli uffici regionali o agli altri enti affinché vengano rimosse le irregolarità; la seconda invece riguarda l’attività di vigilanza per la prevenzione degli abusi o la violazione di diritti fondamentali delle persone". "Sotto tale profilo - conclude il consigliere del Pd - appaiono fondamentali il potere di referto e quello di segnalazione o di richiesta di intervento diretto alle competenti autorità, anche internazionali". Calabria: assistenza sanitaria nelle carceri, il Sen. Molinari e i Radicali contro la Regione di Maria Valentina Attinà ntacalabria.it, 26 febbraio 2016 "I detenuti e gli internati ristretti negli Istituti Penitenziari calabresi hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, di avere garantito dalla Regione Calabria, il diritto alla tutela della propria salute fisica e psichica con la erogazione di prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate". Lo sostiene l’Avvocato Francesco Molinari, Senatore della Repubblica (Gruppo Misto) e Presidente dell’Associazione Calabria Terra Libera che unitamente ad Emilio Quintieri e Valentina Moretti, esponenti dei Radicali Italiani, sta effettuando una serie di visite ispettive negli stabilimenti penitenziari calabresi per rendersi conto anche della grave compressione del diritto alla salute per i detenuti, causata dalle inadempienze della Regione Calabria. A tal proposito, proprio di recente, il Senatore Molinari, dopo una ispezione alla cittadella giudiziaria minorile di Catanzaro, aveva denunciato al Governo Renzi la mancata istituzione di Comunità Psichiatriche Minorili in Calabria. "Nei giorni scorsi - informano - con una nuova Interrogazione a risposta scritta n. 4-05333 del 23-02-2016 indirizzata ai Ministri della Giustizia Andrea Orlando, della Salute Beatrice Lorenzin e per gli Affari Regionali e le Autonomie Enrico Costa, firmata dai Senatori Francesco Molinari, Giuseppe Vacciano, Maria Mussini, Ivana Simeoni e Cristina De Pietro (Gruppo Misto), sono state sollevate ulteriori problematiche che, in parte, sono state già risolte come ad esempio la nomina del Commissario ad acta On. Franco Corleone per provvedere in via sostitutiva in luogo della Regione Calabria, alla realizzazione del programma approvato dal Ministro della Salute con Decreto del 09/10/2013 per l’immediata apertura delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) di Girifalco in Provincia di Catanzaro e Santa Sofia d’Epiro in Provincia di Cosenza al fine di potervi ricoverare i pazienti aventi residenza in Calabria che, purtroppo e ancora oggi, si trovano illegittimamente internati presso gli ex Ospedali Psichiatrici Giudiziari nonché le persone sottoposte a misura di sicurezza provvisoria dall’Autorità Giudiziaria competente e quelle che, da tempo, si trovano ospitate presso le strutture sanitarie extra ospedaliere di altre Regioni d’Italia. Allo stato, infatti, presso l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto sono ancora internati 14 calabresi (13 uomini e 1 donna) ed altri 7 pazienti calabresi sono ospitati nelle Rems delle Regioni Lazio, Campania, Basilicata e Sicilia. Per quelli "ospitati" presso la Rems di Pisticci in Provincia di Matera (4), la Regione Calabria dal 1 maggio 2015 sino ad oggi ha pagato alla Regione Basilicata circa 500 mila euro ed ogni giorno che passa sono 1.000 euro in più. Altra problematica oggetto dell’atto di sindacato ispettivo parlamentare è quella relativa alla mancata apertura del Centro Diagnostico Terapeutico presso la Casa Circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro, che tra l’altro prevedeva che fosse ivi creata, al quarto piano, una Sezione destinata alla tutela intramuraria della salute mentale per detenuti per 8 posti ed una Sezione di Osservazione Psichiatrica per l’accertamento delle infermità psichiche per 5 posti dedicata a detenuti appartenenti al Circuito dell’Alta Sicurezza visto che quella dedicata ai detenuti del Circuito della Media Sicurezza è già attiva dal 2006 presso la Casa Circondariale "Giuseppe Panzera" di Reggio Calabria. L’Asp di Catanzaro avrebbe già posto in essere tutti gli adempimenti necessari per la ristrutturazione dei locali, l’implementazione tecnologica delle attrezzature ed il rinnovo degli arredi spendendo centinaia di migliaia di euro ricevuti da specifici fondi ministeriali. Ma, ad oggi, nonostante le sollecitazioni provenienti in particolar modo dal Movimento dei Radicali Italiani, nulla è cambiato: il Centro Diagnostico Terapeutico (Cdt) annesso al Carcere di Catanzaro continua ad esser chiuso e non funzionante, unitamente alle Sezioni anzidette che avrebbero dovuto essere istituite per contribuire alla riforma epocale del superamento degli Opg. e, secondo quanto risulta all’Avv. Molinari ed ai suoi colleghi Senatori, non può essere aperto a causa della mancanza delle figure professionali specifiche (Psichiatri, Psicologi, Neurologi, Tecnici della Riabilitazione Psichiatrica, Educatori professionali, etc.). che dovrebbero essere reclutate tramite procedura concorsuale pubblica. Tale questione, pur rappresentata dalla Regione Calabria, non avrebbe ricevuto alcuna risposta da parte del Ministero della Salute. Dalle recenti ispezioni effettuate da Molinari e da altre visite effettuate dai Radicali, autorizzati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, è emerso che negli Istituti Penitenziari della Calabria vi sono ristretti 513 detenuti con patologie psichiatriche. In conclusione, i Senatori Molinari, Vacciano, Mussini, Simeoni e De Pietro hanno chiesto al Governo Renzi di sapere se i Ministri siano a conoscenza dei fatti e se questi corrispondano al vero; se e quali provvedimenti intendano adottare, sollecitare e/o promuovere, affinché venga aperto al più presto il Centro Diagnostico Terapeutico presso la Casa Circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro, con la Sezione destinata alla tutela intramuraria della salute mentale e quella per l’osservazione psichiatrica per l’accertamento delle infermità psichiche dei detenuti, valutando, altresì, la richiesta di reclutamento di personale qualificato avanzata dalla Regione Calabria e concedendo la relativa autorizzazione per l’assunzione del personale; se l’istituenda Sezione destinata alla tutela intramuraria della salute mentale presso il Centro Diagnostico Terapeutico, sia sufficiente ad accogliere i numerosi detenuti affetti da problematiche di natura psichiatrica presenti in tutti gli Istituti Penitenziari della Regione Calabria e, in caso negativo, se non si ritenga opportuno istituire almeno nella Provincia di Cosenza (totalizzante 4 Istituti Penitenziari: 3 Case Circondariali ed 1 Casa di Reclusione), un analogo reparto a custodia attenuata prevalentemente sanitaria per ospitare detenuti affetti da infermità o minorazioni psichiche che, a causa delle loro condizioni, non possono essere sottoposti al regime degli istituti ordinari, ciò anche per armonizzare il principio di tutela della salute con quello della territorialità della pena così evitando l’allontanamento di tali soggetti dal nucleo familiare che, proprio nei momenti di maggior fragilità psicologica, potrebbe risultare ancor più destabilizzante e, contestualmente, per ridurre il costo e l’impiego di personale di Polizia Penitenziaria per le traduzioni che verrebbero evitate per i continui trasferimenti ristretti negli Istituti della Provincia di Cosenza presso la Casa Circondariale di Catanzaro nella quale, stando al programma della Regione Calabria, dovrebbe essere ubicata l’unica Sezione detentiva per detenuti con disturbi psichiatrici. All’Interrogazione Parlamentare è stato delegato a rispondere il Ministro della Giustizia Andrea Orlando". Lucca: giovane morto in cella, proseguono le indagini luccaindiretta.it, 26 febbraio 2016 Servirà tempo all’inchiesta aperta della procura per chiarire nel dettaglio le circostanze della morte del detenuto Domenico Chiodo, 30 anni, nato ad Acerra ma residente a Massa, trovato cadavere nella sua cella del San Giorgio ieri pomeriggio. Il giovane potrebbe essere stato ucciso da un malore provocato dalle inalazioni del gas della bomboletta aperta per accendere il fornellino da campeggio in dotazione ai detenuti. E mentre sul caso indagano i carabinieri delegati dalla procura, del fatto si è interessato anche il sindaco di Lucca, Alessandro Tambellini, che oggi ha contattato il direttore della casa circondariale Francesco Ruello e la garante dei detenuti Angela Mia Pisano, per assumere direttamente da loro le prime informazioni su quanto accaduto, in attesa che siano portate a termine tutte le indagini del caso. "Sono colpito dalla morte di questa giovane persona - ha detto il sindaco Alessandro Tambellini. Attendiamo la ricostruzione dell’accaduto per accertare le cause della morte di Domenico Chiodo. Purtroppo questo è un fatto che si aggiunge ad altri che succedono di frequente nelle carceri italiane; segno che il sistema carcerario del nostro Paese ha bisogno di un’ampia rivisitazione, se vogliamo che esso sia ambito di rieducazione come prevede la Costituzione". Il sindaco al direttore del carcere "colpito dalla morte del detenuto, si accerti la dinamica dei fatti" In relazione alla morte di Domenico Chiodo, detenuto nel carcere di San Giorgio, il sindaco nella giornata di oggi ha contattato il direttore della casa circondariale Francesco Ruello e la garante dei detenuti Angela Mia Pisano, per assumere direttamente da loro le prime informazioni su quanto accaduto, in attesa che siano portate a termine tutte le indagini del caso. "Sono colpito dalla morte di questa giovane persona - ha detto il sindaco Alessandro Tambellini. Attendiamo la ricostruzione dell’accaduto per accertare le cause della morte di Domenico Chiodo. Purtroppo questo è un fatto che si aggiunge ad altri che succedono di frequente nelle carceri italiane; segno che il sistema carcerario del nostro Paese ha bisogno di un’ampia rivisitazione, se vogliamo che esso sia ambito di rieducazione come prevede la Costituzione". Bari: il Cappellano "il carcere è una struttura obsoleta, andrebbe rifatto completamente" di Bruno Volpe Quotidiano di Bari, 26 febbraio 2016 Nel carcere di Bari, qualche giorno fa, si è consumato il suicidio di un detenuto di cinquant’anni. Un evento tragico, come sempre quando si spegne una vita traumaticamente. Dall’inizio dell’anno, è il quinto caso di suicidio nelle carceri italiane, un fatto intollerabile e incivile. Di questo parliamo col cappellano dell’istituto, frà Marcello Melacarne. Frà Marcello, qual è la causa di questi gesti estremi di autolesionismo? "Diciamo pure le cause, perché i motivi scatenanti sono molti e connessi tra loro. La più importante direi che è la disperazione, specialmente quando si medita sul futuro e sul giorno dell’uscita dal penitenziario. Il detenuto immagina che il suo reinserimento nel mondo sociale e lavorativo sarà assai complicato e cade in depressione. Poi ci sono i rapporti con la famiglia che, molte volte, non sempre certamente, si interrompono e allora si sente solo e abbandonato". Magari il sovraffollamento e le condizioni molte volte impossibili? "Oggi, almeno a Bari, non abbiamo una situazione drammatica di sovraffollamento, questo lo abbiamo superato, anche se i problemi rimangono molti. Il personale, tra mille difficoltà, lavora ottimamente e fa quello che può, ma in Italia dobbiamo riconoscere che una politica carceraria non si sta facendo. Indubbiamente, su tutto pesa la privazione della libertà e il fatto che i detenuti non hanno quelle comodità della casa". Che cosa non va? "Mi riferisco alla realtà di Bari perché di altre non ho conoscenza. Si tratta di un fabbricato obsoleto e per dirla tutta, andrebbe abbattuto e rifatto di sana pianta. Mancano gli spazi adeguati affinché i detenuti possano svolgere attività e diversivi anche stimolanti e così oziano tutto il giorno. Ozio e rimuginare sulle problematiche personali senza rivolgere la mente almeno per un poco ad altro, diventa una miscela esplosiva che conduce soggetti già deboli alla disperazione e forse al suicidio". Lei parlava dei rapporti con le famiglie, perché? "Ovviamente non generalizzo. Ma esistono casi nei quali le famiglie decidono di perdere volontariamente i contatti col detenuto, e questo pesa. Del resto gestire un carcerato è forse più complicato di un malato. Nei riguardi del detenuto pesa una sorta di condanna: nei hai combinate troppe, questo vale per i recidivi". Che ruolo ha il cappellano? "Molto importante per quello che può fare. Il cappellano parla, stimola, consiglia sia spiritualmente che socialmente". Volterra (Pi): il Garante regionale dei detenuti Corleone "mantenere impostazione risocializzante" Adnkronos, 26 febbraio 2016 Nella Casa di reclusione sono ospitati 141 detenuti di cui 46 stranieri, 19 sono gli ergastolani. "Quello di Volterra è un carcere unico nel suo genere, essendo situato in un luogo storico, nel Maschio della Fortezza, ma soprattutto non ha problemi di sovraffollamento, tanto che all’occorrenza potrebbero trovarvi posto un’altra ventina di persone. È un carcere risocializzante, dove si gioca la sfida del recupero di soggetti che hanno a carico grandi pene detentive. Per questo è un carcere da seguire con grande attenzione". Il garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone, si è espresso così al termine della visita che quest’oggi ha effettuato alla casa di reclusione di Volterra, dove sono ospitati 141 detenuti di cui 46 stranieri. A Volterra, a fronte di 19 ergastolani e di 28 persone che hanno da scontare una pena superiore a 24 anni, sono ben 13 coloro che lavorano dentro o fuori il carcere e tornano in cella alla sera, mentre altri 27 sono coloro che godono di permessi regolari. La casa penale, con sede in una parte della Fortezza medicea, ha celle piccole ma ben distribuite. Sue attività qualificanti sono il Teatro della Fortezza, le Cene galeotte, la Scuola polivalente interna che è aperta anche ai ragazzi della zona, la produzione di manufatti e tessuti artigianali. Corleone è stato accolto dalla direttrice del carcere, Maria Grazia Giampiccolo, che ha illustrato le caratteristiche della struttura e ha annunciato che è iniziato il restauro del Maschio. Tra gli obiettivi dell’amministrazione penitenziaria, secondo quanto emerso oggi, l’intenzione di migliorare i luoghi riservati ai colloqui ordinari e quella di allestire luoghi per l’affettività, nonché l’idea di realizzarvi il Teatro stabile di Volterra. "Si tratta di un carcere trattamentale, dove prevale l’ispirazione costituzionale di reinserimento del detenuto nella società e nel mondo del lavoro", ha detto Corleone. "Questa impostazione va mantenuta". E ancora: "Ho fatto presente che bisogna seguire i detenuti con attenzione e cura". Infine Corleone ha annunciato che porrà all’attenzione della Prefettura di Pisa la questione delle patenti di guida dei detenuti, che in base al codice della strada sono sospese o non a loro concesse in caso di acquisizione ex novo, dal momento che chi ha l’autorizzazione di poter lavorare fuori dal carcere, talvolta, può trovarsi in difficoltà con il datore di lavoro in quanto impossibilitato a muoversi in modo autonomo. Parma: rivolta nel carcere nel 2000, cinque ex detenuti condannati per "cattura di ostaggi" di Maria Chiara Perri La Repubblica, 26 febbraio 2016 Dopo ben quindici anni dai fatti la Corte d’Assise ha applicato a sorpresa una legge del 1985 contro il terrorismo internazionale: pene fino a 4 anni e mezzo. Sono stati condannati a pene fino a quattro anni e mezzo di reclusione per il reato di cattura di ostaggi cinque ex detenuti del penitenziario di via Burla che quindici anni fa scatenarono una rivolta per ottenere miglioramenti delle condizioni carcerarie o trasferimenti. La sentenza è stata pronunciata dalla Corte d’Assise di Parma, presieduta dal giudice Pasquale Pantalone. Erano le 11 di mattina del 15 gennaio del 2000 quando in una sezione nel penitenziario scoppiò una sommossa. Come in un film, appena finita l’ora d’aria un manipolo di quattro detenuti riuscì a prendere in ostaggio un agente della penitenziaria, prendendolo a pugni, e si impossessò del suo mazzo di chiavi per fare uscire di cella altri compagni. L’ingresso della sezione venne sbarrato con gli arredi, i detenuti si armarono di bastoni. Seguirono sei ore di trattative serrate: tenendo sotto sequestro l’agente, i carcerati chiedevano all’amministrazione penitenziaria l’accoglimento di alcune richieste come il permesso di fare telefonate, il trasferimento presso altre case circondariali, vitto migliore. Ore di tensione, durante le quali l’ostaggio sarebbe stato minacciato di venire buttato già dal tetto e tirato per il collo con la cravatta. La rivolta accese su Parma i riflettori della stampa nazionale. L’allarme rientrò verso le 17, dopo un blitz di una squadra antisommossa della penitenziaria che, segando le sbarre di un cancello, entrò nel braccio in cui si erano asserragliati 34 detenuti. Durante la trattativa, condotta anche dall’allora procuratore Giovanni Panebianco, venne promesso ai carcerati che le loro richieste sarebbero state accolte. I rivoltosi non fecero resistenza all’irruzione. L’agente sequestrato riportò alcune contusioni. Oggi, esattamente quindici anni dopo, si è chiuso il processo a carico del "nucleo duro", i detenuti accusati di aver dato il via alla sommossa: Roberto Caruso, Matteo Clemente, Cosimo Faniello, Yassine Ben Mlik e Ruben Roberto Tudela Ruiz. Cinque uomini dai 45 ai 63 anni dovevano rispondere a vario titolo di rapina (per la sottrazione delle chiavi all’agente) e del reato molto grave di sequestro di persona a scopo di estorsione. Un delitto che prevede la pena massima di trent’anni. Il procedimento è stato rimpallato per anni tra Bologna e Parma per ragioni di competenza territoriale. Nel 2014 ha preso il via il processo dibattimentale davanti alla Corte d’Assise del tribunale di Parma. Il pm Emanuela Podda aveva chiesto che il reato più grave fosse riqualificato in sequestro di persona semplice, punito con pene fino a 8 anni e oggi caduto in prescrizione. Solo per un imputato, Caruso, aveva chiesto la condanna a cinque anni per rapina. I legali difensori avevano chiesto l’assoluzione, o in subordine l’estinzione dei reati per intervenuta prescrizione. La decisione dei giudici ha sorpreso tutti: il reato di sequestro di persona è stato riqualificato in "cattura di ostaggi" ai sensi della legge 718 del 26 novembre 1985, che ratificava la convenzione internazionale atta a prevenire, reprimere e punire qualunque atto di cattura di ostaggi quale manifestazione del terrorismo. Si tratta di un reato pesante, che prevede pene dai venticinque ai trent’anni. Nel caso in specie, però, è stata applicata la fattispecie del fatto di lieve entità, punito con le stesse pene del reato di sequestro di persona semplice. Gli imputati, concesse le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti, se la sono "cavata" con una condanna piuttosto lieve rispetto al macigno che si poteva prospettare. D’altro canto, la speranza per tutti era la prescrizione. Roberto Caruso e Clemente Matteo sono stati condannati a quattro anni e mezzo di reclusione, Cosimo Faniello, Yassine Ben Mlik e Ruben Roberto Tutela Ruiz a quattro anni. Si prospetta un ricorso in appello, ma se la sentenza dovesse diventare definitiva per gli ex detenuti si riaprirebbero le porte del carcere dopo molti anni. All’epoca della rivolta erano finiti in via Burla per reati di droga o di assalto a furgoni blindati. Livorno: come a Gorgona, anche per Pianosa c’è l’idea di produrre vino con i detenuti di Luca Cellini agenziaimpress.it, 26 febbraio 2016 All’isola di Pianosa, "Frescobaldi, come già fatto per Gorgona, sta pensando di far coltivare circa 30 ettari per lo più a vite". Lo ha detto il garante dei detenuti toscani Franco Corleone, a margine di una visita al carcere di Porto Azzurro all’Isola d’Elba. Il garante ha ricordato che il penitenziario elbano conta 260 detenuti di cui 30 dislocati a Pianosa dove "collaborano con il Parco" naturale. Dopo il pregiato Gorgona, vino bianco realizzato da uve di vermentino e Ansonica da Frescobaldi insieme ai detenuti dell’omonima isola toscana, potrebbe dunque nascere un nuovo progetto enologico, a valenza sociale, laddove fino a pochi anni fa sorgeva il carcere di massima sicurezza. Rinnovamento a Pianosa "Posso finalmente dire che c’è aria di rinnovamento - ha aggiunto Corleone -. Dopo tante denunce, si vede la luce in fondo al tunnel. Ma non accontentiamoci dell’alba, bisogna vedere il sole. Dopo molti anni di inattività e di abbandono, questo carcere risorge con una progettualità molto ricca" ha rilevato Corleone ricordando, peraltro, che un tempo a Porto Azzurro si "respirava la riforma penitenziaria e si pubblicava un giornale intitolato la grande promessa". Il carcere conta 260 detenuti di cui 30 dislocati a Pianosa. "I progetti che a suo tempo furono indicati come essenziali - ha continuato il garante - cominciano a realizzarsi. La sala colloqui è stata riqualificata e sarà inaugurata nei prossimi giorni. Si sta lavorando ad un’area verde per i colloqui estivi, la falegnameria è di nuovo funzione e presto sarà utilizzata non solo per lavori interni al carcere. Si sono conclusi i lavori per la sala polivalente teatrale, la palestra è di nuovo agibile mentre la sala musica è quasi ultimata". Corleone ha sottolineato poi l’importanza di progetti per "avvicinare il carcere alla popolazione, come quello della pulizia delle strade a Rio d’Elba, svolto da sette detenuti. Il percorso iniziato è molto virtuoso - ha concluso -. Ci sono ancora molte cose da fare e sui cui lavorare. Primo fra tutti il servizio sanitario che va approfondito. Le cure odontoiatriche sono carenti e a Pianosa non c’è un presidio". Roma: carcere di Rebibbia; dal crimine alla laurea, quando il "recupero" avviene sui libri di Maria Cristina Fraddosio La Repubblica, 26 febbraio 2016 Si è svolto sabato 13 febbraio l’incontro tra gli studenti del reparto Alta Sicurezza della Casa circondariale di Rebibbia e l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Presente il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. "Finanziamenti bloccati. Abbiamo bisogno di libri", parola ai detenuti. Storie di uomini che hanno trascorso metà della loro esistenza dietro le sbarre. Ma uno spiraglio di rinascita, redenzione, metamorfosi è venuto dalle pagine di libri senza tempo, dai colori di una tela, dallo studio appassionato. Dalla possibilità di riscoprire la propria identità, usando quel tempo di attesa come una risorsa. Si è aperta sulle note di De Andrè una lunga mattinata di febbraio, che ha visto i detenuti del reparto G12 Alta Sicurezza della Casa circondariale di Rebibbia confrontarsi con l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, a cui sono iscritti. Proposte dal carcere. Nella penombra del teatro, lo stesso in cui è stato girato "Cesare deve morire" dei fratelli Taviani, hanno preso posto gli studenti esterni dell’Ateneo romano e i condannati all’ergastolo. Sul palco si sono succeduti vari interventi: prima le istituzioni rappresentate dal direttore del carcere, Mauro Mariani, dalla responsabile del reparto, Antonella Rasola, dal Garante nazionale per i diritti dei detenuti, Mauro Palma, e dal rettore Giuseppe Novelli, affiancato dai docenti Formica e Pierangeli impegnati nel progetto universitario Rebibbia-Tor Vergata. E poi la parola è passata ai detenuti laureandi. Numerose le proposte avanzate: disponibilità gratuita dei libri di testo, possibilità di discutere la tesi di laurea presso l’università, accesso a internet, apertura del penitenziario alla cittadinanza per mostre e spettacoli, abolizione del numero chiuso. E, non ultima, la richiesta che sia retribuito il servizio di tutoraggio esterno, generosamente garantito dagli studenti universitari. Ebbene sì, ciò che balza agli occhi dalle testimonianze degli studenti detenuti è la rete di solidarietà su cui si basa il diritto allo studio nei penitenziari italiani. Finanziamenti sospesi. La clemenza degli editori, la generosità dei docenti, che sono entrati in carcere con dispense e pdf, la dedizione degli studenti, dei ricercatori che li supportano nello studio. Del progetto di teledidattica, avviato nel 2006 dalla professoressa Formica, resta l’umanità, la crescita intellettuale e morale dei fruitori, la tessitura di rapporti interpersonali profondi. Ma i finanziamenti che avrebbero dovuto sostenere la didattica, ovvero le lezioni da proiettare, i libri di testo, il compenso per i tutor, sono sospesi da anni. Eppure, Serena D’Aruti, una delle volontarie che quotidianamente segue gli studenti detenuti, non intende arretrare: "Credo fermamente in quello che faccio. Combatto contro le barriere e vado oltre. Una possibilità nella vita bisogna darla a tutti". Lo stesso vale per la responsabile del progetto, Marina Formica: "L’università deve dialogare con il territorio. La cultura può liberare". Pochi in Italia i detenuti-studenti: 413 uomini e 15 donne. La cultura, in casi come questi, ha del miracoloso, offre uno squarcio che ferisce, perché - come ha detto uno dei detenuti - "fa pensare a ciò che potevo essere e non sono stato", che libera, che apre orizzonti, che concede un’altra possibilità. Purtroppo, però, non sono così numerosi quelli che intraprendono un percorso universitario: i dati del Ministero della Giustizia riportano per il 2014 un numero di iscritti pari a 413 detenuti, 34 dei quali appartengono a Tor Vergata (in questo caso specifico, esentasse). Le donne, invece, sono soltanto 15 in tutto il territorio nazionale. Fa discutere anche il sistema penitenziario che interviene con trasferimenti improvvisi anche quando il detenuto è impegnato in un percorso di studi, nonostante, per mezzo della cultura, come si legge nel Rapporto finale degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, "al soggetto in detenzione è data la possibilità concreta di misurarsi con il proprio tempo non in meri termini di sottrazione di esperienze bensì di costruzione di esperienze altre". Antigone e Garante. "Lo studio è una forma di emancipazione e aiuta a non commettere altri reati", fa sapere Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone per i diritti e le garanzie nel sistema penale. E aggiunge: "In ogni carcere ci dovrebbe essere una sezione universitaria. Non sarebbe costoso, servirebbe soltanto una regia centrale che coordini". "I diritti vanno presi sul serio", ha argomentato invece Palma, il Garante nazionale insediatosi da poco. Dalla citazione di Bobbio ne deriva che "non c’è nulla di peggio di un sistema che enuncia diritti e non sa tutelarli". "Riconoscimento, equivalenza e continuità" sono - a suo avviso - gli aspetti che permettono di "costruire realmente un sistema di detenzione che sappia tramutare dei principi in pratiche concrete". Il cambiamento possibile. Dunque a Rebibbia si ha la prova concreta che una trasformazione del sé è possibile, anche quando si vive in un contesto carcerario, a partire dalla cura delle parole che li rende anzitutto più consci della differenza vigente tra "colpevole" e "condannato". Una trasformazione che richiede tempo, dolore, confronto. Paradossalmente la mancanza di mezzi ha favorito la creazione di rapporti umani, sollecitati dalla ricerca di bellezza in un luogo desolato e avvilente. "Ho cercato di mantenere un rapporto uomo a uomo". È questa la linea adottata dal docente di letteratura italiana, Fabio Pierangeli. Attraverso questo tipo di atteggiamento, in carcere si sono formati romanzieri, giuristi, letterati. E dunque, per dirla con le parole di Gramsci, è bene ricordare come la cultura "riempia le giornate e dia ancora un certo sapore alla vita". Mondragone (Ce): incontro "Il senso della colpa: salute mentale, integrazione e misure di sicurezza" pupia.tv, 26 febbraio 2016 Oggi, venerdì 26 febbraio, a partire dalle ore 9, nella Sala Conferenze "Mario Pacifico" del Museo Civico Archeologico "Biagio Greco" si terrà l’incontro pubblico "Il Senso della Colpa: Salute Mentale, Integrazione e Misure di Sicurezza. L’Esperienza di Mondragone". Il seminario di studi, frutto della collaborazione tra l’Amministrazione comunale di Mondragone e l’Asl di Caserta, vedrà l’intervento per l’apertura dei lavori del Sindaco Giovanni Schiappa e del Direttore Uosm23 Giuseppe Ortano. Alle ore 9.30, ci sarà la relazione del Magistrato del Tribunale di Napoli Nicola Graziano, sull’applicazione della L.81/2014. Alle ore 10.30 si parlerà di "Una Rems non Rems": l’esperienza di Mondragone. Interverranno diverse professionalità, come l’educatore R.Tipaldi, il tecnico della riabilitazione D.Fabrazzo, gli psicologi M.Criscitiello e M.G. Gleijeses, gli infermieri C.Forte, A.Contestabile, C.Di Lauro, R.Maina, G.Capuano oltre a V.De Francesco. Dopo il Coffee Break delle 11, alle ore 11.30, si terrà la tavola rotonda "I Sindaci: la Responsabilità istituzionale nella chiusura degli Opg". Interverranno il Sindaco di Mondragone Giovanni Schiappa, il sindaco di Calvi, Risorta Giovanni Marrocco, il sindaco di Vairano Patenora, Benedetto Cantelmo, ed il sindaco di Roccamonfina, Anna Filomena De Simone. Conducono il dibattito Giuseppe Nese e Raffaello Riardo. Alle ore 13 le conclusioni di Giuseppe Nese, Raffaello Riardo e del sindaco Schiappa. "Sarà un seminario - commenta il sindaco Schiappa - utile ad analizzare al meglio una tematica molto complessa, che merita la massima attenzione da parte delle istituzioni. Sotto questo punto di vista - sottolinea il sindaco - c’è massima collaborazione con l’Asl Caserta, con la quale abbiamo posto in essere questo incontro di studi aperto a tutta la cittadinanza. La nostra Nazione - continua Schiappa - ha sicuramente fatto dei passi in avanti notevoli già a partire dalla Legge Basaglia, che alla fine degli anni 80 abolì i vecchi manicomi, dei luoghi indicibili con evidenti violazioni dei diritti umani, e favorì la nascita degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari". "Il bilanciamento tra la necessità di difendersi dall’infermo di mente pericoloso - spiega il primo cittadino - e la profonda ingiustizia nel punire chi non è capace di scegliere, rappresenta uno dei più grandi nodi irrisolti. Ad oggi, con la nascita delle Rems in luogo degli Opg, ci troviamo dinanzi alle opportune riflessioni - conclude Giovanni Schiappa - che ancor di più possono fornire risposte positive e convincenti". Il populismo d’Occidente che cancella i moderati di Ezio Mauro La Repubblica, 26 febbraio 2016 In Europa come in Usa un vento radicale piega la destra moderna. Due parole faticano oggi a farsi largo in Occidente: moderato e conservatore. Nella semplificazione politica e giornalistica, esprimono ormai lo stesso concetto, una destra moderna, non reazionaria, con il senso delle istituzioni e il sentimento della tradizione. In un Paese sfortunato come il nostro, questa destra manca da sempre e il suo vuoto è stato riempito parzialmente per decenni dal post-fascismo, dal doroteismo democristiano, dal populismo berlusconiano, così com’è mancata simmetricamente per decenni una forte sinistra di governo, occidentale e riformista, che ha poi faticosamente preso corpo (ma non ancora anima) con il Pd. Nelle altre democrazie europee, e negli Stati Uniti, quella tradizione politica moderata esiste e quella forma-partito conservatrice anche. Soltanto che ovunque, in Europa come in America, una spinta radicale di destra oggi piega i moderati come canne al vento: o li sfida direttamente con candidati estremi o impone l’agenda politica con i suoi temi e le sue ossessioni, o si costituisce in fronda interna autorizzata e organizzata, facendo saltare la cornice comune che per un secolo ha tenuto insieme i vecchi partiti. E in ogni caso, ovunque esercita un’egemonia negli stili e nei linguaggi, rendendo i moderati gregari riluttanti degli estremisti. E creando una nuova creatura ideologica imperniata sull’alleanza tra Dio e il capitale, nazione e reazione, suolo, sangue e frontiera, in un Paese immaginario che parla la neo-lingua del politicamente scorretto. Una neo-lingua per una neo-destra, appena nata nella culla dell’antipolitica e della crisi economica più lunga del secolo. Proprio la fine delle paure del primo Novecento, con i tabù del totalitarismo spiega questa emersione improvvisa. Ritenendo la democrazia una conquista ormai consolidata al punto da essere usurata, oggi ci si prende la libertà di forzarne il confine, la forma e la sostanza, a patto di mantenerne intatta e lucida la superficie, sempre più sottile. Si disprezzano le istituzioni puntando a comandarle più che a guidarle, riducendole così a puro strumento dell’ideologia. Viene meno infatti anche il sentimento costituzionale, il rispetto naturale delle regole fondamentali e dei principi di legittimità democratica a cui si ispiravano, come se fossero fenomeni transitori, legati al ciclo di una o due generazioni, quelle appunto novecentesche. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, con una rincorsa estrema a scavalcare il limite che ogni volta si sposta più avanti, perché c’è sempre qualcuno pronto a non riconoscerlo. Non avere un limite, è infatti il primo comandamento scorretto. Così l’Europa si sta spezzando ovunque, con Bruxelles che patteggia e rattoppa nelle varie capitali, dove ognuno ha capito che può alzare il prezzo dell’Unione a suo piacimento. Con Cameron che contratta fino all’ultimo il suo no al Brexit mentre indice il referendum, e deve però fronteggiare in casa la ribellione di un terzo dei suoi ministri e del sindaco della città più cosmopolita del continente, Londra, schierato contro l’Europa in un radicalismo conservatore che è già una piattaforma della nuova destra. E se l’Unione deve fronteggiare la ribellione di Vienna, che vuole limitare l’ingresso dei rifugiati nel Paese, alla seconda destra austriaca questo non basta: l’area xenofoba di Heinz-Christian Strache continua infatti a crescere nei sondaggi e chiede un no deciso all’Europa, amicizia con Putin, tolleranza zero contro i migranti. In Polonia la Chiesa appoggia i nazionalisti euroscettici e clericali di "Diritto e Giustizia" guidati da Jaroslaw Kaczynski in una politica che ha paralizzato la Corte costituzionale, ha epurato radio e tv, controlla e censura internet. L’ideologo e stratega di questa radicalizzazione a destra è naturalmente Viktor Orbàn, il premier ungherese al potere dal 2010 col suo partito nazional-conservatore che dopo aver normalizzato le magistrature e i media ha costruito il suo Muro e ora vuole estenderlo al confine romeno: ma intanto a destra di questa destra sta già prosperando il partito estremo Jòbbik, apertamente antisemita e nostalgico. Crescono i populisti in tutti e cinque i Paesi della Comunità nordica, con un partito anti-immigrati e anti-Ue che vola in Svezia nonostante un’economia che segna un + 3,5 per cento, gli ultra-conservatori che sono partner di governo in Norvegia e in Finlandia, gli xenofobi danesi all’opposizione, ma forti del 21 per cento. Resta la Germania, dove la crisi dell’immigrazione e la polemica contro la Merkel ha ridato fiato al partito Afd, che opponendosi agli stranieri e a ogni trasferimento di sovranità sfiora nei sondaggi il 12 per cento. E infine c’è l’aperta rivendicazione di Marine Le Pen per guidare la Francia dall’Eliseo col suo partito di eredità post-fascista e di pratica antieuropea, che costringe i repubblicani di Sarkozy sulla difensiva. Se si aggiunge il fenomeno Trump, ormai apertamente in grado di terremotare non solo le primarie ma il sistema politico americano, il quadro è completo. C’è poi, ad aggravare la situazione, quel fenomeno particolare e non ancora indagato che potremmo chiamare la "sinistra mimetica". Movimenti nati a sinistra, o con base sociale in gran parte a sinistra, che mutuano modi e linguaggi dalla destra più radicale per rimanere sulla cresta dell’onda securitaria e islamofoba, sperando di lucrare una quota del dividendo elettorale della neo-destra. È il caso del presidente xenofobo e russofilo della Repubblica Ceca, Milos Zeman che nasce di sinistra, del premier socialdemocratico di Slovacchia Robert Fico: ma anche, com’è evidente, del Movimento 5 Stelle in Italia, con le movenze di sinistra, l’elettorato composito e coltivato trasversalmente, e una chiara predicazione antieuropea e anti-euro. Che cosa spiega questo slittamento che restringe l’area moderata in tutto l’Occidente? La spiegazione economico-sociale poggia sulla crisi, che partita come fenomeno economico-finanziario ha finito per corrodere tutta l’impalcatura intellettuale, politica e istituzionale della democrazia materiale che ci eravamo costruiti nel dopoguerra per proteggere la nostra vita in comune. Scopriamo improvvisamente, in questi ultimi anni, che il meccanismo democratico da solo non ci protegge. Anzi, potremmo dire che la scoperta è più radicale: la democrazia non basta a se stessa. Nasce il disincanto della rappresentanza, la nuova solitudine repubblicana. Tutto diventa fragile e transitorio, nulla merita un investimento a lungo termine, dunque la stessa politica tradizionale finisce fuorigioco perché cerchiamo risposte individuali a problemi collettivi. C’è un elemento in più. Prima della crisi il ceto medio emergente aveva tentato di diventare soggetto politico mettendosi in proprio, autonomizzandosi sia dalla grande borghesia che dal proletariato: in Italia questa avventura aveva avuto come demiurgo Berlusconi con la promessa di uno Stato più leggero, di una forte riduzione delle tasse, di un sovvertimento della classe dirigente. Il fallimento del progetto berlusconiano - che non aveva evidentemente nulla di moderato e ben poco di conservatore - e il gelo della crisi hanno frustrato due volte questo tentativo di emancipazione di soggetti sociali che perdono la speranza di produrre politica direttamente dai loro interessi legittimi, si proletarizzano per le difficoltà finanziarie e ripiegano sconfitti in quella che De Rita chiama la "grande bolla" del ceto medio. L’esito di questi percorsi collettivi è il riflusso da ogni discorso pubblico o appunto la ribellione, l’antipolitica. Nella convinzione che il cittadino possa disinteressarsi dello Stato, senza accorgersi che nello stesso tempo lo Stato si disinteressa di lui, perché quando la sua libertà non si combina con quella degli altri e l’esercizio dei suoi diritti resta soltanto individuale, lui diventa un’unità anonima da rilevare nei sondaggi, realizzando la vera solitudine dei numeri primi. Si capisce che a questo crocevia tra la solitudine e la ribellione stia accampato il populismo, interessato ad entrambe. Tutti diversi tra loro, i leader radicali hanno un tratto in comune: propongono soluzioni semplici a problemi complessi (il "puerilismo", lo chiamava Huizinga) danno sempre la colpa ad un nemico esterno, attaccano un potere gigantesco e indefinito, berciano sulle élites, si rinchiudono nell’ossessione territoriale, immaginano complotti perché investono su un indebolimento dello spirito critico a vantaggio di una visione mitologica dell’avventura presente. I problemi veri - il lavoro che manca, la crescita che arranca, Daesh che uccide - vengono evocati e cavalcati, ma in forma fantasmatica, all’insegna di una sfiducia perenne nei confronti delle istituzioni e della stessa democrazia. Noi vediamo chiaramente che tutto questo fa emergere i campioni della neo-destra, gladiatori incontrastati di una fase in cui tutto vacilla. Ma non ci accorgiamo che parallelamente si corrode la cornice del pensiero liberaldemocratico, proprio nella fase in cui si è insediato (lo diceva anni fa Galli della Loggia) come l’unica dimensione politica comunemente accettata e condivisa, dopo le tragedie nel Novecento: e infatti il dogma di Orbàn è "il fallimento del liberalismo", da cui ricava la possibilità di demolire la separazione dei poteri. In realtà la neo-destra più che un pensiero ha una superstizione del mondo e un’ideologia di sé, unita ad una feroce volontà di escludere e alla capacità di offrire nel contempo una fruizione politica dei risentimenti e delle paure. È la ricetta semplice e forte del fondamentalismo che negando valore ad ogni teoria divergente o preesistente costruisce quel senso di falsa sicurezza tipico di chi vive murato all’interno delle fortezze, pensando - come spiega Bauman - di tagliare fuori così "il caos che regna all’esterno". È il destino della destra italiana che spento il fuoco pirotecnico del berlusconismo consegna le sue ceneri a Salvini, rassegnandosi dopo il titanismo del Cavaliere all’imitazione da Asterix padano del lepenismo. Prezzolini, guardandosi intorno sancirebbe a questo punto la sconfitta del "vero conservatore", come lo idealizzava lui: capace di non confondersi con i reazionari, i tradizionalisti, i nostalgici, di non rifiutare i mutamenti purché avvengano gradualmente, di conservare le istituzioni, soprattutto "di non confondere gli uomini con gli angeli o con i diavoli". Oggi la neo-destra italiana sembra invece cercare disperatamente un diavolo qualunque da scritturare, per farlo sedere a capotavola spaventando gli elettori nell’evocazione dell’inferno permanente, perché nel suo fondamentalismo non c’è spazio nemmeno per un angolo di purgatorio, figuriamoci il buon vecchio paradiso terrestre. Il problema, naturalmente, non riguarda soltanto la destra ma l’intero sistema, cioè la cultura di governo. Perché senza un vero conservatore non può esserci un vero riformista. E infatti... I "magazzini di anime" e i muri della vergogna di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2016 Che cosa c’è dall’altra parte del muro che sta alzando l’Europa? Dal confine greco-macedone di Idomeni, diventato il "magazzino delle anime" come lo chiama il governo di Atene, lo descrive in una lettera, inviata ai giornali, Daniela, infermiera di Medici senza Frontiere. Nella sala d’attesa entra un siriano di circa 50 anni. È ben vestito, un bel completo scuro gessato e, al posto della cravatta, una sciarpa di lana chiara. Scarpe nere eleganti, usurate ma pulite. Un signore distinto che tiene a sé e alla sua persona, alla sua dignità. Gli fa male la gamba, ha un problema di circolazione e ha finito il farmaco prescritto in Turchia. Pazientemente aspetta il turno del medico e mentre espone il problema della gamba si mette a piangere e racconta di essere stato in prigione in Siria, dove per molti giorni è stato in una stanza rannicchiato con tante altre persone senza potersi muovere, senza bere e mangiare. Trattato come un animale. Poi deve essere fuggito o l’hanno rilasciato, lo immagino che marcia verso il confine della Turchia, che rimedia del cibo, delle abluzioni di fortuna, accompagnato dai suoi pensieri, che rimandano forse a una famiglia, a degli affetti, agli amici, a una casa che non c’è più, a un quartiere di una città, ai ricordi di una vita. Marcia da solo verso l’Europa, verso di noi. Lui non lo sa ma l’Austria, l’Ungheria e i balcanici incolpano la Grecia per i problemi dell’immigrazione: il che significa ignorare le radici della crisi, la guerra di Siria e tutte le altre in corso da decenni. Il suo abito è prezioso, è riuscito a salvarlo: dice di lui molto di più di un passaporto. Sta bussando alla nostra porta, vuole presentarsi bene, tiene a quel vestito come a una seconda pelle. Sembra volere dire: "C’è stato un tempo in cui...". Sì, c’è stato un tempo in cui magari saremmo stati noi a entrare nella sua casa, che ci saremmo rivolti a lui con rispetto. Allora probabilmente non avrebbe mai immaginato di finire così ma poi quel giorno è venuto: ha aperto l’armadio di casa e indossato l’abito migliore, un gessato, sapendo che non avrebbe potuto portare via altro. Anche noi forse faremmo lo stesso. Chiudete gli occhi e immaginate di essere dall’altra parte del muro. Entriamo in camera, apriamo l’armadio e scegliamo il nostro abito. Quello con cui abbandoneremo la nostra vita di prima. Dobbiamo però fare in fretta. Fuori incalza il mondo brutale delle milizie di Assad, dei kalashnikov, delle tute nere dell’Isis, della pulizia etnica e settaria. Sono questi i momenti in cui non vorremmo avere neppure un nome, un’identità: eppure lui, il viaggiatore siriano, quel giorno ha preso senza esitare il suo vestito migliore. Le esplosioni sono sempre più vicine e violente: colpi di granata e di mortaio che sventrano muri e sbriciolano ogni speranza di potere resistere. Usciamo di casa ma non faremo molta strada, ci aspettano per buttarci in un stanza insieme ad altri disgraziati. Prima ci porteranno via tutti gli averi, poi ci prenderanno a calci, a bastonate, e quando scenderà il buio non prenderemo sonno per la paura: non ci è rimasto altro che questo respiro affannoso e umiliato avvolto dentro a un bell’abito. Forse qualcuno si ricorderà di storie lontane, di guerre viste soltanto nei film, di nonni fuggiti sopra i monti e di nonne che nascondevano le figlie in cantina per evitare che le violentassero. Qualcuno nei Balcani - e stupisce che la memoria sia così corta - non avrà neppure bisogno di sforzarsi troppo: vent’anni fa qui scappavano tutti, bosniaci, serbi, croati. Il Corridoio Dieci, quello dell’autostrada, allora veniva percorso alla rovescia da Nord a Sud, si attraversavano i sentieri dove l’armata comunista di Tito aveva combattuto con i greci fino agli anni ‘50, poi si risaliva verso il Kosovo: 900mila albanesi espulsi in pochi giorni dai soldati di Milosevic nel ‘99. Ma eravamo già stati a Sarajevo nel 1992, nelle Krajne nel 1994, nei campi di concentramento dove ci attendevano corpi scheletrici, nelle fosse di Srebrenica del generale Mladic nel luglio 1995. Anche allora si pensò che una pace, quella di Dayton, evocata ora anche per la Siria, potesse mettere fine ai massacri. Adesso potete riaprire gli occhi: siete saldamente al di qua del muro. Tra l’ottobre 2014 e il settembre 2015 in Europa, secondo l’Economist, sono state presentate 922mila domande d’asilo e ne sono state accolte 137mila: non servono neppure i muri per respingere i profughi. Non dovete scegliere il vostro ultimo abito ma andare subito a comprarne un altro della collezione primavera-estate. Solerti governanti europei a colpi di nuove barriere proteggeranno le spiagge delle vacanze e l’ultima canzone dell’estate. Ma un giorno il risveglio potrebbe essere meno dolce e svelare che un intero continente, l’Europa, è scomparso, sommerso nell’imbuto di Idomeni non dalla risacca dei profughi ma semplicemente perché il suo cuore stanco ha smesso di battere. Migranti, è crisi diplomatica in Europa di Ivo Caizzi Corriere della Sera, 26 febbraio 2016 La Grecia richiama l’ambasciatore a Vienna per protesta contro la chiusura dei confini Bruxelles avverte gli Stati: soluzioni entro 10 giorni o rischiamo la catastrofe umanitaria. I maxi arrivi di migranti extracomunitari, che hanno forte impatto sugli elettori in molti Paesi membri, stanno incrinando lo spirito comunitario dell’Unione Europea. Il Consiglio dei 28 ministri degli Interni a Bruxelles è stato caratterizzato da contrasti individuali e tra gruppi. Alla fine è stato rinviato quasi tutto al summit straordinario dei capi di Stato e di governo del 7 marzo prossimo sull’emergenza rifugiati. Il commissario Ue per l’Immigrazione, il greco Dimitris Avramopoulos, ha ammonito che, se entro questi "dieci giorni" non si riesce ad "andare avanti insieme in modo coordinato" e a eliminare le misure "unilaterali, bilaterali o trilaterali", si rischia il "collasso completo" del sistema di libera circolazione tra i Paesi europei aderenti al Trattato di Schengen. La clamorosa decisione del governo greco di richiamare ad Atene l’ambasciatore a Vienna per consultazioni, dopo che l’Austria aveva escluso la Grecia da una riunione sull’emergenza rifugiati con altri Paesi balcanici, ha anticipato le tensioni della riunione dei ministri. "Non accetteremo mai che la Grecia diventi un magazzino di anime, il Libano dell’Europa", ha dichiarato il ministro degli Interni greco Ioannis Mouzalas, minacciando "azioni unilaterali" se i blocchi nei Balcani lasceranno i profughi nel suo Paese. Avramopoulos ha contestato all’Austria di aver introdotto un limite agli ingressi dei rifugiati in contrasto con "le norme internazionali". Il ministro degli Interni francese Bernard Cazeneuve ha contestato al collega belga Jan Jambon il rafforzamento dei controlli alla frontiera comune temendo arrivi di migranti dopo l’annunciato sgombero della baraccopoli di Calais. L’Ungheria ha indetto un referendum per revocare l’impegno, concordato a livello Ue, di accettare quote di rifugiati da Grecia e Italia. Il ministro degli Interni Angelino Alfano ha criticato Budapest sottolineando che stare nell’Ue prevede "diritti e doveri". Roma, come la Germania e la Commissione europea, chiede di "applicare le misure decise" e di procedere "insieme". Il responsabile delle Nazioni Unite per i rifugiati Filippo Grandi ha segnalato che i blocchi delle frontiere nei Balcani possono rilanciare la via mediterranea tra il Nord Africa e l’Italia. L’Ungheria e altri Stati dell’Est hanno criticato Berlino per aver puntato sulla Turchia per frenare i migranti siriani e iracheni, che invece continuano a sbarcare nelle isole greche. Il Consiglio dei ministri ha accelerato il rafforzamento delle frontiere esterne dell’Ue con estensione dei controlli ai cittadini comunitari e sviluppo dell’apposita agenzia comunitaria. Il ministro degli Interni tedesco Thomas de Maizière, sostenitore dell’estensione fino a due anni dei controlli alle frontiere nazionali con sospensione di Schengen, ha detto che, se entro il 7 marzo non emergeranno miglioramenti tra la Turchia e la Grecia, dovranno essere decise nuove "misure europee coordinate". Libia: ok a missioni segrete dei nostri corpi speciali di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 26 febbraio 2016 Sono circa 3.000 i soldati che potrebbero essere impiegati a protezione dei siti sensibili come gli impianti energetici, i giacimenti, gli oleodotti, ma pure le ambasciate, i palazzi istituzionali, gli ospedali. Interventi affidati a corpi militari speciali. Operazioni riservate condotte grazie alla legge approvata lo scorso novembre dal Parlamento che consente ai gruppi d’élite di entrare in azione "seguendo la catena di comando dei servizi segreti". L’Italia si prepara a intervenire in Libia nell’ambito di una "missione militare di supporto su richiesta delle autorità libiche". Il giorno strategico dovrebbe essere lunedì, quando cento parlamentari di Tobruk potrebbero far nascere - così come si sono impegnati a fare con i mediatori internazionali - un governo di unità nazionale che solleciti le Nazioni Unite a prendere provvedimenti per la stabilizzazione del Paese. I decreti "missione" - È il passo necessario per il via libera a un impegno del nostro Paese, richiesto da tempo dagli Stati Uniti e sinora rinviato proprio per la mancanza di una "cornice" disegnata dall’Onu. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, lo ha ribadito ieri nel corso del Consiglio supremo di difesa, sollecitando anche la rapida approvazione del decreto che ogni anno finanzia e fornisce copertura giuridica alle missioni all’estero. Le norme già varate consentono infatti di evitare il voto delle Camere, prevedendo esclusivamente un’informativa del governo alle commissioni Esteri e Difesa. Il tempo stringe, gli alleati sono già sul campo, Roma ha assicurato che "farà la propria parte" nella guerra ai terroristi dell’Isis. E dunque schiererà le navi già in attività di perlustrazione del Mediterraneo, un aereo cisterna, i Tornado di stanza a Trapani, anche due sommergibili. E potrà contare sulle basi militari del Sud, compresa Pantelleria dove da tempo sono insediati numerosi militari statunitensi. Le incursioni - Gli specialisti del Comsubin e del Col Moschin ma anche i parà della Folgore potranno agire grazie alle stesse "garanzie funzionali" degli 007 che la legge ha concesso loro con il provvedimento varato a larga maggioranza proprio in previsione di un possibile impegno in Libia. L’autorizzazione viene data dal capo del governo, che naturalmente si coordina con il ministro della Difesa. Proprio ieri Roberta Pinotti ha ribadito di ritenere "impensabile un intervento militare di occupazione", consapevole però che i vertici delle forze armate premono per l’intervento. Del resto l’Italia ha più volte avanzato l’istanza di ottenere il comando della Coalizione, ma questa possibilità rischia di sfumare di fronte ai continui rinvii proprio tenendo conto che Usa, Francia e Gran Bretagna sono già sul campo e stanno effettuando missioni. Lo schieramento - Sono circa 3.000 i soldati che potrebbero essere impiegati a protezione dei siti sensibili come gli impianti energetici, i giacimenti, gli oleodotti, ma pure le ambasciate, i palazzi istituzionali, gli ospedali. Quanto alto sia il timore per l’impatto che la crisi libica può avere sul nostro Paese lo dimostra la scelta di sottolineare nel comunicato del Quirinale diramato al termine del Consiglio che "è stato considerato l’impatto sugli scenari di crisi e sulla sicurezza energetica italiana ed europea dell’andamento dei mercati degli idrocarburi". E si è calcolato che possa influire addirittura sul 10 per cento del mercato. Un capitolo ritenuto di massima importanza è quello riguardante l’addestramento delle forze locali, proprio come già accaduto in altri scenari di crisi, in particolare l’Afghanistan. Ma la vera priorità passa per la lotta all’Isis, dunque sono gli armamenti e i mezzi navali e aerei a fare la differenza. Il via libera al decollo dei Predator e Global Hawk statunitensi da Sigonella è già stato dato. Entro qualche settimana si può passare alla seconda fase con l’impegno diretto. Egitto: Giulio Regeni "temo di essere stato schedato, chi mi ha fotografato non era un reporter" di grazia longo La Stampa, 26 febbraio 2016 L’ultimo messaggio del ricercatore ucciso al Cairo a un amico. E intanto l’autopsia rivela: 20 fratture sul suo corpo e niente scariche elettriche sui genitali. Non solo martoriato con una tortura lenta e prolungata, ma offeso anche dopo la morte. Non si ferma la girandola di depistaggi, da parte di inquirenti ed esponenti del governo egiziani, sulla drammatica fine di Giulio Regeni, a un mese dal suo sequestro, il 25 gennaio scorso. Circolano le tesi più disparate e oltraggiose: vittima di un incidente stradale o di una vendetta personale, vicino al mondo degli spacciatori, omosessuale. Tutto falso. Tutto infondato. Nessun elemento, al contrario, emerge dal Cairo sulla pista politica del delitto del ricercatore dell’Università di Cambridge, con molta probabilità sospettato di essere una spia inglese per le inchieste nel mondo sindacale autonomo oppositore al regime di Al Sisi. Pista invece suffragata dall’esame del suo computer, unico elemento reale, concreto, in mano ai nostri inquirenti. "Non vorrei sembrarti paranoico, ma ho paura di essere stato schedato" scriveva Giulio in un’email ad un amico pochi giorni dopo l’infuocata assemblea sindacale degli ambulanti dissidenti dell’11 dicembre scorso. Preoccupazione che trova riscontro anche nella testimonianza che due colleghi ricercatori hanno fornito al pm titolare dell’inchiesta, Sergio Colaiocco, durante l’interrogatorio alla procura di Roma. In quell’occasione i ragazzi riferirono del timore di Giulio dopo essersi accorto di essere stato fotografato durante quella riunione ad inviti. "Non si trattava né di un reporter né di un ambulante o un sindacalista" aveva spiegato il giovane friuliano agli amici. Di qui il timore di essere stato preso di mira da qualcuno vicino agli apparati della polizia. Da qualcuno che voleva documentare la sua partecipazione, la sua attenzione agli ambienti dei dissidenti vicini ai Fratelli musulmani. Da qualcuno che voleva, appunto, "schedarlo", come ha lui stesso confidato ad un amico via email. Il materiale del computer è ricco e articolato: la polizia scientifica lo sta analizzando minuziosamente, ed è probabile che possa rilevare molto sulle ricerche di Giulio per conto dell’Università di Cambridge, di cui era dottorando, e dell’American University del Cairo di cui era visiting scholar. Tutti gli altri dati indispensabili alle indagini - video, tabulati telefonici, verbali restano invece nelle mani degli egiziani. Custoditi meglio che in una cassaforte. Al momento, nonostante le pressioni politiche del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, il pool investigativo dei carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco in trasferta al Cairo non ha ricevuto nulla. Neppure il referto della prima autopsia eseguita in Egitto che, dalle indiscrezioni trapelate dal Cairo, differirebbe in diversi aspetti da quella eseguita all’Università La Sapienza dal professor Vittorio Fineschi. L’esito dei test più approfonditi deve ancora essere depositato, intanto alcune indiscrezioni rivelano che non sono sette, ma oltre venti le fratture sui resti del ricercatore friulano. Fratturate le mani, i piedi, le braccia, le gambe e le scapole. A dimostrazione di brutali sevizie protratte per estorcere segreti che il povero Giulio non possedeva. Smentite invece le scariche elettriche ai genitali. Ma perché allora gli egiziani insistevano su questo punto? Forse per accreditare una punizione maturata in ambienti omofobici? Nulla di più falso. Giulio Regeni non faceva uso di stupefacenti e ha sofferto molto prima di perdere la vita, tra il 30 e il 31 gennaio. Gli sono state strappate un’unghia della mano e una del piede, mozzate le parti superiori delle orecchie, numerosi tagli (con un punteruolo o un taglierino) sono stati inferti su torace, braccia, gambe e la pianta dei piedi. Su una coscia c’è un segno compatibile con la bruciatura di sigaretta. Mistero su chi abbia fatto tutto questo. E affinché la verità non venga insabbiata, ieri pomeriggio una delegazione di Amnesty International Italia ha incontrato l’ambasciatore egiziano a Roma. Ma il giallo, oltre all’imbarazzo diplomatico per la scarsa collaborazione del Cairo, resta irrisolto. Stati Uniti: Guantánamo chiude? Obama fa l’illusionista di Stefano Magni L’Opinione, 26 febbraio 2016 Barack Obama ci riprova: vuole chiudere il campo di detenzione di Guantánamo, dove sono ancora internati 91 presunti terroristi. E il "presunti" non è solo linguaggio politically correct: è d’obbligo, da un punto di vista legale, perché non sono stati sottoposti a regolare processo. La detenzione a tempo indeterminato di persone senza un processo, all’indomani degli attacchi dell’11 settembre, aveva attirato critiche molto pesanti all’amministrazione Bush. Obama ha ereditato lo stesso problema e, dai tempi della sua campagna elettorale del 2008, aveva promesso la chiusura di quella grande prigione speciale extra-territoriale, costruita nella base militare dei marine nell’estremo oriente di Cuba. La chiusura di Guantánamo è stata promessa altre volte da Obama, anche nel 2012, ma mai portata a termine. Perché non è un problema da poco, da un punto di vista della logistica e della sicurezza. E non migliorerebbe il quadro legale. Anzi, probabilmente lo peggiorerebbe. Nella prigione di Guantánamo sono stati internati sino a 800 sospetti terroristi. Oggi ne rimangono solo 91. Di questi, 35 potrebbero essere trasferiti al Paese d’origine o in Paesi terzi. E l’esperienza insegna che, una volta in patria, possono subire trattamenti ancora peggiori, e/o tornare liberi e riprendere la lotta armata. Altri 10 sono sotto processo nelle commissioni speciali militari. Ben 46, la maggioranza, sono considerati gli individui più pericolosi e destinati alla detenzione a tempo indeterminato. E 22, per cui inizialmente si pensava a un processo, sono ancora in un limbo legale, in attesa che il Congresso approvi il piano di chiusura del centro di detenzione. Già dalla composizione dei prigionieri, si può capire come gli Stati che ospitano altri centri di detenzione, in cui potrebbe avvenire il trasferimento, non siano troppo contenti della cosa. E, da un punto di vista del rispetto dei diritti civili, resta il problema dell’assenza di processo. Né è facile rimediarvi, perché i tribunali ordinari si sono dimostrati inadeguati a processare sospetti terroristi. In una guerra al terrorismo, è infatti molto difficile raccogliere prove e testimonianze attendibili, né si possono usare confessioni estorte in passato con la tortura o comunque ottenute in circostanze straordinariamente dure per il presunto colpevole. Senza contare che per i membri di una giuria è molto facile farsi intimidire da persone che potrebbero essere alla testa di network terroristici internazionali: se già è difficile esprimere pubblicamente un giudizio su un semplice mafioso… La proposta di chiudere Guantánamo sta puntualmente scontentando tutti, sia i difensori dei diritti umani che i rappresentanti dell’opposizione, soprattutto a livello locale. Amnesty International sottolinea che il trasferimento dei prigionieri in territorio nazionale statunitense creerebbe "un precedente pericoloso (…) sarebbe un colpo devastante ai principi della giustizia criminale", perché un conto è una detenzione, in territorio statunitense, dopo un regolare processo, ma "Guantánamo e le sue commissioni militari non hanno, e non possono avere, amministrato la giustizia". È d’accordo anche la deputata democratica Barbara Lee, che ha twittato "Il governo della legge e il giusto processo sono valori americani fondamentali. Proseguire con le detenzioni a tempo indeterminato a Guantánamo indebolisce la nostra Costituzione". I repubblicani, che sono maggioranza al Congresso, si oppongono per motivi di sicurezza, soprattutto. E anche perché il piano presentato dall’amministrazione Obama per il trasferimento dei prigionieri non è dettagliato: non contiene un elenco pubblico completo delle strutture in cui i detenuti potrebbero essere trasferiti. Sono stati indicati centri di massima sicurezza in Kansas, South Carolina e Colorado e puntualmente i senatori che li rappresentano, rispettivamente Pat Roberts, Tim Scott e Cory Gardner, hanno subito dichiarato: "I nostri Stati e le nostre comunità si oppongono al trasferimento dei più letali terroristi del mondo in territorio statunitense. I terroristi di Guantánamo sono lì dove devono restare: a Guantánamo". Secondo Paul Ryan, speaker della Camera, la proposta di Obama è incompleta e quindi non rispetta i termini di legge, che prescrivono anche l’indicazione esatta dei costi e dei luoghi. Inoltre, sostiene: "Il Congresso si è espresso senza dubbi: è contro la legge, e lo sarà sempre, trasferire terroristi detenuti sul suolo americano. Non metteremo a rischio la nostra sicurezza nazionale per rispettare una promessa da campagna elettorale". Tuttavia, nonostante le critiche, da destra e da sinistra, Barack Obama sembra veramente determinato ad andare avanti. Perché? Perché come ha più volte dichiarato, nel corso di questi sette anni, Guantánamo è "il principale poster di reclutamento degli jihadisti". Ritiene che sia un simbolo del male, una macchia nella fedina penale storica degli Stati Uniti e un esempio che i nemici degli Usa possano additare per reclutare volontari alla loro causa. Ma ne siamo sicuri? Non è così semplice. I volontari dell’Isis corrono ad arruolarsi in Iraq e in Siria perché impressionati da Guantánamo (e non dai prigionieri decapitati, bruciati vivi o annegati in pubblico dagli jihadisti)? O perché credono nella loro causa? Combattono contro gli Usa per vendicare la sorte di 91 prigionieri di Guantánamo (e non le migliaia di prigionieri barbaramente uccisi nello Stato Islamico)? O perché, nel loro disegno ideologico, gli Usa sono l’epicentro del male nel mondo e lo scontro con l’Impero rientra nella loro visione della fine dei tempi? Se anche fossero attenti ai diritti umani, poi, noterebbero la presa in giro di questa mossa: Guantánamo verrebbe chiusa, ma almeno una cinquantina di persone rimarrebbe in carcere senza processo. Una presa in giro. O basta allontanare un problema dalle fotocamere, o cambiargli il nome, per farlo sparire? A giudicare da come l’amministrazione Obama abbia fatto scomparire tracce e foto del corpo di Bin Laden, sembra proprio che sia questa la sua unica priorità: l’immagine. Nient’altro. Stati Uniti: sorpresa, gli Usa difensori della privacy di massimo russo La Stampa, 26 febbraio 2016 Il nome è in apparenza neutro, "legge sul ricorso giurisdizionale". Ma la norma approvata dal Congresso degli Stati Uniti ci riguarda da vicino e ha in sé l’affermazione di una leadership economica e culturale planetaria. Non attraverso la forza, ma con l’allargamento dei diritti. Il terreno su cui si dispiega questo disegno è costituito dai dati personali. Il riconoscimento dell’habeas data - il diritto del singolo a disporre delle informazioni che lo riguardano - significa per il 21° secolo quel che l’habeas corpus fu nel Medio Evo. Allora il diritto a non essere privati della libertà senza il pronunciamento di un giudice naturale significò la fine dell’arbitrio. Oggi la legge firmata dal presidente Barack Obama riconosce ai cittadini delle nazioni alleate la medesima tutela della privacy prima accordata ai soli americani. D’ora in poi noi europei potremo far causa alle agenzie governative Usa qualora esse ci abbiano spiato o abbiano utilizzato i nostri dati in modo improprio. Il provvedimento nasce dalla necessità di ristabilire la fiducia sulle due sponde dell’Atlantico dopo il caso di Edward Snowden, che con le sue rivelazioni tre anni fa rese ufficiale ciò che da tempo era voce corrente: la pratica delle intercettazioni, del monitoraggio e della raccolta di dati personali a strascico provenienti da conversazioni e posta elettronica da parte della National security agency (Nsa) e di altri organismi federali. Uno scandalo di cui si è tornati a parlare proprio in questi giorni, con la pubblicazione da parte di Wikileaks dei rapporti che provano come anche Silvio Berlusconi e il suo staff di governo fossero intercettati. L’apertura, vista dalla prospettiva americana, è un deciso cambio di tendenza rispetto al passato e comporta alcuni rischi: ora uno straniero avrà una base giuridica per portare in giudizio l’amministrazione. Inoltre diventeranno più difficili gli accertamenti nei confronti degli europei sospettati di terrorismo, verso i quali prima esisteva una sorta di libera licenza di intercettazione. Tuttavia la legge risponde a un chiaro disegno strategico: in un’economia globalizzata, garantire diritti anche a non cittadini rende più appetibile per le grandi aziende multinazionali e per gli over the top, le grandi piattaforme digitali, insediarsi negli Stati Uniti. Il provvedimento inoltre toglie forza e ragioni a quanti in Europa si erano battuti affinché gli Usa non fossero più considerati safe harbor, un porto sicuro per la conservazione e il trattamento delle informazioni di milioni di clienti delle multinazionali. Il messaggio è semplice: se vuoi cogliere le straordinarie opportunità offerte dalla digitalizzazione dell’economia, il tuo orizzonte non sono più i confini nazionali. Dunque il soggetto destinatario dei diritti non sono più i tuoi cittadini, ma i potenziali consumatori globali. Che devi conquistare con la moneta della fiducia. Ribaltando il punto di vista, le prerogative di cui godiamo noi singoli non sono più determinate solo dal passaporto che abbiamo in tasca, ma anche dalle nostre scelte di consumo. Un tema tanto più rilevante in vista dell’approvazione del nuovo Accordo transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip), che tra Europa e Usa formerà il più grande spazio di commercio e scambio al mondo. A questa sfida il Vecchio Continente si presenta in ordine sparso. Il commissario Ue per la Giustizia Vera Jourová ha plaudito alla legge, definendola "un progresso storico degli sforzi per ripristinare la fiducia nei flussi di dati transatlantici". Ma l’Unione arriva all’appuntamento ancora frammentata in 28 ordinamenti, con altrettante autorità di garanzia, e addirittura con l’ipotesi di ricostituire i confini interni. Un ritardo reso ancor più grave dal fatto che protagonisti della partita non sono più solo gli Stati ma anche le imprese. Il conflitto tra Apple e Fbi di questi giorni, con la società che resiste alla richiesta di rendere accessibili le informazioni contenute nei nostri telefoni, ci parla proprio di questo. Su dati personali, diritti e fiducia, si gioca uno scontro chiave. Lo vincerà chi riuscirà a convincerci di garantirli meglio. Turchia: scarcerati due giornalisti di Cumhuriyet arrestati per "spionaggio" Ansa, 26 febbraio 2016 Liberi dopo 3 mesi Dundar e Gul, direttore e caporedattore, finiti in carcere per uno scoop sulle armi turche in Siria. Il Tribunale di Istanbul ha deciso la scarcerazione di Can Dundar ed Erdem Gul, direttore e caporedattore del quotidiano di opposizione laica Cumhuriyet, dopo che la Corte costituzionale turca aveva giudicato una "violazione dei diritti" la loro detenzione in attesa di giudizio, iniziata il 26 novembre scorso. I due giornalisti avevano realizzato un’inchiesta sul traffico di armi verso la Siria. La decisione è una diretta conseguenza di quella della Corte Costituzionale, che con un voto a maggioranza (12 contro 3) aveva ritenuto ieri pomeriggio che fossero stati violati i loro "diritti individuali, la libertà di espressione e di stampa", citando gli articoli 19, 26 e 28 della Carta. Secondo Cumhuriyet i due giornalisti dovrebbero essere liberati a breve, dopo che saranno espletate le formalità per il loro rilascio. Davanti al carcere di Silivri a Istanbul, dove sono detenuti, si è formata una folla di familiari, amici e sostenitori in attesa della scarcerazione. Dundar e Gul sono stati rinviati a giudizio con accuse che vanno dallo "spionaggio" alla "propaganda terroristica" per un’inchiesta del maggio scorso su un presunto passaggio di camion di armi dalla Turchia alla Siria. Entrambi rischiano l’ergastolo.