Reato di tortura, omofobia, unioni civili, armi e rom: ecco i diritti violati in Italia Redattore Sociale, 25 febbraio 2016 Rapporto di Amnesty International. Sottolineato lo stallo in cui versano in Parlamento dei disegni di legge sul reato di tortura, nonché quello contro omofobia e transfobia. E sui migranti: "Le prassi adottate negli hotspot rischiano di tradursi in una disapplicazione di regole e garanzie". In sintesi, le violazioni nel mondo. Amnesty International nel suo Rapporto 2015-2016 prende in esame anche la situazione dei diritti umani in Italia. Un’analisi che mette in evidenza violazioni e insufficienti tutele. L’Agenda in 10 punti di Amnesty International sui diritti umani in Italia, presentata all’inizio dell’attuale legislatura e sottoscritta da 118 parlamentari, vuole mettere in luce i principali ostacoli - legislativi, politici, culturali - al pieno rispetto dei diritti umani nel nostro paese e raccomandare misure finalizzate a porvi rimedio. "Le azioni poste in essere da governo e parlamento in relazione ai 10 punti dell’Agenda presentano finora numerose insufficienze - si legge -, alcune delle quali piuttosto gravi". Gli abusi della polizia. Tra queste ultime, vi è quella relativa alle misure di prevenzione degli abusi di polizia. "Chi, trovandosi in questo momento in Italia, abbia commesso atti di tortura può, nella grande maggioranza dei casi, dormire sonni tranquilli. Questo è vero sia che la tortura sia stata commessa in Italia sia che sia stata commessa in un altro paese. In entrambi i casi, è sufficiente che i fatti risalgano a pochi anni addietro perché scatti la prescrizione, che impedisce la punizione in Italia ma anche, eventualmente, l’estradizione, la collaborazione con altri paesi nell’accertamento e nella punizione di gravi violazioni dei diritti umani", afferma Amnesty International. Che aggiunge: "Fino a che non ci sarà un reato di tortura, punito severamente e con un termine di prescrizione lungo, le cose sono destinate a rimanere così. In parlamento, la commissione Giustizia del Senato, prima ha reso impresentabile la definizione di tortura contenuta nel disegno di legge in discussione; poi, e da diversi mesi ormai, ha smesso di parlare dell’argomento - secondo un copione che è sempre lo stesso ormai, legislatura dopo legislatura". Omofobia e transfobia. Fra gli altri temi di cui il parlamento sembra essersi ormai dimenticato vi è quello della punizione degli atti di omofobia e transfobia. "La Camera ha approvato nel 2014 un testo che accoglie le due principali richieste di Amnesty International. Se fosse approvato anche in Senato, il c.d. discorso d’odio comprenderebbe, com’è giusto che sia, anche l’ipotesi dell’odio dovuto all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Inoltre, le aggravanti dei reati comuni motivati da odio riguarderebbero, in modo analogo, l’odio dovuto all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Per il momento, neppure su questo argomento risulta che la commissione Giustizia del Senato (la stessa che ha smesso di occuparsi di tortura) sia in procinto di riprendere la discussione". Unioni civili. A proposito del riconoscimento di pari dignità e pari diritti alle famiglie costituite da persone dello stesso sesso, Amnesty International ritiene l’introduzione delle unioni civili in Italia possa essere un passo avanti nella giusta direzione. "L’auspicio è che l’iter parlamentare vada avanti e si concluda con l’approvazione di una legge che equipari i diritti delle coppie omosessuali con quelli delle coppie eterosessuali nella misura più ampia possibile". Migranti, ingresso illegale e accoglienza. Esiste ancora, formalmente, nell’ordinamento italiano, nonostante la volontà contraria del parlamento, il reato di ingresso e soggiorno illegale. "Il governo - afferma Amnesty - ha giustificato la mancata attuazione della delega ricevuta con la motivazione, francamente incredibile, che gli italiani non capirebbero, mettendo da parte il fatto che i rappresentanti più autorevoli del potere giudiziario (dal Procuratore Nazionale Antimafia al Primo Presidente della Cassazione) hanno detto - e che lo stesso governo ha riconosciuto - che quella previsione non è solo inutile, ma addirittura dannosa". Per quanto riguarda il capitolo dell’accoglienza, Amnesty International è preoccupata per il modo in cui viene applicato il nuovo approccio hotspot. "Le prassi adottate negli hotspot rischiano di tradursi in una disapplicazione di regole e garanzie, a partire da quelle previste dal decreto procedure del 2008. Le segnalazioni riguardano, tra l’altro, la mancata o insufficiente informativa resa al migrante appena sbarcato circa la possibilità di richiedere la protezione internazionale, la limitazione dell’accesso alle procedure di asilo in base alla sola nazionalità (in assenza di un’istruttoria personale), l’immediata consegna di un decreto di respingimento c.d. differito, nel quale si ingiunge al migrante di lasciare il paese, senza fornire l’assistenza necessaria, e il rifiuto di alcune questure di esaminare le domande di asilo successivamente alla consegna di quest’ultimo". Esportazione di armi. Amnesty si dice preoccupata, infine, dal modo in cui l’Italia ha gestito la questione dell’esportazione di armi. "Nel corso del 2015 e dell’inizio del 2016 sono trasferiti bombe e sistemi militari dall’Italia all’Arabia Saudita, attualmente impegnata in un’azione militare in Yemen, nel quadro di un conflitto caratterizzato da attacchi indiscriminati contro le infrastrutture civili (a cominciare dalle strutture sanitarie e dalle scuole). Il governo dell’Arabia Saudita è responsabile di gravi violazioni dei diritti umani, circostanza che dovrebbe da sola comportare - secondo una legge italiana, la n.185 del 1990 - il divieto di esportazione e transito di materiali di armamento. Il Governo, per bocca del Ministro della Difesa, ha detto che è tutto regolare, tutto a posto. A noi non sembra proprio e per questo abbiamo chiesto e chiediamo l’immediata interruzione di ogni ulteriore consegna di armi all’Arabia Saudita". La questione rom. Una novità positiva, almeno sul fronte giudiziario, si registra circa la condizione della popolazione rom: "l’ordinanza con la quale il Tribunale di Roma ha stabilito che il Comune di Roma, nel trasferire forzatamente un gruppo di famiglie rom in un campo etnicamente segregato - il campo di La Barbuta, vicino a Ciampino - le ha sottoposte a trattamento discriminatorio, in violazione della legge. Nei fatti, purtroppo, siamo ancora lontani dal rispetto, da parte dei comuni italiani, del diritto dei rom a un alloggio adeguato". Le violazioni nel mondo in pillole. Ecco, in estrema sintesi, la situazione delle violazioni dei diritti nel mondo, secondo il rapporto di Amnesty International: 60 milioni: le persone che si trovano lontano dalle loro case, molte delle quali da diversi o molti anni; almeno 113: paesi nei quali la libertà d’espressione e di stampa sono state sottoposte a restrizioni arbitrarie; almeno 30: i paesi che hanno rimandato illegalmente rifugiati verso paesi in cui sarebbero stati in pericolo almeno; 19: i paesi nei quali sono stati commessi crimini di guerra o altre violazioni delle "leggi di guerra"; almeno 36: i paesi nei quali gruppi armati hanno commesso abusi; almeno 156: i difensori dei diritti umani morti durante la detenzione o altrimenti uccisi almeno 61: i paesi i cui governi hanno messo in carcere prigionieri di coscienza, ossia persone che avevano solamente esercitato i loro diritti e le loro libertà, più di un terzo dei paesi esaminati da Amnesty International; almeno 88: i paesi nei quali si sono svolti processi iniqui; almeno 122: i paesi nei quali vi sono stati maltrattamenti e torture; almeno 20: i paesi, quattro dei quali nel 2015, che hanno riconosciuto per legge i matrimoni o altre forme di relazione tra persone del medesimo sesso. L’Italia vieta la tortura ma non la punisce di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 25 febbraio 2016 Mentre è profonda la pena e l’indignazione per la fine che ha trovato Giulio Regeni in Egitto, arriva la sentenza della Corte europea dei diritti umani che ha condannato l’Italia per violazione del divieto di tortura, omissione di punirne i colpevoli, violazione illegale della libertà personale in danno di Abu Omar. Menzionare insieme le due vicende, senza dimenticare ovviamente le profonde differenze, è consentito dal fatto che si tratta in entrambi i casi di torture (e di torture in Egitto). La sentenza della Corte europea riguarda l’aiuto dato dai servizi segreti italiani nel 2003 ad agenti della Cia americana per l’illegale sequestro e trasferimento di Abu Omar in una prigione segreta in Egitto, per esservi sottoposto a interrogatori e tortura. Il sequestro ebbe tra l’altro l’effetto di sottrarre Abu Omar alle indagini della procura della Repubblica di Milano per i suoi legami con organizzazioni terroristiche islamiste. Sul sequestro e sul trasferimento in Egitto le indagini e i processi svolti in Italia hanno accertato i fatti e i reati che sono stati commessi. Ma i responsabili sono rimasti impuniti per effetto, prima del segreto di Stato che i vari successivi governi hanno imposto coprendo gli attori italiani e la Corte costituzionale ha convalidato, e poi delle grazie presidenziali che hanno giovato ai funzionari americani condannati. Poiché il divieto di tortura, per avere effetto, implica il dovere degli Stati di individuare e punire i colpevoli e invece le varie istituzioni politiche italiane hanno impedito alla magistratura di farlo, la sentenza della Corte europea dei diritti umani era più che prevedibile (la Corte europea espressamente rende omaggio al lavoro della magistratura italiana contrapponendolo all’intervento politico teso a vanificarlo). In una vicenda molto simile la Macedonia aveva tenuto un comportamento analogo a quello italiano e anch’essa era già stata condannata, cosicché le autorità italiane sapevano bene a che cosa l’Italia sarebbe andata incontro sul piano europeo. L’Italia, come tutti i paesi europei, è legata da convenzioni liberamente accettate, che vietano in ogni e qualsiasi circostanza la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. E un simile divieto si trae naturalmente anche dalla Costituzione. Ma, come si sa e non si deve cessare di ricordare, l’Italia tuttora evita di darsi una legge che punisca adeguatamente la tortura, dopo oltre trent’anni dalla firma della Convenzione dell’Onu contro la tortura e infiniti richiami internazionali. La conseguenza è che torture accertate, come ad esempio quelle avvenute nel carcere di Asti o quelle compiute dalla polizia in coda alle giornate del G8 di Genova, sono rimaste impunite (altre condanne dell’Italia sono perciò venute e verranno ancora). Nessuna sorpresa dunque per la sentenza della Corte europea e forse poca speranza che governo e Parlamento riflettano e non facciano finta di niente. Non può però anche esserci troppa sorpresa per l’orribile vicenda di Giulio Regeni. Sono centinaia le persone arrestate, torturate, scomparse in Egitto, sotto questo regime forse più ancora nel precedente. È una situazione nota e denunziata da tempo da serie organizzazioni indipendenti: una situazione che non ha impedito all’Italia di intrattenere ottimi rapporti con quei governi. Tuttavia in questo caso la vittima è un italiano. È giusto che il governo pretenda chiarezza e punizione dei responsabili, sia perché è dovere dei governi operare per proteggere i propri cittadini, sia perché la lotta contro la tortura passa anche attraverso la punizione di chi la pratica. Ma non si dovrebbe essere indifferenti alla violazione dei diritti fondamentali di chi ha la ventura di non essere un connazionale. A partire dall’immediato dopoguerra il rispetto dei diritti fondamentali delle persone (tutte, indipendentemente dalla nazionalità) è inteso come un obbligo internazionale per gli Stati, che non possono più opporre il principio di non interferenza in un dominio riservato. E l’individuo ha trovato strumenti internazionali per far valere i suoi diritti nei confronti degli Stati. Dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, fino alla Convenzione europea dei diritti umani del 1950 e alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000 gli Stati che liberamente vi hanno aderito hanno accettato sia l’obbligo di rispettare tutti i diritti che quelle Carte elencano, sia il controllo esterno da parte della comunità internazionale e dei suoi organi. E in particolare hanno accettato che il divieto di praticare o consentire che si pratichi la tortura è assoluto. Lo storico rivolgimento rappresentato dall’entrata in campo della persona umana individuale e della comunità internazionale (per noi, in primo luogo, europea) incontra tuttavia un ampio margine di omaggio ipocrita e di concreta reticenza. Un carattere proprio dei diritti umani fondamentali è quello di (pretendere di) essere universali e indivisibili. Si tratta di un ideale, una tendenza, ma certo non una realtà. Lo scarto tra ciò che è scritto nelle Convenzioni e nelle Costituzioni, oltre che nei libri, e ciò che si pratica è grande. Basta pensare alle diverse concezioni dei diritti individuali, che al mondo occidentale oppongono le ampie aree dell’Asia e dell’Africa, alle caratteristiche di molti paesi islamici, fino a differenze che dividono l’Occidente nella cui storia siamo immersi. Persino in Europa ed anche nel più ristretto club dei 28 Stati membri dell’Unione europei emergono profonde divergenze sul modo di riconoscere e proteggere i diritti fondamentali. Però, in Europa, almeno nelle dichiarazioni ufficiali e nelle leggi, non viene messo in discussione il divieto assoluto di tortura. Quel valore fondante della nostra identità nel tutelare diritti umani di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 25 febbraio 2016 Il merito di Amnesty International e di tutte le altre organizzazioni in difesa dei diritti umani nel concentrare l’attenzione del mondo su principi, alla base della nostra civiltà, come quello del riconoscimento dell’altro. Ci sono spiragli di ottimismo nel rapporto 2015 di Amnesty International: condannati alla pena capitale rilasciati, negoziati di pace che vanno avanti, sentenze repressive che vengono cancellate. Ma c’è soprattutto una buona notizia, nel mare di fatti preoccupanti, dalla repressione alle torture, dai massacri alle discriminazioni. La buona notizia è che c’è ancora chi se ne occupa. Il rischio di voltarsi dall’altra parte. Non nascondiamocelo: la sequenza di tristezze e atrocità registrate rischia di sfiancare chiunque. Un vecchio e discutibile luogo comune sottolinea che una notizia, per essere tale, debba essere "sempre" una cattiva notizia. Ma questo nell’epoca dell’informazione significherebbe essere sempre sommersi di fatti tragici e deprimenti. La tentazione, comprensibile, è di guardare dall’altra parte. Per fortuna c’è chi trova le energie per raccogliere le informazioni, elaborarle, coordinare le azioni collettive e persino immaginare una strategia politica complessiva limpida. La lucidità di chiamare le cose con il loro nome. Dobbiamo ringraziare i militanti di tutte le organizzazioni, e Amnesty in primo luogo, perché il loro lavoro di sorveglianza è per tutti noi. Non è per i dissidenti della Birmania o i detenuti delle carceri egiziane: la tutela dei diritti è un valore nostro, che fonda la nostra identità proprio nel riconoscimento dell’"altro" come essere umano. Quando si indebolisce la luce accesa nel secolo dei lumi, siamo noi a non vedere come ci stiamo trasformando. Siamo tirati da una parte dal feticcio della sicurezza pubblica, in nome del quale si sacrificano libertà fondamentali, e dall’altra dagli interessi privati, non dichiarati ma sempre potenti. Amnesty conserva la freddezza e la lucidità necessarie per chiamare ogni cosa con il suo nome, sfuggendo a inquadramenti ideologici fuori tempo massimo. Con le sue denunce scontenta tutti i Paesi del mondo: e questa è la migliore garanzia che sta facendo un buon lavoro. E che merita il nostro "grazie". L’odissea degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, Regioni colpevoli dei ritardi di Carmine Gazzanni lanotiziagiornale.it, 25 febbraio 2016 Dovevano chiudere nel 2013 ma hanno ancora 164 detenuti. Così si sono bruciati 273 milioni, senza trovare soluzioni. Forse l’unica parola che avrebbe senso pronunciare è "vergogna". E non tanto per gli incredibili ritardi e per i continui rinvii della data ultima, non tanto perché, nel frattempo, sono stati bruciati parecchi soldi pubblici (in totale parliamo di 273 milioni di euro), quanto per il fatto che, oggi, nonostante ancora siamo in alto mare, nessuna istituzione ha il coraggio di prendersi le proprie responsabilità riguardo alla mancata chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg). Perché il punto è uno: l’Italia non è in grado di chiudere "luoghi di tortura". Scaricabarile - È questo il quadro che emerge dall’ultima relazione presentata in Parlamento. Inizialmente dovevano chiudere il 31 marzo 2013 ma è stato deciso di rinviare la data di un altro anno. E poi ancora un altro anno. E un altro anno ancora. Fino ad arrivare, appunto, al 31 marzo 2015. Da aprile dell’anno scorso, infatti, gli Opg avrebbero dovuto chiudere e lasciar posto alle cosiddette "Rems" (Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza), strutture regionali (16 in totale), che dovrebbero essere meno repressive e più votate alle cura sanitaria. Ebbene, è passato un altro anno dall’ultima scadenza fissata dal Governo, ma negli Opg risultano presenti ancora 164 internati. E solo due sui sette complessivi sono ormai vuoti, mentre, per dire, a Montelupo Fiorentino ancora ci sono 48 detenuti rinchiusi. Senza dimenticare un altro particolare: a Castiglione delle Stiviere, secondo le associazioni, si è solo cambiato targa "trasformandosi" da Opg in Rems, ma restano oltre 200 internati. Insomma, un fallimento su tutta la linea. Un fallimento, però, che nessuno vuole conoscere. La situazione che emerge dalle pagine della relazione consegnata a Montecitorio è a dir poco imbarazzante. Dal report, infatti, emerge come l’Autorità Giudiziaria abbia attribuito all’Amministrazione Penitenziaria (Dap) "la mancata esecuzione dei provvedimenti di applicazione della misura di sicurezza detentiva". Lo stesso Dap, però, ha risposto invece che è l’Amministrazione regionale a provvedere alla "esecuzione dei provvedimenti emessi dall’Autorità Giudiziaria". Insomma, è il caos totale. E in tutto questo le Regioni? Dormono, come riconosciuto dagli stessi Tribunali di Sorveglianza di Reggio Emilia, Firenze e Messina. A questi, infatti, si sono rivolti gli stessi internati e i loro familiari, non vedendosi riconsocere i loro diritti. Ebbene, i giudici hanno riconosciuto alle Regioni "la responsabilità della situazione di fatto oggetto dei reclami e lesiva dei diritti dei reclamanti e, pertanto, l’onere della soluzione opportuna a porre rimedio al pregiudizio, assegnando precisi termini per l’adozione dei necessari provvedimenti". Termini, però, che mancano e che nessuno ha dato, tanto che il Governo, nell’ultimo Consiglio dei ministri di venerdì, ha nominato (finalmente, secondo le associazioni che si stanno occupando della vicenda) un commissario nazionale, nella persona di Franco Corleone, già garante dei detenuti. Esito amaro - Ma c’è da giurarci: Corleone non avrà un compito facile. A oggi numerose Rems non sono aperte (come in Calabria) e questo ha fatto sì che spesso i condannati con problemi psichici siano stati trasferiti in altre Regioni. Ma, effetto domino, ciò ha creato un altro problema: se nelle Rems sono ricoverati 455 pazienti, altri 98 sono "in stato di libertà" perché "non hanno fatto ingresso in alcuna struttura". E si tratta di persone "socialmente pericolose", di cui lo Stato continua a non occuparsi. Inspiegabilmente. Pratiche gratis in quattro carceri italiane grazie ai notai volontari di Gabriella Meroni Vita, 25 febbraio 2016 L’associazione Notai cattolici mette a disposizione i propri associati negli istituti di Pescara, Perugia, Spoleto e Orvieto per assistenza giuridica ai detenuti nel disbrigo di varie pratiche in ambito di lavoro, famiglia e civilistico in generale. Domani la firma degli ultimi due protocolli in Umbria. Esattamente un anno dopo il lancio ufficiale, nel carcere di Perugia (ma ancora prima era partito a Pescara per iniziativa di un singolo volontario, il notaio Massimo D’Ambrosio), il progetto "Un notaio per le carceri italiane" sarà attivo da domani anche nel carcere di Orvieto e la casa di reclusione di Spoleto. L’iniziativa, promossa dall’Associazione italiana notai cattolici-Ainc, che ha sede nell’istituto Serafico di Assisi, intende rispondere alle necessità di assistenza nel disbrigo di pratiche giuridiche dei detenuti che riguardano vari ambiti: lavoro, relazioni familiari, situazioni patrimoniali e civili in generale. In un comunicato, l’Ainc fa infatti presente che anche presso la popolazione carceraria "si registra la necessità di assistenza nel disbrigo di pratiche giuridiche", e l’associazione quindi si impegna "a fornire assistenza gratuita a favore della popolazione detenuta indigente per la cura di pratiche giuridiche e notarili". A Spoleto la convenzione per la consulenza gratuita ai detenuti sarà firmata domani 25 febbraio dal dott. Luca Sardella, direttore di entrambi le carceri e dal Notaio Roberto Dante Cogliandro, Presidente dell’Ainc. La Casa di reclusione di Spoleto è un carcere ideato e realizzato per i detenuti a regime di alta e media sicurezza. Al suo interno si trovano 5 diversi circuiti penitenziari (AS3, AS, MS, Protetti e 41bis. Saranno necessarie pertanto tappe di verifica per realizzare il progetto nella maniera migliore. L’Ainc metterà comunque al servizio della comunità penitenziaria i propri notai associati per un’attività di consulenza alle persone meno abbienti o in stato di difficoltà. Il progetto pilota sarà presto attivato in tutte le regioni d’Italia grazie alla determinazione e alla presenza dei notai associati, che prestano assistenza volontaria e gratuita, nello spirito "dei principi espressi dalla dottrina sociale della Chiesa, improntati alla cultura del rispetto dei valori fondamentali dell’esistenza sia in ambito sociale, sia in quello professionale, e per favorire l’affermarsi della concezione del diritto, quale ordine di giustizia fra gli uomini". Celebrazioni Gramsci, in concorso 29 opere dalle carceri italiane Ansa, 25 febbraio 2016 Tutte ispirate alla prigionia di Antonio Gramsci: le migliori, saranno proclamate sabato 27 febbraio, alle 17, ad Ales da una giuria composta dagli artisti Pinuccio Sciola, Alberto Scalas e Massimo Spiga. Cento opere da 29 istituti di detenzione di tutta Italia, tutte ispirate alla prigionia di Antonio Gramsci: le migliori, saranno proclamate sabato 27 febbraio, alle 17, ad Ales da una giuria composta dagli artisti Pinuccio Sciola, Alberto Scalas e Massimo Spiga. Ci sarà anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. La seconda edizione del premio "Gramsci visto da dietro le sbarre", promosso dal Comune che ha dato i natali all’intellettuale sardo e dall’associazione "Casa Natale Antonio Gramsci", è la prima iniziativa nell’ambito dell’"Anno Gramsciano" istituito il 19 gennaio scorso con una delibera della Giunta Pigliaru. "La presenza del ministro Orlando dimostra l’importanza dell’iniziativa - ha detto questa mattina l’assessore regionale alla Pubblica istruzione, Claudia Firino - con l’anno gramsciano vorremmo riportare questo grande intellettuale, il più grande che abbiamo, al centro del dibattito e delle discussioni, ma vorremmo anche promuovere un lavoro di riappropriazione della sua opera da parte di noi sardi, dato che a livello accademico è studiato più all’estero che in Italia". Alberto Coni, presidente dell’associazione Casa Natale, ha ricordato che "l’idea di istituire un premio nasce da un quadro di Peppinetto Boi, pittore di Ales, che rappresentò le idee di Gramsci mentre dal carcere prendono il volo sulle ali di un gabbiano". Tra le carceri sarde partecipa solo quella di Tempio; tra quelle della penisola, anche Rebibbia e San Vittore. Tutti i concorrenti riceveranno un attestato. Il primo classificato riceverà 500 euro, 300 andranno al secondo, 200 al terzo. Legge elettorale, il Tribunale di Messina boccia l’Italicum di Dino Martirano Corriere della Sera, 25 febbraio 2016 La legge rinviata alla Corte Costituzionale. Il gruppo di avvocati anti-Italicum ha convinto i giudici su sei dei 13 motivi di ricorso presentati in tutta Italia. Il tribunale di Messina batte tutti sul tempo e rinvia la nuova legge elettorale, l’Italicum, alla Corte costituzionale. I giudici siciliani, come i colleghi togati di altri 17 capoluoghi, erano stati chiamati in causa dal gruppo avvocati anti-Italicum guidati da Felice Besostri e da Vincenzo Palumbo. La sentenza - I due avvocati, nell’ambito della campagna contro l’Italicum promossa dal Coordinamento democratico per la Costituzione, avevano presentato 18 motivi di ricorso (per altrettanti dubbi di incostituzionalità) contro la legge fortissimamente voluta (anche a costo di ricorrere al voto di fiducia) dal presidente del Consiglio Matteo Renzi. A Messina, le udienze pubbliche in tribunale si erano svolte il 5 e il 12 febbraio. E dopo 12 giorni è arrivata l’ordinanza che apre la strada per un esame di costituzionalità dell’Italicum da parte della Consulta. Accolti 6 motivi su 13 - Il gruppo di avvocati anti-Italicum è riuscito a convincere i giudici di Messina che hanno giudicato "non manifestamente infondati" 6 dei 13 motivi di ricorso presentati in tutta Italia. Per cui il tribunale ha accolto i seguenti motivi di ricorso: il terzo, ovvero il vulnus causato dalla legge elettorale al principio di rappresentanza territoriale; il quarto, il vulnus causato al principio di rappresentanza democratica (capilista bloccati); il quinto, mancata previsione di una soglia minima per accedere al ballottaggio; il sesto, l’impossibilità da parte dell’elettore di scegliere il deputato; il 12esimo (con riferimento al Consultellum che oggi sarebbe applicato all’elezione del Senato), l’irragionevolezza delle soglie di sbarramento di accesso al Senato (8% per i partiti, 20% delle coalizioni) quando il Senato ha la metà dei componenti della Camera; il13esimo, l’irragionevolezza di aver varato una legge elettorale per la sola Camera dei deputati quando oggi la Costituzione prevede il bicameralismo paritario tra Camera e Senato. Bersani e Finocchiaro i primi a sapere - L’avvocato Besostri, che ha appreso la notizia mentre stava per varcare il portone del Senato, ha incontrato per strada l’ex segretario del Pd, Pierluigi Bersani, e la presidente della prima commissione del Senato già relatrice dell’Italicum, Anna Finocchiaro (Pd). Ad entrambi, Besostri ha riferito le notizie provenienti da Messina: "Mi sembra che la presidente Finocchiaro non sia stata contenta di questo un’estate notizia", ha detto l’avvocato. Il ruolo della Corte - In realtà, la Corte costituzionale avrebbe dovuto affrontare la materia elettorale anche in assenza dell’ intervento del giudice a quo, in questo caso il tribunale di Messina. Infatti, la riforma costituzionale del bicameralismo paritario - all’esame del Parlamento e destinata a essere sottoposta a referendum confermativo a ottobre - prevede il controllo preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali, compresa quella già approvata ma ancora mai utilizzata. L’Italicum, appunto. Il nuovo presidente della Corte - è stato eletto con 14 voti e una scheda bianca il giudice Paolo Grossi - ha detto che la questione di costituzionalità relativa all’Italicum rilanciata dal tribunale di Messina verrà affrontata quanto prima: "Prevedo un tempo ragionevole per arrivare a qualcosa di definito...Alla Corte non si hanno lunghe attese, oggi non c’è arretrato se non quello relativo all’ultimo mese, mese e mezzo". Il giudice Paolo Grossi, poi, ha confermato il giudizio negativo che il suo predecessore, Alessandro Criscuolo, aveva dato sul sindacato preventivo di costituzionalità introdotto dal Parlamento sulla legge elettorale: "Quando si parla delle istituzioni parlamentari - ha detto il neo presidente della Consulta - occorre la massima cautela ma mi sento di condividere con molta fermezza quanto espresso dal presidente Criscuolo". Compensazione, parola alla Consulta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2016 Il nuovo regime di compensazione delle spese finisce alla Corte costituzionale. Una delle misure introdotte circa un anno e mezzo fa nel Codice di procedura civile dal decreto legge n. 132 del 2014 non convince il giudice del lavoro di Torino che, con ordinanza del 30 gennaio, ha rinviato la norma alla Consulta per la valutazione di una pluralità di profili di illegittimità. La norma che punta a scoraggiare il ricorso al giudice (e comunque a limitarne la discrezionalità che, troppo spesso, sottolinea la relazione al decreto legge, ha avuto l’effetto di incentivo alla lite), peraltro inserita in un decreto che ha dato corpo a un circuito alternativo alla giurisdizione classica per la soluzione di alcune tipologie di controversie con il potenziamento degli arbitrati e l’introduzione della negoziazione assistita, prevede che devono essere sanzionati con la condanna alle spese tutti i casi di soccombenza. Con sole tre eccezioni: la soccombenza reciproca, l’assoluta novità della questione trattata, il cambiamento della giurisprudenza rispetto alle questioni chiave. Una svolta, sottolinea l’ordinanza, rispetto a una tradizione che da 150 anni caratterizza il regime della compensazione delle spese di lite in termini di apertura, sintetizzata nella penultima versione dell’articolo 92 che faceva riferimento a una nozione ampia e imprecisata come quella di "gravi ed eccezionali ragioni". Ora l’ordinanza mette in evidenza una serie di rilievi critici. A partire dalla tassatività dell’intervento in una materia che, invece, alla luce della giurisprudenza della Cassazione, si sarebbe piuttosto prestata ad esemplificazioni. È vero, ammette il giudice torinese, che il legislatore, nel determinare le norme di natura processuale, ha un’ampia discrezionalità; tuttavia, anche questa discrezionalità deve confrontarsi con una serie di limiti perché non diventi arbitrio. Per esempio va rispettato il parametro costituzionale della ragionevolezza, come pure quello della parità di trattamento o ancora quello del giusto processo o del diritto all’azione giudiziale. Tutti parametri che l’ordinanza ritiene siano stati compromessi dal ricorso a una norma che isola tre sole ipotesi di compensazione, già individuate dalla Cassazione, da tutte le altre, a medesimo titolo fatte proprie dalla Corte, altrettanto dotate di gravità ed eccezionalità. È il caso dell’ipotesi di cambiamento della giurisprudenza: perché, si chiede l’ordinanza, ammettere questa ipotesi ed escludere la situazione di accertato e continuo contrasto di giurisprudenza? Oppure perché ammettere la novità del fatto ed escludere l’oggettiva difficoltà di accertamenti di fatto? Tutte ipotesi che avrebbero certo potuto integrare gli estremi del caso grave ed eccezionale che avrebbe consentito la compensazione delle spese di lite sulla base della disciplina introdotta nel 2009 e poi azzerata nel 2014. A venire compromesso è allora il principio di eguaglianza. Allora, il principio di ragionevolezza è leso dal disallineamento tra obiettivo - contrasto di una prassi giudiziaria - e strumento normativo utilizzato - limitazione estrema ed eccessiva dei casi di compensazione -. Ma anche il diritto ad agire, assicurato dalla Costituzione con l’articolo 24 comma 1, viene messo in un angolo, dal momento che si tende a scoraggiare in maniera indebita l’esercizio dei diritti in sede giudiziaria: in questo modo lo strumento di deflazione processuale agisce in maniera incongrua quando la condotta della parte è caratterizzata da correttezza, prudenza e buona fede, difetto di informazioni, difficoltà di conoscenza dei fatti. Rapporti tra imputabilità e colpevolezza. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2016 Imputabilità - Rapporti con il dolo - Autonomia - Conseguenza - Compatibilità del dolo generico con il vizio di mente (parziale). L’imputabilità e la colpevolezza esprimono concetti diversi ed operano anche su piani diversi, sebbene la prima, quale componente naturalistica della responsabilità, debba essere accertata con priorità rispetto alla seconda, con la conseguenza che il dolo generico è compatibile con il vizio parziale di mente. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 29 gennaio 2015 n. 4292. Imputabilità - Rapporti con il dolo - Autonomia delle nozioni - Fondamento. Il riconoscimento della diminuente del vizio parziale di mente è pienamente compatibile con la sussistenza del dolo, poiché l’imputabilità, quale capacità di intendere e di volere, e la colpevolezza, quale coscienza e volontà del fatto illecito, costituiscono nozioni autonome ed operanti su piani diversi, sebbene la prima, quale componente naturalistica della responsabilità, debba essere accertata con priorità rispetto alla seconda. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 20 dicembre 2011 n. 47379. Imputabilità - Vizio di mente (parziale) - Intensità del dolo - Compatibilità - Diniego delle attenuanti generiche - Legittimità. La diminuente del vizio parziale di mente è compatibile con una maggiore intensità del dolo, che può giustificare il diniego delle attenuanti generiche in considerazione delle gravi modalità della condotta criminosa. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 18 maggio 2011 n. 19639. Imputabilità - Vizio di mente (parziale) - Compatibilità con il dolo eventuale. Vi è compatibilità tra il vizio parziale di mente ed il dolo eventuale, poiché i due concetti operano su piani diversi, l’una attenendo alla capacità di intendere e di volere e l’altro alla intensità del dolo. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 5 novembre 2010 n. 39266. Imputabilità - Vizio di mente (parziale) - Compatibilità con il dolo generico. La seminfermità mentale è compatibile con il dolo generico. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 28 ottobre 2009 n. 41357. Il fondo patrimoniale non protegge i beni dalle pretese del fisco di Angelo Busani Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2016 Corte di cassazione, sentenza 24 febbraio 2016, n. 3600. Il fisco prevale sul fondo patrimoniale. Più precisamente, il vincolo del fondo può non proteggere i beni vincolati in esso rispetto all’azione esattoriale per un credito del fisco: "Anche un debito di natura tributaria, sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale potrebbe ritenersi contratto per soddisfare" i bisogni della famiglia del contribuente che ha istituito il fondo patrimoniale. Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza n. 3600 depositata ieri, consolidando un orientamento espresso nelle sentenze n.11230/2003, n. 12998/2006 e n. 3738/2015. Decisioni suffragate da motivazioni che si fatica a condividere. Il ragionamento parte dall’articolo 170 del Codice civile, per il quale il fondo patrimoniale protegge i beni che vi sono immessi contro l’esecuzione forzata promossa per "debiti che il creditore conosceva esser stati contratti per i bisogni della famiglia". Come giustamente afferma la Cassazione, la norma prefigura tre possibili situazioni: i debiti conosciuti dal creditore come contratti nell’interesse della famiglia (in questo caso il fondo patrimoniale non è protettivo, per espressa previsione di legge); i debiti conosciuti dal creditore come contratti per scopi estranei all’interesse della famiglia (qui il fondo è protettivo, per espressa previsione di legge); i debiti non conosciuti dal creditore come contratti per scopi estranei all’interesse della famiglia. Quest’ultima situazione è solo implicitamente prevista dalla norma. Quindi, secondo la Cassazione, il fondo in queste situazioni non è protettivo, perché la legge non accorda protezione in questo caso. Cosi, se sia dimostrato che il debito (di qualsivoglia natura: contrattuale, extracontrattuale o tributaria) rientra in questo ambito, il fondo non si presta a proteggere i beni che vi sono vincolati. Questo ragionamento, però, si presta almeno a due facili contestazioni. Da un lato, è tutto da dimostrare che i debiti di natura non conosciuta dal creditore siano di categoria diversa da quelli conosciuti come estranei alla famiglia: invero, il legislatore ha inteso rendere i beni vincolati nel fondo disponibili ai soli creditori che consapevolmente abbiano maturato le loro ragioni di credito in dipendenza del soddisfacimento di bisogni familiari. Ogni altro credito non dovrebbe trovare soddisfazione sui beni del fondo. D’altro lato, che il fisco sia un creditore "che non conosceva" la natura del suo credito e che del credito fiscale sia debitore un soggetto che, contraendolo, sta soddisfacendo un bisogno della famiglia, sono due proposizioni che è difficile comprendere. Infatti, il fisco conosce benissimo la natura dei suoi crediti; ed essi sono crediti che appare implausibile qualificare come maturati per il soddisfacimento di un bisogno familiare. Il debito fiscale, infatti, origina da un’attività (ad esempio: di lavoro autonomo) che la legge interpreta come manifestazione di capacità contributiva; non è l’attività che genera il credito fiscale (semmai genera un credito della controparte contrattuale del debitore), ma il fatto che la legge ravvisi in tale attività un presupposto per l’applicazione di un’imposta. L’attività può benissimo essere (o meno) compiuta nell’interesse della famiglia, ma non certo il debito fiscale che ne origina può qualificarsi contratto nell’interesse della famiglia, perché è il derivato indiretto di quell’attività, dipendente da una norma di diritto pubblico che attribuisce allo Stato il potere di prelievo. Chi affitta casa non commette favoreggiamento della prostituzione di Andrea A. Moramarco Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2016 Corte d’appello di Taranto, sentenza 31 agosto 2015, n. 706. Il locatore che, a prezzo di mercato, concede in locazione un appartamento a una prostituta non commette il reato di favoreggiamento della prostituzione, anche se è consapevole che la locataria vi eserciterà l’attività. Il contratto, infatti, non rappresenta un effettivo ausilio per la prostituzione. Nel caso di specie, tuttavia, il locatore è stato condannato perché non si limitò a locare l’appartamento, ma lo trasse egli stesso in locazione per adibirlo a tale attività. Non c’è reato di maltrattamenti se nella lite in famiglia c’è "parità" tra i coniugi di Giorgio Vaccaro Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2016 Corte di cassazione, sentenza 9 febbraio 2016, n. 5258. Il reato di maltrattamenti in famiglia si può escludere considerando le qualità personali dei coniugi. Lo ritiene la Cassazione, nella sentenza 5258/2016, depositata il 9 febbraio dalla Sesta sezione penale: l’inesistenza dei maltrattamenti è dimostrata dal fatto che entrambi gli interessati avessero "livello di formazione professionale, cultura, condizioni sociali ed economiche ben superiori alla media", che la moglie reagisse alle intemperanze del marito e che la loro figlia fosse stata affidata ai servizi sociali e non a uno dei genitori. Tutto nasce dal "rapporto di accesa conflittualità, tensione e radicata contrapposizione" instauratosi tra i coniugi, "causa di grave disagio soprattutto per la figlia minore". Perciò, nella causa di separazione giudiziale, il Tribunale ne aveva disposto "in via provvisoria ed urgente" l’affidamento ai servizi sociali, affievolendo le potestà dei genitori e ammonendoli sulla "gravità delle conseguenze giuridiche ed esistenziali delle loro inadempienze". Alla luce di questo, la Cassazione ritiene fondata e correttamente motivata la valutazione fatta nella sentenza d’appello, che aveva riformato quella di primo grado, assolvendo il marito dai reati di maltrattamenti in famiglia e violenza privata nei confronti della moglie. In sostanza, la Corte resta sul suo orientamento prevalente secondo cui per configurare il reato previsto dall’articolo 572 del Codice penale, "la materialità del fatto deve consistere in una condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendo abitualmente tali sofferenze". Dunque, non bastano singoli e sporadici episodi di percosse o lesioni, perché il reato di maltrattamenti è necessariamente abituale: si realizza e si caratterizza "per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati, potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica) ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi - procedibili solo a querela) ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo" secondo il concetto di abitualità. Nel caso in questione, sono stati provati solo episodi "derivanti da situazioni contingenti e particolari, che possono verificarsi nei rapporti interpersonali di una convivenza familiare", fatti che "pur non integrando il delitto di maltrattamenti, conservano la propria autonomia di reati contro la persona". Secondo la Cassazione, hanno operato bene i giudici di appello, che hanno sì esaminato l’atteggiamento del marito rilevando il ricorso da parte di quest’ultimo "a toni di particolare veemenza e in comportamenti spesso trasmodanti nella maleducazione", ma hanno anche evidenziato come l’atteggiamento della moglie si caratterizzasse per una "costante capacità reattiva … e l’assenza di un supino atteggiamento rispetto alle intemperanze del marito". Una situazione protrattasi per anni, con la conseguente impossibilità di configurare chi, tra i due, avesse mai assunto una posizione di passiva soggezione dell’una nei confronti dell’altro. Assegno di mantenimento, tenuità del fatto se l’omesso versamento è di poche mensilità di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2016 Tribunale Genova - Sezione I penale - Sentenza 16 settembre 2015 n. 4440. Il mancato versamento dell’assegno disposto in favore dell’ex coniuge per il mantenimento del figlio può essere considerato di particolare tenuità, tale da meritare l’applicazione della non punibilità di cui all’articolo 131-bis del codice penale, se l’omissione ha riguardato poche mensilità e la somma è stata versata in ritardo, a prescindere dalle considerazioni della persona offesa. Questo è quanto emerge dalla sentenza del Tribunale di Genova 4440/2015. La vicenda - La decisione ha riguardato un uomo imputato del reato previsto dagli articoli 3 e 4 della legge 54/2006 (disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli) e dall’articolo 12-sexies della legge 898/1970 (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) in riferimento all’articolo 570 del Cp (violazione degli obblighi di assistenza familiare), cioè per essersi sottratto all’obbligo di corrispondere all’ex coniuge l’assegno periodico stabilito dal provvedimento emesso dal Tribunale dei minorenni per il mantenimento del figlio. In particolare, l’uomo veniva processato perché nell’arco di poco meno di un anno non aveva corrisposto alla ex moglie quattro mensilità, per un totale di 1400 euro. Nel procedimento emergeva poi che tale somma era stata versata successivamente dall’imputato, il quale si era giustificato sostenendo di aver riscontrato difficoltà a corrispondere l’importo dovuto con modalità continue a causa del suo lavoro di marinaio. La particolare tenuità del fatto - Il Tribunale riconosce la commissione del reato da parte dell’imputato, in quanto il delitto in questione si perfeziona con il semplice mancato pagamento della somma dovuta; tuttavia ritiene che la condotta sia stata occasionale e che le conseguenze del ritardato pagamento siano state eccessivamente enfatizzate dalla ex moglie. Ciò posto, il giudice ritiene che sussistano tutte le condizioni per l’applicabilità della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all’articolo 131-bis del Cp, ovvero l’offesa di particolare tenuità ed il comportamento non abituale del reo, non assumendo rilevanza le valutazioni soggettive della persona offesa. "È dunque ben possibile - afferma il Tribunale - che il nuovo istituto trovi applicazione anche contro la volontà della persona offesa nel caso in cui il fatto valutato nella sua complessità sia di portata lesiva pressoché nulla e non desti alcun allarme sociale". Infine, il giudice consiglia l’uomo di predisporre un accredito bancario stabile al fine di evitare ulteriori denunce dalla ex moglie, "essendo comunque incontestabile il dovere di contribuire in modo adeguato, preciso e costante al mantenimento del figlio". Sì al permesso di soggiorno alla compagna omosessuale di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2016 Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 23 febbraio 2016, Pajic contro Croazia. Il partner di una coppia dello stesso sesso ha diritto a ottenere il permesso di soggiorno per ragioni legate al ricongiungimento familiare. È vero, infatti, che gli Stati hanno libertà nella scelta delle proprie politiche sull’immigrazione ma non possono violare il diritto alla vita familiare degli individui. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza Pajic contro Croazia, depositata il 23 febbraio. A rivolgersi a Strasburgo era stata una cittadina bosniaca cui era stata respinta la richiesta di permesso di soggiorno fondata sul ricongiungimento con la propria compagna che viveva in Croazia. Questo perché la legge interna in materia di immigrazione concede espressamente il diritto solo a partner di coppie eterosessuali, tacendo sulle altre. Una chiara violazione della Convenzione europea, scrive Strasburgo, che ha condannato la Croazia per violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare (articolo 8) e del divieto di discriminazione (articolo 14). Prima di tutto, i giudici internazionali hanno riconosciuto il diritto alla vita familiare - che include i legami di fatto e non solo quelli formalizzati dal matrimonio - alle coppie dello stesso sesso che godono, così, del diritto al pari delle coppie eterosessuali. Strasburgo, tra l’altro, sottolinea l’evoluzione nella nozione di famiglia e il fatto che un numero molto elevato di Paesi che hanno ratificato la Convenzione già prevede un riconoscimento giuridico alle coppie dello stesso sesso. È evidente che, nel prevedere l’attribuzione del permesso di soggiorno per il ricongiungimento unicamente a un partner eterosessuale e non a quello di una coppia same sex, lo Stato viola la Convenzione compiendo una disparità di trattamento. Tra l’altro, se lo Stato gode di un ampio margine di apprezzamento in materia di immigrazione, tale margine è limitato per questioni legate all’orientamento sessuale. Questo vuol dire che anche se non è previsto espressamente nella legislazione interna, il diritto ad ottenere il permesso di soggiorno per il partner dello stesso sesso va riconosciuto. Al Ministro Orlando per la retroattività nel risarcimento dell’ingiusta detenzione di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 25 febbraio 2016 A nome di oltre 100 firmatari l’appello per l’allargamento del risarcimento per l’ingiusta detenzione subita, abbiamo scritto al Ministro Orlando la lettera che riassumo di seguito. Gentile Ministro Orlando, le scrivo una breve lettera per chiederle un incontro come Ministro della Repubblica. Sono una delle persone che hanno contribuito a coordinare nel 2012 la campagna per l’introduzione della retroattività nel risarcimento dell’ingiusta detenzione ex 1989. Mi permetto di citare fra le altre firme Giovanni Russo Spena, Luigi Manconi, Andrea Orlando, Nikki Vendola, Giuliano Pisapia, Rita Bernardini, Giulia Bongiorno, Haidi Gaggio Giuliani. La campagna è partita su iniziativa del signor Giulio Petrilli, ingiustamente condannato a 5 anni e 8 mesi per partecipazione a banda armata negli anni 70, poi assolto, che non ha potuto usufruire del risarcimento entrato in vigore nel 1989 perché la legge non è retroattiva. La lunga battaglia di denuncia ed informazione politica nel Paese iniziata dopo il 2000 ha evidenziato che su ben 4 milioni di persone vittime di errori giudiziari, solo 25.000 hanno ottenuto il risarcimento. Grazie alla proposta di legge promossa dal Partito Radicale, nel 2012 Petrilli si è visto prima concedere e poi negare qualsiasi riconoscimento al risarcimento per le sue frequentazioni contrastanti col pentimento. Ora si è giunti, grazie al presentatore Onorevole Gianni Melilla di Sel, con il ddl 2871 recante "Modifiche agli articoli 314 e 643.... ingiusta detenzione" a quello che potrebbe essere l’atto costruttivo e risanatore di tante sofferenze e parzialità. L’intenzione di noi sottoscrittori è che venga ripreso in considerazione un capitolo particolare della giustizia e della storia italiana negli anni 70. Per queste ragioni siamo a chiedere un incontro dedicato al ddl sull’ingiusta detenzione. Diritto d’asilo, via la Bossi-Fini di don Armando Zappolini* Il Manifesto, 25 febbraio 2016 L’Unione europea non garantisce i valori di democrazia, solidarietà e giustizia. Questo affermava Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci, qualche giorno fa proprio sulle pagine del "manifesto", delineando la situazione dei migranti nel continente europeo. Le politiche seguite sin qui in Europa hanno avuto un obiettivo preciso: difendersi dagli immigrati, considerati un pericolo per le possibili ricadute economiche e sociali che poteva avere una presunta "invasione" di persone provenienti da un Sud del mondo scosso da guerre, dittature, povertà, fame. La conseguenza di queste scelte è stata la costruzione di un muro che dovrebbe respingere quanti più migranti è possibile, cercando di non farli arrivare sul nostro territorio o rimandandoli "a casa loro" nel più breve tempo possibile. Per raggiungere questo obiettivo non ci si è fatto scrupolo di siglare accordi anche con regimi brutali, come proprio l’Italia ha fatto con la Libia di Gheddafi. E, oggi, si arriva persino a mettere in discussione gli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone, e dunque il cuore stesso della costruzione europea. Noi riteniamo che questa politica sia corresponsabile delle migliaia di morti che si verificano lungo le diverse rotte delle migrazioni, così come della violazione sistematica dei diritti delle persone migranti. Siamo convinti che le persone che arrivano dal Sud del mondo siano una ricchezza in particolare per un paese come il nostro, che ha un tasso di invecchiamento impressionante. Per questo crediamo che il diritto d’asilo vada garantito anche ai migranti per ragioni economiche e a chi è fuggito a causa di disastri ambientali e che, finalmente, debba essere superata la legge sull’immigrazione Bossi-Fini. C’è poi la questione cruciale del modello di accoglienza. Le recenti vicende di Mafia capitale hanno mostrato con chiarezza tutti i limiti di un sistema che non garantisce la dignità delle persone accolte e può, invece, favorire lucrosi business. Il ministero degli Interni stima per l’accoglienza dei migranti del 2015 un costo complessivo superiore a un miliardo di euro. Al 10 ottobre 2015 il 72% delle persone accolte alloggiava presso le oltre 3mila "strutture temporanee" e solo il 21% presso le strutture dello Sprar (il Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e il 7% presso i centri di accoglienza governativi. Come funzionano queste "strutture temporanee"? A quali requisiti rispondono? Garantiscono i più basilari diritti delle persone migranti? Sappiamo, purtroppo, che in molti casi ci si accaparra un alto numero di migranti collocati in strutture del tutto inadeguate e senza alcuna progettualità specifica. Per mettere fine a queste situazioni pensiamo che debba essere costruito un sistema di accoglienza residenziale diffusa su tutto il territorio nazionale che punti su strutture di piccole dimensioni, capaci di assicurare una vita più umana. È urgente definire per tutte le tipologie di servizi per l’accoglienza specifici requisiti strutturali e organizzativi. Un’attenzione particolare va poi rivolta ai minori stranieri non accompagnati. Si deve garantire loro il principio di non discriminazione: non devono esistere strutture per soli minori stranieri con standard strutturali e criteri di qualità diversificati e con rette differenziate. Inoltre, va presidiato il loro diritto a non essere espulsi. Infine, è essenziale che vengano costituiti dei tavoli di coordinamento tra Regione, Comuni, prefetture e terzo settore. Miraglia chiudeva il suo intervento chiedendo all’Europa della solidarietà e dei diritti di scendere in piazza. Ci uniamo al suo invito, tanto più ora che lo spettro di un nostro coinvolgimento in una guerra in Libia appare sempre più concreto. * Presidente del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca) Se Panebianco non può esprimere opinioni (che non condivido) meglio partire di Ilvo Diamanti La Repubblica, 25 febbraio 2016 Ho studiato a Padova negli anni 70. E a Padova ho cominciato a insegnare - da precario, ovviamente - alla fine di quel decennio. Ho conosciuto bene, per questo, quegli anni bui. Quando studiare e insegnare non era facile. Perché l’Autonomia, allora, non era solo - né principalmente - una rivendicazione di libertà e indipendenza. Ma, spesso, l’esatto contrario. Così rabbrividisco di fronte alle contestazioni dei giorni scorsi contro Angelo Panebianco, durante le sue lezioni. Nelle aule dell’Università. Perché si tratta di un attacco alla libertà e all’indipendenza di un docente. Quindi, contro l’autonomia - uso l’iniziale minuscola solo per evitare confusioni - dell’insegnamento e della ricerca. E contro la libera espressione delle opinioni. In definitiva: un attentato all’Opinione Pubblica libera. Angelo Panebianco è uno Scienziato Politico fra i più noti e riconosciuti. Autore e co-autore di manuali sui quali si sono formati gli studenti di numerose Università. Anche nel mio corso, a Urbino. Il suo testo sui partiti politici è tradotto e utilizzato in tutte le principali sedi scientifiche internazionali. Impedirgli di insegnare, di tenere lezione è un atto indegno. E autolesionista: per l’Università e per gli studenti. Tanto più se il motivo - l’alibi - sono le sue opinioni espresse su un importante quotidiano. In questo caso, sulla guerra, sull’intervento in Libia. Ma lo stesso discorso sarebbe valido per qualsiasi altro argomento. Perché le idee si possono discutere, non impedire. Non si possono "arrestare". Per questo: tutto il mio sostegno ad Angelo Panebianco. Al suo diritto di esprimere le proprie idee e opinioni. Liberamente e apertamente. Anche quando sono diverse dalle mie - come, peraltro, succede. Perché non c’è futuro per la nostra Università (io insisto a scriverla con l’iniziale maiuscola) e per la nostra democrazia, se si impedisce ad Angelo Panebianco - e a qualsiasi altro professore, ricercatore, intellettuale - di insegnare. A causa delle sue idee. Delle sue opinioni. Espresse in un giornale o in un’altra tribuna pubblica. Perché l’Università, insieme ai suoi docenti e ricercatori, deve partecipare al dibattito pubblico. Per questo manifesto pubblicamente il mio aperto sostegno a Panebianco. Non per "spirito di casta". Ma per legittima difesa. Per continuare ad esprimere - io stesso - opinioni e idee, in sedi pubbliche, con la stessa libertà e autonomia di sempre. Anche se può non piacere. Anche - e tanto più - se può dispiacere. Diversamente, meglio andarsene. Altrove. Lucca: detenuto di 37 anni trovato morto in cella al carcere San Giorgio di Roberto Salotti luccaindiretta.it, 25 febbraio 2016 Un "giallo" che sarà sciolto definitivamente dall’autopsia. Un’altra morte all’interno delle mura del carcere San Giorgio di Lucca, dove il cadavere di un giovane detenuto è stato trovato riverso nello spazio angusto della sua cella. Sul caso farà luce la magistratura, visto che il pubblico ministero di turno ha disposto un esame necroscopico sulla salma per fugare ogni dubbio. Ma sullo sfondo resta un’emergenza "silente" che torna però alla luce ciclicamente: "Un carcere affollato di fronte ad una continua carenza di polizia penitenziaria", denuncia il segretario nazionale del sindacato Sappe, Donato Capece nel confermare la notizia della morte, ieri pomeriggio (24 febbraio), di un detenuto di 37 anni nella casa circondariale della città. Al momento si sospetta il suicidio perché quando gli agenti hanno trovato l’uomo, originario di Acerra ma residente a Massa, hanno avvertito un forte odore di gas nella cella, sprigionato dal fornellino che era acceso. Le circostanze tuttavia non permettono di escludere nemmeno che il detenuto possa essere stato ucciso da un malore fulminante, le cui cause saranno determinate eventualmente dai successivi accertamenti. Il dramma si è consumato attorno alle 16: a nulla è valso l’allarme dato dagli agenti che hanno scoperto l’uomo, in cella per scontare una pena per furto ed evasione, riverso a terra e già privo di conoscenza. Purtroppo era già morto. Al momento è necessaria la massima cautela e le cause della morte dovranno essere determinate dai riscontri autoptici per chiarire se si sia trattato di una fatalità inevitabile o se il detenuto abbia scelto di morire, uccidendosi con il gas. Ad ogni modo, secondo Donato Capece del Sappe, questo "è il prezzo che si rischia di pagare a causa della carenza del personale di polizia penitenziaria sottoposto a continui tagli. Gli agenti presenti - sottolinea - si danno da fare al massimo, ma questo non è sufficiente. Mancano i numeri per garantire una sorveglianza adeguata". L’ultimo suicidio nel carcere di Lucca risale al 22 ottobre del 2014. A decidere di farla finita, impiccandosi in cella, era stato un detenuto di soli 25 anni, di origini sinti. Era ricercato in tutta Italia perché doveva scontare una pena residua di tre anni e tre mesi di detenzione, dopo una condanna emessa dal tribunale di Bolzano e che era stata sostituita dall’affidamento in prova. Il giovane, però, conosciuto alle forze dell’ordine per reati che andavano dalla rapina, alle lesioni personali e al sequestro di persona, era sparito nel nulla. Su di lui pendeva quindi un ordine di cattura, che era stato eseguito il giorno prima del suicidio al termine di un concitato episodio al mercato di Viareggio. Gli agenti lo avevano notato in compagnia di una donna: subito dopo il giovane aveva iniziato a correre tra i banchi per far perdere le sue tracce. Firenze: il cardinale Betori "amnistia, l’appello del Papa caduto nel silenzio" di Marzio Fatucchi Corriere Fiorentino, 25 febbraio 2016 Il messaggio di Papa Francesco per la giornata della pace, consegnato ieri dal cardinale Giuseppe Betori al sindaco Dario Nardella, è l’occasione per un j’accuse sulle condizioni di Sollicciano e sull’amnistia. "L’appello del Papa per un’amnistia è caduto nel completo, deplorevole, silenzio dei politici - ha affermato Betori. Quando lo stesso appello fu rivolto da Papa Wojtyla nel 2000 ci fu dibattito, -questa volta c’è stato il silenzio assoluto. Non mi sembra una cosa buona". Ma Betori ha parlato anche di Sollicciano: "Il parroco del carcere mi dice che la risposta di Papa Francesco ai detenuti ha aiutato a trovare i fondi per rimettere a posto la struttura". Anche per Sollicciano c’è una situazione "non tollerabile. Francesco non parla di Sollicciano, ma ne parlo io. Ora che ci sono i fondi, interveniamo". Alla consegna del messaggio, una decina di consiglieri Pd, la presidente del Consiglio comunale Caterina Biti, mezza giunta. E nessun consigliere di opposizione. Vicenza: il Garante denuncia "carcere al collasso, vermi e sovraffollamento" di Roberto Cervellin Il Gazzettino, 25 febbraio 2016 Il carcere sta scoppiando. A dirlo non sono solo sindacati, associazioni e il cappellano don Luigi Maistrello, ma anche il garante dei detenuti, che ha il compito di tutelare i diritti delle persone private della libertà personale. Nella relazione annuale che esporrà al consiglio comunale, Rosario Vigneri è chiaro: la capienza è di 156 posti, ma le persone sono 216. Di più. "Le celle, realizzate per ospitare un solo individuo, sono occupate da due detenuti, che lamentano diverse situazioni di disagio, che vanno dalla precarietà degli impianti interni, alle crepe, alle infiltrazioni, a situazioni diffuse di fatiscenza. Un caso su tutti: il clamore scaturito dalla presenza di vermi nelle minestre somministrate nella mensa del personale di Polizia locale. Il padiglione destinato ai collaboratori di giustizia è occupato da 46 detenuti, il doppio dell’effettiva capacità di accoglienza". E come è noto non solo di vermi si trattò. Spuntarono anche denunce su scarafaggi e topi, e situazioni di degrado strutturale e igiene. Insomma, alla casa circondariale di San Pio X è emergenza spazi, ma non solo. I costi da sostenere sono sempre maggiori, come quelli delle telefonate dei detenuti. "Altro problema riguarda la difficoltà di iscrizione dei detenuti definitivi nelle liste anagrafiche del comune, che comporta ricadute penalizzanti nei confronti degli interessati, in quanto vengono meno molti benefici di natura sanitaria", prosegue il garante. Non va meglio negli uffici amministrativi, che soffrono di carenza di organico. Gli agenti di polizia penitenziaria previsti sono 197, mentre quelli assegnati sono 170, cioè quasi 30 in meno. "Nell’area amministrativa, sono in servizio 4 educatori, una unità in part time e un responsabile - sottolinea Vigneri - È legittimo ritenere che le attività formali svolte dai suddetti funzionari sono esposte al rischio di un collasso". Il garante sollecita infine la rieducazione dei detenuti attraverso servizi destinati alla collettività. "In 10 mesi di attività, ho scelto di essere presente all’interno del carcere una volta a settimana per tre ore e anche più. Dai colloqui ho scoperto cose impensabili. Come i ritardi inaccettabili da parte dell’autorità sanitaria locale su interventi per la tutela della salute. Per esempio mi sono sostituito a una struttura pubblica, in ritardo nell’assegnazione di un’apparecchiatura necessaria per scongiurare danni a organi fondamentali. A un altro detenuto è stato evitato l’annullamento della domanda di riconoscimento di invalidità civile". Porto Azzurro (Li): visita in carcere del Garante regionale dei diritti dei detenuti di Nunzio Marotti* Ristretti Orizzonti, 25 febbraio 2016 Franco Corleone, garante regionale dei diritti dei detenuti, ha visitato oggi la Casa di Reclusione di Porto Azzurro. Accompagnato da Nunzio Marotti, garante nel carcere elbano, Corleone ha incontrato il Direttore, Francesco D’Anselmo, presenti il Comandante della Polizia penitenziaria, Giuliana Perrini, gli ispettori D’Ascenzo e Moscargiuli, la responsabile dell’area educativa, Giuseppina Canu, il ragioniere Insalaco. Nel corso dell’incontro sono state illustrate le azioni attuate negli ultimi mesi per migliorare la struttura e la vivibilità nel carcere. "Ho trovato una realtà avviata in una direzione positiva", ha detto il garante regionale. Non mancano le criticità che sono state evidenziate al tavolo di lavoro e che Corleone relazionerà al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. I garanti hanno evidenziato la necessità che il Dipartimento sostenga il progetto di rilancio del carcere elbano, affinché sia all’altezza della propria storia, che in passato lo ha visto all’avanguardia dei percorsi rieducativi, all’altezza della Grande Promessa di un carcere a misura d’uomo, come vuole la Costituzione. È necessario, in particolare, che sia rispetta la sua identità di casa di reclusione e non farlo diventare un circondariale, con l’arrivo di condannati con fine pena breve. Speciale attenzione è stata prestata alla tutela del diritto alla salute. È necessario da una parte, un presidio sanitario 24 ore su 24 a Pianosa, e, dall’altra, un rafforzamento del presidio di Porto Azzurro. Nel corso della visita alla struttura, Corleone ha potuto rendersi conto della nuova sala colloqui, più ospitale e funzionale, del miglioramento della sala polivalente, dell’area aperta che, a breve, verrà adibita ad "area verde", con spazi e attrezzature per i bambini. Al termine della visita, il garante locale ha annunciato la costituzione di un Circolo di detenuti che si riunirà periodicamente con lui e con i rappresentanti della Casa di Reclusione per ascoltarsi reciprocamente, evidenziare criticità, sottoporre ipotesi di soluzione, avanzare progetti di attività trattamentali. "Tale coinvolgimento - conclude Marotti - è finalizzato al miglioramento della qualità della vita per tutti coloro che vivono ed operano nell’ambiente carcerario". *Garante dei diritti dei detenuti di Porto Azzurro Cassino (Fr): sospetto caso di tubercolosi in carcere, detenuto trasferito a Viterbo osservatorelaziale.it, 25 febbraio 2016 Sospetto caso di tubercolosi a Cassino. L’allarme è scattato lunedì sera quando dal carcere San Domenico, un cittadino marocchino di 48 anni è stato trasportato in ospedale a Cassino per problemi respiratori. L’uomo è stato ricoverato nel reparto di medicina per accertamenti durante i quali è nato il sospetto che si trattasse di tubercolosi. Per questo, ieri pomeriggio, l’uomo è stato trasferito a Viterbo dove si accerterà o meno l’ipotesi che, se verificata, potrebbe prevedere anche la necessità di sottoporre a profilassi le persone che gli sono state vicino, dal carcere, al pronto soccorso di Cassino. Sanremo (Im): raccolta di prodotti per l’igiene a favore dei detenuti riviera24.it, 25 febbraio 2016 Presso tutte le parrocchie della Diocesi Sanremo-Ventimiglia potranno essere portati: shampoo, bagnoschiuma, saponette, dentifricio, accappatoi e asciugamani, no spazzolini, Domenica 28 febbraio, la Caritas Diocesana Ventimiglia-Sanremo propone una raccolta di prodotti per l’igiene in favore dei detenuti del carcere di Sanremo. Presso tutte le parrocchie della Diocesi potranno essere portati: shampoo, bagnoschiuma, saponette, dentifricio, accappatoi e asciugamani, no spazzolini. Al riguardo Don Alessio Antonelli scrive: "la Nuova Casa Circondariale di Sanremo è il secondo istituto detentivo più grande di tutta la regione ligure avendo una capienza media di circa 200-250 detenuti. La vita al suo interno è regolarizzata da orari precisi, che determinano durante il giorno, le attività di tutti gli appartenenti alla struttura. Infatti secondo normative di legge ogni detenuto, tranne coloro i quali hanno determinate restrizioni giudiziarie, può usufruire di vari servizi che danno la possibilità di riuscire a recuperare la propria dignità smarrita a causa del reato commesso. La detenzione cerca di aiutare il carcerato a ripercorrere interiormente il proprio errore dando nuovo slancio alla propria esistenza. Il detenuto è al centro delle attività: ogni reparto possiede aree per attività all’aperto, palestra, aree per l’istruzione elementare e media, biblioteca, incontri ludici e impegno lavorativo. Visto dal di fuori potrebbe sembrare un’oasi di pace e di tranquillità, ma purtroppo non è per niente così. Infatti anche se tutta l’amministrazione penitenziaria (direzione, area pedagogica, area sanitaria, polizia penitenziaria, volontariato) è ben preparata e svolge il proprio compito con grande efficienza, il detenuto soffre della privazione del dono più grande quello della libertà. In effetti tutto ciò comporta che ogni persona detenuta, in questo modo, sia esclusa dalle relazioni con gli affetti familiari se non attraverso colloqui settimanali (pensate alla loro sofferenza interiore!) Alcuni avendo i propri cari vicini possono incontrarli personalmente ricevendo anche regalie che utilizzano per la loro quotidianità; invece altri, la maggioranza, essendo lontani da casa o essendo povera gente, non hanno proprio nulla. Il volontariato, sotto la guida sapiente del direttore, cerca di accogliere tutte le loro richieste legittime: chi per un paio di pantaloni, chi per un sapone, chi per un francobollo, chi solo per essere ascoltato. In quest’anno giubilare la Caritas diocesana di Ventimiglia-San Remo prendendo spunto dall’opera di misericordia corporale "visitare i carcerati" ha organizzato per domenica 28 febbraio 2016 in tutte le parrocchie della diocesi una raccolta di prodotti per l’igiene della persona (shampoo, bagnoschiuma, saponette, dentifricio, accappatoi e asciugamani, no spazzolini) da destinare al nostro carcere di Valle Armea per poter dare un po’ di sollievo ai nostri fratelli sofferenti. In seguito nel tempo pasquale verrà istituito un corso di formazione per volontari, che vorranno offrire un po’ del loro tempo, agli utenti della nostra casa circondariale. Il carcere nel comune pensiero è un luogo un po’ speciale dove coloro che vi abitano tante volte sono considerati dall’opinione pubblica meno di zero, ma non è per niente così perché dietro ogni persona che soffre incontriamo Gesù che con le sue parole ci ricorda "quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me". Ferrara: Balamòs Teatro all’inaugurazione del nuovo carcere di Rovigo estense.com, 25 febbraio 2016 L’associazione ferrarese sarà presente all’appuntamento con i ministri Orlando e Delrio. Lunedì 29 febbraio avrà luogo a Rovigo l’inaugurazione del nuovo Istituto penitenziario, con la presenza del Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Graziano Delrio, di Santi Consolo, capo del Dap - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, di Enrico Sbriglia, Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria per il Triveneto, e di altre autorità regionali e locali. In considerazione dell’ormai decennale attività svolta presso le carceri di Venezia dall’Associazione Balamòs di Ferrara tramite il progetto teatrale "Passi sospesi", realizzato con la collaborazione e il partenariato scientifico del Centro Teatro Universitario di Unife, il provveditore Enrico Sbriglia ha inviato un invito ufficiale all’inaugurazione allo scopo di presentare ad autorità e mezzi di comunicazioni locali e nazionali l’attuale programma di lavoro di teatro e i risultati fino ad oggi conseguiti. Con l’intento, si legge ancora nell’invito, di valutare "l’opportunità di ipotizzare ulteriori iniziative che riguardino il lavoro presso la nuova struttura", evidenziando quanto già sia stato realizzato nel mondo del carcere del Triveneto tramite l’esistente progettazione teatrale "dando spesso un senso concreto ed utile al tempo della pena". Il progetto "Passi sospesi", avviato nel 2006, ha consentito di consolidare nel tempo un significativo e ampio percorso di educazione e formazione tramite il teatro che in più occasioni ha integrato il lavoro svolto da Michalis Traitsis di Balamòs teatro presso il Ctu. Oltre al partenariato scientifico e allo studio su obiettivi e risultati, frequenti sono infatti a tutt’oggi gli scambi di esperienze fra allievi universitari, detenuti e detenute, e - ultimamente - studenti delle scuole medie inferiori di Ferrara, che rafforzano l’immagine stessa di una Università non semplicemente impegnata a formare "saperi tecnici" ma persone. Il teatro infatti offre l’opportunità di confrontarsi, viversi, vedersi all’interno di un gruppo, nel quale si propagano affettività, conflitti, regole. Mirando di conseguenza, la pratica del laboratorio teatrale, a stimolare uno stato di benessere con particolare attenzione al processo che l’individuo e il gruppo attraversano, riempiendolo dei propri contenuti, materiali, sogni, fantasie, fantasmi. L’attuale invito a Rovigo rappresenta dunque un’implicita condivisione di tali presupposti educativi, tanto più necessari all’interno della complessa realtà carceraria, e un altro importante riconoscimento dopo l’apprezzamento di "Passi sospesi" da parte dell’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel 2013, il successivo premio dell’Associazione nazionale critici di teatro e le più recenti collaborazioni con il Ministero della Sanità e dei Servizi Sociali della Grecia. All’inaugurazione di lunedì 29 saranno presenti Michalis Traitsis, responsabile del progetto "Passi sospesi" e Daniele Seragnoli, direttore del Centro Teatro Universitario. Parma: oggi convegno sul tema "i detenuti e le affettività recluse" Gazzetta di Parma, 25 febbraio 2016 Le affettività recluse e la obbligata preclusione alla libera circolazione delle occasioni di contatto tra le persone che si amano: è questo il tema del sesto incontro della serie sul "Pianeta Carcere", organizzata dall’associazione Marino Savini. L’appuntamento è per giovedì alle 16 nella sala Borri di Palazzo Giordani, in strada Martiri della Libertà. "Certo è che la detenzione interrompe, nega e a volte trasforma le relazioni affettive di ogni tipo al punto che spesso cessano contatti che potrebbero avere molto significato nella riabilitazione delle persone detenute: l’amore disperso. La carcerazione determina l’assenza fisica e la deprivazione dei sentimenti che ogni essere umano, poco o tanto è capace di porgere ad altri esseri umani come mezzo di comunicazione amorosa e di scambio di sentimenti. Lo stato di detenzione produce quindi anche una grave lesione nell’ambito della struttura sociale, per qualunque tipo di rapporti di affetto e causa squilibri e sofferenze anche alle persone incolpevoli rappresentate dai congiunti coinvolti affettivamente con i detenuti. Tale condizione può essere causa di dissesti familiari e di ridotta crescita del desiderio di considerare gli affetti come sentimenti capaci anche di migliorare lo stato alterato delle persone separate. Così, per quanto riguarda l’affettività, l’interruzione delle relazioni diventa un trauma dentro e fuori dal carcere. È necessario prevedere quale possa essere la giusta valutazione in questa sottrazione d’amore, considerando attentamente le ferite prodotte dalla frustrazione sessuale, dall’allontanamento fisico e il distacco sentimentale e trovare correttivi per ottenere che l’amore sia cura per quanti non hanno saputo tenerlo o per quanti ne restano privi, fuori dal carcere". Dopo l’introduzione di Rocco Caccavari, presidente dell’Associazione Marino Savini, ci saranno gli interventi della psichiatra Carmen Cimmino, dirigente medico Ausl di Parma, dell’avvocato Elia De Caro, responsabile dell’Associazione "Antigone" per la Regione Emilia Romagna, di Carla Chiappini, giornalista esperta in scrittura autobiografica di Piacenza. Intervento preordinato di Emilia Agostini Zaccomer - Presidente Associazione "Per Ricominciare" di Parma. Interviste a cura di Chiara Cacciani - Giornalista della Gazzetta di Parma. Roma: detenuti contro universitari: ma è #Guerradiparole skuola.net, 25 febbraio 2016 Sabato 5 marzo il carcere di Regina Coeli di Roma sarà teatro di un duello che vedrà gli uni contro gli altri detenuti e studenti. Non scorrerà sangue, ma fiumi di parole sul tema della legittima difesa. Il 5 marzo 2016, alle 10, si terrà a Roma, nel carcere di Regina Coeli in via della Lungara 29, un duello di retorica tra detenuti e studenti. Come novelli Cicerone, dovranno cimentarsi nell’arte della persuasione dimostrando un’innata abilità con le parole. Un tempo, la retorica veniva considerata una vera e propria arma, capace di smuovere le masse e portare grande potere a chi la possiede. E oggi, chi la spunterà? #Guerradiparole - La squadra che più abile nel difendere la propria tesi con argomentazioni credibili: bandito sbraitare o insultare. Un sofisticato esercizio di civiltà, che consiste nell’affermare le proprie ragioni solo con lo strumento pacifico della parola: ormai, diciamoci la verità, risulta difficile trovarne esempi. Soprattutto se ci capita di accendere la Tv o di fare un giro su Facebook. Due round da venti minuti per mettere a tacere la squadra avversaria, grazie alle formidabili doti dell’eloquenza. Il tema? I confini della legittima difesa. Chi vincerà? - Sia i detenuti che gli studenti verranno preparati allo "scontro" da PerLaRe (Associazione Per La Retorica), da Flavia Trupia, la presidente, e dall’attore Enrico Roccaforte. Le due squadre sceglieranno i loro portavoce, che li rappresenteranno nel dibattito del 5 marzo. Una giuria - composta da un linguista, un attore, due giornalisti, un avvocato - decreterà la squadra vincitrice. Guerra di parole a New York - L’iniziativa, organizzata da PerLaRe insieme alla Crui, alla Casa Circondariale di Roma Regina Coeli, all’Università di Tor Vergata, ha un precedente. Il Bard college di New York ha avviato un programma di riabilitazione nei penitenziari, che prevede la realizzazione di gare di retorica. Nel settembre 2015, i detenuti del carcere Eastern Correctional Facility di New York si sono confrontati con gli studenti di Harvard, sconfiggendoli in un duello basato solo sulla forza delle argomentazioni. "Le gare di retorica hanno l’obiettivo di preparare i partecipanti ad affrontare la vita e il lavoro, contesti in cui è inevitabile confrontarsi con opinioni diverse. E, in queste occasioni, saper usare lo strumento della parola può fare la differenza" sostengono gli organizzatori. "Storia dell’Italia mafiosa", Isaia Sales spiega le cosche criminali di Corrado Stajano Corriere della Sera, 25 febbraio 2016 Il libro dello studioso edito da Rubbettino, frutto di tre anni di ricerche. "Queste organizzazioni sono una componente essenziale della storia d’Italia". È un libro atroce questo di Isaia Sales, "Storia dell’Italia mafiosa" pubblicato dall’editore Rubbettino. Potrebbe intitolarsi anche Perché la mafia la dolorosa, appassionata e minuziosa ricerca che Sales, studioso dei poteri criminali, autore tra i più seri di libri sulla camorra e sulla mafia, ha condotto per più di tre anni. Il nodo del libro - saggio storico, saggio politico, saggio di psicologia criminale - è la mafia vista come componente essenziale della storia d’Italia. Se si trattasse soltanto di un fenomeno delinquenziale, la mafia, in due secoli di sopravvivenza, sarebbe stata certamente sconfitta: uno Stato, soprattutto uno Stato moderno, possiede infatti tutti gli strumenti, non soltanto repressivi, per poterlo fare. E invece le mafie, nate sotto il dominio dei Borbone, prolificate nello Stato unitario, hanno seguitato e seguitano a esistere, anche se con poteri difformi nel tempo: la camorra nell’Ottocento, la mafia - Cosa nostra - nel Novecento, la ‘ndrangheta nel Duemila, quando è diventata l’organizzazione criminale più potente del mondo. A Sales - insegna Storia delle mafie all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli ed è stato anche in politica, sottosegretario al ministero del Tesoro nel primo governo Prodi - sta soprattutto a cuore raccontare e dimostrare come le mafie siano state e siano anch’esse partecipi dell’autobiografia della nazione. Sono un problema della storia e della società italiana, non un problema di "geni", di luogo, di cultura. Oggi che la questione meridionale, intrinseca a quella criminale, non è nelle agende della politica governante, le possibilità di risolvere un problema così grave sono modeste. Il libro è una miniera. Perché le mafie sono nate nel Sud? Non è della società meridionale, con tutte le sue debolezze, scrive Sales, la responsabilità del fenomeno. Vittima, piuttosto. La classe dirigente del Nord è stata infatti da sempre alleata con la classe dirigente siciliana che aveva come principale puntello la mafia. La struttura del latifondo ha di certo favorito il fenomeno. Ancora oggi gli eredi dei latifondisti di un tempo, principi e marchesi siciliani, si dilettano a scrivere memorie in cui, con compiaciuta naturalezza, raccontano gli incontri, a pranzo e a cena, con i capimafia un tempo al loro servizio, zù Peppe, per esempio, Giuseppe Genco Russo, l’allora capo della mafia siciliana. Ma non è la terra, quella terra, la radice del male. Le mafie hanno sempre necessità, se si insediano in un certo territorio, di stabilire relazioni con uomini non di poco conto delle istituzioni locali. È ciò che hanno fatto al Centro e al Nord, protagonista la cinica legge del mercato incurante dello strascico di violenza che provoca e seguita a provocare. Non trapianto, ma ibridazione. Secondo Sales i periodi di maggior potere delle mafie sono tre: la Sinistra storica, dopo l’Unità del Paese; il secondo dopoguerra; gli anni del berlusconismo. A proposito della mafia la storia è illuminante: dal giorno in cui gli angloamericani sbarcarono in Sicilia, il 10 luglio 1943, e nominarono sindaci i mafiosi che li avevano aiutati a preparare l’operazione - risulta ufficialmente dalla relazione dell’Antimafia Carraro, del 1976 - a Portella della Ginestra, il primo maggio 1947. Quasi settant’anni dopo restano ancora zone nere in quel pasticcio contro la sinistra e il Partito comunista in cui furono coinvolti ministri - Scelba -, generali, capi della polizia e dei servizi segreti, uomini politici. "Banditi, mafia e polizia, siamo un corpo solo", disse il bandito Gaspare Pisciotta al processo di Viterbo del 1950-1952. Quelle zone nere non si sono dissolte, se si analizza la carneficina degli anni Ottanta-Novanta a Palermo che costò la vita a tanti uomini dello Stato che fecero il loro dovere, dal presidente della Regione Piersanti Mattarella al generale Carlo Alberto dalla Chiesa a tanti altri, fino a Falcone e a Borsellino protagonisti del pool che approderà nel maxiprocesso del 1986. Il libro di Sales è un desolato mosaico di vita e di morte. Ci sono stati magistrati che hanno fatto quel che dovevano e tanti loro colleghi che nei decenni hanno tradito e si sono venduti con le loro sentenze per insufficienza di prove - prove ben solide come il piombo usato -, concedendo perizie psichiatriche immotivate e firmando sentenze di assoluzione a criminali di rango. La mafia non esisteva, era tabù. Il sindaco di Palermo Martellucci, negli anni Settanta, la chiamava "la malefica tabe", il giudice Falcone, arrivato a Palermo nel 1979, disse allora (a chi scrive) che i più dei magistrati del Palazzo di giustizia ne negavano l’esistenza. Il nostro è un Paese dove il capomafia Bernardo Provenzano è stato latitante per 43 anni, il capomafia Totò Riina per 25 anni, il capomafia Matteo Messina Denaro è uccel di bosco da 23 anni. Le compromissioni, le connessioni, gli accordi, il commercio dell’illegalità, il lasciar fare sono storia antica. Il nostro è anche il Paese dove il sette volte presidente del consiglio Andreotti, rinviato a giudizio per associazione mafiosa, non è stato assolto, come viene detto: i fatti di cui era accusato, commessi fino alla primavera 1980, sono caduti in prescrizione. E dopo? Insufficienza di prove, il 530 del Codice di procedura penale. Non certo una medaglia al valore. E di un altro presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, si sa delle origini oscure della sua ricchezza e si sa anche che ha avuto rapporti con uomini dell’alta mafia. Il famoso stalliere di Arcore, Vittorio Mangano, è stato definito da Berlusconi "un eroe": morì in carcere senza aprir bocca. Era un mafioso di spicco, condannato a più ergastoli, tra i protagonisti, già nel 1983, della sentenza istruttoria di Falcone su "Mafia e droga", il processo contro Rosario Spatola + 119. Dal libro di Isaia Sales, antologia ragionata e colta dei poteri criminali di ieri e di oggi - manca un indice dei nomi -, esce un panorama cupo e ben documentato sulla mafia, sui suoi rapporti con il potere politico e finanziario, sui caratteri dell’organizzazione, sociali, istituzionali, ideologici, sulla natura degli investimenti puliti e di quelli sporchi. Lo scrittore discute anche i nodi su cui si fondano tanti equivoci come il familismo, l’omertà che non è un problema antropologico, ma nasce dalla paura, dai compromessi dello Stato infedele che non tutela i cittadini onesti. La mafia non dà ricchezza sociale, ma degrado. Sales scrive che "relegare il tutto a storia criminale è un assurdo storico. Le mafie sono parte delle modalità con cui l’Italia è diventata nazione e si è mantenuta tale nel tempo". Forse il giudizio, espresso in questo modo, è eccessivo, anche se l’autore ha ben motivato nelle sue pagine come e perché le mafie sono state parti integranti della società italiana. (Con la prima Cassa del Mezzogiorno e dopo l’82 e il ‘92, lo Stato ha agito mettendo in crisi la mafia). Resta una domanda. Le menti raffinatissime capaci di costruire una simile e complicata rete di rapporti e di conoscenze politiche ed economiche sono quelle di Riina e di Provenzano, con la loro incultura e la loro rozzezza? Ci dimentichiamo di chi, probabilmente, sta alle loro spalle, avvocati, notai, commercialisti, esperti di diritto internazionale privato, penalisti, immobiliaristi, finanzieri, uomini senza nome forse anche illustri al servizio dell’azienda dei soldi e della morte. Bocciata la legge anti moschee di Maroni, la Lega strepita e rilancia di Luca Fazio Il Manifesto, 25 febbraio 2016 Regione Lombardia. I giudici della Consulta, come previsto, rispediscono al mittente per incostituzionalità la legge approvata lo scorso febbraio da leghisti e forzisti lombardi per impedire la costruzione di nuove moschee. Ma il governatore non demorde: "Riscriveremo il testo perché servono regole di carattere urbanistico". Le opposizioni esprimono soddisfazione e il Comune di Milano tra poche settimane pubblicherà le graduatorie per assegnare le aree per la costruzione di tre nuovi luoghi di culto in città. Sembra che le quindici "alte toghe" della Consulta abbiano fatto in fretta a bocciare la cosiddetta legge "anti moschee" approvata lo scorso febbraio dalla Regione Lombardia di Roberto Maroni e subito impugnata dal governo. Più che una legge sembrava una provocazione e come tale è stata rispedita al mittente. Si chiama propaganda. La bocciatura era nelle cose: le norme presentate dal leghista Massimiliano Romeo - "moschee ce ne sono abbastanza", questo il suo prezioso contributo alla discussione - sono anticostituzionali dalla prima all’ultima riga. Tutti sapevano che sarebbe finita così, per primi leghisti e forzisti che con questa mossa cercavano di contrastare l’amministrazione di Giuliano Pisapia che aveva preparato un bando per la costruzione di tre luoghi di culto (questione ancora aperta). I giudici della Consulta così si sono trovati di fronte una legge scritta male e pensata peggio con l’unico obiettivo di ostacolare la costruzione di moschee, non senza trovate comiche: secondo i leghisti, bisognerebbe costruire moschee con telecamere collegate con la questura, con nuove strade di collegamento adeguate e con parcheggi di superficie doppia rispetto al pavimento del luogo di culto. E non basta. Un sindaco, avrebbe potuto porre il veto alla costruzione in nome di una non meglio precisata valutazione di impatto ambientale e in più la legge avrebbe garantito ai cittadini la possibilità di indire un referendum per bocciare la nuova moschea. Tutto da ridere l’ultimo dispettuccio: l’architettura, pena il divieto, avrebbe dovuto rispettare "le caratteristiche del paesaggio lombardo". Una deliziosa costruzione tipo capannone industriale? La prevedibile bocciatura della Consulta ha comunque ridato fiato ai leghisti lombardi, dicono che ci riproveranno, vogliono conoscere le motivazioni e presto scriveranno un’altra legge. Il più arrabbiato sembra il governatore Maroni, in questi giorni tristi piuttosto sotto botta a causa del suo pupillo Rizzi arrestato per corruzione nell’ambito dell’ennesima inchiesta sulla sanità lombarda. Lo sfogo è un cinguettio: "La sinistra esulta: Allah Akbar". Il sodale Matteo Salvini non è da meno: "E brava la Consulta islamica". Il capogruppo della Lega in Lombardia, Massimiliano Romeo, prova invece a dare sostanza politica alla linea dei capi. Secondo lui, la bocciatura "è la conferma che siamo di fronte alla resa dello Stato italiano di fronte all’Islam", ma "noi non ci arrendiamo, non intendiamo far diventare Milano e la Lombardia una enclave del Califfato". Nel solco della disquisizione di carattere storico anche la riflessione di Daniela Santanché, "Oriana Fallacci si sta rivoltando nella tomba mentre la sinistra è pronta ad esultare, stiamo diventando una succursale dell’Islam e poi ci lamentiamo se da un momento all’altro rischiamo di saltare in aria". Lasciamo stare. Per ora, come dice il consigliere regionale lombardo dei Cinque Stelle Eugenio Casalino, è vero che "archiviamo finalmente una legge idiota e propagandistica che avrebbe prodotto solo problemi", ma la questione è tutt’altro che archiviata perché a Milano a giugno si vota. Davide Piccardo del Caim (Coordinamento associazioni islamiche di Milano) ne approfitta per incalzare il Comune di Milano, "ora non ha più scuse per portare a termine l’assegnazione delle aree per la costruzione delle moschee". La strada dovrebbe essere in discesa ma non priva di intoppi, se è vero ciò che dice l’assessore alle politiche sociali Pierfrancesco Majorino: "Emetteremo tra qualche settimana la graduatoria di assegnazione delle aree che immagino possa contenere novità in ragione del fatto che i controlli avviati dall’amministrazione sui partecipanti hanno evidenziato la mancanza, da parte di alcuni soggetti, dei requisiti necessari". Si prevedono ricorsi e polemiche. Quanto a Maroni, è fin troppo facile passare all’incasso: "Invece di sproloquiare a vanvera dovrebbe ancora una volta ripassare la costituzione e le leggi dello stato". Il deputato lombardo di Sinistra Italiana Daniele Farina, che insieme al deputato Franco Bordo (Si) aveva sollecitato il ricorso presso la Corte costituzionale, definisce una "mascalzonata" la legge anti moschee: "Monumentale è la mole di denaro pubblico sprecato entro una battaglia ideologica dissennata mentre lobby sanitarie organizzate erano libere di saccheggiare la cassa e danneggiare la salute dei cittadini. In tale situazione oggi suonano assai poco credibili gli strepiti leghisti". Eppure il governatore non demorde e rilancia una nuova legge scritta "tenendo conto delle motivazioni della Consulta ma realizzando l’obiettivo di dare regole, non vogliamo negare il diritto di culto a nessuno ma servono regole di carattere urbanistico". Presto, per le "alte toghe", ci sarà un altro lavoretto. Tra i profughi nella "giungla" di Calais: "le ruspe non ci manderanno via" di Leonardo Martinelli La Stampa, 25 febbraio 2016 Nella baraccopoli vivono 4.000 migranti. Sognano di raggiungere il Regno Unito. L’ultimatum per lo smantellamento del capo è scaduto lunedì. Ma la decisione è sospesa in attesa della pronuncia del tribunale. Assonnato, spunta fuori da un container bianco scintillante. È mezzogiorno e piove fitto. Hamza è stanco: ci ha provato anche stanotte. "E mi è andata male. Ho cercato di saltare su un camion. Peccato che poi siano arrivati i poliziotti. Niente Inghilterra, ma non finisce qui". Potrebbe avere vent’anni, ma ne ha appena 14. Ha viaggiato da solo dall’Afghanistan dritto fino a Calais, il capolinea dell’Europa: "Mio fratello vive da dieci anni a Londra. Lavora: anch’io voglio rifarmi lì una vita". Come se già ne avesse vissute chissà quante di vite. Scivolano via giorni di ansia alla "giungla", baraccopoli di 4 mila persone (molti di più secondo le Ong), che si estende sulle dune a ridosso del mare. Il governo francese ha deciso di smantellare la parte sud, più vicina all’autostrada, dove i migranti cercano di introdursi di notte nei Tir, che di lì a poco si infileranno su un ferry destinato all’Eldorado: il Regno Unito. Ma 250 profughi e una decina di associazioni hanno fatto ricorso, per bloccare l’operazione. Non per difendere quell’ammasso di baracche, costruite con i teli di plastica, tra pozzanghere nere e rifiuti ormai disaggregati, aggrappati ai cespugli. Ma perché ritengono che sia troppo presto. E che si potrebbe scatenare un fuggi fuggi generale: la riproduzione di nuovi campi, ancora peggio di questo. Al tribunale competente, quello di Lilla, era previsto che prendessero una decisione lunedì. Quel giorno le ruspe dovevano entrare in azione. Ma è stato tutto rimandato. Non è chiaro quando i giudici si pronunceranno: oggi, forse. O anche più tardi. "Siamo impazienti che diano il via libera", sottolinea Philippe Mignonet, vicesindaco di Calais, governata dai Repubblicani, il partito di Nicolas Sarkozy. "La città è esasperata". Neppure uno straccio di turista viene più a Calais, già destinazione di shopping low cost per gli inglesi. "Hanno gli occhi puntati contro: se entreranno in azione, comunque, lo faranno con il guanto di velluto", afferma Raphaël Etcheberry, di Médecins Sans Frontières (Msf), nella giungla con un pool di medici, già attivi nelle zone di guerra, qui a curare le dermatosi ricorrenti e l’epidemia perenne di scabbia. Intanto, comunque, furgoni di polizia anti-sommossa si allineano silenziosi all’entrata del campo. Ieri pomeriggio, un sole smorto ha fatto capolino tra le nuvole. E un elicottero ha iniziato a ronzare basso sulle teste dei profughi. L’atmosfera è sospesa, irreale: si aspetta. "Sogniamo Londra" - Hamza, il ragazzo afghano, che in Inghilterra vuole diventare medico, sbadiglia. E Barbara Jurkiewicz, volontaria di La Vie active, scuote la testa. "Glielo dico tutte le sere: ragazzi, non andate a rischiare la vita, a saltare sui treni o sui Tir. Ma invano". Nel Regno Unito sperano di trovare un lavoretto al nero più facilmente che in Francia e di subire meno controlli. La Vie active gestisce il campo container, dove vive anche Hamza, inaugurato lo scorso novembre. Ci sono 1500 posti letto disponibili. Ieri sera ce n’erano ancora 203 liberi. Ma nell’area sud, che deve essere distrutta, vivono mille persone secondo lo Stato (3.455, dicono le Ong). Dove andranno gli altri? "Si sta proponendo il trasferimento in centri di accoglienza in tutto il Paese - sottolinea François Guennoc, dell’associazione L’Auberge des Migrants - ma la maggior parte dei profughi vuole andare in Inghilterra e non si sposterà di qui. Creeranno nuovi campi, dovranno ricominciare tutto da capo". I curdi si stanno spostando a una quarantina di km, a Grande-Synthe, dove già 2 mila persone sopravvivono nel fango. Nascosti nei Tir - Pierre Cami è pronto per la sua "ronda". Infermiere, ha 28 anni. "La scorsa estate ho iniziato a lavorare per Msf, volevo andare in Africa". Ma lo hanno mandato qui a Calais. Nel sud della giungla lo conoscono tutti. Vede un ragazzino zoppicare, uno dei minorenni senza famiglia del campo. "Alì, cosa è successo?", gli chiede. Ma lo sa già, è caduto da un Tir in corsa. "Domani vieni all’ambulatorio a farti vedere". A Pierre non scappa nulla. Sale verso la chiesa ortodossa, vicino al "quartiere" degli etiopi e degli eritrei (qui ci sono le poche donne della baraccopoli: alcune si prostituiscono per cinque euro). Poi scende verso una "scuola laica" creata da rifugiati e volontari (nessuna presenza scolastica francese nella giungla). L’atmosfera si fa animata in una grande struttura a forma di igloo, dove i famosi Jo e Jo, due giovani omonimi inglesi, organizzano incontri e spettacoli. Ieri sera facevano la satira di un processo contro la giungla, nell’attesa del giudizio vero, quello sul destino delle baracche intorno. Un ragazzo traduceva in persiano, mentre iraniani e afghani ridevano assieme a Jo (giacca di pelliccia nera), l’altro Jo (cravatta multicolore) e un gruppetto di dandy british. Scampoli di umanità e di improbabili convivenze. Mentre inesorabile e fastidioso l’elicottero continuava a ronzare sopra. Caso Regeni, dall’Egitto la falsa pista dello spacciatore di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 25 febbraio 2016 Ma l’autopsia di Giulio ha accertato che non aveva mai fatto uso di droghe. L’indicazione è stata esplicita: gli investigatori italiani al Cairo non dovranno prendere alcun documento che riguardi la cattura e la morte di Giulio Regeni. Potranno accettare soltanto la consegna dell’intero fascicolo di indagine. Di fronte all’ennesimo depistaggio, alle accuse infamanti rilanciate dal ministero dell’Interno egiziano, il titolare della Farnesina Paolo Gentiloni reagisce pubblicamente, ma decide di cambiare anche la strategia sul fronte giudiziario. E lo fa dopo il rincorrersi di voci che parlano di un nuovo arresto che la polizia locale potrebbe annunciare nelle prossime ore. È quello di uno spacciatore ed è proprio questo ad avere provocato l’ira delle autorità italiane. Perché i primi risultati dell’autopsia effettuata nel nostro Paese smentiscono in maniera categorica che il ricercatore facesse uso di droghe. I finti arresti - Era già accaduto qualche giorno dopo il ritrovamento del cadavere di Giulio Regeni in un fossato. Dal Cairo era trapelata l’indiscrezione sull’arresto di due persone e soltanto di fronte all’intimazione della diplomazia di consegnare una "verità credibile" era stata poi smentita la possibile svolta nell’indagine. Ieri c’è stato un altro tentativo. Sin dalla mattina si parlava di una novità legata agli accertamenti svolti e nel pomeriggio, mentre Gentiloni si accingeva ad entrare in Parlamento, è stata diramata la nota del ministero dell’Interno egiziano. Il riferimento alle "multiple relazioni" che Regeni aveva "sia nel posto di residenza che nell’ambiente studentesco" ha confermato che la verità "confezionata" potesse riguardare proprio lo spaccio di droga. E così è esplosa la rabbia del titolare della Farnesina. Gli esami tossicologici - Probabilmente la polizia del Cairo non sa che l’équipe guidata dal professor Vittorio Fineschi ha già ottenuto alcuni risultati dagli esami svolti durante l’autopsia del ricercatore. Il referto ufficiale sarà consegnato al pubblico ministero Sergio Colaiocco la prossima settimana, ma qualcosa già è stato comunicato. E l’esito delle analisi esclude tracce di stupefacenti. Non è stato fatto alcun consumo, sarebbe dunque difficile credere che sia questo il motivo del delitto. Addirittura che uno spacciatore abbia potuto rapire e torturare lo studente fino a ucciderlo. Le indagini svolte in questi giorni dai carabinieri del Ros e dai poliziotti dello Sco hanno consentito di mettere alcuni punti fermi nelle ultime ore di vita di Regeni, soprattutto grazie alle testimonianze di amici e parenti, ma anche all’esame del computer e dei dispositivi elettronici (telefoni cellulari, tablet, pc) che gli stessi familiari e le persone a lui più vicine hanno messo a disposizione degli investigatori. E dunque sono in grado di smentire preventivamente tutte quelle tesi preconfezionate che gli egiziani continuano a tentare di offrire per chiudere il caso. Tabulati, verbali e video - Pochi giorni dopo l’arrivo al Cairo del "team investigativo" italiano, la polizia locale aveva fatto sapere che avrebbe collaborato. In realtà da allora nulla è accaduto, nonostante le promesse di consegna dei documenti e dei reperti originali. Del resto la condizione posta da polizia e carabinieri era che fossero messi a disposizione tutti gli elementi raccolti e quindi i video delle telecamere di sorveglianza nella strada fatta il 25 gennaio da Regeni prima di sparire nel nulla, i suoi tabulati telefonici, le eventuali tracce lasciate dal computer. Gli egiziani hanno inventato mille scuse per non onorare l’impegno, hanno sostenuto che senza la rogatoria non avrebbero potuto procedere. Si è così deciso di accelerare anche questa procedura, ma il risultato è stato comunque un fallimento. Ieri Gentiloni lo ha spiegato chiaramente nell’ennesimo colloquio avuto con il suo collega Sameh Shoukry. Ha ribadito, con toni tutt’altro che concilianti, di pretendere la consegna dell’intero fascicolo. Caso Regeni: a Roma sit-in davanti all’ambasciata d’Egitto, per non credere ai torturatori di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 febbraio 2016 Un fermo rifiuto ai continui tentativi di depistaggio provenienti dal Cairo e alle "verità" che fanno più comodo al regime di Al-Sisi. È questo il "forte segnale proveniente dalla società civile italiana" che sarà inviato oggi dal sit-in promosso dalla Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (Cild) e dall’Associazione Antigone davanti all’ambasciata egiziana a Roma (appuntamento ore 14.00 in via Salaria, all’ingresso di Villa Ada) per pretendere "verità e giustizia" sull’omicidio di Giulio Regeni. Gli organizzatori fanno proprio l’appello di Amnesty International Italia e della famiglia Regeni perché in ogni centro di cultura, in ogni università, in ogni luogo istituzionale venga esposto uno striscione per tenere alta l’attenzione sul caso. La lista di associazioni, partiti, sindacati e organizzazioni che hanno aderito al sit-in di oggi si allunga di ora in ora: dalla Cgil Cisl e Uil all’Arci, da Radicali italiani a Rifondazione comunista, dall’Anpi ad Articolo 21, dalla Federazione nazionale della stampa all’Usigrai, da A buon diritto a LasciateCientrare, CittadinanzAttiva e molti altri ancora. Saranno presenti anche Erri De Luca, Lorenzo Terranera e Oliviero Beha. E anche la campagna lanciata da Amnesty in collaborazione con Repubblica sta raccogliendo molte adesioni, tra le quali quelle delle Regioni Toscana, Puglia, Basilicata; dei comuni Milano, Trieste, Reggio Calabria, Lamezia Terme e Livorno; e dei media Rai 1, Uno Mattina, il manifesto, Toscana Notizie, Assostampa Friuli Venezia Giulia, Rai Radio 2 "Caterpillar". Nel frattempo ieri è stata depositata un’interrogazione al ministro degli Esteri, sottoscritta da decine di parlamentari, al Senato da Luigi Manconi e alla Camera con primo firmatario Gianni Cuperlo. I due esponenti del Pd chiedono al ministro Gentiloni di sapere: se, in che modo e con quale livello di coordinamento le Autorità egiziane abbiano collaborato al lavoro della squadra italiana composta da sette uomini di Polizia, Carabinieri e Interpol giunta al Cairo il 5 febbraio scorso; "quale sia lo stato delle indagini sulla vicenda della sparizione e della morte di Regeni"; "quali determinazioni siano state adottate in ordine ai rapporti commerciali del nostro paese con l’Egitto, in particolare rispetto alle attività dell’Eni sul giacimento supergiant Zohr, dal momento che non può esservi cooperazione economica senza il più rigoroso rispetto dei diritti fondamentali e delle garanzie proprie di uno stato di diritto"; "quali ulteriori iniziative voglia adottare il Governo italiano perché sia fatta piena luce"; "quali iniziative voglia adottare il Governo italiano, anche d’intesa con i partner dell’Ue, perché la condotta delle Autorità egiziane sia conforme agli Atti ed alle Convenzioni poste a tutela dei diritti umani che l’Egitto ha sottoscritto". Ricordano infatti Manconi e Cuperlo che i Rapporti del 2014 e del 2015 di Amnesty International sull’Egitto "mettono in evidenza episodi di arresti illegali e ricorso alla tortura, documentando violenze di ogni tipo", e in particolare il rapporto del 2014 "ha registrato 1.400 morti per uso sproporzionato della forza da parte dei reparti di sicurezza egiziani, tanto che nell’agosto del 2013 il Consiglio dell’Unione europea aveva decretato - tra i principali fautori l’allora ministro degli Esteri Emma Bonino - la sospensione dell’esportazione verso l’Egitto di materiali utilizzabili ai fini di repressione interna". Il supplizio di Giulio Regeni affare di Stato per l’Europa di Jean-Pierre Filiu (professore di Storia del Medio Oriente, Università Sciences-po Paris) Il Manifesto, 25 febbraio 2016 L’inchiesta sulla tortura a morte di Giulio Regeni è arenata, come potevamo purtroppo aspettarci. Il ricercatore italiano di 28 anni è scomparso nel centro del Cairo, la sera del 25 gennaio 2016, quando i quartieri della capitale erano controllati palmo a palmo dalle forze di sicurezza, messe in allerta massima per il quinto anniversario delle rivolte anti-Mubarak. È ora certo che Regeni sia stato lungamente e meticolosamente torturato, prima che le sue spoglie fossero gettate in un fosso nella periferia del Cairo, dove il corpo è stato ritrovato il 3 febbraio. Non c’è niente di peggio della solitudine di una vittima abbandonata ai suoi carnefici, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Il New York Times ha ricostruito delle testimonianze sull’arresto di Giulio Regeni da parte dei servizi egiziani e sulla sua detenzione nelle loro mani. Magdy Abdel Ghaffar, il ministro dell’Interno, ha indetto una conferenza stampa straordinaria per smentire categoricamente tutte queste accuse. È vero che lui stesso ha fatto tutta la sua carriera nella sinistra Sicurezza nazionale, precedentemente chiamata Sicurezza di Stato, verso la quale si orientano tutti i sospetti. Più di quattro mila universitari di tutto il mondo hanno pubblicato una lettera aperta al presidente Abdel Fattah al-Sisi perché si faccia luce su questo dramma. Il portavoce del ministero degli Esteri egiziano ha subito reagito esprimendo il suo "rifiuto totale per le affermazioni contenute in questa lettera sugli arresti sommari, le torture e le sparizioni in Egitto". Ha aggiunto che queste affermazioni "deformano completamente la realtà sul campo e rappresentano delle generalizzazioni basate sul sentito dire e su manipolazioni di chi vuole riprendere piede in Egitto dopo essere stato cacciato dal popolo". Questa espressione era rivolta ai Fratelli musulmani, da cui proveniva il presidente Mohammed Morsi, rovesciato nel luglio 2013 dal generale al-Sisi. Ho potuto misurare, durante un mio recente soggiorno al Cairo, quanto le teorie del complotto, già molto popolari in Egitto, abbiano preso, durante la presidenza al-Sisi, una dimensione aggressiva e anti-occidentale di una virulenza senza precedenti. I Fratelli musulmani sono assimilati ai jihadisti di Daesh e stigmatizzati per lo stesso "terrorismo". Gli uni e gli altri parteciperebbero ad una vasta campagna internazionale di destabilizzazione dell’Egitto da parte di Servizi stranieri di informazione. In un clima così deleterio, non stupisce che una stampa agli ordini del regime abbia ripreso delle illazioni nauseabonde sui supposti legami tra Regeni con questo o quell’altro ufficio anglo-sassone (prima di ammettere la morte sotto tortura, le autorità avevano tentato in vano di accreditare la versione di un incidente automobilistico, poi di un crimine sessuale). L’inchiesta sulla morte di Regeni è stata affidata a un ufficiale egiziano… condannato nel 2003 per tortura su un detenuto. L’impunità assoluta di cui gioiscono i servizi di "sicurezza" in Egitto si è tradotta in questi ultimi giorni in proscioglimenti scandalosi: è stata cancellata in appello, il 14 febbraio 2016, la condanna pronunciata contro i poliziotti che avevano ucciso con dei colpi di pistola una manifestante pacifica, Shaimaa el-Sabbagh, nel gennaio 2015, nel quarto anniversario dalle proteste anti-Mubarak. Il 17 febbraio, studenti e insegnanti dell’Università americana del Cairo (denominata con la sua sigla inglese Auc) hanno manifestato in memoria di Giulio Regeni ricordando come "la bolla dell’Auc non ci protegge". L’Italia viene davvero mal ricompensata della comprensione di cui aveva dato pubblicamente prova dopo il colpo di Stato di al-Sisi del 2013. Il premier Matteo Renzi, accogliendo al-Sisi nel suo primo viaggio in Europa, nel novembre 2014, aveva celebrato il "partenariato strategico" tra Roma e il Cairo. Il supplizio di Giulio Regeni non dovrebbe preoccupare solo l’Italia, ma è una sfida per l’intera Europa, il cui silenzio è stato assordante dopo la rivelazione del dramma. Quanto ai "realisti", che difendono la cooperazione più stretta possibile con i servizi egiziani nella lotta al terrorismo, e sono indulgenti verso gli "eccessi" di una tale lotta, guadagnerebbero molto se meditassero sulle lezioni del caso Regeni. La verità è che mezzo milione di militari egiziani confermano dopo anni di essere incapaci di ridurre una insurrezione jihadista nel Sinai che conta su poco più di mille combattenti. La realtà è che i servizi detti di "sicurezza" sono responsabili in Egitto di un’insicurezza generalizzata per l’impunità che è loro garantita. No, non dispiaccia ai "realisti", ma assolvere il regime di al-Sisi per i crimini perpetrati nel suo nome o nella sua ombra rivela una delle cecità più pericolose. Non possiamo che sostenere coloro i quali, come Thibaut Poirot su Le Monde, chiedono invece all’Europa di mobilitarsi perché venga fatta luce sulla verità nel caso della morte di Giulio Regeni. Da parte mia, dopo il minuto di silenzio che ha aperto la mia recente conferenza al Cairo, dedico ogni mio intervento pubblico, a Parigi, Montpellier, Le Hauvre o Saint-Malo, alla memoria del ricercatore suppliziato. Giustizia per Giulio. Israele: in carcere senza accuse, Mohamed al Qiq sta morendo di Geraldina Colotti Il Manifesto, 25 febbraio 2016 Da tre mesi in sciopero della fame contro la "detenzione amministrativa, si aggrava il giovane giornalista palestinese. Continuano le manifestazioni di sostegno in ogni parte del mondo. Mohamed Al-Qiq sta morendo. Ha già perso la vista, l’udito e l’uso degli arti. Il giornalista palestinese, 33 anni, padre di due figli, è in sciopero della fame dal 25 novembre, deciso a spingersi fino alle estreme conseguenze. Da 90 giorni, sta consumando il corpo per gridare il dolore di un popolo sotto occupazione. Mohamed è uno dei 7.000 prigionieri politici rinchiusi nelle carceri israeliane, 650 dei quali si trovano, come lui, in regime di "detenzione amministrativa": incarcerati senza accusa, senza processo, e senza possibilità che i loro legali possano consultare gli atti. Fra loro vi sono anche molte donne e circa 700 minori. Una condizione senza scadenza termini, che può protrarsi all’infinito: in spregio al diritto internazionale, in particolare a quello stabilito dalla convenzione di Ginevra. Nella Cisgiordania occupata, l’esercito israeliano è autorizzato a compiere "detenzioni amministrative" contro civili palestinesi in base a un articolo del codice militare. Al Qiq era corrispondente dalla Palestina per la tv saudita Al-Majd. Per informare su questa gravissima situazione e per salvare la vita al giovane giornalista, "che non ha commesso alcun delitto", ieri a Roma si è tenuta una conferenza stampa nella sede dell’Ambasciata palestinese: il regime israeliano, dopo aver isolato il giornalista in una cella singola, separandolo dai suoi compagni; dopo averlo privato delle visite della sua famiglia, continua a negargli il trasferimento in un ospedale di Ramallah. Attualmente, Al-Qiq si trova nell’ospedale israeliano di Afula, "dove l’esercito d’occupazione ha persino effettuato un raid". "Per tutta la vita ho vissuto in una terra sotto occupazione - ha detto l’ambasciatrice Mai Alkaila - anch’io com’è accaduto a un milione di palestinesi sono andata in carcere: una condizione che ha riguardato il 30% della nostra popolazione. In carcere, senza capi d’accusa, vi sono anche 17 deputati e 3 ex ministri: perché i giudici sono anche i nostri carnefici". Al di sopra delle leggi - Il presidente Abu Mazen "ha parlato con Kerry di Al-Qiq e degli altri prigionieri politici palestinesi. Ma Israele si sente al di sopra delle leggi e bolla come terrorista chiunque cerchi di denunciare, come fu per il Sudafrica, il regime di apartheid e come stanno facendo gli attivisti della campagna Bds (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni). Ma, a livello internazionale, i diritti umani vengono subordinati agli interessi economici". In Israele - ha aggiunto Ashir, presidente della Comunità palestinese - "vi sono 93 etnie. Di recente, alle donne etiopi che si sono trasferite in Israele è stato imposto di prendere anticoncezionali per non aumentare la proporzione di etiopi. In prima fila nei conflitti vengono inviati gli ebrei yemeniti, mentre anche nel governo i ministeri chiave sono nelle mani degli ebrei occidentali. E si dovrebbe riflettere quando un colonnello israeliano viene ucciso nello Yemen o un consulente militare israeliano viene arrestato in Iraq". L’appello, rivolto ai giornalisti e a tutti quelli che appoggiano il diritto dei palestinesi a vivere sulla propria terra senza occupazione, è quello di moltiplicare le iniziative di sostegno: sul territorio, con le associazioni di categoria e presso i propri governi, o inviando cartoline alla Croce rossa. Intanto, continuano le manifestazioni di sostegno ad Al-Qiq in ogni parte del mondo. Anche in Israele. Domani alle 15, a Milano si svolgerà un presidio sotto la Rai, in Corso Sempione, 27: "Per informare la popolazione sulla situazione di Mohammed Al-Qiq e di tutti i prigionieri politici palestinesi; per denunciare la complicità del governo italiano nelle violazioni ai diritti umani e al diritto internazionale da parte di Israele; per condannare le manovre dei dirigenti italiani a sostegno dell’occupazione e della colonizzazione". Medio Oriente: torture sui detenuti palestinesi, dossier choc di 2 Ong israeliane di Francesco Volpi interris.it, 25 febbraio 2016 Secondo il rapporto, finanziato dall’Ue, la Shin Bet farebbe ancora ricorso a maltrattamenti e umiliazioni nelle carceri. Due Ong israeliane hanno presentato un rapporto nel quale viene denunciato il ricorso a torture o umiliazioni nei confronti dei detenuti palestinesi. Il dossier, pubblicato dalle associazioni B’tselem e Hamoked, si basa sulle testimonianze di 116 reclusi interrogati dallo Shin Bet (la sicurezza interna) nel carcere Hashikma di Ashqelon (a sud di Tel Aviv) fra l’agosto 2013 e il marzo 2014. Il report - finanziato dall’Unione europea - aggiunge che nel caso di 14 detenuti lo Shin Bet si è avvalso di informazioni raccolte in precedenza dai servizi di sicurezza dell’Anp mediante altre torture. Il rapporto include fra le forme di sevizie praticate a suo dire sistematicamente dallo Shin Bet: la privazione del sonno, anche per alcuni giorni; limitazioni ai movimenti, con gambe e braccia legate ad una seggiola per ore; urla, contumelie, minacce e sputi; esposizione prolungata a temperature molto elevate o molto basse; carenze di cibo, sia per quantità sia per qualità; negazione delle docce e del cambio di abiti anche per settimane; chiusura in isolamento per giorni in locali ristretti. Tutto ciò, precisa il dossier, appare "di routine" e rappresenta "una grave infrazione del diritto internazionale". "Israele - afferma il rapporto - deve cessare immediatamente dal ricorso a comportamenti crudeli, inumani ed umilianti, a sevizie e torture verso gli indagati, sia negli interrogatori frontali sia nelle condizioni di detenzione". Israele deve inoltre verificare che anche l’Anp si astenga da comportamenti del genere. In una prima reazione lo Shin Bet ha respinto queste accuse sostenendo che sono il frutto di deposizioni "tendenziose e distorte". Entrerà nel dettaglio, ha anticipato, in un prossimo dibattito alla Corte Suprema, richiesto da B’Tselem. "Le indagini dello Shin Bet - aggiunge - si svolgono nell’ambito della legge e con l’intento di far fallire e di impedire attività volte a colpire la sicurezza del Paese. La nostra attività viene peraltro tenuta sotto controllo costantemente da elementi interni ed esterni, fra cui il Controllore di Stato, la magistratura, il consigliere legale del governo, la Knesset (parlamento) e i tribunali". India: i Francescani per l’Anno giubilare chiedono la libertà per mille prigionieri Ansa, 25 febbraio 2016 Liberare mille prigionieri, detenuti per reati minori nelle carceri indiane, concedendo loro uno speciale "indulto" nell’Anno giubilare: è la richiesta che i Francescani indiani inoltrano al governo, auspicando che anche nella società indiana possa esserci una traccia dell’Anno santo della misericordia indetta da Papa Francesco. Come comunicato all’agenzia vaticana Fides, l’iniziativa parte dalla "Associazione delle Famiglie Francescane d’India" (Affi) una rete che unisce a livello nazionale gli oltre 50mila francescani di diverse congregazioni religiose, maschili e femminili, e laici. Riuniti per la loro assemblea nazionale a Bangalore nei giorni scorsi, i rappresentanti dell’Affi hanno riflettuto sul tema "Essere francescani: volto della misericordia di Cristo in questo mondo". I francescani in India, presenti con 54 congregazioni in 164 province, sono impegnati principalmente nell’aiuto dei poveri e degli emarginati attraverso istituzioni educative, mediche e opere sociali. "Essendo già coinvolti in opere di misericordia corporali e spirituali e sulle orme di San Francesco e Santa Chiara d’Assisi, il richiamo di Papa Francesco per il Giubileo della Misericordia ha aggiunto e rinnovato una motivazione speciale alla missione dei francescani in India", spiega a Fides padre Nithiya Sagayam, dei frati minori, coordinatore dell’Affi. Ora i francescani hanno focalizzato la loro attenzione sul rilascio dei prigionieri detenuti per piccoli reati. Alcune opere sociali gestite dai francescani già accolgono detenuti o ex detenuti che hanno le pene commutate in servizi sociali. Ora si intende avviare negoziati con le autorità governative per ottenere un piccolo indulto ma anche per "guidare gli ex detenuti e far sì che riprendano la vita con dignità e speranza", conclude padre Sagayam.