La strada dei diritti di Stefano Rodotà La Repubblica, 24 febbraio 2016 Bisogna riprendere un percorso coerente con il fatto che si sta discutendo di dignità e identità delle persone. Non tutto è negoziabile. La discussione sulle unioni civili avrebbe bisogno di limpidezza e di rispetto reciproco, invece d’essere posseduta da convenienze politiche, forzature ideologiche, intolleranze religiose. Di fronte a noi è una grande questione di eguaglianza, di rispetto delle persone e dei loro diritti fondamentali, che non merita d’essere sbrigativamente declassata, perché altre urgenze premono. I diritti, dovremmo ormai averlo appreso, sono indivisibili, e quelli civili non sono un lusso, perché riguardano libertà e dignità di ognuno. Bisogna liberarsi dai continui depistaggi. La maternità surrogata, vietata fin dal 2004, viene evocata per opporsi all’adozione dei figli del partner, penalizzando proprio quei bambini che si dice di voler tutelare e tornando così a quella penalizzazione dei figli nati fuori dal matrimonio eliminata dalla civile riforma del diritto di famiglia del 1975. E si dovrebbe ricordare che la Costituzione parla della famiglia come società "naturale" non per evitare qualsiasi accostamento alle unioni tra persone dello stesso sesso, ma per impedire interferenze da parte dello Stato in "una delle formazioni sociali alle quali la persona umana dà liberamente vita", come disse Aldo Moro all’Assemblea costituente. Altrimenti ricompare la stigmatizzazione dell’omosessualità, degli atti "contro natura". L’impegno significativo del presidente del Consiglio per arrivare ad una disciplina delle unioni civili rispettosa di quello che la Corte costituzionale ha definito come un diritto fondamentale a vivere liberamente la condizione di coppia, si è via via impigliato nel prevalere delle preoccupazioni legate alla tenuta della maggioranza. Il riconoscimento effettivo di diritti fondamentali viene così subordinato ad una esigenza propriamente politica che sta svuotando la portata della nuova legge. E non si può dire che si cerchi di procedere con la cautela necessaria, data la delicatezza dell’argomento, perché la cautela si è trasformata nel progressivo abbandono di una linea rigorosa, nel gioco delle concessioni verbali che tuttavia inquinano il senso della legge in punti significativi. È indispensabile riprendere una strada coerente con il fatto che si sta discutendo di dignità e identità delle persone, dunque di una materia dove non tutto è negoziabile. Il legislatore sta oscillando tra concessioni improprie e irrigidimenti ingiustificati. Una assai discutibile e discussa sentenza del 2010 della Corte costituzionale viene eretta a baluardo inespugnabile, che non consentirebbe neppure di adempiere a quel dovere positivo di riconoscimento pieno dei diritti delle coppie tra persone dello stesso sesso imposto all’Italia da una sentenza di condanna del 2015 della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per sfuggire a questa responsabilità, più si va avanti più si delinea una situazione in cui il legislatore sta costruendo una sua gradita impotenza. Non posso intervenire perché avrei bisogno di una legge costituzionale. Non posso intervenire perché devo ancora considerare il codice civile come un riferimento ineludibile. Non posso muovermi nel nuovo contesto costruito dai principi e dalle regole europee. Non posso intervenire perché l’opportunità politica variamente mascherata me lo preclude. Nessuno di questi argomenti regge. Nel 2013 la Corte di Cassazione ha detto esplicitamente che le scelte in questa materie sono affidate al legislatore ordinario. Ricostruire il principio di riferimento nel fatto che il codice civile parla ancora di diversità di sesso nel matrimonio è un errore di grammatica giuridica perché si dimentica che la Costituzione si pone in una posizione gerarchicamente superiore al codice civile e bisogna interpretare la Costituzione partendo dal principio di eguaglianza. Proprio la forza di questo principio ha determinato un radicale cambiamento del sistema istituzionale europeo. La Carta dei diritti fondamentali ha cancellato il requisito della diversità di sesso sia per il matrimonio, sia per ogni altra forma di costituzione della famiglia, e ha ribadito con forza che non sono ammesse discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale. Se si guarda più a fondo nel nostro sistema, neppure l’accesso al matrimonio egualitario sarebbe precluso al legislatore ordinario. In questo nuovo mondo, che pure le appartiene e nel quale ha liberamente deciso di stare, l’Italia è recalcitrante ad entrare. E così conferma un ritardo culturale, che in altri tempi aveva vittoriosamente sconfitto, anche in occasioni difficili come quelle dell’approvazione delle leggi sul divorzio e dell’aborto, senza restare prigioniera delle preoccupazioni della Chiesa, che oggi tornano in maniera inquietante e inattesa. Di nuovo lo sguardo si fa ristretto, la riflessione culturale si rattrappisce e non si riesce a dare il giusto rilievo al fatto, sottolineato con forza dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ormai la maggioranza dei Paesi del Consiglio d’Europa riconosce le unioni civili e che aumentano continuamente gli Stati dov’è riconosciuto il matrimonio tra persone dello stesso sesso - Francia, Spagna, Portogallo, Stati Uniti, Danimarca, Inghilterra, Irlanda, Svezia, Norvegia, Svizzera, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Slovenia, Argentina, Brasile, Uruguay, Sudafrica. Strada che questi Paesi non percorrono con avventatezza, ma riflettendo con serietà, e che dovrebbero essere un riferimento per sfuggire alla superficialità con la quale troppo spesso in Italia si affrontano questioni serie come quelle riguardanti le adozioni coparentali (stepchild adoption). Tema, questo, che trascura del tutto le dinamiche degli affetti, la genitorialità come costruzione sociale e che, a giudicare da alcuni improvvidi emendamenti al disegno di legge in discussione al Senato, rischia di lasciare bambine e bambini in un avvilente limbo, che di nuovo nega dignità ed eguaglianza. Ancora e sempre l’eguaglianza, che la Corte costituzionale non ha adeguatamente considerato in quella sentenza del 2010, la cui interpretazione dovrebbe essere seriamente riconsiderata a partire dal nuovo contesto istituzionale europeo. Perché no? Ricordiamo che, con una violazione clamorosa del principio di eguaglianza, nel 1961 la Corte costituzionale dichiarò legittima la discriminazione tra moglie e marito in materia di adulterio. La Corte si ravvide nel 1968, mostrando che l’eguaglianza e la vita non possono essere consegnate alla fissità di una decisione. Un legislatore, che sta costruendo la sua impotenza, dovrebbe piuttosto riflettere sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che, nel 2015, ha ammesso il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ferma restando la legittima manifestazione di ogni opinione, i giudici americani hanno affermato il loro dovere di sottrarre i diritti fondamentali alle "vicissitudini della politica". La necessità e l’onore. Il nuovo (multiplo) caso Usa-Italia di Fulvio Scaglione Avvenire, 24 febbraio 2016 Avere amici grandi e grossi è spesso un vantaggio. A patto di superare con agilità i momenti in cui la mole dell’amico fa cadere il vaso della nonna o sfonda la poltrona buona del salotto. Adesso, però, l’amicizia con gli Stati Uniti ha messo a rischio anche la disinvoltura con le patate bollenti del premier Matteo Renzi. Non è facile digerire in poche ore che nel periodo 2008-2011 il Governo italiano, nella persona del primo ministro Silvio Berlusconi, fosse spiato dai servizi di sicurezza americani, che il "Wall Street Journal" faccia sapere agli italiani che Sigonella sarà usata come base per attacchi armati dei droni Usa sulla Libia, che la Corte europea dei diritti dell’uomo condanni l’Italia (unico Paese a subire l’onta dopo la Macedonia) per aver violato la Convenzione europea avendo apposto il segreto di Stato con quattro Governi e non avendo chiesto con sei ministri della Giustizia l’estradizione degli agenti della Cia che nel 2013 rapirono, portarono in Egitto e fecero torturare Abu Omar, l’imam egiziano estremista che operava a Milano ed era indagato per terrorismo internazionale. Di tutto un po’, insomma. Con un carico di suggestioni che magari incidono poco sui rapporti diplomatici, ma molto sui sentimenti e sull’orgoglio. Sigonella è la base in cui, nella notte tra il 10 e l’11 ottobre 1985, i militari italiani impedirono alle forze speciali Usa di portarsi via i terroristi palestinesi che avevano attaccato la nave "Achille Lauro" e ucciso un cittadino americano. E poi, per gli altri casi, la recente trasferta del presidente Sergio Mattarella negli Usa, il suo incontro con Barack Obama, la grazia concessa da non molto a due degli agenti Cia che rapirono Abu Omar... Renzi ha reagito convocando l’ambasciatore americano John Phillips per avere, sulla vicenda delle intercettazioni ai danni dell’intercettatissimo Berlusconi, quei "chiarimenti" che avrà solo dal punto di vista formale. La realtà è una e non cambierà: gli Usa spiano tutto e tutti, anche chi scrive queste note e chi le legge, e continueranno a farlo. Berlusconi è solo uno di una lunga lista che comprende Merkel, Sarkozy, Netanyahu e persino quel brav’uomo di Ban Ki-moon, il segretario generale dell’Onu. Tutti hanno protestato con l’aria stanca di chi sa che è inutile farlo, pronti ovviamente ad ascoltare le telefonate altrui appena se ne presentasse la ragione e l’occasione. Se i servizi segreti spiassero solo i nemici avrebbero chiuso bottega da tempo. Più serie, in una normale dialettica tra alleati, le altre due questioni. Per quanto fatta passare come "pulita" e "mirata", la guerra dei droni è il suo esatto contrario. L’Ong inglese Reprieve ha studiato gli esiti di una lunga serie di attacchi, e ha calcolato che per ogni terrorista colpito i droni uccidono altre 28 persone, tra cui donne e bambini. Renzi ha fatto sapere che i voli da Sigonella saranno autorizzati "caso per caso", in base "all’evidenza che ci sono potenziali attentatori che si stanno preparando". Ma la sostanza non cambia. Il caso Abu Omar, poi, a dispetto della colpevolezza dell’imam che fu infine condannato a 6 anni, ci rimanda a una stagione, quella delle extraordinary renditions, di cui c’è poco da esser fieri. Sistemi di lotta al terrorismo che non hanno funzionato, peraltro, visto che da allora attentati e vittime sono sempre aumentati. Detto questo, la crisi - se crisi c’è - verrà presto composta. Il rapporto tra Usa e Italia è solido per definizione e tradizione, e la gerarchia chiara. In più, ora ci lega la reciproca necessità. Con il Nord Africa in subbuglio e il Daesh in Libia grazie anche ai pasticci europei, l’Italia è una postazione preziosa per gli Usa: a noi l’onere di non farci usare solo come rampa di lancio. Ma anche all’Italia serve, eccome, l’appoggio americano. Non sembra che il nostro Paese trovi troppo ascolto presso molti partner europei. E per sedersi a certi tavoli, la spinta di un amico grande e grosso serve davvero. È l’ennesimo caso in cui bisognerà riuscire a comporre la necessità e l’onore. L’una non senza l’altro. La garanzia della privacy, un diritto di libertà di Antonello Soro (Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali) Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2016 Per quanto possa non stupire visti i precedenti ai danni di altri Paesi, la notizia delle intercettazioni effettuate dall’Nsa, con modalità ancora da chiarire, nei confronti dell’allora Presidente del Consiglio italiano, se confermata, sarebbe gravissima. Come gravissima è sin da subito apparsa la notizia delle intercettazioni effettuate dalla stessa Nsa, nei confronti di Angela Merkel o Nicolas Sarkozy. In gioco non vi è solo la riservatezza degli interlocutori, quanto piuttosto lo spionaggio politico, realizzato peraltro nei confronti di un Paese alleato. Ma non meno grave sarebbe, se confermata, la notizia della massiva acquisizione di dati personali realizzata dalla stessa Nsa ai danni di comuni cittadini: 45 milioni di metadati in un solo mese tra il dicembre 2012 e il gennaio 2013. È, questo, un tema che torna oggi all’attenzione, con la stessa drammaticità, a meno di tre anni dalle prime rivelazioni di Snowden. Già all’epoca avevamo sollecitato il Presidente del Consiglio a svolgere una verifica puntuale sulla violazione della privacy dei cittadini italiani e la stessa Ue ha avviato un confronto con gli Usa, per chiarire meglio i contorni della vicenda. L’opposizione del segreto, da parte degli Stati Uniti, su molti degli aspetti centrali del Datagate ha, ovviamente, limitato la possibilità di accertare pienamente la verità, riproponendo quel conflitto tra segreto di Stato e diritti fondamentali oggi, sia pur in altre forme, all’attenzione della Corte europea dei diritti umani per il caso Abu Omar. E tuttavia, che in nome della lotta al terrorismo si siano compiute, proprio in una democrazia consolidata come gli Usa, gravissime violazioni dei diritti fondamentali, è stato chiarito dalla stessa Commissione parlamentare occupatasi della vicenda. In quella sede si è anche riconosciuto che simili misure di controllo generalizzato sono non solo lesive dei diritti fondamentali ma anche inefficaci, determinando raccolte di dati così massive da risultare poi ingestibili e, quindi, del tutto inutili ai fini di analisi. Le conclusioni della Commissione Feinstein hanno così agevolato la riforma dell’intelligence voluta da Obama, rafforzando (ma non per chi non sia cittadino americano) le garanzie rispetto all’azione investigativa. Proprio per impedire ulteriori violazioni dei diritti dei cittadini europei, la Corte di giustizia ha di recente annullato l’accordo Safe Harbour, che legittimava il trasferimento di dati personali verso gli Usa, in ragione delle scarse garanzie che quell’ordinamento offre, sotto il profilo della protezione dati, ai non cittadini. Un primo accordo tra la Commissione e gli Usa ha segnato qualche progresso, ma il tema del diritto alla protezione dati rispetto ad attività d’intelligence così invasive resta. E la domanda di accertamento della verità non può restare inevasa. Per questo è necessario che il Governo anzitutto - e se del caso la magistratura - facciano piena chiarezza su questo punto, accertando non solo la posizione dei nostri Servizi, ma soprattutto quella degli organi d’intelligence stranieri. E, per prevenire ulteriori violazioni, il diritto alla protezione dati va posto al centro dell’agenda politica, nella consapevolezza che su di esso si misura la qualità della democrazia e da esso dipende la nostra libertà. Sulla protezione dati non può valere il paradigma del nimby (not in my backyard), ovvero l’attenzione a tale diritto solo quando ci riguardi (come Paese, come individui) in prima persona. Come non può, questo diritto fondamentale, essere oggetto di un rispetto solo "presbite", che porti a denunciarne le violazioni perpetrate altrove ma legittimi ogni sua compressione nei nostri confini, per mera convenienza politica. Pensando al paradosso francese della disciplina, in Costituzione, dell’emergenza e delle limitazioni dei diritti fondamentali che può legittimare, c’è da temere che proprio quell’Europa che ha rappresentato un modello verso cui tendere nel rapporto tra libertà e sicurezza, si allontani da se stessa. E da quei principi che ne fondano l’identità: la garanzia della privacy soprattutto, come libertà dal controllo e condizione di una democrazia pluralista e personalista. Amnesty International denuncia: "in Italia i torturatori dormono tranquilli" di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 febbraio 2016 Diritti umani. Pubblicato il Rapporto 2015-2016. "Diritti in pericolo, assalto globale alle libertà" con l’agenda delle violazioni italiane. "Chi, trovandosi in questo momento in Italia, abbia commesso atti di tortura può, nella grande maggioranza dei casi, dormire sonni tranquilli. E fino a che non ci sarà un reato di tortura, punito severamente e con un termine di prescrizione lungo, le cose sono destinate a rimanere così". Fotografa perfettamente la realtà, Antonio Marchesi, presidente della sezione italiana di Amnesty International, nel presentare il Rapporto 2015-2016 "Diritti in pericolo, assalto globale alle libertà". L’impunità per un reato che proietta l’Italia nello stesso cono d’ombra dell’Egitto - dove Abu Omar, rapito a Milano, fu condotto e torturato, anche se ne uscì vivo, al contrario di Giulio Regeni - è uno dei dieci punti dell’Agenda dei diritti umani di Amnesty che riguarda il nostro Paese presentata all’inizio dell’attuale legislatura e sottoscritta da 118 parlamentari. La "mancanza di misure di prevenzione degli abusi di polizia" è, secondo AI, una delle "insufficienze più gravi", che ci fa entrare nel triste catalogo degli "oltre 122 Stati che hanno praticato maltrattamenti o torture" e dei "30 paesi, se non di più, che hanno rimandato illegalmente rifugiati verso Paesi in cui sarebbero stati in pericolo". Carenza alla quale il Parlamento non vuole mettere riparo: "La commissione Giustizia del Senato, prima ha reso impresentabile la definizione di tortura contenuta nel ddl in discussione - si legge nel rapporto, con riferimento al testo approvato dalla Camera nell’aprile 2015 - poi, e da diversi mesi ormai, ha smesso di parlare dell’argomento, secondo un copione che è sempre lo stesso, legislatura dopo legislatura". Al Senato si è incagliata anche la legge approvata dai deputati nel 2014 sull’omofobia e la transfobia, reati che rimangono impuniti in un Paese che non riesce nemmeno a riconoscere pari diritti alle coppie omo e eterosessuali. Nell’Agenda di Amnesty trova posto il problema del trattamento discriminatorio delle popolazioni Rom, confermato dalla condanna che il tribunale di Roma ha comminato al Campidoglio per la segregazione in campi monoetnici e la discriminazione nell’assegnazione degli alloggi. Diritti umani a rischio anche nell’accoglienza di immigrati e rifugiati, con particolare "preoccupazione" espressa dall’associazione per "le prassi adottate" nel "nuovo approccio hotspot", e per il reato di clandestinità che "ancora esiste formalmente nell’ordinamento italiano, nonostante la volontà contraria del Parlamento", solo perché il governo non attua la delega ricevuta "con la motivazione, francamente incredibile, che "gli italiani non capirebbero". Infine, last but not least, è il problema della "esportazione di armi verso Paesi dove vengono utilizzate per violare il diritto umanitario con azioni armate non autorizzate dall’Onu". Denuncia il rapporto: "Nel corso del 2015 e dell’inizio del 2016 bombe e sistemi militari sono stati trasferiti dall’Italia all’Arabia Saudita", il cui governo "è responsabile di gravi violazioni dei diritti umani", e che è "attualmente impegnata in un’azione militare in Yemen, nel quadro di un conflitto caratterizzato da attacchi indiscriminati contro le infrastrutture civili (a cominciare dalle strutture sanitarie e dalle scuole)". Per il governo Renzi "è tutto regolare, tutto a posto", riferisce AI. D’altronde non è la prima volta che l’Italia chiude entrambi gli occhi di fronte alle brutalità dei Paesi cosiddetti "alleati". L’Egitto insegna. Ma Amnesty insiste, e chiede "l’immediata interruzione di ogni ulteriore consegna di armi all’Arabia Saudita". Caso Abu Omar: la Corte di Strasburgo condanna l’Italia di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 24 febbraio 2016 Per il Tribunale Roma ha violato i principi della Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo quando fu apposto il segreto di Stato sul rapimento dell’imam. Che paradosso: l’Italia, grazie all’autonomia e indipendenza dall’esecutivo garantita alla magistratura dagli assetti costituzionali, è stata l’unico Paese al mondo a "processare" un caso di "extraodinary rendition" antiterrorismo praticato dagli Stati Uniti, ma ora, a causa del segreto di Stato calato da ben quattro governi italiani sul rapimento di Abu Omar nel 2003, è il secondo Paese del Consiglio d’Europa (dopo la Macedonia) a essere condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Strasburgo, infatti, oggi ha condannato l’Italia per aver violato i principi della Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo quando, con l’apposizione del segreto di Stato da parte di quattro presidenti del Consiglio tra il 2005 e il 2013 (Prodi, Berlusconi, Monti, Letta) e con la non richiesta di estradizione dei condannati e latitanti agenti Cia da parte di 6 ministri della Giustizia (Castelli, Mastella, Scotti, Alfano, Palma e Severino), lasciò senza alcun rimedio interno al sistema giudiziario italiano la richiesta di giustizia di Nasr Osama Mostafa Hassan, detto Abu Omar: l’estremista imam egiziano della moschea milanese di via Quaranta rapito da agenti della Cia (e poi torturato in Egitto) il 17 febbraio 2003, quand’era indagato dalla Procura di Milano per associazione con finalità di terrorismo internazionale (reato per il quale nel 2013 sarà poi condannato a 6 anni). Dalla scomparsa alla detenzione in Egitto - Cinque i diritti Cedu violati dall’Italia: proibizione di trattamenti umani e degradanti (che assorbe anche il diritto a un equo processo), diritto alla libertà e sicurezza, diritto a effettivi rimedi giudiziari, diritto al rispetto della vita familiare. La Corte di Strasburgo osserva che "il governo italiano ha ammesso di non aver mai chiesto l’estradizione degli americani condannati", e che "peraltro il Presidente della Repubblica ha accordato la grazia a tre dei condannati tra i quali Lady", che aveva riportato una delle pene più alte "in ragione delle sue responsabilità". Per Strasburgo, "malgrado il lavoro degli investigatori e dei magistrati italiani che ha permesso di identificare le responsabilità e di pronunciare le condanne", esse sono di fatto restate prive di effettività: "Il principio legittimo del segreto di Stato è stato con tutta evidenza applicato per impedire che i responsabili rispondessero delle proprie azioni", e si è avuta "impunità". Quanto alle torture subìte da Abu Omar in Egitto (dove era arrivato dopo due passaggi nelle basi Nato di Aviano e Remstein in Germania), l’Italia "deve essere considerata direttamente responsabile della violazione" dei diritti umani di Abu Omar: perché, anche se non è stata la nazione che le ha praticate, i suoi funzionari "non hanno impedito questa situazione" adottando le misure che sarebbero tate necessarie, responsabilità ancora più grande visto che in quel momento Abu Omar godeva dello status di rifugiato politico. Alla fine di un lungo e tortuoso iter processuale sull’indagine compiuta nel 2004-2005 dai pm milanesi Armando Spataro e Ferdinando Pomarici (all’epoca in cui l’ufficio era guidato dallo scomparso Manlio Minale), l’esito era stato differente per gli imputati americani e per quelli italiani. Venticinque diplomatici Cia erano stati definitivamente condannati dalla Cassazione per sequestro di persona, compresi l’allora capo della Cia in Italia, Jeff Castelli, e l’ex capocentro milanese Bob Seldon Lady (7 e 9 anni). Invece cinque funzionari italiani - l’allora capo del Sismi, Niccolò Pollari (10 anni di pena nell’Appello del 2013 annullato definitivamente nel 2014), l’allora n.3 Marco Mancini (cancellati 9 anni dopo che il segreto di Stato lo aveva già sottratto al processo per i dossieraggi della Security di Telecom), e gli 007 Raffale Di Troia, Luciano Di Gregori e Giuseppe Ciorra (annullati 6 anni) - erano stati prosciolti per "non luogo a procedere" dopo che la Cassazione aveva dovuto prendere atto del secondo e ribadito pronunciamento della Corte costituzionale: la quale nel 2014 aveva ritenuto che tra il 2007 e il 2013 fosse stato validamente (anche se tardivamente) apposto dai quattro diversi governi Prodi-Berlusconi-Monti-Letta il segreto di Stato sulle prove a carico o a discarico degli imputati 007 italiani, seppure legittimamente acquisite dai pm all’epoca in cui le avevano raccolte senza che alcuno invocasse il segreto di Stato. Un segreto che formalmente verteva non sui fatti-reato come il sequestro di Abu Omar, ma sugli assetti interni degli 007 italiani e i loro rapporti con la Cia, "ancorché collegati o collegabili" a un fatto-reato come il sequestro di Abu Omar. A condizione infatti che "gli atti e i comportamenti degli agenti siano oggettivamente orientati alla tutela della sicurezza dello Stato", nel 2014 la Consulta aveva indicato che non spetta ai magistrati (come invece aveva fatto la prima Cassazione nel 2012) restringere i confini asseriti dai governi per il segreto di Stato, che è "preordinato alla salvaguardia della preminenza del supremo interesse della sicurezza dello Stato-comunità rispetto alle esigenze dell’accertamento giurisdizionale". La decisione della Consulta pareva a rischio di tautologia, specie per future applicazioni, visto che la sola condizione per un uso corretto del segreto di Stato da parte dell’autorità politica (e cioè l’oggettivo orientamento dell’agire degli 007 alla tutela della sicurezza dello Stato) sembrava in questo modo finire per poter essere autoprodotta e autocertificata dallo stesso presidente del Consiglio che apponesse quel segreto: infatti, ragionava la Corte costituzionale, siccome il segreto di Stato per legge non può coprire attività illecite extrafunzionali degli 007, allora "la ribadita e confermata sussistenza del segreto" da parte di un premier basterebbe di per sé ad "attestare la implausibilità" che il segreto copra illeciti operati a titolo personale dagli 007. Questa nozione di allargata di segreto di Stato non ha dunque superato oggi il vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, alla quale la famiglia di Abu Omar, che dalle condanne annullate aveva avuto 1 milione di euro di provvisionale per lui e mezzo milione per la moglie, si era rivolta nel 2009 lamentando la violazione da parte dell’Italia del diritto di accesso alla giustizia. E il cartellino rosso di Strasburgo arriva proprio in un momento di ottimi rapporti diplomatici tra Italia e Stati Uniti, cornice peraltro nel cui ambito due mesi fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, come già il suo predecessore Giorgio Napolitano il 6 aprile 2013 nel caso del colonnello Joseph Romano della base Nato di Aviano, aveva firmato provvedimenti di grazia per la ex segretaria d’ambasciata Betnie Medero e per l’ex capo Cia milanese Bob Lady. Un tipo di grazia inedito per le procedure ordinarie, che il Colle argomentò come gesto simbolico per "adeguare la pena inflitta alla gravità delle responsabilità nell’organizzazione del sequestro", anche in considerazione del fatto che "durante l’amministrazione Obama si è interrotta completamente la pratica dei rapimenti, pratica giudicata dall’Italia incompatibile con le regole dello stato di diritto". Tra gli imputati italiani sono rimaste definitive solo le condanne dei due agenti Sismi per favoreggiamento a 2 anni e 8 mesi, Pio Pompa e Luciano Seno; i 21 mesi patteggiati nel 2007 dal carabiniere del Ros e aspirante agente Sismi, Luciano Pironi, per l’ammessa partecipazione al sequestro; e i 6 mesi, convertiti in 6.840 euro, patteggiati dal giornalista (poi parlamentare) Renato Farina per favoreggiamento. È la seconda volta che uno Stato del Consiglio d’Europa viene condannato per avere cooperato alle extraordinary renditions organizzate dalla Cia dopo l’11 settembre 2001: già la Macedonia, infatti, era stata ritenuta responsabile della violazione degli articoli 3, 5, 8 e 13 per la condotta di propri agenti che nel dicembre 2003 arrestarono un cittadino tedesco sospettato di terrorismo, Khaled El Masri, gli negarono accesso a giudici e avvocati, e poi lo consegnarono alla Cia che lo trasferì in un campo di detenzione in Afghanistan, dove fu soggetto a trattamenti inumani sino a quando emerse, peraltro, che in quel caso si trattava di un errore di persona. La lezione del caso Abu Omar. Perché siamo stati condannati di Armando Spataro (Procuratore della Repubblica di Torino) Corriere della Sera, 24 febbraio 2016 Dovremmo imparare che una democrazia non può tradire se stessa e i diritti dell’Uomo. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato il Governo italiano per il segreto di Stato apposto nella vicenda del sequestro dell’egiziano Abu Omar, all’epoca indagato quale sospetto terrorista, rapito il 17 febbraio 2003 a Milano e poi trasportato in volo in Egitto, per esservi illegalmente detenuto e a lungo torturato. Per il sequestro sono stati definitivamente condannati un maresciallo dei Carabinieri reo confesso e - caso unico al mondo - 26 americani, di cui 25 appartenenti alla Cia. A cinque di loro è stata negata l’immunità diplomatica. La sentenza di Strasburgo, però, è collegata soprattutto alla incriminazione per concorso nel sequestro di cinque funzionari italiani del Sismi, tra cui l’alto ufficiale che lo dirigeva all’epoca dei fatti. Ben quattro capi di governo in successione (Prodi per primo, poi Berlusconi, Monti e Letta), tra il 2007 ed il 2013, sollevarono dinanzi alla Consulta vari conflitti di attribuzione contro le Autorità Giudiziarie procedenti, "accusate" di voler utilizzare elementi di prova ritenuti coperti dal segreto di Stato. Dopo il silenzio del Copasir e dopo varie sentenze, anche della Consulta, la Corte d’Appello di Milano, nel febbraio 2013, affermando che il segreto di Stato non può coprire attività illegali non rientranti nei compiti istituzionali dei Servizi, condannava l’ex n. 1 del Sismi a dieci anni di reclusione e gli altri funzionari a pene comprese tra i nove e i sei anni. Nel febbraio 2014, però, la Corte Costituzionale, a seguito dei "conflitti" sollevati dai governi Monti e Letta, annullava la condanna affermando che "la copertura del segreto" per scelta di chi "è titolare del relativo munus", poteva arrivare a coprire, oltre a direttive operative, "...i rapporti con i Servizi stranieri, anche se riguardanti le renditions ed il sequestro di Abu Omar. Ciò, ovviamente, a condizione che gli atti e i comportamenti degli agenti siano oggettivamente orientati alla tutela della sicurezza dello Stato". La Corte di Cassazione, pertanto, due settimane dopo, era costretta ad annullare definitivamente la precedente condanna, muovendo però forti critiche alla Consulta la cui "pronuncia sembra abbattere alla radice la possibilità stessa di una verifica di legittimità, continenza e ragionevolezza dell’esercizio del potere di segretazione con compromissione del dovere di accertamento dei reati da parte dell’autorità giudiziaria, che inevitabilmente finisce per essere rimessa alla discrezionalità della autorità politica". Complicata ricostruzione dei fatti, dunque, ma doverosa per arrivare a capire come la Cedu abbia dato ragione alle tesi della Corte di Cassazione e della A.G.di Milano. Il Governo italiano, a dire il vero, è rimasto silente anche di fronte alle numerose Risoluzioni e Raccomandazioni emesse, tra il 2007 e il 2014, dal Parlamento Europeo e dal Consiglio d’Europa che pure lo avevano invitato a revocare il segreto di Stato ed a collaborare con l’Autorità Giudiziaria. Un silenzio spiegato con il dovere di riserbo derivante dai rapporti di alleanza con gli Stati Uniti che però mai avevano negato le proprie responsabilità nel sequestro ed il cui Senato, anzi, nel dicembre del 2014, è stato capace di condannare le prassi delle renditions, delle prigioni segrete e delle torture e di ammetterne l’assoluta inutilità rispetto al contrasto del terrorismo. Ed anche le indagini su Abu Omar e sui suoi complici, infatti, furono danneggiate dal rapimento dell’egiziano. Il segreto di Stato - dice ora la Corte Europea - ha reso impossibile giudicare gli italiani del Sismi e ciò in violazione della Convenzione dei Diritti dell’Uomo. Da Strasburgo, insomma, esce un messaggio forte per il mondo: le democrazie - come scriveva Antonio Cassese - non possono smentire se stesse negando i diritti fondamentali delle persone, anche se si tratta di terroristi. Servirà a qualcosa la sentenza di Strasburgo? Forse a risarcire chi è stato rapito e torturato, ma difficilmente determinerà autocritiche da parte di chi ha deciso o legittimato con astrusi argomenti l’uso del segreto di Stato in questa vicenda. La nostra immagine ne esce frantumata, ma è inutile sperare che qualcuno pensi ad imitare la ministra della giustizia francese Taubira, capace di dimettersi per il solo rischio di vedere costituzionalizzata l’emergenza. Così la Nsa spiava il governo di Silvio Berlusconi: "le parole non bastano più" di Stefania Maurizi L’Espresso, 24 febbraio 2016 Dai cablo rilasciati dall’organizzazione di Julian Assange emerge una attività di monitoraggio e intercettazioni ai danni dell’allora premier e del suo entourage nei giorni che anticipano la drammatica caduta. L’ultimatum di Merkel e Sarkozy: "Le istituzioni finanziarie italiane salteranno in aria come il tappo di uno champagne". La telefonata con Netanyahu: "Berlusconi ha promesso di mettere l’Italia a disposizione di Israele". "Un incontro tenutosi il 22 ottobre tra la cancelliera Angela Merkel, il presidente francese Nicolas Sarkozy e il primo ministro italiano Silvio Berlusconi è stato definito nei giorni seguenti come teso ed estremamente duro verso il governo di Roma dal consigliere personale per le relazioni internazionali del primo ministro italiano, Valentino Valentini. Merkel e Sarkozy, che evidentemente non tolleravano scuse sull’attuale situazione difficile dell’Italia, hanno fatto pressioni sul primo ministro affinché annunciasse forti e concrete misure e affinché le applicassero in modo da dimostrare che il suo governo è serio sul problema del debito". Questa intercettazione top secret dell’ottobre 2011, che WikiLeaks pubblica in esclusiva con l’Espresso e con un team di media internazionali, dimostra che, oltre a Germania e Giappone, anche il governo italiano era spiato e riapre il caso del complotto ai danni dell’allora presidente del consiglio che aveva spinto i fedelissimi di Berlusconi a chiedere una commissione d’inchiesta. I cablo di WikiLeaks riportano frasi dettagliate dei protagonisti di quelle intercettazioni: "Sarkozy avrebbe detto a Berlusconi che, mentre le affermazioni di quest’ultimo sulla solidità del sistema bancario italiano, in teoria, potevano anche essere vere, le istituzioni finanziarie italiane potrebbero presto "saltare in aria" come il tappo di una bottiglia di champagne e che "le parole non bastano più" e che Berlusconi "ora deve prendere delle decisioni". Non solo: il 24 [ottobre] Valentini ha indicato che il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, ha sollecitato l’Italia ad adottare misure finalizzate a ridurre l’impressione all’interno dell’Unione Europea che l’Italia sia oppressa da un enorme debito, in un momento in cui sta lottando anche con una bassa produttività e la sua economia sta mostrando poco dinamismo". L’incontro del 22 ottobre avviane a Bruxelles, al consiglio europeo. Il giorno dopo c’è la famosa conferenza stampa di Sarkozy e Merkel, con scambio di sorrisi ironici davanti alle telecamere, quando viene nominato il premier italiano. Qualche giorno dopo, il 12 novembre, Berlusconi si dimetterà. Che cosa accadde nell’autunno più cupo per l’Italia, in cui lo spread viaggiava a ritmi insostenibili per l’economia italiana, e gli scandali sessuali di Berlusconi, da Ruby Rubacuori alle olgettine, facevano il giro del mondo? Cosa esattamente ha portato alla caduta del governo Berlusconi, aprendo così la strada all’esecutivo non eletto di Mario Monti? Una cosa è certa: quello che accadeva in quei giorni è stato puntualmente ascoltato e trascritto dalla più potente agenzia d’intelligence del mondo: la National Security Agency (Nsa), come rivelano questa intercettazione e altri documenti top secret pubblicati da WikiLeaks e dall’Espresso. Secondo questi file, Silvio Berlusconi, il suo fidato consigliere personale Valentino Valentini, il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Bruno Archi - uno dei testimoni del processo Ruby, insieme a Valentini - il consigliere diplomatico di palazzo Chigi, Marco Carnelos, e il rappresentante permanente dell’Italia alla Nato, Stefano Stefanini, sono stati tutti nel mirino della "più grande, più potente, più tecnologicamente sofisticata agenzia di spionaggio che il mondo abbia mai conosciuto", secondo la definizione del prestigioso magazine americano "New Yorker". Si tratta, ancora una volta, della Nsa, l’organizzazione del governo americano i cui piani di sorveglianza di massa sono stati rivelati tre anni fa da Edward Snowden. I documenti rivelano che nel marzo 2010, Silvio Berlusconi è stato addirittura intercettato nei suoi colloqui con il leader israeliano Binyamin Netanyahu, nel momento di massima crisi tra Stati Uniti e Israele, quando l’annuncio di Netanyahu di costruire mille e seicento case a Gerusalemme est fece sprofondare Washington e Tel Aviv in un gelo diplomatico senza precedenti. A quel punto, secondo quanto ricostruisce un’intercettazione top secret della Nsa, Netanyahu contattò vari paesi europei, tra cui l’Italia, nel tentativo di smussare il conflitto con gli Usa. "Parlando con il primo ministro italiano, Silvio Berlusconi", si legge nella trascrizione delle intercettazioni Nsa, "il primo ministro israeliano Binyamin Netanyahu ha insistito che la scintilla che ha innescato la disputa - la decisione di Israele di costruire 1.600 case nei territori contesi di Gerusalemme est - era totalmente in linea con la politica nazionale fin dai tempi dell’amministrazione di Golda Meir, e ha dato la colpa della cattiva gestione di questo caso a un funzionario del governo dotato di scarsa sensibilità politica. L’obiettivo adesso - ha detto Netanyahu - è evitare che i palestinesi usino questa vicenda come una scusa per bloccare la ripresa dei colloqui o per avanzare pretese irrealistiche che potrebbero affondare una volta per tutte le negoziazioni di pace. Continuando, ha affermato che la tensione è stata solo aggravata dalla mancanza di un contatto diretto tra lui e il presidente degli Stati Uniti. In risposta, Berlusconi ha promesso di mettere l’Italia a disposizione di Israele, nell’aiutare a rimettere a posto le relazioni di quest’ultima con Washington". Questa intercettazione dei colloqui Berlusconi-Netanyahu, che risale al marzo 2010, è una di quelle che la Nsa classifica come condivisibile con i "Five Eyes", ovvero i "cinque occhi": Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda, le potenze con cui gli Usa hanno accordi di intelligence speciali, che permettono all’alleanza di condividere informazioni segrete che non passerebbero ad altre nazioni. L’intercettazione di Valentino Valentini, dell’ottobre 2011, è invece top secret/noforn, ovvero non rilasciabile a nazioni straniere. Entrambe le registrazioni sono state condotte da quella che probabilmente è la divisione più sensibile in assoluto della Nsa: lo Special Collection Service (Scs), un’unità speciale che opera sotto copertura diplomatica nelle ambasciate e nei consolati americani in giro per il mondo, per sorvegliare governi amici e nemici, lavorando spesso in collaborazione con la Cia. Obiettivo dei team Scs è raccogliere intelligence fresca e facilmente "deperibile" sulla leadership del paese in cui si trova l’ambasciata o il consolato in cui sono basati. Questo compito è facilitato dalla presenza e dall’operatività del team nelle ambasciate delle grandi capitali mondiali. Già nel 2013, grazie ai file di Snowden, l’Espresso aveva rivelato come l’Italia fosse, secondo un documento top secret della Nsa datato 2010, l’unico paese europeo, insieme alla Germania, ad avere sul proprio territorio due team dello Special Collection Service: uno a Roma e l’altro a Milano. Nell’intercettazione Nsa del colloquio Berlusconi-Netanyahu, lo Special Collection Service viene menzionato esplicitamente, mentre in quella di Valentino Valentini si scrive che è stata raccolta con mezzi "non convenzionali", un termine che nella maggior parte dei casi si riferisce alle attività di intercettazione condotte dall’Scs. Che un consigliere fidato di Silvio Berlusconi come Valentino Valentini potesse essere oggetto della sorveglianza Nsa era in qualche modo immaginabile: in un cablo del 2009 della diplomazia americana, pubblicato da WikiLeaks, Valentini è definito come "una figura in qualche modo nell’ombra, che opera come l’uomo chiave di Berlusconi in Russia, senza alcuno staff o anche solo una segretaria". Per gli americani non era chiaro cosa Valentini facesse esattamente a Mosca, "ma si vocifera ampiamente che curi gli interessi di Berlusconi in Russia". Nel cablogramma, la diplomazia di via Veneto riferiva che i contatti degli Usa sia nel partito dell’allora premier sia nel centro sinistra credessero che "Berlusconi e i suoi compari stessero approfittando personalmente e lautamente di molti degli accordi nel settore energetico tra l’Italia e la Russia". Nei nuovi documenti sul nostro Paese rivelati da WikiLeaks sono presenti due intercettazioni Nsa trascritte, rispettivamente quella di Berlusconi e quella di Valentini, e anche tre "selectors", ovvero i numeri di telefono usati dalla National Security Agency per i suoi programmi di sorveglianza e ascolto. I tre selectors corrispondono ai numeri di telefono di Stefano Stefanini, rappresentante permanente dell’Italia alla Nato dal 2007 al 2010; del consigliere diplomatico di palazzo Chigi, Marco Carnelos, diventato poi consigliere diplomatico della Regione Lazio nel 2011 e oggi ambasciatore italiano a Baghdad, e infine del consigliere per la sicurezza nazionale, Bruno Archi, negli anni del governo Berlusconi. Il primo selector è un numero fisso e, ancora oggi, permette di collegarsi direttamente all’ufficio di rappresentanza permanente della Nato a Bruxelles, mentre gli altri due sono cellulari: chiamando quello di Carnelos è ancora oggi possibile raggiungere direttamente il diplomatico. Già nel 2013, l’Espresso aveva rivelato, grazie ai file di Snowden, i piani di sorveglianza di massa della Nsa contro l’Italia. Dai documenti top secret emergevano: la presenza in Italia di due team dello Special Collection Service a Roma e a Milano, le due operazioni Nsa "Bruneau" e "Hemlock" per spiare le comunicazioni della nostra ambasciata a Washington e, infine, la massiccia raccolta dei metadati degli italiani. I file dettagliavano come in un solo mese, dal 10 dicembre 2012 al 9 gennaio 2013, la Nsa avesse raccolto i metadati di 45.893.570 di telefonate degli italiani, dove i "metadati" sono quelli che in Italia comunemente si chiamano "tabulati telefonici", ovvero chi chiama chi, a che ora, per quanti minuti, da dove. Sebbene la Costituzione italiana tuteli esplicitamente la riservatezza delle comunicazioni e le leggi del nostro Paese prevedano che sia possibile intercettare e raccogliere i dati delle comunicazioni dei cittadini solo in modo mirato e non massivo, e solo dietro un mandato e sotto la stretta supervisione dell’autorità giudiziaria, ad oggi, nessuna procura ha ritenuto di dover aprire un’inchiesta su queste rivelazioni. Quanto al governo italiano, si è sempre distinto per il suo silenzio e i suoi dinieghi assoluti, con il presidente Matteo Renzi che ha completamente ignorato lo scandalo e con l’ex presidente Enrico Letta che, nei mesi in cui il caso Snowden infuriava, dichiarava alla Camera: "In base alle risultanze dell’intelligence e ai contatti internazionali avuti, non risultano compromissioni della sicurezza delle comunicazioni dei vertici del governo, né delle nostre ambasciate. Non risulta che la privacy dei cittadini italiani sia stata violata". Dopo la rivelazione di questi nuovi documenti pubblicati da WikiLeaks, sarà più difficile fare finta di nulla. Caporalato, in 400mila lavorano nei campi per meno di 2,5 euro l’ora La Repubblica, 24 febbraio 2016 Più di dodici ore di lavoro nei campi per un salario di 25-30 euro al giorno, meno di 2 euro e 50 l’ora. È la situazione in cui lavorano in Italia 400 mila lavoratori sfruttati dal caporalato, stranieri nell’80% dei casi. È quanto emerge da uno studio di The European House-Ambrosetti su dati Flai Cgil relativi al 2015, presentato al convegno di Assosomm-Associazione italiana delle agenzie per il lavoro "Attiviamo lavoro. Le potenzialità del lavoro in somministrazione nel settore dell’agricoltura". Gli oltre 80 distretti agricoli italiani in cui si pratica il caporalato vedono in 33 casi condizioni di lavoro "indecenti" e in 22 casi condizioni di lavoro "gravemente sfruttato" e sottraggono alle casse dello Stato circa 600 milioni di euro ogni anno. Alla paga di chi lavora sotto caporali, pari alla metà di quanto stabilito dai contratti nazionali, inoltre, devono essere sottratti i costi del trasporto, circa 5 euro, l’acquisto di acqua e cibo, l’affitto degli alloggi ed eventualmente l’acquisto di medicinali. Infatti il 74% lavoratori impiegati sotto i caporali è malato e presenta disturbi che all’inizio della stagionalità non si erano manifestati. Le malattie riscontrate sono per lo più curabili con una semplice terapia antibiotica ma si cronicizzano in assenza di un medico a cui rivolgersi e di soldi per l’acquisto delle medicine. Ad aggravare la situazione contribuisce poi il sovraccarico di lavoro, l’esposizione alle intemperie, l’assenza di accesso all’acqua corrente, che riguarda il 64% dei lavoratori, e ai servizi igienici, che riguarda il 62%. Solo nell’estate 2015 lo studio stima che le vittime del caporalato sono state almeno 10. I crudi dati hanno richiamato l’attenzione del ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, presente al convegno Assosomm: "Questi numeri non vanno sottovalutati perché dietro ci sono storie di vita e di sfruttamento intollerabili. Serve alzare le misure di contrasto per sconfiggere questa piaga. Il governo è in campo da mesi con scelte concrete e strumenti già operativi come la Rete del lavoro agricolo di qualità. Il disegno di legge contro il caporalato in agricoltura, che abbiamo presentato e che è all’esame del Senato, va in questa direzione. Prevediamo indennizzi per le vittime, un piano di interventi per l’accoglienza dei lavoratori agricoli stagionali, l’inasprimento degli strumenti penali con arresti e confisca dei beni. Allo stesso tempo è necessario lavorare a livello territoriale con un’attenzione particolare al sistema di trasporto dei lavoratori agricoli. Andiamo avanti tenendo conto che, per combattere questo fenomeno, serve un gioco di squadra tra Istituzioni, sindacati e associazioni d’impresa. Tutti devono fare la loro parte". Depenalizzazione, lo scoglio civile di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 7125/2016. Depenalizzazione in vigore da pochi giorni, dal 6 febbraio, e già sorgono i primi problemi applicativi. Ne è testimone la Corte di cassazione che ieri con l’ordinanza n. 7125 della Quinta sezione penale ha rinviato alle Sezioni unite la decisione su una questione che, sembra, sta già facendo discutere anche i giudici di merito: se cioè l’abrogazione del reato stabilita per effetto del decreto legislativo n. 7 del 2016 travolga anche le statuizioni civili (come il risarcimento) adottate con la condanna non definitiva. Definitività che è stata invece determinante nel fare decidere, sempre ieri, alla medesima sezione della Corte, con la sentenza n. 7124, che la revoca della sentenza di condanna da parte del giudice dell’esecuzione non ha effetti sui capi civili. Lo stabilisce con chiarezza l’articolo 2 del Codice penale con il quale si puntualizza che la perdita del carattere di illecito penale del fatto, non ha come conseguenza anche il venire meno della natura di illecito civile del medesimo fatto. Differente, invece, il caso affrontato dall’ordinanza, perché la condanna non era diventata definitiva. La pronuncia della Corte d’appello approda in Cassazione sanzionava una coppia per una pluralità di reati, tra cui quello di ingiurie che, per effetto del decreto 7/16 è invece stato depenalizzato e sostituito con una doppia sanzione pecuniaria, una da corrispondere alla Cassa delle ammende e una a risarcimento della parte lesa. L’inedita misura delle "sanzioni pecuniarie civili", imposta peraltro dalla delega, fa emergere una difficoltà di classificazione. Soprattutto a confronto con un intervento di depenalizzazione classica, come quello disciplinato dal decreto 8/16 (che traghetta lo stesso fatto illecito dal perimetro penale a quello amministrativo). A favore di un’estensione del concetto di depenalizzazione anche alle fattispecie previste dal decreto 7/16 milita una serie di elementi, tra cui la configurazione di fattispecie sanzionatorie tipizzate, l’autonomia delle sanzioni rispetto al risarcimento del danno, la destinazione erariale dei loro proventi. A fare però la differenza c’è il fatto che un decreto, il n. 8, prevede espressamente che quando è stata pronunciata una condanna per una condotta ora non penalmente rilevante, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decide sulla sola parte della sentenza che riguarda gli interessi civili. Una disposizione che però è assente nel decreto n. 7, il che dovrebbe condurre va ritenere che l’abolitio criminis trascini con sé la parte penale e quella civile della condanna. Con effetti senza dubbio penalizzanti per la parte civile che, dopo avere magari affrontato, come nel caso esaminato, 3 gradi di giudizio penali si vedrebbe costretta per ottenere un eventuale risarcimento a tornare davanti a un giudice, questa volta civile e non penale. A volere provare una lettura alternativa, che scongiuri questa ipotesi, l’ordinanza ricorda che si potrebbe considerare l’assenza della norma come una svista legislativa e valorizzare gli evidenti punti di contatto tra i due decreti, considerando irragionevole la selettività della scelta legislativa, tanto più tenendo conto sono proprio i procedimenti relativi ai reati previsti dal decreto n. 7, tutti procedibili a querela, quelli in cui più alta è la probabilità che sia stata esercitata l’azione civile. Falso in bilancio a peso variabile di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2016 Quest’anno la stagione dei bilanci, che inizierà nei prossimi giorni, dovrà fare i conti anche con i nuovi delitti di false comunicazioni sociali, in vigore dal 14 giugno 2015, già oggetto in questi mesi di ripetuti (e contrastanti) interventi giurisprudenziali (si veda "Il Sole 24 Ore" di ieri). I soggetti attivi sono gli stessi del passato: amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori. Per l’individuazione della condotta occorre invece distinguere tre ipotesi: società non quotate, società quotate, società non fallibili. Società non quotate - La fattispecie, sanzionata con la reclusione da uno a cinque anni, riguarda la consapevole esposizione di fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero l’omissione di fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo a indurre altri in errore. Vi rientrano quindi non solo il conto economico e lo stato patrimoniale ma anche la nota integrativa, le varie relazioni degli amministratori, dei sindaci e così via. Si ricorda che nella nozione di "fatto materiale" rientrano tutti i dati oggettivi che attengono alla realtà economica, patrimoniale e finanziaria della società. Circa le valutazioni, la Cassazione è già intervenuta con tre pronunce e nell’ultimo intervento, rettificando l’orientamento espresso nella sentenza 890/16, viene evidenziato che esse (a determinate condizioni) sono fuori dai fatti materiali e quindi dalla condotta penale. Nel caso specifico, però, è stato ritenuto fatto materiale l’errata determinazione del valore di partecipazioni. In ogni caso è importante, per evitare la rilevanza penale, osservare i criteri di redazione del bilancio previsti dal codice civile e dai principi contabili. È prevista una riduzione della pena (da sei mesi a tre anni) allorché i fatti siano di lieve entità, da valutare, per espressa previsione, tenendo conto della natura e delle dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta. Società non fallibili - Per le società non soggette alla disposizioni sul fallimento (nei tre esercizi antecedenti o dall’inizio dell’attività, se di durata inferiore, hanno un attivo patrimoniale complessivo annuo non superiore a 300mila euro; ricavi lordi annui non superiori a 200mila euro; debiti anche non scaduti non superiori a 500mila euro) il delitto è procedibile soltanto a querela ed è sanzionato con la reclusione da sei mesi a tre anni. Per queste società viene esclusa la rilevanza penale in caso di "lieve entità" che invece per le altre società costituisce un’attenuante. Per le false comunicazioni sociali commessi in danno di società non quotate o non fallibili è possibile l’applicazione dell’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto. A tal fine il giudice deve valutare in modo prevalente l’entità dell’eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori. Società quotate - Per le quotate, cui sono equiparate le emittenti strumenti finanziari negoziati e le loro controllanti, è prevista una disciplina di particolare rigore (reclusione da tre a otto anni). Anche in questa ipotesi il delitto si consuma attraverso le due condotte di esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero ovvero di omissione dei medesimi. Rispetto alle non quotate, i fatti materiali non rispondenti al vero non devono essere "rilevanti". Vi è così un’estensione della rilevanza penale per le società quotate, anche per fatti non veritieri ritenuti di scarsa rilevanza. Perdita di gas, omicidio colposo al locatore di Luana Tagliolini Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2016 Per la morte causata dall’intossicazione del monossido di carbonio fuoriuscito da impianti obsoleti risponde il locatore che ha omesso di eseguire la dovuta manutenzione. È stato ritenuto colpevole, in entrambi i gradi di merito, per omicidio colposo (articolo 589 codice penale) e per lesioni personali colpose (articolo 590 codice penale), il proprietario di un immobile locato che, per negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza di norme tecniche in materia dei sicurezza e di manutenzione degli impianti domestici e delle apparecchiature alimentate a gas, non aveva eliminato le difformità di uno scaldabagno alimentato a gas. provocando la morte dell’ inquilino e lesioni ai condomini e agli inquilini adiacenti e soprastanti (Cassazione sentenza n. 4451/2016). La morte era stata causata dall’esalazione di monossido di carbonio sprigionato dallo scaldabagno nonostante i ripetuti inviti dell’amministratore a mettere l’impianto in sicurezza. I supremi giudici, nel confermare la sentenza di appello, richiamando l’articolo 1575 codice civile in base al quale il locatore deve consegnare al conduttore al cosa locata in buono stato di manutenzione e mantenerla in stato da servire all’uso convenuto, hanno confermato, a seguito di appurata verifica, la responsabilità del locatore indipendentemente dalla occlusione della canna fumaria condominiale circostanza che, seppure poteva aver contribuito in maniera sensibile alla produzione dell’evento, non lo avrebbe cagionato se lo scaldabagno non avesse esalato il monossido di carbonio in percentuali tali da salutare l’aria in pochi minuti. In analoghe circostanze gli stessi giudici avevano affermato che la responsabilità del locatore per i danni derivanti dall’ esistenza dei vizi sussiste anche in relazione a vizi preesistenti la consegna ma manifestatisi successivamente ad essa, nel caso in cui il locatore poteva conoscerli, usando l’ordinaria diligenza, secondo la disciplina di cui all’articolo 1578 codice civile (Cassazione sentenza n. 18854/2008). Il tal caso il locatore "è tenuto a risarcire il danno alla salute subito dal conduttore in conseguenza delle condizioni abitative dell’ immobile locato anche quando tali condizioni fossero note al conduttore al momento della conclusione del contratto, in quanto la tutela del diritto alla salute prevale su qualsiasi patto inter-privato di esclusione o limitazione della responsabilità" (Cassazione sentenza n. 915/1999). Con lo stesso principio è stato condannato il proprietario a risarcire il danno per la morte dell’inquilino folgorato da una scarica elettrica proveniente da uno scaldabagno difettoso che lui stesso aveva comprato e installato, per non aver installato il salva vita (Cassazione sentenza n. 7699/2015). Con il "picchetto" a scuola pubblico servizio interrotto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 7084/2016. Invocare il diritto di sciopero non salva lo studente che blocca l’ingresso alla scuola ai compagni e ai professori. La Cassazione con la sentenza 7084, conferma la decisione del Gup del Tribunale dei minori di concedere il perdono clemenziale al "picchettatore" selvaggio che evita il rinvio a giudizio e guadagna l’estinzione dei reati di violenza privata e interruzione di pubblico servizio, è però confermata la responsabilità. Inutile per il ricorrente invocare la scriminante putativa (articolo 51 del Cp) per aver esercitato il diritto di sciopero garantito dall’articolo 18 della Costituzione, nell’impedire l’ingresso nell’istituto agli insegnanti e agli studenti che non aderivano alla "protesta". L’accesso era consentito solo da una porta laterale e subordinato, dopo una trattativa, al sì alla manifestazione. La Cassazione non nega la titolarità del diritto di sciopero, pur sottolineando che si tratta di un diritto "difficilmente riconducibile alle situazioni soggettive ravvisabili in capo allo "studente"", ma ricorda che i diritti fondamentali trovano un limite. L’esercizio del diritto di sciopero, come di riunione e di libera manifestazione del pensiero cessa di essere legittimo "quando travalichi nella lesione di altri interessi costituzionalmente garantiti". Nel caso specifico, con l’occupazione temporanea della scuola, gli altri diritti compressi erano quelli dei non manifestanti intenzionati a seguire le lezioni. Correttamente il Gup aveva suggerito sistemi alternativi per instaurare un dialogo costruttivo con compagni di scuola ed insegnanti, come l’autogestione programmata, con obbligo di preavviso. Archiviata la tesi fondata sulla Costituzione, il ricorrente prova a ricordare che in casi analoghi di occupazione non c’era mai stato un provvedimento disciplinare nei confronti dei "leader" promotori dell’iniziativa. Per i giudici però il ricorrente era un soggetto "intellettualmente attrezzato" e perfettamente in grado di comprendere il carattere antisociale delle sue azioni. E per la stessa ragione, anche in grado di capire che la tolleranza dimostrata altre occasioni non lo autorizzava a incidere sui diritti degli altri studenti e degli operatori, né la "pazienza" poteva giustificare comportamenti indefinitamente protratti nel tempo. Infine la Suprema corte sottolinea che la scriminante putativa presuppone un errore sul fatto: l’agente deve credere "di trovarsi in una situazione che, se effettivamente esistente, integrerebbe gli elementi della causa di giustificazione". La scriminante invocata, nello specifico, non era in un fatto ma nell’esercizio di un diritto al quale era stata attribuita un’estensione maggiore di quella riconosciuta dall’ordinamento. In tal caso ci sarebbe un errore di diritto che è fuori dall’ambito di operatività dell’articolo 59 del Codice penale (circostanze erroneamente supposte). Nessuna norma autorizzava il ragazzo ad associarsi ad altri come pretendeva, per impedire studio e lavoro. Vittima e carnefice: il volto dei giovani senza identità di Antonio Mattone Il Mattino, 24 febbraio 2016 Nel "Bronx" di San Giovanni a Teduccio Vincenzo Amendola, un ragazzo di 18 anni è stato brutalmente trucidato perché si era vantato di avere una relazione con la donna di un boss detenuto in carcere. I particolari dell’uccisione, forniti nella ricostruzione fatta dall’amico che lo ha attirato nella trappola mortale, assumono contorni agghiaccianti. Il 18enne è stato sequestrato e portato in un podere agricolo, e i suoi assassini hanno scavato la fossa davanti ai suoi occhi. Ha inutilmente implorato pietà, chiedendo che gli venisse risparmiata la vita. Dopo averlo ucciso il killer ha scattato una foto che ritrae le tre persone presenti sulla scena del crimine. In questo omicidio sembrano incontrarsi i tratti di una camorra tradizionale con i suoi codici d’onore e le sue liturgie, con la nuova delinquenza giovanile spregiudicata e allo stesso tempo irresponsabile. Le regole della malavita impongono che non è consentito avvicinare la donna di un carcerato. Il bacio in bocca seguito dal pronunciamento di una sentenza di morte è un inequivocabile segno tra affiliati per giurarsi eterno silenzio. Il modo e la violenza con cui viene commesso un omicidio parlano delle colpe e della personalità dell’ucciso. Così è stato per Vincenzo Amendola. I "camorristi del selfie" hanno la stessa crudeltà dei loro predecessori. La criminalità organizzata ai tempi dei social network non fa sconti. Vecchi codici e la nuova criminalità giovanile si sono incontrati in un abbraccio mortale. Colpisce il fatto che Vincenzo, e l’amico che lo ha tradito, fossero assidui frequentatori del clan egemone a San Giovanni, e non di parrocchie, scuole, campi di calcio. Probabilmente, l’esuberanza e la spavalderia che contraddistingue la giovane età non ha fatto fare i conti ai due giovani che si sono sentiti protagonisti assoluti in questo contesto criminale. Non hanno posto freni e ne sono stati travolti, seppur con un diverso epilogo. Vincenzo spesso non tornava a casa la sera e non si sapeva dove andasse. Qui si ripropone in tutta la sua drammaticità il tema della mancanza di paternità e di identità di questi giovani. Privi di prospettive con la cronica mancanza di lavoro che colpisce anche le loro famiglie trovano un riscatto e una emancipazione nella frequentazione di un clan malavitoso, di personaggi spietati e potenti. L’assenza di luoghi di aggregazione e di figure di riferimento lascia mano libera alla camorra, mentre la politica si volge dall’altra parte. Molti giovani detenuti a Poggioreale giustificano la loro condizione di carcerati con una frase. "È capitato", dicono. È capitato ma poteva pure non succedere se non mi scoprivano. Ma in questa frase manca una presa di coscienza di quella che è una scelta di vita con tutte le sue ripercussioni negative. Dopo l’assassinio di Vincenzo, il suo amico ha pianto. Forse non immaginava il tragico epilogo, ma il killer gli ha detto di smetterla, che tanto poi gli sarebbe passato e sarebbe diventato uno del clan. Un’ affiliazione in piena regola che il ragazzo probabilmente non avrebbe mai immaginato di vivere. Si erano conosciuti all’oratorio e in quei momenti drammatici gli saranno passati per la mente i tanti momenti vissuti assieme. Quel pianto forse è un barlume di ravvedimento, chi lo sa. Sicuramente uno spazio di umanità, un segno di speranza per questi giovani sempre più disperati, soli e violenti. Verona: scrivere di sé dentro le mura del carcere di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 24 febbraio 2016 Venerdì 12 febbraio il progetto di scrittura riservato a papà detenuti e papà liberi "In nome del padre" ha festeggiato il suo momento conclusivo nel carcere di Verona - Montorio con un incontro ricco di letture e di emozioni. Al tavolo del Gruppo Microcosmo sono seduti fianco a fianco tutti i papà - autobiografi, Antonio Zulato - di cui riportiamo alcune preziose riflessioni - e Vincenzo Todesco docenti della libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, Paola Tacchella ed Erica Benedetti - infaticabili conduttrici di Microcosmo, Carla Chiappini e un folto gruppo di socie e collaboratori dell’associazione piacentina "Verso Itaca Onlus" titolare del progetto. Tra tutti ricordiamo la presidente Stefania Mazza con la segretaria Anna Paratici, la docente dell’Università Cattolica Elisabetta Musi, Brunello Buonocore operatore del Comune di Piacenza esperto in tematiche legate alla Giustizia. E poi anche Paola Cigarini referente della conferenza Volontariato Giustizia Emilia Romagna oltre a Raffaella Bianchi e tre studentesse universitarie della redazione di Sosta Forzata: Cristina Anselmi, Valentina Castignoli e Giada Paganini. Il pomeriggio si è aperto con un intervento della dott.ssa Angela Venezia, Responsabile Ufficio dei Detenuti e del Trattamento per il Prap del Triveneto, seguito dai saluti della dott.ssa Maria Grazia Bregoli direttore del carcere di Verona - Montorio che ha proposto ai papà di organizzare per il 19 marzo una festa insieme ai familiari e della dott.ssa Margherita Forestan Garante dei Diritti dei Detenuti per il Comune di Verona. In chiusura ha portato alcune riflessioni anche il dott. Beniamino Degirolamo educatore dell’Area Trattamentale dell’istituto veronese. Autentica protagonista dell’incontro è stata, tuttavia, la scrittura che ha dato parola e voce a memorie, ricordi, emozioni, dubbi e paure. A tal proposito ci pare bello e utile condividere i pensieri di Antonio Zulato che hanno chiuso il nostro pomeriggio veronese. Il valore della scrittura autobiografica (Riflessioni di Antonio Zulato, docente della libera università dell’Autobiografia di Anghiari) Attraverso la scrittura autobiografica noi abbiamo l’opportunità di: - Recuperare i ricordi significativi della nostra vita e riconoscere loro quel valore che, al momento in cui li abbiamo vissuti non abbiamo saputo cogliere. - Scoprire il filo conduttore della nostra vita, quello che lega tutte le nostre esperienze in una storia che ci fa sentire "unità di noi stessi" e ci preserva dal pericolo della frammentazione. - Individuare i nostri punti di forza, su cui appoggiare saldamente le nostre speranze e i nostri progetti futuri. - Riconoscere, comprendere e integrare, come nostri, nella trama della nostra esistenza, le fragilità, le ferite, i limiti e gli errori perché non indeboliscano la nostra dignità impadronendosi di noi. È, infatti, importante sapere che "quando le forze interiori dell’uomo - luminose e oscure - non sono del tutto investite da lui stesso, e cioè comprese e integrate nella propria vita, quando egli agisce come se potesse dominare ciò che non conosce, come se ciò che non conosce in lui non esistesse nemmeno, queste forze si rivoltano, si riversano all’esterno, a volte con una violenza cieca. Perché, essendo state represse e non gestite, esse acquistano un’autonomia spaventosa." (A. De Souzenelle, Nel cuore del corpo la parola, Servitium, Bergamo 1998, p. 51). - Riconciliarci con il nostro passato, con le scelte che sembrano aver compromesso irreversibilmente il nostro percorso di realizzazione; non negarci la possibilità di perdonarci significa liberare le nostre energie dalle pesantezze del passato e investirle nel futuro…accompagnate da una ritrovata fiducia in noi stessi. - Dare parole al dolore, perché "il dolore che non parla bisbiglia al cuore sovraccarico e gli ordina di spezzarsi." (W: Shakespeare, Macbeth, IV, III, 209-210). La scrittura infatti con la sua grammatica e la sua sintassi può offrire un argine e contenere l’espressione delle nostre sofferenze ed emozioni…anche le più pesanti. - Fare un bilancio della nostra vita alla luce dei valori e punti di riferimento che l’esperienza e l’ascolto ci hanno indicato. - Infine, cimentarsi con la scrittura dei nostri ricordi per fare dono alla propria vita di una dimora in cui tutto è "degno", perché tutto ha concorso a farci quello che siamo. Verona: detenuto marocchino di 46 anni si uccide in cella Corriere di Verona, 24 febbraio 2016 Per agire ha aspettato il momento in cui gli agenti erano più indaffarati: quello del cambio della biancheria. Quindi si è stretto un cappio con qualcosa che aveva in cella, forse degli indumenti, ed è morto. Un’azione, probabilmente, escogitata da tempo ed eseguita in pochi minuti. Si tratta del quinto suicidio, in meno di due mesi, dall’inizio dell’anno, nelle carceri italiane. È avvenuto nella casa circondariale di Montorio, lo scorso 4 febbraio, ma la notizia è stata resa pubblica solo ieri, a quasi venti giorni di distanza. A togliersi la vita, un cittadino marocchino di 46 anni: doveva scontare una pena di altri due anni e mezzo, fino ad agosto 2018 per reati correlati alla droga, ma di recente era finito sotto giudizio con altri capi d’accusa. Una situazione che gli ha impedito di ricevere le visite in carcere dei fratelli, le uniche persone con cui ancora aveva qualche contatto. Una storia di solitudine, la sua: sempre negli ultimi tempi aveva cessato ogni rapporto con la moglie e con i figli, rientrati nel paese d’origine. "Conoscevamo la sua situazione - fa sapere Margherita Forestan, garante per i diritti dei detenuti per il carcere di Montorio - era molto delicata, l’uomo aveva manifestato sintomi di depressione, era seguito e controllato, anche se non parlava apertamente di suicidio e non risulta avesse fatto altri tentativi". A segnalare il caso è il Sappe, sindacato di polizia penitenziaria. "L’ennesimo suicidio di un altro detenuto in carcere - è il commento del segretario nazionale, Donato Capece - dimostra come i problemi sociali e umani permangono, eccome, nei penitenziari, al di là del calo delle presenze. Davanti ad una situazione del genere, soluzioni come celle aperte e vigilanza dinamica appaiono inutili e pericolose: chiediamo al ministro Andrea Orlando di sospenderle". Napoli: 74enne muore nel centro clinico di Secondigliano, disposta l’autopsia napolitoday.it, 24 febbraio 2016 Il padre di Alessandro, il killer del gruppo Setola, è morto il 16 febbraio nel centro clinico di Secondigliano: disposta l’autopsia. Luigi Cirillo, membro del clan dei Casalesi e padre dei quell’Alessandro detto "sergente" killer del clan Setola, è morto nel carcere di Secondigliano in circostanze che gli stessi inquirenti definiscono "da chiarire". Cirillo aveva 75 anni, ed era in carcere con l’accusa di estorsione ai danni di un distributore di carburanti dell’area domizia. La procura ha disposto l’esame autoptico sulla salma per stabilire le cause del decesso. Napoli: detenuto evade dall’ospedale Cardarelli, arrestato nel casertano Adnkronos, 24 febbraio 2016 Evaso questa mattina dall’ospedale Cardarelli di Napoli, dove era stato portato per motivi di salute, il 30enne Giuseppe Merolla è stato arrestato dai Carabinieri della compagnia di Poggioreale a Castel Volturno, in provincia di Caserta. Merolla era stato arrestato per rapina aggravata, porto e detenzione di arma clandestina in occasione di una rapina in una gioielleria nel quartiere Ponticelli a Napoli, terminata con una singolare stretta di mano tra vittima e rapinatore immortalata in un video dell’impianto di sorveglianza. Anche in quell’occasione Merolla era evaso dagli arresti domiciliari per commettere la rapina. Questa mattina, a causa di problemi di salute, Merolla era stato accompagnato all’ospedale Cardarelli ma è riuscito a eludere la sorveglianza e a scappare. Sono subito scattate le ricerche dell’evaso da parte della polizia penitenziaria, della Polizia di Stato e dei Carabinieri. Proprio i militari lo hanno rintracciato e arrestato a Castel Volturno nel pomeriggio. Castiglione delle Stiviere (Mn): aperte altre due Rems, ex Opg verso l’addio di Francesco Romani Gazzetta di Mantova, 24 febbraio 2016 I reparti femminili trasformati in residenze, a breve nascerà il quarto Rivoluzionata la terapia: lo staff medico cura l’individuo in piccole comunità. La rivoluzione delle Rems è entrata nel vivo. Dopo la prima, inaugurata a settembre, la scorsa settimana sono state aperte altre due residenze destinate a sostituire l’Opg, l’ospedale psichiatrico giudiziario superato per legge da aprile mentre alla quarta sono già iniziati i lavori. Battendo sul tempo le altre Regioni, Castiglione oggi è già a metà del cammino di trasformazione che porterà la struttura sanitaria dove viene accolto chi ha commesso un reato ma non è capace di intendere e volere in un arcipelago di piccole comunità. Sei quelle finali che accoglieranno 20 persone ciascuna e saranno dotate di personale medico ed infermieristico specializzato. Un compito non facile, anche perché il cambiamento si sviluppa, unico caso in Italia, negli stessi spazi dove sono accolti gli ospiti, portando a sacrifici temporanei sia degli utenti che degli operatori. "Ma dobbiamo dire grazie a tutti per il senso di responsabilità con il quale si sta seguendo questo momento di passaggio nella vita della nostra struttura" dice la direttrice del settore di psichiatria giudiziaria Maria Gloria Gandellini. A seguire passo passo questo delicato momento è la direzione dell’Asst di Mantova che ha creato un gruppo dedicato ed ogni mese fa il punto con gli operatori. Dal punto di vista della distribuzione degli spazi alle prime tre già partite si aggiungeranno altre 5 Rems provvisorie. "Questo - spiega la direttrice delle Rems Anna Gerola - sino a che non saranno costruite le residenze definitive, che saranno sei". Al momento la Regione ha dato incarico alla società Infrastrutture lombarde della progettazione e si sta definendo, d’accordo con Asst e direzione Rems il possibile layout che avrà tutti padiglioni a piano terra. Da decidere se si procederà con la demolizione delle strutture esistenti o con una costruzione ex novo su terreni adiacenti. Nel frattempo la parte forse più importante è già stata predisposta. "La Regione - prosegue Gerola - ha aumentato di oltre 50 unità le dotazioni organiche di medici, infermieri, psicologi, psichiatri che oggi ammontano a 279 unità perché è cambiato il tipo di aiuto da fornire ai degenti che oggi è più personalizzato rispetto a prima e quindi richiede più intensità assistenziale". Attualmente gli ospiti sono 179, dei quali 20 in fase di valutazione e osservazione. "Oggi le Rems ci consentono - prosegue Gandellini - di differenziare per funzioni e intensità di cura. Così destineremo tre Rems alle psicosi e ai disturbi della personalità; una ai ritardi mentali ed una ai casi di abuso oltre alle due femminili". Il personale, vecchio e nuovo, è stato formato ed è cambiata anche il modo di dirigere che oggi prevede frequenti consultazioni ed una direzione allargata composta dai referenti delle singole Rems. Una circolazione di idee ed esperienze con un’unica finalità: "Prendersi cura delle persone che ci vengono affidate in modo che, una volta dimesse, diminuisca il rischio che possano ripetere il reato". Dunque una "riabilitazione" ed un reinserimento nella società che si appoggia sugli strumenti della psichiatria come l’alleanza terapeutica fra medico e paziente, la consapevolezza. Traguardi impegnativi che ancora oggi scontano il ritardo nell’aggiornamento del codice penale e nella psichiatria territoriale che spesso "scarica" alle Rems i casi più difficili. Catania: aveva denunciato un dipendente comunale 23 anni fa, perde la causa e si suicida cataniatoday.it, 24 febbraio 2016 L’imprenditore edile aveva accusato un dipendente di un Comune vicino di essere il responsabile dello stop, lo aveva denunciato per concussione e si era costituito parte civile nel processo. Un imprenditore edile di 68 anni si è suicidato nella sua abitazione con un colpo di pistola alla testa dopo aver perso una causa. Aveva infatti denunciato un dipendente comunale per concussione 23 anni fa, nel 1993. La Corte d’appello di Catania ha assolto quell’uomo, condannando l’imprenditore al pagamento delle spese processuali. L’arma usata per togliersi la vita risulta detenuta legalmente. Sul caso indagano i carabinieri. "Nulla faceva presagire un gesto del genere", commenta il suo legale, l’avvocato Rosario Pennisi cui era toccato il gravoso compito di comunicargli la sentenza della Corte d’appello di assoluzione dell’imputato perché il fatto non sussiste. Il lungo iter giudiziario era stato avviato nel 1993 quando l’imprenditore aveva dei lavori edili bloccati. L’uomo aveva accusato un dipendente di un Comune vicino di essere il responsabile dello stop, lo aveva denunciato per concussione e si era costituito parte civile nel processo, che era diventato "la sua vita", scrivendo di proprio pugno numerosi memoriali. In primo grado, nel 2001, il dipendente era stato condannato e la sentenza era stata confermata in appello, nel 2006. Nel 2010 però la Cassazione aveva accolto il ricorso dell’imputato e annullato con rinvio, anche perché la sentenza di secondo grado era stata scritta a penna e la Suprema Corte l’ha ritenuto in parte illeggibile e quindi incomprensibile. Lunedì l’ultima parola giudiziaria, con la Corte d’appello di Catania che ha assolto il dipendente comunale. L’imprenditore ha avuto così i lavori ancora bloccati e le spese legali e processuali da sostenere. Profughi, già record: 110mila nel 2016, i morti nel Mediterraneo da inizio anno sono 413 di Nello Scavo Avvenire, 24 febbraio 2016 Il numero di migranti e rifugiati arrivati in Grecia e in Italia nel 2016 ha già superato la soglia dei 100mila. L’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) dall’inizio dell’anno ha registrato 110.054 arrivi. Nello stesso periodo, oltre 413 migranti e rifugiati hanno perso la vita nel Mediterraneo. Gli ultimi 4 cadaveri sono stati rinvenuti ieri nel canale di Sicilia, rimasti asfissiati in uno dei barconi della morte. Dall’inizio dell’anno al 22 febbraio, la sola Grecia aveva ricevuto circa 102,547 persone. Per l’Italia, dopo diversi giorni senza arrivi principalmente a causa del mare mosso, un totale di 940 migranti sono stati salvati in un solo giorno nel canale di Sicilia (il 22 febbraio) e dall’inizio dell’anno, circa 7.507 migranti sono arrivati via mare. L’effetto domino delle quote giornaliere di Austria e Slovenia e del loro approccio congiunto con Croazia, Serbia e Macedonia ha già provocato una concentrazione di rifugiati. In Grecia e Macedonia a quasi 700 persone, prevalentemente di nazionalità afghana, è stato di fatto negato l’accesso alle procedure di ammissione in Serbia, facendo salire la tensione tra i migranti che devono affrontare condizioni di vita difficilmente sopportabili. Molti progressi sono stati compiuto Acnur che ha fornito alloggi per 20 mila richiedenti asilo in Grecia al fine di stabilizzare la situazione e ridurre i movimenti attraverso rotte illegali. Eppure oltre l’85% di coloro che arrivano in Europa provengono dai 10 Paesi che producono più rifugiati al mondo. "Esprimiamo forte preoccupazione per le recenti politiche restrittive adottate in molti Paesi europei. Tali misure - si legge in una nota dell’Acnur - provocano disagi ulteriori ed evitabili per rifugiati e richiedenti asilo in Europa, causano situazioni caotiche in molte zone di confine, e mettono un’eccessiva pressione sulla Grecia in un momento in cui sta cercando con fatica di far fronte a numeri sempre maggiori di persone che hanno bisogno di accoglienza e servizi". L’Austria ha annunciato che avrebbe fissato per il 2016 un limite di 3.200 ingressi di persone nel suo territorio e non più di 80 nuove richieste di asilo al giorno. La Slovenia ha fatto lo stesso e ha annunciato un tetto simile per limitare gli accessi attraverso i suoi confini. "Queste ultime misure restrittive rischiano di violare la normativa europea e di indebolire gli sforzi per un approccio complessivo e coordinato per rispondere alla crisi di rifugiati e migranti in Europa", sottolinea l’agenzia Onu per i rifugiati. Inoltre, il 18 febbraio, i capi della Polizia di Austria, Slovenia, Croazia, Serbia e Macedonia in una dichiarazione congiunta hanno annunciato il loro accordo per l’identificazione congiunta al confine con la Grecia. L’atteggiamento complessivo di Bruxelles viene ancora una volta criticato da organismi quali il Consiglio italiano rifugiati (Cir). "Nella misura in cui le persone trovano maggiori difficoltà ad uscire dalla Grecia, inevitabilmente tornerà a crescere la rotta adriatica, via mare e via terra attraverso l’Albania", prevede Cristopher Hein, portavoce del Cir. "È abbastanza probabile - aggiunge - che chi rimane bloccato non tornerà indietro per tentare la traversata attraverso la Libia, e questo lo dimostrano già alcuni arrivi attraverso la rotta balcanica adriatica verso la Slovenia". Resta il nodo dell’operazione Nato davanti alle acque turche. "Non credo che le navi militari possano essere di grande aiuto - ribadisce Hein -. E quanto ai consigli Ue di Bruxelles, gli esiti sono molto deludenti. Manca perfino l’esplicita sottolineatura sulla necessaria revisione del sistema Dublino". Immigrazione: stretta sui minori non accompagnati, trovato l’accordo di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 24 febbraio 2016 Germania. In discussione domani al Bundestag il "pacchetto Asilo 2". Verdi spaccati, "Una soluzione inaccettabile" per la Linke. Stop ai ricongiungimenti familiari per due anni, respingimenti automatici verso i "Paesi sicuri" e costi di integrazione a carico dei migranti. È l’impianto legislativo del "pacchetto Asilo 2" in discussione domani al Bundestag, epilogo dell’accordo politico nella Grande coalizione che ritrova l’armonia sulla stretta dei diritti dei minori non accompagnati. "Una legge ragionevole" riassume il ministro della giustizia Heiko Maas (Spd) e "il primo passo per diminuire l’arrivo di nuovi profughi in Germania" aggiunge il ministro degli interni Thomas De Maizière (Cdu). "Una soluzione inaccettabile" tuona la Linke che alza compatta le barricate, al contrario dei Verdi che criticano il governo ma sulla norma risultano spaccati. In ogni caso il tempo di riflessioni, trattative e mediazioni è scaduto. Domattina alle 9 inizia il dibattito in Parlamento dei due disegni di legge promossi da Cdu-Csu e Spd. Oggetto dei provvedimenti in votazione: "procedure accelerate di asilo" e "misure per facilitare l’espulsione di stranieri delinquenti e l’esclusione dallo status di rifugiato per i condannati". Sono il cardine giuridico dell’Asylpaket 2 con cui la Koalition prova a risolvere l’emergenza-profughi aggirando il "tabù" della chiusura delle frontiere come in Austria e Ungheria. Nel pacchetto spicca la norma che sospende i ricongiungimenti familiari per i profughi nei primi 24 mesi di permanenza in Germania, e riscrive de facto la "protezione sussidiaria" ora garantita oltre la Convenzione di Ginevra e la Legge fondamentale, equivalente della Costituzione. È questo il nucleo del patto di governo che la cancelliera Angela Merkel ha inseguito fin da novembre e chiuso a fine gennaio: tre mesi di divergenze e liti con il leader Spd Sigmar Gabriel e il presidente Csu Horst Seehofer prima della convergenza grazie ai pontieri De Maiziére e Maas proprio sul blocco pluriennale dei ricongiungimenti familiari. Un punto indigeribile per la Sinistra. "Respingiamo la nuova legge perché non risolve l’emergenza ma contiene un sacco di carburante per la destra. Dichiarare il Marocco Paese sicuro è irresponsabile e forse anticostituzionale" precisa Bernd Riexinger, co-presidente della Linke, che se la prende anche con i Verdi sempre più divisi: "Se volessero i Grünen potrebbero bloccare la legge quando arriverà in Consiglio federale (Bundesrat) invece di guadagnarsi il favore della Cdu come in Baden-Württemberg". Frecciata diretta a Winfried Kretschmann governatore del Land ed eminenza grigia della corrente "realista" degli ecologisti che ha dato il placet al pacchetto del governo. Contro il falco Verde la sinistra del partito, tra cui l’ex capogruppo Jürgen Trittin che annuncia: "I Grünen voteranno contro le misure al Bundesrat" cioè contro Kretschmann. "Nel partito non siamo tutti d’accordo: sulla legge stiamo ancora discutendo" smorza Luise Amtsberg, delegata dei Verdi nella commissione parlamentare che ha squadernato l’Asylpaket 2, ammettendo tuttavia di "non vedere buoni motivi per approvare una norma che peggiora la situazione e battezza come sicuri Paesi in cui secondo Amnesty International si pratica la tortura". Eppure solo così - insiste il governo - si "scoraggiano" i 5 mila profughi che premono ogni giorno ai confini della Bundesrepublik e si riduce la massa di migranti destinata ad aumentare dopo la chiusura della frontiera austriaca. Il rimpatrio di chi proviene da un "Paese sicuro" diventa "automatico" mentre la lista degli Stati certificati è allargata ad Algeria, Marocco e Tunisia. Giro di vite anche sulla libertà di movimento: spostamenti fuori dai centri-profughi proibiti agli "ospiti" e sospensione immediata dell’asilo in caso di violazione. Il pacchetto di legge prevede infine che i rifugiati paghino di tasca propria i corsi di integrazione linguistico-culturali (10 euro al mese). Fuori dal Bundestag protesta Aman Mayzek, presidente del Consiglio centrale dei musulmani tedeschi, ricordando che "i genitori sono un fattore protettivo: deve essere data la possibilità ai minori di raggiungere la propria famiglia". Droghe: la cannabis legale conviene, mentre la repressione non paga di Carmine Gazzanni lanotiziagiornale.it, 24 febbraio 2016 Un miliardo di euro ogni anno per le spese legate alla detenzione in carcere. Altri 9 milioni per sbrogliare tutti i fascicoli dei processi nati da una legge, la Fini-Giovanardi, riconosciuta incostituzionale ormai due anni fa (era il 12 febbraio 2014). E, di contro, un fatturato per lo Stato che potrebbe superare i 10 miliardi ogni due anni, se solo ci si decidesse a liberalizzare le droghe leggere. È questo, in sintesi, il quadro della macchina repressiva esistente oggi in Italia, una macchina che non fa alcuna distinzione (e che invece è sostanziale, come riconosciuto da studi medici e scientifici)tra droghe leggere e cannabis da una parte, e droghe pesanti dall’altra. E non è un caso che la legge, come detto, sia stata dichiarata incostituzionale. Da allora, a parte annunci, poco, troppo poco è stato fatto. Poco più di un mese fa un passo (piccolo) in avanti è stato fatto dal Governo Renzi, che, in consiglio dei ministri, ha depenalizzato il reato previsto per la coltivazione della marijuana per scopi terapeutici. Si è passati, infatti, da una sanzione penale a una amministrativa. Ma c’è di più: la depenalizzazione, infatti, vale solo per le strutture autorizzate. Insomma, se un privato, magari malato di Sla, volesse provvedere da sé, incorrerebbe ancora in un reato penale. Ma, a questo punto, proviamo a fare un passo in più e a immaginare cosa vorrebbe dire liberalizzare la cannabis. A rispondere è stata con un dettagliato dossier ("Yes, we cannabis"), l’associazione impegnata per la tutela dei diritti nel sistema penitenziario, "Antigone". Innanzitutto non avremmo avuto i costi a cui, invece, abbiamo dovuto far fronte. A cominciare da quelli derivanti dalle oltre 250mila persone finite in carcere tra il 2006 e il 2014 (ovvero gli anni in cui è stata in vigore la Fini-Giovanardi): tenerle in "cella" ci costa ogni anno oltre un miliardo di euro (parliamo, cioè, di un terzo del totale dell’intero sistema penitenziario italiano). Ergo: abbiamo speso solo per la repressione più di 9 miliardi. Ma non basta. C’è poi la parte giudiziaria, con la valanga di processi nati spesso perché non c’è distinzione tra droghe pesanti e leggere, e che ha ingolfato pesantemente i nostri tribunali. Mediamente, le spese a riguardo hanno superato i nove milioni di euro l’anno. Si dirà: almeno l’uso di cannabis è stato bruscamente frenato. Niente affatto. Sono i dati a dirlo chiaramente: la percentuale di consumatori è rimasto costante. Con la differenza che oggi a guadagnarci sono le criminalità e non lo Stato. Domandina: di quanto parliamo? Secondo i dati forniti da "Antigone", parliamo di un fatturato che potrebbe arrivare tra i 7,5 e i 13 miliardi di euro a biennio tra imposte sulla vendita e imposte sul reddito. Ergo: tra spese penitenziarie, giudiziarie e mancati introiti, lo Stato sta rinunciando a qualcosa come 20 miliardi. Bazzecole. Ma c’è anche dell’altro. Perché la liberalizzazione, specie per quanto riguarda l’uso terapeutico, non solo rappresenta per quanto detto un El Dorado, ma anche un dovere civico, che oggi l’Italia non riconosce. E così si susseguono storie a dir poco surreali. Come quella di F.M, cameraman di successo, affetto da una grave forma di epilessia. Il giovane comincia a sperimentare e trarre sollievo dall’uso di cannabinoidi e decide, allora, di coltivare poche piante di cannabis. Peccato però che il cameraman venga arrestato e condannato alla pesantissima pena di due anni e otto mesi di reclusione dal tribunale di Roma, nonostante i giudici avessero riconosciuto l’ampia documentazione probante la patologia e l’uso terapeutico della cannabis. Esattamente come accaduto a G.T, un giovane lavoratore di 25 anni, condannato a un anno di carcere per aver coltivato marijuana per finalità terapeutiche. Alla madre, affetta da gravi patologie epilettiche, il medico aveva prescritto derivati cannabinoidi. Ma la procedura per l’importazione del farmaco si è presto rilevata interminabile, tanto che il giovane ha deciso di provvedere da solo. Fino, appunto, alla condanna. Nonostante nel dispositivo i giudici parlino dei "nobili motivi" dietro il gesto "criminale". Ecco, stando così le cose, verrebbe da chiedersi chi è il "drogato". Droghe: Ungass, il 4 marzo confronto col governo italiano di Grazia Zuffa Il Manifesto, 24 febbraio 2016 Il Dipartimento per le Politiche Antidroga annuncia di aver convocato per il 4 marzo un incontro a Roma con la società civile in preparazione dell’Assemblea Generale Onu sulle droghe, che si terrà a New York dal 19 al 21 aprile (Ungass 2016). L’incontro è frutto di una paziente opera di sollecitazione del mondo delle Ong, iniziata con la lettera aperta inviata al Premier dal "Cartello di Genova" nel settembre scorso. L’evento di New York è ormai alle porte, e forse c’è poco spazio per incidere sui negoziati in corso intorno alla Dichiarazione Finale di Ungass; tuttavia la riunione del 4 marzo sarà comunque utile per conoscere la posizione che l’Italia sta portando avanti e per esporre la piattaforma delle Ong, frutto di un lungo lavoro unitario a livello internazionale (vedi Zuffa, "il manifesto", 28 dicembre). Il giudizio sulla bozza di Dichiarazione Finale ("zero draft"), oggetto di negoziati a Vienna, è negativo, sia nel merito che nel metodo di lavoro. Cominciamo dal primo. Il documento non riflette l’urgenza da cui è nata questa Assemblea Generale, in anticipo rispetto alla scadenza naturale del 2019. I paesi latino americani che l’hanno richiesta vorrebbero lasciare da parte i consueti rituali celebratori, per affrontare il vero nodo politico: la proibizione non ha ridotto la droga illegale in circolazione né la prevalenza del consumo di droga; in compenso, l’approccio "duro" ha prodotto gravi conseguenze negative (dall’enorme numero di persone incarcerate per reati di droga, alla violenza dei mercati illegali, alla corruzione etc.). Invece, il preambolo della "zero draft" ricalca le vecchie strade, a iniziare dalla solenne riaffermazione che le tre Convenzioni internazionali "rimangono la pietra miliare della risposta globale al problema droga" (punto 5). Inoltre, al di là dello sporadico riferimento a implementare politiche "in conformità coi principi della Carta delle Nazioni Unite" (punto 4), è debole l’inquadramento del controllo della droga nella cornice dei diritti umani, secondo il mandato principe delle Nazioni Unite: sviluppo globale, superamento delle disuguaglianze e delle discriminazioni, rispetto delle diverse culture, promozione dei diritti. L’approccio penale è ancora prevalente, e dunque rimane protagonista l’Ufficio sulle Droghe e Crimine (Unodc), senza un vero coinvolgimento delle altre agenzie Onu a iniziare da Unaids. Non a caso, la richiesta di Unaids di inserire il pacchetto di misure di "Riduzione del danno" per combattere le nuove infezioni da Hiv è rimasta sinora inascoltata. C’è poi un problema di procedure. Erano state concordate larghe consultazioni con la società civile e con tutti gli organismi competenti delle Nazioni Unite. Così non è stato. La decisione di tenere i negoziati a Vienna invece che a New York ha tagliato fuori ben 70 paesi che non hanno una rappresentanza permanente nella capitale austriaca. Ed è stato addirittura proposto che la "zero draft" venga discussa in incontri "informali" chiusi, per chiudere i negoziati entro la sessione annuale della "Commission on Narcotic Drugs" (Cnd) alla metà di marzo. Ciò significherebbe arrivare a New York con un documento finale pronto, svuotando di contenuto e significato la stessa Assemblea Generale. Comunque vada, Ungass 2016 segnerà una svolta. O il sistema di controllo internazionale si dimostrerà capace di confrontarsi con le innovazioni "dal basso" avviate in molte parti del mondo (dalla riduzione del danno alle diverse forme di regolazione della cannabis); oppure perderà in influenza e autorità, perché le sperimentazioni continueranno anche senza l’avallo internazionale di cui comunque non hanno avuto bisogno per iniziare. Cambiare per non perire. Libia: ma quale "difesa"?, i droni a Sigonella sono da attacco di Antonio Mazzeo Il Manifesto, 24 febbraio 2016 Libia. MQ-1 Predator e MQ-9 Reaper sono armi letali da "first strike". Droni killer a Sigonella per bombardare le postazioni Isis in Nord Africa. La notizia, ancora una volta, arriva dall’altra parte dell’oceano. The Wall Street Journal, citando una fonte ufficiale delle forze armate Usa, ha rivelato che da circa un mese il governo italiano ha autorizzato il decollo di droni armati statunitensi dalla stazione aereonavale di Sigonella in Sicilia per effettuare "operazioni militari contro lo Stato islamico in Libia e attraverso il Nord Africa". Sempre secondo il quotidiano, il via libera da parte del governo Renzi sarebbe giunto "dopo più di un anno di negoziati" e con una alcune limitazioni alle regole d’ingaggio. "Il permesso sarà dato dal governo italiano ogni volta caso per caso e i droni potranno decollare da Sigonella per proteggere il personale militare in pericolo durante le operazioni anti-Isis in Libia e in altre parti del Nord Africa", scrive il Wsj. L’amministrazione Obama avrebbe tuttavia richiesto l’autorizzazione a operare dalla Sicilia anche per missioni offensive, dato "che sino al mese scorso i droni Usa schierati a Sigonella erano solo per scopi di sorveglianza". Le autorità italiane hanno confermato le rivelazioni Usa ma la versione soft-difensiva sui velivoli senza pilota è assai poco credibile; inoltre è tutt’altro che vero che i droni-killer operino da Sigonella solo da un mese a questa parte. I sistemi di volo automatizzati in mano alle forze armate Usa sono i famigerati MQ-1 Predator e MQ-9 Reaper, armi letali da first strike, in grado d’individuare, inseguire ed eliminare gli obiettivi "nemici" grazie ai due missili aria-terra a guida laser AGM-114 "Helfire". Questi droni sono stati impiegati negli ultimi dieci anni per più di 500 attacchi in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria, Yemen e Libia con oltre 4.200 vittime. L’ultimo strike con i droni-killler è stato effettuato la settimana scorsa contro un presunto "campo d’addestramento" delle milizie filo-Isis a Sabratha, in Tripolitania, vicino al confine con la Tunisia. Secondo Washington, il raid avrebbe causato la morte di una trentina di jihadisti tra cui il tunisino Noureddine Chouchane, ritenuto uno dei responsabili degli attentati effettuati lo scorso anno al Museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse. Il campo di Sabratha (ad una ventina di chilometri dal terminal gas di Melitha gestito dall’Eni) è stato colpito da missili aria-terra lanciati da alcuni bombardieri Usa decollati dalla Gran Bretagna e da Predator o Reaper presumibilmente di stanza proprio a Sigonella, come riferito da alcuni organi di stampa internazionali. I Predator Usa erano stati impiegati da Sigonella per le operazioni di guerra in Libia nella primavera-estate 2011. Un rapporto dell’International Institute for Strategic Studies di Londra sulle unità alleate impegnate nell’operazione "Unified Protector", aveva documentato come a partire della metà dell’aprile 2011 due squadroni dell’Us Air Force con droni-killer erano stati trasferiti nella base siciliana. I primi raid furono effettuati il 23 aprile contro una batteria di missili libici nei pressi del porto di Misurata; un secondo raid fu sferrato invece a Tripoli il giorno seguente contro un sistema anti-aereo "SA-8". Da allora l’uso della base di Sigonella come piattaforma di lancio dei droni Usa non ha conosciuto interruzioni e le operazioni sono state estese a tutta l’Africa sub-sahariana, alla Somalia, allo Yemen e più recentemente anche alla Siria. Nel maggio 2013, l’Osservatorio di Politica Internazionale, un progetto di collaborazione tra il CeSI (Centro Studi Internazionali), il Senato della Repubblica, la Camera dei Deputati e il Ministero degli Affari Esteri, pubblicò uno studio sui velivoli senza pilota statunitensi a Sigonella in cui si documentò la presenza di "non meno di sei Predator Usa da ricognizione e attacco". "I droni temporaneamente basati a Sigonella hanno fondamentalmente lo scopo di permettere alle autorità americane il dispiegamento di questi determinati dispositivi qualora si presentassero delle situazioni di crisi nell’area nordafricana e del Sahel", scriveva l’Osservatorio. "Ai tumulti della Primavera Araba che hanno portato alla caduta dei regimi di Tunisia, Egitto e Libia ha fatto seguito un deterioramento della situazione di sicurezza culminato nel sanguinoso attacco al consolato di Bengasi e nella recente crisi in Mali, dove la Francia ha lanciato l’Operazione Serval. In considerazione di tale situazione, la Difesa Italiana ha concesso un’autorizzazione temporanea allo schieramento di ulteriori assetti americani a Sigonella". Anche allora si tentò comunque di edulcorare la pillola dei droni-killer con il Parlamento e l’opinione pubblica. "Concedendo le autorizzazioni, le autorità italiane hanno fissato precisi limiti e vincoli alle missioni di queste specifiche piattaforme", aggiungeva il rapporto. "Ogni operazione che abbia origine dal territorio italiano dovrà essere condotta come stabilito dagli accordi bilaterali in vigore e nei termini approvati nelle comunicazioni 135/11/4a Sez. del 15 settembre 2012 e 135/10063 del 17 gennaio 2013". Nello specifico, si potevano autorizzare solo le sortite di volo volte all’"evacuazione di personale civile, e più in generale non combattente, da zone di guerra e operazioni di recupero di ostaggi" e quelle di "supporto" al governo del Mali "secondo quanto previsto nella Risoluzione n. 2085 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite". Le forze armate Usa sarebbero state tenute ad informare le autorità italiane prima dell’effettuazione di qualsiasi attività. Mistero fitto però sul modo in cui si potrà mai impedire a Washington di utilizzare Sigonella per operazioni contrarie alla Costituzione o agli interessi strategici nazionali. Stati Uniti: l’incompiuta di Guantánamo di Marina Catucci Il Manifesto, 24 febbraio 2016 Torna il piano, promesso sette anni fa, per trasferire altrove i prigionieri del campo di prigionia in territorio cubano, che "mina i valori americani e non aiuta la sicurezza nazionale". Così Barack tenta in extremis di archiviare "un capitolo della nostra storia". La proposta irrompe nella campagna elettorale: Rubio insinua che la mossa sia merce di scambio con Castro. Un piano per la chiusura di Guantánamo era stato promesso sette anni fa e Obama lo ha annunciato martedì, negli ultimi mesi della sua presidenza, durante l’incontro con la stampa. "Si tratta di chiudere un capitolo della nostra storia - ha detto Obama, riflette le lezioni che abbiamo imparato dal 9/11. Lezioni che devono guidare la nostra nazione per il futuro. Da tempo è evidente che Guantánamo mina i valori americani e non aiuta la nostra sicurezza nazionale, è controproducente perché gli estremisti la usano come strumento di propaganda ed esaurisce risorse". Il Pentagono propone di trasferire i rimanenti 91 detenuti tra i loro paesi d’origine e gli Stati Uniti in prigioni militari o civili e ha delineato quattro mosse principali: trasferire 35 detenuti nei paesi stranieri designati, lavorare con il congresso per stabilire dove negli Usa trasferire gli altri detenuti, valutare se la loro detenzione è ancora necessaria, continuare a utilizzare strumenti legali con i detenuti in suolo americano. Negli Usa sono state prese in considerazione 13 diverse località, tra cui sette prigioni in Colorado, South Carolina e Kansas, e sei basi militari. Obama ha descritto le corti americane come collaudate e forti, in grado di processare i sospetti terroristi; gli Stati uniti hanno già detenuto pericolosi terroristi "e lo hanno fatto molto bene". L’attuale commissione militare non dovrebbe essere un precedente per il futuro. La chiusura di Guantánamo farebbe risparmiare agli Stati Uniti 450 milioni di dollari l’anno, e nel piano preparato dal Pentagono si insiste su questo punto sottolineando che, dopo 3-5 anni dalla chiusura, il risparmio sarebbe tra 65 e 85 milioni annui. Ma il punto non è solo economico, chiudere Guantánamo toglierebbe la macchia di incompiuto dall’amministrazione Obama che ne aveva fatto un cavallo di battaglia. Guantánamo è stata aperta da Bush nel gennaio 2002, da lì sono passati circa 800 prigionieri, solo per alcuni di questi è stato formalizzato un capo di imputazione con conseguente rinvio a giudizio, è stata definita un buco nero legale in quanto i reclusi non sono stati classificati né come imputati di reati ordinari, né come prigionieri di guerra, come specificato da Rumsfield, segretario della difesa di Bush, ma come generici detenuti quindi senza alcuno status e prassi applicabile. Alla fine del suo mandato Bush stesso aveva parlato della necessità di chiudere Guantánamo: "Gliene rendo merito - ha detto Obama - però non lo ha fatto. Non voglio trasferire questo problema al prossimo presidente: se non facciamo adesso quello che serve, quando mai lo faremo? Questo piano merita un esame imparziale anche in un anno elettorale". E qua si delinea un nodo: finora il tema di Guantánamo non era ancora comparso in questa campagna che doveva essere una passeggiata di Hillary verso la casa bianca ma che, con la comparsa di Trump e l’imprevista popolarità di Sanders, si sta rivelando una pioggia di fuochi incrociati; questo annuncio entra nel pieno delle primarie e sicuramente entrerà nel dibattito. Subito Marco Rubio, dal suo comizio in Nevada, ha insinuato che Obama più che liberare prigionieri vuole restituire la base a Cuba come merce di scambio e che i rinchiusi non sono veri prigionieri ma nemici combattenti. Ma non solo i candidati repubblicani, il congresso stesso è di parere profondamente contrario e prevede di bloccare la mossa. Paul Ryan, presidente della camera dei rappresentanti, ha subito dichiarato che "il piano non fornisce i dettagli chiave previsti dalla legge, ed è contro la legge americana trasferire dei detenuti per terrorismo in suolo statunitense". Delle difficoltà Obama è consapevole: "Fosse stato facile - ha detto - la chiusura sarebbe avvenuta anni fa. Anche in un anno elettorale, dovremmo avere un dialogo aperto e onesto. Facciamo ciò che è giusto per l’America. Penso ci sia un’opportunità di fare progressi, abbiamo il dovere di provarci". Stati Uniti: Obama annuncia trasferimento 35 detenuti di Guantánamo in altri Paesi La Presse, 24 febbraio 2016 Saranno "trasferiti in sicurezza in altri Paesi" 35 dei 91 detenuti che si trovano ancora a Guantánamo, il cui trasferimento è già stato approvato. Lo ha annunciato il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, spiegando che si tratta di uno dei quattro punti del piano sulla chiusura di Guantánamo che il dipartimento della Difesa presenterà oggi al Congresso Usa. Gli altri punti del piano, come Obama ha spiegato, sono i seguenti: il secondo prevede che, nei casi in cui non sono in programma trasferimenti in altri Paesi, "accelereremo gli esami periodici per vedere se la detenzione è ancora necessaria" e questi casi "potrebbero essere reputati idonei a trasferimento"; il terzo prevede che le commissioni militari debbano essere migliorate con l’intervento del Congresso; il quarto infine prevede che "collaboreremo con il Congresso per trovare una collocazione sicura (negli Stati Uniti ndr.) per gestire gli ultimi detenuti ma anche per le persone che non possono essere trasferite in altri Paesi". A proposito di questi detenuti da ricollocare negli Stati Uniti, Obama ha detto che "non stiamo identificando struttura specifica oggi, ma identifichiamo possibili opzioni". Il presidente Usa ha chiarito che la maggior parte dei detenuti di Guantánamo non sono stati trasferiti in altri Paesi sotto la sua presidenza ma sotto quella del suo predecessore Bush: "nonostante l’85% dei detenuti siano stati trasferiti in altri Paesi, oltre 500 di questi sono stati trasferiti sotto Bush" mentre "sotto mia presidenza 147 detenuti" sono stati trasferiti e "oggi solo 91 detenuti restano a Guantánamo, meno di 100", ha affermato Obama. Arabia Saudita: allarme rosso nucleare di Manlio Dinucci Il Manifesto, 24 febbraio 2016 Imminente il maxi-contratto da 8 miliardi di euro - merito della ministra Pinotti, efficiente piazzista di armi - per la fornitura al Kuwait (alleato dell’Arabia Saudita) di 28 caccia Eurofighter Typhoon, costruiti dal consorzio di cui fa parte Finmeccanica. "Noi abbiamo bombe nucleari": lo ha dichiarato il 19 febbraio a Russia Today l’analista politico saudita Daham al-Anzi, di fatto portavoce di Riyadh, ripetendolo su un altro canale arabo (vedi intervista su Pandora Tv). L’Arabia Saudita aveva già dichiarato (The Independent, 30 marzo 2015) l’intenzione di acquistare armi nucleari dal Pakistan (che non aderisce al Trattato di non-proliferazione), di cui finanzia il 60% del programma nucleare militare. Ora, tramite al-Anzi, fa sapere che ha cominciato ad acquistarle due anni fa. Naturalmente, secondo Riyadh, per fronteggiare la "minaccia iraniana" in Yemen, Iraq e Siria, dove "la Russia aiuta Assad". Ossia, dove la Russia aiuta il governo siriano a liberare il paese dall’Isis e altre formazioni terroriste, finanziate e armate dall’Arabia Saudita nel quadro della strategia Usa/Nato. Riyadh possiede oltre 250 cacciabombardieri a duplice capacità convenzionale e nucleare, forniti dagli Usa e dalle potenze europee. Dal 2012 l’Arabia Saudita fa parte della "Nato Eurofighter and Tornado Management Agency", l’agenzia Nato che gestisce i caccia europei Eurofighter e Tornado, dei quali Riyadh ha acquistato dalla Gran Bretagna un numero doppio rispetto a quello dell’intera Royal Air Force. Nello stesso quadro rientra l’imminente maxi-contratto da 8 miliardi di euro - merito della ministra Pinotti, efficiente piazzista di armi - per la fornitura al Kuwait (alleato dell’Arabia Saudita) di 28 caccia Eurofighter Typhoon, costruiti dal consorzio di cui fa parte Finmeccanica insieme a industrie di Gran Bretagna, Germania e Spagna. È la più grande commessa mai ottenuta da Finmeccanica, nelle cui casse entrerà la metà degli 8 miliardi. Garantita con un finanziamento di 4 miliardi da un pool di banche, tra cui UniCredit e Intesa Sanpaolo, e dalla Sace del gruppo Cassa depositi e prestiti. Si accelera così la riconversione armata di Finmeccanica, con risultati esaltanti per chi si arricchisce con la guerra: nel 2015 il titolo Finmeccanica ha registrato in borsa una crescita di valore del 67%. In barba al "Trattato sul commercio di armamenti", ratificato dal Parlamento nel 2013, in cui si stabilisce che "nessuno Stato Parte autorizzerà il trasferimento di armi qualora sia a conoscenza che le armi possano essere utilizzate per attacchi diretti a obiettivi o a soggetti civili, o per altri crimini di guerra". Alla denuncia che bombe fornite dall’Italia vengono usate dalle forze aeree saudite e kuwaitiane facendo strage di civili nello Yemen, la ministra Pinotti risponde: "Non facciamo diventare gli Stati che sono nostri alleati nella battaglia contro l’Isis, i nemici, sarebbe un errore molto grave". Sarebbe soprattutto un "errore" far sapere chi sono i "nostri alleati" sauditi e kuwaitiani: monarchie assolute dove il potere è concentrato nelle mani del sovrano e della sua cerchia familiare, dove partiti e sindacati sono proibiti; dove i lavoratori immigrati (10 milioni in Arabia Saudita, circa la metà della forza lavoro; 2 milioni su 2,9 milioni di abitanti in Kuwait) vivono in condizioni di super sfruttamento e schiavitù, dove chi rivendica i più elementari diritti umani viene impiccato o decapitato. In queste mani l’Italia "democratica" mette cacciabombardieri capaci di trasportare bombe nucleari, sapendo che l’Arabia Saudita già le possiede e che possono essere usate anche dal Kuwait. Alla "Conferenza di diritto internazionale umanitario", la ministra Pinotti, dopo aver sottolineato l’importanza di "rispettare le norme del diritto internazionale", ha concluso che "l’Italia, in ciò, è paese enormemente credibile e rispettato". Israele: Centro B’Tselem "nel carcere di Shikma torture e abusi sono la regola" di Michele Giorgio Il Manifesto, 24 febbraio 2016 Un rapporto del centro per i diritti umani, preparato in collaborazione con HaMoked-Per i Diritti dell’Individuo, denuncia quanto subiscono i palestinesi arrestati e interrogati in questa prigione israeliana. Il ministero della giustizia respinge le accuse. Privati del sonno talvolta per giorni, legati mani e piedi a una sedia, con movimenti del corpo limitati per ore. Soggetti a minacce di ritorsioni contro i familiari, a sputi e ingiurie. Lasciati per giorni, talvolta settimane, senza la possibilità di lavarsi, rinchiusi in celle sporche e puzzolenti, infestate da insetti, con la luce sempre accesa, spesso in isolamento completo. Costretti a subire interrogatori violenti, presi a schiaffi dagli investigatori, senza la possibilità di incontrare per giorni gli avvocati. Sono solo alcuni degli abusi e delle torture che subirebbero i prigionieri politici a Shikma, un centro di massima sicurezza ad Ashkelon nel sud di Israele, dove sono portati e interrogati molti dei palestinesi arrestati dall’esercito in Cisgiordania. A documentare quanto accade a Shikma è stata la ricercatrice Noga Kadman per conto del Centro B’Tselem per i diritti umani nei Territori Occupati e di HaMoked-In difesa dell’individuo. "La ricerca si basa sulle testimonianze di 116 palestinesi detenuti a Shikma tra agosto 2013 e marzo 2014, tutti maschi tra i quali quattro minori", dice al manifesto Kadman, "quasi tutti hanno dovuto affrontare abusi e torture, un terzo ha dichiarato di aver subito percosse da parte dei soldati e dei poliziotti già durante il trasferimento alla prigione. 14 hanno detto di essere stati arrestati e torturati dai servizi di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese poco prima di essere arrestati dall’esercito israeliano". I sistemi usati a Shikma "hanno il fine di indebolire la mente e il corpo del detenuto" aggiunge la ricercatrice "si tratta di pratiche inumane vicine a forme di tortura che violano le leggi internazionali e quanto sancito nel 1999 dall’Alta Corte di Giustizia israeliana. A 16 anni da quella sentenza non è cambiato molto, migliaia di prigionieri palestinesi a Shikma e in altre carceri sono stati soggetti agli stessi maltrattamenti e torture". 38 detenuti hanno riferito di essere stati costretti, durante gli interrogatori, a rimanere ammanettati per ore su sedie minuscole con gambe di lunghezza diversa, che rendono dolorosa ogni posizione del corpo. "Quelle sedie spesso hanno una quinta gamba, più lunga delle altre, proprio in mezzo", ha raccontato un ex detenuto, Imad Abu Seriyeh, 22 anni, del campo profughi di Nur Shams (Tulkarem), "non si può riposare su quelle sedie, è impossibile, ogni posizione è peggiore di quella precedente…Quando mi hanno fatto alzare avevo la schiena a pezzi". A proposito delle minacce rivolte durante gli interrogatori, Faisal al Hadad, 18 anni, di Hebron, ha riferito "Continuavano a dirmi che mi avrebbero tenuto in isolamento. Per me era la minaccia più grave perché temevo di morire in cella da solo…l’investigatore mi intimò di firmare ciò che voleva altrimenti mi avrebbe tenuto per sempre in isolamento…Gli risposi che avrei firmato qualsiasi cosa, ero terrorizzato dall’isolamento". Altri hanno riferito della minaccia di ritorsioni verso i loro familiari. 14 detenuti hanno denunciato violenze fisiche durante gli interrogatori. "Ezra (un agente dei servizi israeliani, ndr) mi ha stretto forte la gola con due dita, facendomi molto male, ho temuto di soffocare. L’ha fatto almeno cinque volte", ha denunciato A.A., 25 anni di Bani Naim (Hebron). Sarit Michaeli, portavoce di B’Tselem, spiega che le autorità israeliane, di fronte alle denunce, avviano procedimenti contro cosiddette "mele marce" che spesso non portano a nulla. "Invece", aggiunge, "quanto abbiamo registrato a Shikma avviene anche in altri centri di detenzione, siamo di fronte a un sistema di abusi e torture nei confronti dei palestinesi arrestati in Cisgiordania. Un sistema che va avanti da lungo tempo". D’altronde, sottolinea Michaeli, "persino alcuni coloni (israeliani) arrestati di recente hanno denunciato quanto accade (durante gli interrogatori) anche se loro hanno subito solo una parte di ciò che aspetta i palestinesi detenuti". L’avvocato Assaf Radzyner, a nome del ministro della giustizia israeliano, ha respinto le accuse di B’Tselem e HaMoked, definendole infondate, costruite su fatti isolati e distorti, e che gli interrogatori dei sospetti si svolgerebbero nel rispetto delle leggi e dei diritti umani.