Sergio Mattarella "adeguare il sistema penale e carcerario ai principi di umanità" Il Giornale d’Italia, 23 febbraio 2016 Il capo dello Stato ribadisce anche l’impegno dell’Italia contro la pena di morte, dopo l’appello lanciato dal Papa per una moratoria delle esecuzioni durante il Giubileo. Bisogna "adeguare il sistema penale e carcerario ai principi di umanità, consentendo ai carcerati una vita dignitosa durante la pena e dando loro la possibilità di progettare un futuro dopo aver effettivamente pagato per gli errori commessi". Lo ha sottolineato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, incontrando ieri al Quirinale i partecipanti ad una conferenza internazionale sul tema dell’abolizione della pena di morte. A proposito di questo tema, il Capo dello Stato ha sottolineato come "l’Italia e l’Europa sono in prima linea" per l’abolizione mondiale della pena di morte, e si tratta di "una battaglia di portata storica". E questo, ha aggiunto Mattarella, costituisce per l’Italia "un dovere e un impegno culturale irrinunciabile". L’abolizione della pena di morte "mira ad affermare il rispetto della vita di ogni essere umano e, dunque, la dignità della persona e il suo primato anche all’interno degli stessi ordinamenti". Il capo dello Stato ha ricordato come quella dell’abolizione della pena di morte sia una battaglia non solo italiana ma da tempo europea: "Chiunque voglia entrare nell’Unione europea sa di dover cancellare la pena di morte dalle proprie regole. Non si è europei - ha precisato - se si mette in discussione questo principio. Non può essere Europa senza il rispetto della vita". Secondo Mattarella bisogna inoltre "rafforzare la sensibilità non solo dei governi ma anche dei giovani e di tutti i cittadini". Questo anche perché, ha aggiunto Mattarella, "non è sopito l’impulso di affidarsi alla pena di morte per vincere paure e insicurezze". Dopo aver ricordato che tutti i dati dimostrano come la pena di morte non sia un deterrente contro i crimini, il capo dello Stato ha ribadito che bisogna "costruire un mondo libero dalla pena di morte". Domenica scorsa, durante l’Angelus, anche Papa Francesco aveva parlato del tema, lanciando un appello perché per il Giubileo si giunga a un "consenso internazionale" sulla "abolizione della pena di morte". E coloro che tra i "governanti" sono cattolici, compiano un gesto esemplare e durante questo anno non eseguano condanne a morte. L’appello per l’abolizione della pena capitale non è nuovo peraltro inedito per i Papi e lo stesso Francesco lo aveva lanciato con forza, nell’ottobre 2014, incontrando l’Associazione penale internazionale e ancora lo scorso dicembre, nel messaggio per la Giornata mondiale della pace. La novità è che papa Bergoglio sogna una abolizione della pena capitale frutto per l’appunto dell’attuale periodo del giubileo. Smontare i patiboli. L’appello del Papa e l’impegno di tanti di Marco Impagliazzo Avvenire, 23 febbraio 2016 Il Papa ha lanciato un nuovo e importante appello. Non è la prima volta che Francesco parla della necessità di giungere all’abolizione della pena di morte nel mondo, ma quello di ieri all’Angelus suona come un programma per tutti coloro che desiderano un mondo più vivibile e umano. A partire dai cristiani. Non a caso, proponendo la moratoria per le pene capitali, si è rivolto prima di tutto ai governanti cattolici e ha inserito il suo appello all’interno del Giubileo della Misericordia. Il discorso del Papa, però, ha un carattere universale e riguarda l’intera umanità. Ha parlato di "segni di speranza" in un’opinione pubblica sempre più contraria, nel mondo, alla pratica della pena di morte e ha ricordato che "le società moderne hanno la possibilità di reprimere efficacemente il crimine senza togliere definitivamente a colui che l’ha commesso la possibilità di redimersi". Si tratta di parole che fanno pensare a come si possa giungere, in un giorno che speriamo vicino, all’abolizione della pena capitale nel mondo, a livello legale, così come si giunse nell’Ottocento a quella della schiavitù. Oggi l’Europa vanta, de iure e de facto, il primato di avere archiviato la pena capitale, e molti segnali positivi giungono anche dall’Africa, che potrebbe a breve diventare il secondo continente a essere liberato da questa odiosa pratica. Ma anche, più in generale, si registra la diminuzione, anno dopo anno, del numero dei Paesi mantenitori e di quello dei condannati a morte al termine di una procedura ufficialmente legale. L’ultimo voto, nel 2014, alla III Commissione delle Nazioni Unite, sulla proposta di moratoria universale della pena di morte è stato un successo, con 117 Stati favorevoli alla mozione, tre in più rispetto al voto precedente. Il convegno internazionale "Per un mondo senza pena di morte" promosso dalla Comunità di Sant’Egidio - che il Papa ha salutato domenica durante l’Angelus, augurandosi che "possa dare un nuovo impulso all’impegno per l’abolizione della pena capitale" - si inserisce in questa campagna: ministri della Giustizia e rappresentanti di 30 Paesi in una conferenza che vede raccolti, in modo inedito, in una stessa riflessione, Paesi abolizionisti e Paesi mantenitori: la strada per difendere la vita si può cercare e trovare insieme se ci si apre al dialogo. Ministri ricevuti poi dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha rilanciato l’appello per un mondo senza pena capitale. Sono campagne preziose per tutti perché sentono, e diffondono, il dovere morale di non retrocedere mai di fronte alla paura che è sempre cattiva consigliera. Se la crescita di un sentimento di allarme è giustificato da tanti episodi violenti cui abbiamo assistito in Europa, in Medio Oriente e in Africa, siamo però convinti che non possa e non debba riaprire la strada a pericolose marce indietro: fare il male per ricavarne il bene può sembrare un pensiero proporzionato, ma non è né giusto né efficace. Fa solo il gioco di chi semina violenza. Perché è proprio la paura la principale arma del terrore. Il sogno di giungere al superamento della pena di morte nel mondo è realizzabile e si fa sempre più concreto. Allo stesso tempo occorre non abbassare mai la guardia. In Asia e negli Stati Uniti, ma non solo, c’è da conquistare molte istituzioni alle ragioni della vita e dell’umanità. E occorre guarire i popoli dal fascino del rancore e della vendetta, se è vero che, anche quando diminuiscono le esecuzioni, troppo frequenti sono ancora, in alcune zone del mondo, le uccisioni extragiudiziali e i linciaggi, soprattutto in America Latina e in Africa. Lottare contro la pena di morte è anche lottare per una società in cui il livello di violenza diffusa sia il più basso possibile. Uno dei risultati dell’abolizione della pena capitale è infatti quella di inviare a tutti un potente messaggio: aggiungere violenza a violenza - anche se istituzionalizzata - non solo non risolve, ma soprattutto avvelena il clima generale, genera sentimenti deleteri tra le persone, ingabbia in una forma di "retribuzione" feroce. La campagna mondiale fa compiere un salto di qualità nella cultura generale del mondo: la vita è la cosa più importante. Pena di morte, la moratoria possibile Avvenire, 23 febbraio 2016 Liberare il pianeta dalla pena di morte. È questo l’obiettivo-sfida del nono congresso internazionale "Un mondo senza pena di morte" svoltosi stamani alla Camera dei deputati a Roma e organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio. Erano presenti, oltre al ministro della Giustizia Andrea Orlando, i responsabili dei dicasteri della Giustizia di una trentina di Paesi, tra cui sia abolizionisti sia mantenitori della pena di morte. Proprio dall’occasione di questo convegno era partito ieri l’appello di papa Francesco all’Angelus per una moratoria universale della pena capitale nell’Anno del Giubileo della Misericordia. L’iniziativa nasce con l’obiettivo di sostenere e fare avanzare la campagna per l’abolizione della pena di morte nel mondo, dopo l’ultimo voto alle Nazioni Unite nell’ottobre 2014 in cui 114 Paesi si sono dichiarati favorevoli a una moratoria universale. In seguito a quella votazione la Mongolia ha abolito la pena capitale, che pure era di fatto non applicata da anni. E la Costa d’Avorio l’ha cancellata dal codice penale, dopo averla già abolita nella Costituzione. I lavori del convegno sono stati introdotti dal presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, e dal cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e presidente della Commissione delle conferenze episcopali dell’Unione europea (Comece). "La punizione dello stato non è mai un deterrente", ha osservato il porporato tedesco. Sono stati compiuti "molti passi in avanti" verso l’abolizione della pena di morte: "dagli anni Novanta ad oggi, sono più di 50 i Paesi che l’hanno cancellata" ha ricordato Impagliazzo. "Non c’è giustizia senza vita" ha rilevato, ringraziando papa Francesco per l’appello lanciato ieri durante l’Angelus. "Un mondo senza pena di morte non è un mondo più indifeso, ma è un mondo migliore. Serve un modello di giustizia basato sulla rieducazione". Oggi, ha illustrato il presidente della Commissione Affari sociali della Camera, Mario Marazziti, i Paesi che hanno abolito la pena di morte per tutti i reati o i crimini comuni "sono 105 e altri 43 non la usano da molti anni, per legge o in pratica. Esecuzioni sono avvenute negli ultimi due anni in 22 Paesi del mondo e non sono avvenute in altri 180". "Ma in Egitto, in Arabia Saudita le esecuzioni non diminuiscono, anzi crescono. In Iran almeno 73 minori, ragazzi e adolescenti, sono stati uccisi dallo Stato negli ultimi venti anni. Esecuzioni sono riprese in Giordania, Pakistan, Indonesia come risposta al terrorismo". Non si può "rispondere alla logica della morte con la morte", ha detto il Guardasigilli Andrea Orlando, e di fronte "alla nuova minaccia globale" come quella del terrorismo, "va rafforzato lo stato di diritto". La Corte di Strasburgo, ha evidenziato, "è stato un centro importantissimo per il rafforzamento dello stato di diritto nei diversi Paesi e per l’affermazione della centralità dei diritti dell’uomo. Oggi, ha aggiunto, noi avvertiamo il rischio che questo ruolo sia messo tra parentesi: abbiamo visto Paesi che hanno chiesto una sospensione, seppur temporanea, dell’applicazione della Carta dei diritti dell’uomo". Invece, "questa sfida - ha concluso Orlando - si vince andando avanti e non tornando indietro, altrimenti sarebbe la prima vittoria delle forze di morte e del terrorismo. Lo stato di diritto è la risposta migliore alle minacce". La situazione nel mondo (dati Amnesty International) Più di due terzi dei paesi al mondo ha abolito la pena di morte per legge o nella pratica. Al 31 dicembre 2014 (dati Amnesty International) i paesi abolizionisti per tutti i reati erano 98, 7 i paesi abolizionisti solo per i reati comuni, 35 i paesi abolizionisti nella pratica per un totale di 140 paesi abolizionisti totali. I paesi mantenitori sono 58. Paesi totalmente abolizionisti (98): Albania, Andorra, Angola, Argentina, Armenia, Australia, Austria, Azerbaijan, Belgio, Bhutan, Bolivia, Bosnia ed Erzegovina, Bulgaria, Burundi, Cambogia, Canada, Capo Verde, Cipro, Città del Vaticano, Colombia, Costa d’Avorio, Costa Rica, Croazia, Danimarca, Ecuador, Estonia, Filippine, Finlandia, Francia, Gabon, Georgia, Germania, Gibuti, Grecia, Guinea, Haiti, Honduras, Irlanda, Islanda, Isole Cook, Isole Marshall, Isole Salomone, Italia, Kiribati, Kirghizistan, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Macedonia, Malta, Mauritius, Messico, Micronesia, Moldavia, Monaco, Montenegro, Mozambico, Namibia, Nepal, Nicaragua, Niue, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Palau, Panama, Paraguay, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Repubblica Dominicana, Repubblica Slovacca, Romania, Ruanda, Samoa, San Marino, Sao Tomè e Principe, Senegal, Serbia (incluso il Kossovo), Seychelles, Slovenia, Sudafrica, Spagna, Svezia, Svizzera, Timor Este, Togo, Turchia, Turkmenistan, Tuvalu, Ucraina, Ungheria, Uruguay, Uzbekistan, Vanuatu, Venezuela. Paesi abolizionisti per reati comuni (7): Brasile, Cile, El Salvador, Figi, Israele, Kazakhistan, Perù. Mantengono la pena di morte per casi eccezionali quali, ad esempio, i reati commessi in tempo di guerra. Paesi abolizionisti di fatto (35): Algeria, Benin, Brunei, Burkina Faso, Camerun, Congo, Corea del Sud, Eritrea, Federazione Russa, Ghana, Grenada, Kenya, Laos, Liberia, Madagascar, Malawi, Maldive, Mali, Mauritania, Mongolia, Marocco, Myanmar, Nauru, Niger, Papua Nuova Guinea, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Sri Lanka, Suriname, Swaziland, Tagikistan, Tanzania, Tonga, Tunisia, Zambia. Le esecuzioni non hanno luogo da almeno dieci anni, oppure sono state introdotte delle moratorie. Paesi mantenitori (58): Afghanistan, Antigua e Barbuda, Arabia Saudita, Autorità Palestinese, Bahamas, Bahrain, Bangladesh, Barbados, Bielorussia, Belize, Botswana, Ciad, Cina, Comore, Corea del Nord, Cuba, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Gambia, Guatemala, Guinea, Guinea Equatoriale, Guyana, India, Indonesia, Iran, Iraq, Giamaica, Giappone, Giordania, Kuwait, Lesotho, Libano, Libia, Malesia, Nigeria, Oman, Pakistan, Qatar, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Dominicana, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Singapore, Siria, Somalia, Stati Uniti d’America, Sudan, Sudan del Sud, Taiwan, Tailandia, Trinidad e Tobago, Uganda, Vietnam, Yemen, Zimbabwe. Orfani dopo il femminicidio, le vittime di cui nessuno parla di Grazia Longo La Stampa, 23 febbraio 2016 Sono 1628 dal 2000 a oggi. E ora c’è chi propone per loro aiuti e tutele. Perdono nello stesso momento la madre e il padre. La prima, protagonista dell’ennesimo caso di femminicidio. L’altro, autore del delitto, paga con il carcere o il suicidio. Mentre per loro, gli orfani di questa strage che nel nostro Paese miete più vittime della mafia, inizia una seconda vita nell’ombra e tutta in salita. Se ne parla poco, ma sono 1628, dal 2000 ad oggi, i figli di queste faide familiari costretti a fare i conti con il peso di un dolore che rischia di schiacciarli per sempre, oltre alle difficoltà a trovare una nuova famiglia e un sostegno da parte delle istituzioni, sia da un punto di vista economico che socio-assistenziale. L’allarme arriva dal presidente dello sportello Sos Stalking, Lorenzo Puglisi: "Quando le "vittime secondarie" del femminicidio sono minorenni devono spesso affrontare problemi come le lungaggini burocratiche di case famiglie e di adozioni. Da maggiorenni, quando va bene, possono avere problemi di carattere psicologico ed economico, mentre se va male rischiano di finire nel mondo dello spaccio o della prostituzione". Per questo si sta pensando a una nuova legge che tuteli questi orfani alla stregua delle altre vittime di reati gravi come la mafia, il terrorismo o l’inquinamento ambientale da amianto. Si punta, insomma, all’istituzione di un fondo per le vittime di femminicidio. "Che cosa hanno di meno questi orfani speciali? - insiste l’avvocato Puglisi. Vengono trattati da vittime di serie B, mentre occorre una norma specifica che li tuteli o li sostenga, anche economicamente, a differenza di quanto invece accade per altre categorie". Anche perché i numeri sono drammaticamente in crescita. Il 2015 ha visto 118 orfani in più rispetto all’anno prima. Del resto è sufficiente scorrere i dati di donne uccise: 128 nel 2015, mentre nei primi 40 giorni del 2016 sono 10, con una media allarmante di una vittima ogni 3 giorni. E non dimentichiamo il 2013, decisamente un anno nero, con 179 donne ammazzate, praticamente una ogni due giorni. Nella maggior parte dei casi il delitto viene compiuto con un’arma da fuoco e nel 50% di questi, all’omicidio segue il suicidio del padre. Oppure la donna viene strangolata o uccisa con un’arma da taglio. Anche scorgendo il passato, i numeri confermano la drammaticità dei fatti: come riportato dall’Italian Journal of Pediatrics, dal gennaio 2012 fino al mese di ottobre 2014, 319 donne sono morte in quelli che vengono definiti femminicidi, e nella maggior parte dei casi, 209 su 319, per mano del compagno o ex compagno, all’interno delle mura domestiche. In quel triennio, gli orfani a causa della morte violenta della madre ammontano a 417, di cui 180 minori all’epoca dei fatti. Ben 52 di questi figli coinvolti hanno assistito direttamente all’omicidio e di questi 30 erano minori. Inoltre, 18 bambini su 417, di cui la metà minorenne, hanno perso la vita assieme alla madre. S’impongono alcuni interrogativi. Che tipo di tutela hanno ricevuto, negli anni, questi bambini? Quale percorso è stato intrapreso per loro a livello terapeutico, sociale o giuridico? Quanto e come è stato affrontato e ridotto il loro danno da trauma? Quando l’orfano non è maggiorenne può essere affidato dal tribunale dei minori ai nonni o ad altri parenti, qualora ne facciano richiesta, "ma spesso questa soluzione non è ottimale poiché anche gli stessi familiari devono gestirne le conseguenza psicologiche, a partire dall’astio tra la famiglia del padre assassino e della madre uccisa". Per chi ha raggiunto la maggiore età non si può invece tralasciare la carenza di un sostegno economico da parte dello Stato, sia per quanto concerne il supporto psicologico sia per quello economico a partire dalla formazione scolastico-universitaria. "E invece niente - conclude il presidente di Sos Stalking. A parte i fondi regionali ad hoc predisposti in Emilia Romagna e Campania". Furti, boom dei "soliti ignoti" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2016 "Roma caput furti" scriverebbe oggi il poeta Marco Anneo Lucano se girasse per le strade della capitale. Sebbene il reato più antico del mondo spopoli in tutta Italia e Milano sia in cima alla classifica Istat 2014, le vie di Roma sembrano particolarmente appetibili a ladri e ladruncoli, che nel 2015 hanno messo a segno 156mila "furti aggravati" - tra borseggi, furti d’auto o nelle auto ecc., facendola franca praticamente sempre. Con buona pace degli aumenti di pena minacciati o dispensati periodicamente da una politica miope (che non vede che quando i ladri finiscono in carcere, ne escono specializzati nel furto) ma soprattutto strabica, perché non vede proprio il dato più vistoso, e cioè che nel 95% dei casi i ladri restano "ignoti" alle forze dell’ordine e alla giustizia. Le dosi ulteriori di carcere sbandierate come medicina salvifica dell’insicurezza urbana restano dunque sulla carta e non hanno nemmeno un effetto deterrente poiché, mentre la generalità dei reati è in diminuzione, i furti aumentano quasi ovunque. Eppure, in questa direzione va anche la riforma del processo penale - che la prossima settimana riprenderà il suo cammino al Senato - con una delle poche norme approvate dalla Camera quasi all’unanimità. Gli aumenti di pena per i reati di strada sono una costante della politica giudiziaria e della sicurezza quando la cronaca o le statistiche riportano in primo piano la microcriminalità. Misure con una forte carica simbolica ma una scarsa efficacia concreta, poiché non trovano riscontro nella vita quotidiana dei cittadini, ingannati o illusi da slogan bugiardi come quello della "tolleranza zero". Basta dare uno sguardo, appunto, ai più recenti dati sui reati di strada, in particolare ai furti, per verificare l’inutilità della risposta penale: nel 2014 - secondo le ultime rilevazioni del Dipartimento di pubblica sicurezza elaborate dall’Istat a gennaio e anticipate dal Sole 24 ore del 7 dicembre - vi è stato un aumento dei reati predatori, con un trend in controtendenza rispetto al complesso dei delitti. La piaga dei furti è quantificata in 1,58 milioni di denunce (+1,2% rispetto al 2013) con punte superiori (+8,12%) nel caso dei "furti con destrezza" (quasi 180mila denunce), cioè i soli borseggi. Se poi si guardano i dati del 2015 di alcune Procure, come Roma, si scopre che il "furto aggravato" (articoli 624 e 625 del Codice penale, in cui rientrano sia i furti con destrezza che quelli d’auto o nelle auto) è ben più esteso, visto che a Piazzale Clodio si sono riversate oltre 150mila denunce (151mila nel 2014), di cui 152mila archiviate perché gli autori sono rimasti ignoti. È dunque ragionevole chiedersi se le strategie adottate finora siano davvero le più efficaci per rispondere, più che alla "percezione di insicurezza", alla reale insicurezza e al diffuso senso di abbandono dei cittadini; e se non sia, invece, necessario cambiare strategia, scegliendo strade meno demagogiche e mediaticamente appetibili ma forse più concludenti sul fronte della deterrenza. Per esempio - in attesa di un Big Data che, come negli Usa, consenta di individuare gli hotspot, le "zone calde", dei furti in strada, dove concentrare il lavoro preventivo delle polizie (si veda Il Sole 24 ore di domenica) - puntando su una maggiore reattività e presenza delle forze dell’ordine, irrobustendo le risorse e motivando gli operatori. I quali, al pari dei cittadini, forse vivono una frustrazione che può portare alla rassegnazione, al fatalismo e, quindi, all’immobilismo. Secondo quanto riferisce Rossella Cadeo sul Sole 24 ore del 7 dicembre, nel 2014 è stato il Centro-nord il più colpito dalla criminalità predatoria, o di strada. E adesso, i primi dati sul 2015 raccolti dal Sole in alcune Procure (dove confluiscono le denunce di tutte le forze dell’ordine) confermano, in particolare, che il "furto aggravato" è la piaga principale della sicurezza urbana. A Roma si viaggia su ordini di grandezza di centinaia di migliaia di denunce, e altrettante archiviazioni (in aumento rispetto all’anno precedente, quando erano, rispettivamente, 155.945 e 151.065). E se i numeri di Torino sono più contenuti (35.174), Milano fa il paio con la capitale: le statistiche parlano di "soltanto" 4.214 denunce ma contengono un "dato nascosto", non tanto perché la rilevazione del 2015 si ferma al 3 novembre (e notoriamente, durante le festività i furti aumentano), quanto per la modalità di rilevazione. Spiega il Procuratore Aggiunto Riccardo Targetti, capo del pool milanese "Reati patrimoniali": "Per sopravvivere alla massa enorme di denunce abbiamo adottato il sistema degli "elenchi" di denunce dello stesso genere, a ciascuno dei quali corrisponde un numero di ruolo". Ogni elenco (già predisposto e inviato da polizia e carabinieri) contiene però tra le 20 e le 40 denunce, il che significa che se, statisticamente, in Procura risultano 4.214 denunce per furto aggravato, di fatto quel numero va moltiplicato per 20 o 40, raggiungendo quindi un ordine di grandezza di decine o, più spesso, centinaia di migliaia di fascicoli, anche lì chiusi quasi tutti con l’archiviazione. Si dirà che il proliferare della microcriminalità di strada è il prezzo da pagare per avere più sicurezza su altri fronti della criminalità che impegnano le forze dell’ordine, visto che le risorse sono limitate. Che è, insomma, una precisa strategia della politica della sicurezza. Spesso, poi, le forze dell’ordine si lamentano con la magistratura. "Noi li arrestiamo e loro li scarcerano", ripetono. I magistrati, però, se la prendono con un legislatore schizofrenico e ondivago che, a seconda delle emergenze del momento, allarga o riduce il ricorso alla custodia cautelare (com’è avvenuto con la recente riforma, che ha limitato l’uso delle manette). C’è del vero anche in questo, se non fosse che, nella stragrande maggioranza dei casi, i furti in strada denunciati restano di autore ignoto e, dunque, il problema delle manette neppure si pone. Roggi e l’aiuto all’ex ergastolano in carcere da innocente per 25 anni di Alessandro Fulloni Corriere della Sera, 23 febbraio 2016 L’ex calciatore della Fiorentina e il sostegno a Giuseppe Gulotta che trascorse 36 anni (di cui 24 in carcere) ingiustamente accusato dell’omicidio di due carabinieri. L’ultimo aiuto, in ordine cronologico, a Giuseppe Gulotta, ex ergastolano ingiustamente detenuto per 24 anni con l’accusa, rivelatasi falsa, di avere ucciso due carabinieri, è arrivato da Moreno Roggi, indimenticabile ex terzino della Fiorentina il cui futuro nella nazionale - il ct era Bernardini, "Zoff, Rocca, Roggi" - e nel calcio venne azzoppato nel 1976 da un grave infortunio. Il suo nome è legato all’ultimo risvolto di una vicenda che racconta un incredibile errore giudiziario determinato da un’indagine che vide una confessione estorta dai carabinieri. A suon di botte. Il protagonista è un siciliano di 58 anni, "Pippo", nato ad Alcamo Marina, nel Trapanese, padre di un ragazzo di 28 anni, nonno di un bimbo di 6. E marito di una donna che da un precedente matrimonio aveva avuto altri tre figli, ognuno con prole. "Una famiglia allargata, anzi allargatissima" dice Giuseppe Gulotta. Il suo calvario giudiziario comincia il 26 gennaio 1976, quando in una stanza della stazione dei carabinieri di Alcamo vennero trovati cadaveri due militari diciottenni, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. Crivellati di colpi mentre dormivano da qualcuno entrato aprendo la porta blindata con la fiamma ossidrica. Chi li ammazzò, fuggì con le loro pistole Beretta di ordinanza. Le indagini: terrorismo, pista anarchica e mafia - Le indagini mettono subito nel frullatore terrorismo rosso - le Brigate rosse smentiscono la responsabilità con un volantino, pista anarchica e mafia. Ne parla anche Peppino Impastato, al microfono della sua radio privata. Un avvertimento allo Stato, grida. Pochi giorni dopo il duplice omicidio i carabinieri fermano un diciannovenne di Alcamo, Giuseppe Vesco, detto "Peppe ‘u pazzo". Aria naif, vagheggia di anarchia e rivoluzione con gli amici del bar. Nella sua auto, una Fiat 127, vengono trovate due pistole, una delle quali è una calibro 9 come quella dei carabinieri uccisi. "Peppe ‘u pazzo" confessa i nomi dei complici, altri ragazzi del paese, inseparabili amici tra di loro. Ma per parlare, si scoprirà molto dopo, lo torturano di brutto. Tra quelli accusati da Vesco c’è anche Gulotta, arrestato il 12 febbraio di 36 anni fa. Anche per lui confessione estorta dopo botte, scariche elettriche sui genitali e una specie di waterboarding. Come può, urla la sua innocenza a tutti i magistrati che incontra, ma nessuno gli crede. Intanto si fa due anni dentro, in attesa di giudizio. L’accusatore muore suicida in carcere - Vesco, nell’ottobre del 1976, muore suicida in carcere. Nel frattempo il processo per la strage decolla. Un iter assai lungo e contorto: il primo capitolo l’aveva scritto la Corte d’Assise di Trapani che aveva assolto l’imputato. La Corte d’Assise di Palermo però, ribalta il verdetto e condanna Pippo all’ergastolo. I legali ricorrono in Cassazione che annulla questa condanna e trasferisce gli atti nuovamente a Palermo, ad altra sezione. Ancora una sentenza, ancora un ergastolo. Stessa decisione presa poi dalle Corti d’Appello di Caltanissetta e Catania, investite da altri rinvii trasmessi dalla Cassazione. Nel 1990 la sentenza diventa definitiva. A questo punto Pippo - che si è stabilito a Certaldo (provincia di Firenze) perché inizialmente venne sottoposto al divieto di dimora in Sicilia e fa il piastrellista grazie all’aiuto di alcuni parenti in Toscana - entra in carcere. Adesso racconta: "Scappare? Avrei potuto (come fecero altri accusati, ndr). Ma non ho voluto. "Beh vado in prigione", mi dissi. In cella vivevo unicamente di speranza". Detenuto modello, un periodo anche in libertà vigilata. Il colpo di scena arriva nel 2007 - Il colpo di scena arriva nel 2007, quando uno dei carabinieri che trent’anni prima partecipò alle indagini si presenta ai giudici. Un tarlo gli consuma la coscienza. L’ex brigadiere si chiama Renato Olino, all’epoca era in servizio al reparto antiterrorismo di Napoli. A verbale fa alcune ammissioni. In particolare racconta che ci furono dei "metodi persuasivi eccessivi" per far parlare Vesco. Il pentito Vincenzo Calcara in un altro procedimento dichiarò di aver appreso in carcere dell’estraneità alla strage di Gulotta. Processo riaperto. Il 13 febbraio 2012 la Corte d’Appello di Reggio Calabria assolve Pippo - assistito dagli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini - con formula piena. Gulotta e Olino si incrociano in aula. L’ex brigadiere gli si avvicina, gli chiede scusa "anche a nome di altri miei colleghi". "Sulle prime restai interdetto - è il ricordo dell’ex ergastolano innocente - e poi lo ringraziai. Senza di lui sarei ancora dentro". Roggi: "M’è venuta voglia di conoscerlo" - Il piastrellista di Alcamo in questo periodo non se la passa bene. Nel corso delle vicissitudini giudiziarie ha perso il lavoro. Spera nell’indennizzo (ha chiesto 56 milioni di euro) che vorrebbe dallo Stato. Risarcimento per niente scontato, oltre al fatto che la sentenza tarda ad arrivare. Gulotta vive di aiuti, quelli che arrivano dalla Caritas diocesana di Firenze come ha scritto qualche giorno fa La Nazione che lo ha incontrato. Un articolo letto da Moreno Roggi, inesauribile motore dell’associazione "Glorie Viola" che si occupa di beneficenza. "M’è venuta voglia di conoscere quell’uomo. Siamo andati a pranzo insieme a Certaldo - spiega l’ex terzino della Fiorentina, oggi procuratore -. È sereno, tranquillo, vittima due volte di un’ingiustizia: la prima lo ha visto portare sulle spalle un’ingiusta accusa per 36 anni. La seconda riguarda il risarcimento, chissà se glielo daranno mai". Le "Glorie Viola", assieme a Chiantibanca e Caritas, hanno così staccato un assegno da 2 mila euro a favore di Pippo. Ma Roggi scuote la testa. "Non è nulla, rispetto alla parte più importante della sua vita che gli hanno rubato...". Intanto la procura di Trapani ha aperto un nuovo fascicolo. C’è da scoprire il nome degli assassini dei carabinieri Apuzzo e Falcetta, ancora sconosciuto dopo 40 anni. (Era il 13 febbraio 1976 quando la vita di Pippo Gulotta, allora 19 anni, venne stravolta per l’ingiusto arresto ad Alcamo. Addio libertà. Ed era Ferragosto, ancora del 1976, quando il ginocchio di Moreno Roggi, allora 22 anni, fece crac in un’amichevole a Viareggio. Addio al sogno del calcio. Storie "parallele" che si sono incrociate pochi giorni fa al tavolo di quella trattoria a Certaldo. L’ex viola sospira: "Come dico sempre, la mia vita è stata da cento ori, ed è andata molto bene lo stesso. Certe storie che ascolti semmai ti aiutano a capire quanto il tuo bicchiere sia da considerare mezzo pieno. Anzi, tutto pieno"). L’Odissea del portiere argentino detenuto in Italia per traffico di droga di Federico Corona Il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2016 Voltare pagina non significa dimenticare del tutto quella precedente. Significa essersi soffermati su ogni sua riga, dalla più dura alla più dolce, averla letta e riletta, metabolizzata. Le ferite fanno male sia quando te le procuri sia il giorno dopo. Poi a frenare la forza risanatrice del tempo ci pensa la cicatrice, sempre lì, a ricordarti quella pagina rimasta segnata per non cadere di nuovo in quelle righe buie. Per raccontare il romanzo della vita di questo giovane ragazzo argentino, per la delicatezza della situazione in cui ancora si trova, occorre adottare un nome di fantasia, mentre la sua storia, che oscilla tra il sogno e l’abisso, la caduta e il riscatto, è tutta vera. Incontro Ruben (lo chiameremo così da ora in poi, ndr) in un centro sportivo gestito dalla parrocchia in un comune vicino a Varese, dove allena una squadra di calcio di bambini e i portieri di un’altra squadra di bambini un po’ più grandi. Ci sediamo su una panchina che sta proprio a bordo del campo centrale, con l’odore dell’erba umida vivo tra le narici e il sapore di calcio provinciale che chi ha frequentato certi campi conosce bene. Sono lì per farmi raccontare la sua storia, che parte proprio da uno di quei rettangoli verdi, ma il suo sguardo, che è di una profondità rara, non si incrocia quasi mai con il mio: è fisso verso il campo, lievemente socchiuso, un po’ per il bagliore del sole calante e un po’ perché quel campo è per lui un turbinio di sentimenti contrastanti. Lo guarda come una terra promessa mai raggiunta, retaggio di un passato ambizioso e spiraglio di un futuro qualsiasi, diverso dal presente. Parla bene l’italiano, Ruben, ma la cadenza è ancora quella argentina, come è tipicamente argentino quel sorriso leggero che accompagna le sue parole e che sembra sempre volerti sbattere in faccia la positività della vita, anche una come la sua, non esattamente felice. Ruben comincia a giocare a calcio all’età di 4 anni a Bella Vista, sulla riva nord del fiume Reconquista, in provincia di Buenos Aires. Senza indugi indossa i guanti e si piazza tra i pali, come fosse una vocazione. La sua carriera prende subito slancio e a 14 anni approda al San Miguel, dopo mesi che l’osservatore Miguel Rios non si è perso una sua partita. Si ispira a Carrizo, e in generale ai portieri dai piedi educati; non è molto alto, ma vola. Il tempo di farsi un po’ le ossa e a 16 anni, Ruben fa il suo esordio con la prima squadra, che milita nella serie C argentina. Il profilo è quello classico del predestinato. Con lui, altri due giovanissimi giocano titolari in quella e nelle successive partite, scatenando la rivolta dei senatori dello spogliatoio, generali che vogliono fare valere i gradi: "non gli andava bene che giocassimo noi, presero le scarpe e lasciarono lo spogliatoio". Come spesso tristemente accade il più forte ebbe la meglio, e così Ruben torna a sedersi in panchina. Arriva un’altra occasione, ad affacciarsi alla finestra è il Vélez, squadra di primera division e compagine storica del campionato argentino. Step dopo step, Ruben supera tutti i provini, prima di fermarsi all’ultimo gradino che porta all’Olimpo: "sei bravo, ma troppo basso". Spiazzato, come in un rigore. Come se per toccare il cielo non bastasse volare, ma bisognasse per forza tenere i piedi per terra. Quelle parole riecheggiano nella sua testa in continuazione, martellanti, difficile rassegnarsi all’idea che la vita è "una questione di centimetri": "ancora oggi non capisco cosa mi è mancato per diventare un calciatore". Ci prova ancora, Ruben. 10 mesi al Sol de America, in Paraguay, e qualche mese in prestito all’Alem. "Non devi diventare a tutti i costi un professionista" continuava a ripetergli suo padre, riuscendo in quell’esercizio di guida liberale che molti padri di aspiranti calciatori tradiscono mettendo davanti se stessi ai figli. Ma "una cosa è fare il padre, un’altra il marito". Dopo alcun duri scontri, Ruben è costretto a prendere suo padre di forza e cacciarlo di casa, anche a causa di una depressione che lo stava divorando. Oggi si pente: "quel giorno sbagliai a sbatterlo fuori". Il sogno sta svanendo all’orizzonte. Gli sforzi, i sacrifici e la tenacia con cui Ruben non si è mai stancato di rincorrerlo cominciano a venire meno. Inizia a lavorare in un locale notturno. I guanti da portiere li indossa solo per allenare i bambini di una scuola calcio. Gli basta poco per accorgersi che nel giro del locale bazzica gente losca. Basta ancora meno per fare conoscenza e scoprire che quei tali gestiscono un traffico internazionale di droga. Un giorno il cantante che faceva karaoke chiede a Ruben di presentargli quelle persone perché voleva fare "un viaggio". È presto fatto: intasca un anticipo e parte con una valigia carica di coca verso l’Uruguay, dove avrebbe dovuto fare sosta in un albergo prestabilito e poi ripartire verso l’Italia. L’occasione ha fatto ancora una volta l’uomo ladro, e così il cantante, una volta arrivato in Uruguay, lascia la valigia nell’hotel e scappa con il malloppo preso come anticipo. I mandanti vanno subito da Ruben: "tu ci hai presentato quella persona e ora tu porti a termine il viaggio". È un aut aut che gli lascia poco scampo. Per lui nessun anticipo, nessuna paga alla consegna, solo un maledettissimo gesto "riparatore". Non riesce a opporsi, forse non può, accetta di partire. Arrivato in Uruguay trova la valigia abbandonata, la carica in spalla con tutta la titubanza del caso e si imbarca per Milano in preda al panico: "in aereo bevevo champagne per smorzare la tensione, continuavo a ripetermi che stavo facendo una cazzata, a domandarmi perché l’avevo fatta, ma ormai era troppo tardi". Attera, stordito dall’alcol ma lucido per l’adrenalina. Viene subito fermato. Arrestato. Condannato: 6 anni. E sei anni in una galera di un paese sconosciuto per uno che nella sua vita non ha mai conosciuto crimine e criminali, sono un inferno. Il compagno di cella è dentro per aver ammazzato il padre e Ruben non gli permette di stare troppo tempo sdraiato sul letto: "mi ricordava mio padre, sempre a letto in stato depressivo". Ma in carcere si fa rispettare e conoscere per quello che è, un ragazzo umile e generoso, che non significa debole: "la forza che mi è mancata fuori l’ho trovata qui dentro". Tre anni e tre mesi dopo quel malaugurato viaggio, l’incontro che cambia il suo destino. Uno di quei crocevia che segnano la vita. Tra le mura arriva un allenatore di calcio per occuparsi della squadra della galera. Si chiama Luca, un uomo di cui riconosci immediatamente la purezza, molto distante da quei volontari che hanno la puzza sotto il naso e che da qualche parte, girandosi, cercano un tornaconto. Luca vuole portare la gioia del calcio in carcere. Un sano idealista che crede davvero nello sport come motore per la riabilitazione sociale. È subito partita, ed è subito folgorato da Ruben: "al primo tuffo che ha fatto sul cemento, ho capito che si trattava di un ragazzo speciale. Per buttarsi in quel modo sul cemento bisogna avere coraggio, oltre che tecnica". Luca decide di incontrarlo subito dopo la partita: "e se ti portassi fuori a giocare?". "Ti farei un monumento". Poche settimane dopo, Ruben è fuori, in permesso. Ogni mattina prende la sua bicicletta e dal carcere pedala 8 chilometri per arrivare al campo della parrocchia per allenare i bambini. Un tragitto che gli ricorda quello che con il pullman lo portava al campo d’allenamento, quando la borsa da calcio era carica di sogni e speranze. Oggi la borsa pesa di meno, ma sogni e speranze trovano ancora spazio. Spesso, racconta Luca, attorno alla rete che circonda il campo da gioco si formano gruppetti di genitori impressionati dal suo modus allenandi. Molti non sanno che è un detenuto, e che finito l’allenamento, dopo la doccia che lava via quel fango che tanto gli mancava perché sa di libertà, deve risalire in sella alla sua bici, pedalare altri 8 km e tornare a dormire in cella. Ha deciso di pagare il suo debito aiutando gli altri. Un bambino che non parlava mai con nessuno, dopo pochi giorni ad allenarsi con Ruben è cambiato totalmente. "La madre è venuta a ringraziarmi per quello che stavo facendo, pensava fosse un miracolo, era incredula". Ruben guarda questi bambini e vede la fortuna: "per allenarsi indossano le maglie originali di Messi e Ronaldo, hanno l’ultimo modello di scarpe e dei genitori sempre vicino. I bambini che allenavo in Argentina a metà pomeriggio passavano da casa mia per mangiare un pezzo di pane." Il calcio, prima demonio che gli ha spinto la testa per annegarlo e poi angelo che gli ha teso la mano per farlo tornare a galla. Per Pasolini il calcio era "l’unica rappresentazione sacra del nostro tempo", e come tale Ruben l’ha sempre vissuto. Manca poco prima della Camera di Consiglio che deciderà se il calvario improvviso e inaspettato che ha segnato in maniera indelebile la sua vita finirà, o se Ruben dovrà ancora resistergli, pedalata dopo pedalata. In programma c’è il corso Uefa per allenatori e il ritorno in campo, da giocatore. In Italia o altrove, non importa. Intanto Ruben ha voltato quella pagina nera, e la parata più difficile l’ha già fatta. Falso in bilancio: valutazioni ancora nella bufera di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2016 Corte di cassazione, Quinta sezione penale, sentenza 22 febbraio 2016 n. 6916. Le valutazioni tornano a uscire dal perimetro del falso in bilancio. Il pendolo della Cassazione nell’interpretazione delle nuove norme torna a collocarsi sulla linea dell’estate scorsa. A conferma del fatto che un intervento delle Sezioni unite sarebbe opportuno per cancellare l’incertezza su uno degli elementi chiave della nuova fattispecie penale. Ieri la Cassazione, con la sentenza n. 6916 della Quinta sezione penale, ha sottolineato la rilevanza dell’eliminazione del riferimento alle valutazioni dal nuovo articolo 2621 del Codice civile. La Corte modifica il suo orientamento rispetto alla pronuncia di poche settimane fa, la n. 890 del 2016, con la quale si era invece concluso che anche le valutazioni possono essere rilevati nel condurre a una condanna per false comunicazioni sociali. Ora la Corte torna a considerare importante l’esclusione delle valutazioni. Ragionando a ritroso, avverte la sentenza, chi oggi ritiene irrilevante il riferimento alle valutazioni per sminuirne l’assenza dovrebbe ritenere che quando invece queste erano previste, nella vecchia fattispecie, allora si trattasse di una previsione tutto sommato irrilevante. Ma non è così, sottolinea ora la Cassazione: con l’espressione che attribuiva peso penale ai "fatti materiali, ancorché oggetto di valutazioni" si intendeva considerare punibile anche il falso su dati contabili risultanti da valutazioni "purché le stesse fossero state svolte partendo da fatti materiali, riferiti a realtà economiche oggettivamente determinate". Sotto l’ombrello penale finivano così le registrazioni contabili che non riguardano direttamente fatti materiali, ma sono riconducibili a questi attraverso le valutazioni che le giustificano. Avere adesso soppresso quell’"ancorché oggetto di valutazioni" ha, nella lettura della Cassazione, "effettivamente ridotto l’estensione incriminatrice della norma alle appostazioni contabili che attingono fatti economici materiali, escludendone quelle prodotte da valutazioni pur se moventi da dati oggettivi". In questa direzione milita anche la considerazione che, nel corso dei lavori parlamentari, a una nozione assai ampia come quella di "informazioni false", idonea a comprendere anche le valutazioni, venne poi sostituita la formulazione, che ha poi resistito, di "fatti materiali". La sentenza peraltro ha confermato la misura del sequestro preventivo a carico di un istituto di credito per avere, in tre bilanci consecutivi, inserito "valori oggettivamente e palesemente non corrispondenti al dato contabile sottostante oggetto di rappresentazione". In questo caso, infatti, spiegano i giudici, non si è alle prese con un falso valutativo che non più punibile: ci trova invece davanti a fatti materiali ancora pienamente sanzionabili. E su questo punto la Cassazione distingue, chiarendo che il falso valutativo si realizza quando si ricorre all’associazione di un dato numerico a una realtà economica comunque esistente, operazione che è appunto il risultato di una valutazione; si è invece nell’ambito del nuovo reato quando si fornisce di fatto una rappresentazione difforme dal vero della stessa realtà materiale. Prescrizione ampia per l’ostacolo alla vigilanza societaria di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2016 Corte di cassazione, Quinta sezione penale, sentenza 22 febbraio 2016 n. 6884. Prescrizione ampia per il reato di ostacolo alle funzioni di vigilanza. Viene confermata dalla Cassazione, sentenza 6884 depositata ieri, la condanna a carico del presidente del consiglio di amministrazione e del direttore generale di una cooperativa che non avevano indicato nei bilanci una fideiussione e ne avevano omesso la comunicazione ai revisori. In questo modo a essere violato è stato l’articolo 2638 del Codice civile, articolo che in realtà prevede due fattispecie: una è rappresentata da un reato di semplice condotta integrato dalla omessa comunicazione di informazioni dovute sia dal ricorso a mezzi fraudolenti per nascondere all’organo di vigilanza l’esistenza di fatti rilevanti per la situazione patrimoniale della società; l’altra è costituita da un delitto di evento per la cui realizzazione è necessario che si sia verificato un ostacolo effettivo e rilevante all’attività di vigilanza. Due autonome fattispecie di reato dunque, ma quando, come nel caso esaminato, a venire omesse sono informazioni dovute, allora si configura un concorso formale di reati, caratterizzato dalla contemporanea violazione di diverse disposizioni di legge con una sola omissione. Determinante è poi l’osservazione della Cassazione con la quale si mette in evidenza che il reato, nella fattispecie disciplinata dal secondo comma, può essere costruito anche in forma permanente. L’autore cioè, ricorda la sentenza, non ha solo il potere di concretizzare la situazione contraria al diritto, ma anche di rimuoverla. "Sicché - osserva la Cassazione - il protrarsi dell’offesa al bene protetto, che richiede il mantenimento dello stato antigiuridico per un apprezzabile lasso di tempo, dipende dalla volontà dell’autore del reato". In questa prospettiva dunque, la consumazione del reato, quando, come nel caso esaminato, si è trascurato di comunicare informazioni obbligatorie, si protrae per tutto il tempo in cui le comunicazioni, pur potendo ancora essere effettuate, continuano a essere omesse. Di conseguenza, il termine di prescrizione, che equivale a 7 anni e 6 mesi, si protrae nel tempo. Nel caso allora di una fideiussione con durata fissata sino al 2 novembre, l’obbligo di riportare in bilancio la concessione della garanzia, in maniera che ne avessero consapevolezza gli organi di vigilanza, doveva essere osservato anche per gli anni successivi al 2006. Per cui il giorno in cui fare partire il corso della prescrizione "non deve individuarsi nel 30 giugno 2006, ma piuttosto, in quello (non prima del giugno 2010) in cui gli organi preposti alla vigilanza sulla gestione economica della cooperativa ne vennero a conoscenza". Correo il consulente che crea il falso trust di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 6798/2016. La creazione di un trust finalizzato a evadere le imposte fa scattare il reato di sottrazione fraudolenta anche se nelle casse della società resta denaro sufficiente per pagare il fisco. La Corte di cassazione, con la sentenza 6798, conferma la corresponsabilità di un consulente nel reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (articolo 11 del Dlgs 74/2000) pur accogliendo il suo ricorso in merito alla confisca per equivalente dei suoi beni. Il tribunale aveva confermato il decreto di sequestro preventivo nei confronti del professionista accusato di aver aiutato il titolare di una società a mettere i bastoni fra le ruote di Equitalia nel recuperare un credito da evasione fiscale. Un coinvolgimento che risultava dai file contenuti nel personal computer del contabile, sequestrati dalla Guardia di finanza. Due le strade per mettere in atto il "depauperamento della società": la costituzione di un trust, nel quale era stata triangolata la convivente del titolare della società, e la cessione di un immobile. Pronto era scattato il ricorso del consulente secondo il quale il trust non aveva ricevuto conferimenti e il patrimonio della società "copriva" le pretese di Equitalia. Inoltre, ad avviso del ricorrente, la Guardia di Finanza aveva illegittimamente sequestrato i file e altrettanto illegittimamente si era dato corso alla confisca dei suoi beni, per un valore superiore al dovuto e senza prima verificare la possibilità della confisca diretta presso la società che dal reato aveva tratto profitto. Questi ultimi due motivi sono accolti e i primi respinti. I giudici della Terza sezione penale precisano che la capienza della società rispetto alle rivendicazioni del Fisco non è rilevante ai fini di un reato di pericolo e non di danno. La stessa costituzione del trust mette, infatti, a rischio, la garanzia patrimoniale del credito fiscale "potendo in qualsiasi momento essere ceduto ad esso". Valida anche la prova attraverso la quale si è accertato il ruolo di primo piano svolto dal ricorrente nell’operazione simulata. La Cassazione precisa che il sequestro dei file resta valido in quanto corpo del reato, anche se la perquisizione non era legittima. Passa invece il ricorso in merito alla confisca per equivalente. Errata la decisione del tribunale nel quantificare le somme basandosi sull’imposta evasa quando, nel reato esaminato, il profitto va individuato nel valore dei beni "sfilati" all’esecuzione fiscale, essendo la ratio della norma la tutela della garanzia generica del credito tributario e non il credito in quanto tale. Fondato il ricorso anche per quanto riguarda la mancata verifica della possibilità di procedere alla confisca diretta sul patrimonio della società debitrice, o presso chiunque detenga il profitto del reato. Soccombenza reciproca ampia di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2016 Sentenza 3438/2016. L’accoglimento parziale di una domanda può far scattare la reciproca soccombenza con la possibilità di compensare le spese di lite. La Cassazione, con la sentenza 3438, fa il punto sulle nuove disposizioni in tema di compensazione delle spese introdotte dall’articolo 13 del Dl 132/2014. La Suprema corte ricorda che, in seguito alle modifiche apportate all’articolo 92 del Codice di rito, per le cause iniziate dopo l’11 dicembre 2014, la compensazione delle spese di lite è prevista solo nella soccombenza reciproca, fatta eccezione per i casi in cui vi sia una assoluta novità o un mutamento della giurisprudenza su questioni dirimenti. Un "paletto" che, secondo la Cassazione, impone una corretta ricostruzione della nozione di soccombenza, decisiva per individuare le residue possibilità di rendere operativa la regola della compensazione totale o parziale delle spese. Per i giudici della Terza sezione civile escludere che l’accoglimento parziale di una domanda determini una situazione di reciproca soccombenza, impedirebbe in radice la compensazione anche parziale. Con un’interpretazione rigida si metterebbe il convenuto nella situazione di dover pagare sempre e integralmente le spese all’attore, anche quando quest’ultimo "vince" solo su un’unica domanda, proposta per un importo trascurabile. Conclusione che - sottolinea la Suprema corte - oltre a contrastare con il principio di causalità, non sarebbe neppure logica né equa. Secondo la Cassazione la reciproca soccombenza può essere individuata sia nelle ipotesi di più domande contrapposte, accolte o rigettate, che si siano cumulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in caso di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta. E questo vale tanto se la domanda è stata articolata in più capi, con uno o più d’uno accolti e altri rigettati, come nel caso "la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo". Nella compensazione parziale delle spese la parte che paga di più è quella che ha dato "causa in misura prevalente agli oneri processuali e alla quale questi siano in maggior misura imputabili". E individuarla spetta al giudice, che sceglie con una valutazione discrezionale ma non arbitraria perché fondata sul principio di causalità. Il giudice dovrà dunque imputare idealmente a ciascuna parte gli oneri processuali imposti all’altra per aver resistito a pretese fondate o per aver avanzato richieste infondate, operando una compensazione. La Suprema corte precisa che, in tale ideale compensazione alla parte che agisce vanno riconosciuti per intero gli oneri necessari per proporre le pretese fondate, ridotti "in ragione della maggior quota differenziale degli oneri necessari alla controparte per resistere anche alle pretese infondate". Carceri, è il momento di agire di Pompeo Mannone (Segretario Generale Fns-Cisl) L’Unità, 23 febbraio 2016 Caro Direttore, il gravissimo episodio dell’evasione dei detenuti rumeni dal carcere di Rebibbia ha riportato all’attenzione della politica, delle forze sociali e dei mass media, l’insieme delle problematiche legate al sistema penitenziario italiano. Sono tanti, troppo anni ormai che come Federazione Nazionale della Sicurezza della Cisl denunciamo le tante criticità in cui versano i nostri istituti penitenziari e la necessità di procedere con un percorso riformatore coerente ed equilibrato che risponda alla crisi della giustizia ed all’emergenza carceri. Ma purtroppo, fino ad oggi, rimaniamo inascoltati ed il problema deve essere ancora posto in capo alle priorità del Ministro della Giustizia e del Governo. Il sistema carcerario italiano è allo sfascio. Poco o niente si fa per mettere realmente a fuoco il malfunzionamento del settore e quindi intervenire. Le principali situazioni di criticità come il sovraffollamento carcerario, la carenza di un adeguato organico di Polizia Penitenziaria e di fondi da investire nei sistemi elettronici di controllo e vigilanza, la presenza di strutture ormai oggettivamente vetuste, non hanno trovato ancora un’adeguata soluzione. Ma adesso non si può più aspettare: occorrono reali e concrete misure alternative alla pena in carcere, intensificazione del lavoro negli istituti di pena, depenalizzazione dei reati minori, adeguamento degli organici della polizia penitenziaria, manutenzione e messa in sicurezza delle strutture carcerarie ed anche nuove edificazioni per attenuare la condizione esplosiva e spesso non gestibile. Ma quel che è più importante ed urgente è la valorizzazione della polizia penitenziaria che sopporta, troppo spesso dimenticata dalla politica e dalle istituzioni, il peso delle inefficienze generali del sistema giustizia. Non scordiamo che solo il senso di responsabilità e di abnegazione professionale del personale carcerario ha impedito che un sistema così fallato e scricchiolante, ancora pieno di evidenti sofferenze, portasse ad episodi di estrema criticità e mettesse a repentaglio la sicurezza del Paese. Il Governo, dunque, apra finalmente gli occhi e ‘premì con un potenziamento degli organici ed un adeguato riconoscimento retributivo l’alta professionalità ed abnegazione della polizia penitenziaria. Dove trovare le risorse finanziarie necessarie per passare dalle parole ai fatti? Per cominciare nel serio avvio del processo riformatore della giustizia civile e penale e nella depenalizzazione di alcuni reati. Noi siamo pronti a dare il nostro contributo se il Governo sarà disponibile ad un confronto di merito per una riforma organica dell’intero sistema carcerario. Chi ha realmente a cuore l’incolumità e la sicurezza dei cittadini non può più aspettare ma deve intervenire concretamente. Abruzzo: Garante per i detenuti. Rita Bernardini "fate fuori il mio nome ma votate" di Elisabetta Di Carlo certastampa.it, 23 febbraio 2016 "Decidete di far fuori il mio nome? Bene. Votate chi avete deciso, però credo che serietà (e non giochetti partitocratici) voglia che la questione si definisca: stiamo privando migliaia di persone di diritti umani fondamentali". Così Rita Bernardini, candidata radicale alla nomina di Garante dei detenuti abruzzesi, si è rivolta al Consiglio regionale nel corso di una riunione organizzata da Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi. "So che il 23 è all’ordine del giorno per l’ennesima volta questo argomento. Votino un garante per l’Abruzzo: questo è ciò che m’interessa. Del resto, non sono stata io a propormi, è stato il presidente D’Alfonso a fare il mio nome con largo anticipo per dare seguito ad una legge vergognosamente congelata nei cassetti da anni. Con Marco Pannella, trovai la proposta appassionante e presentai la mia candidatura. L’Abruzzo è la regione di Marco e sarei davvero onorata (lo farei con lo scrupolo radicale di una vita) di essere la Garante delle persone private della libertà in Abruzzo. Ma il 23 dovete decidere", ha dichiarato l’on. Bernardini. "Sarebbe umiliante per la democrazia abruzzese se il Consiglio Regionale producesse ancora una volta una fumata nera". "Se ci fosse stato un garante non si sarebbe arrivati al commissariamento della Regione sulle Rems. Anche questo è un tema di cui si deve occupare il Garante: riguarda tutte le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. L’ambito d’applicazione della legge è molto ampio", ha spiegato l’avv. Vincenzo Di Nanna, segretario di Agl Abruzzi. Alla riunione erano presenti, oltre al segretario e a numerosi iscritti dell’associazione, Nazzareno Guarnieri, presidente della Fondazione Romani, Giandonato Morra, coordinatore regionale di Fratelli d’Italia, che si è iscritto ad Agl Abruzzi, il consigliere regionale Leandro Bracco (Gruppo Misto), intervenuto telefonicamente a sostegno della candidatura, e il consigliere regionale Luciano Monticelli (Pd), il quale ha assicurato: "Noi sosteniamo la candidatura di Rita Bernardini, perché nessuno può metterne in discussione le competenze e le capacità, e non abbiamo problemi a votarla". Umbria: nelle carceri di Orvieto e di Spoleto il progetto dell’Associazione Notai Cattolici concaternanaoggi.it, 23 febbraio 2016 Nella Casa di Reclusione di Spoleto il 25 febbraio alle ore 9,00 sarà firmata la convenzione per la consulenza gratuita ai detenuti del carcere di Orvieto e della casa di reclusione di Spoleto. A firmare la convenzione ci saranno il Dott. Luca Sardella, direttore di entrambi le carceri ed il Notaio Roberto Dante Cogliandro, Presidente dell’Ainc - Associazione Italiana Notai Cattolici, che ha la sua sede legale presso l’Istituto Serafico di Assisi. Nello spirito della tutela della dignità umana l’Ainc ha concepito un ampio progetto di assistenza volontaria e gratuita a tutti i detenuti delle carceri italiane. Il progetto è già partito nella città di Pescara e Perugia. La Casa di reclusione di Spoleto è un carcere ideato e realizzato per i detenuti a regime di alta e media sicurezza. Al suo interno troviamo cinque diversi circuiti penitenziari (AS3, AS, MS, Protetti e 41bis. Saranno necessarie pertanto tappe di verifica per realizzare il progetto nella maniera migliore. L’Ainc metterà al servizio della comunità penitenziaria i propri notai associati per un’attività di consulenza alle persone meno abbienti e/o in stato di difficoltà. Il progetto pilota partito da Perugia sarà presto attivato in tutte le regioni d’Italia grazie alla determinazione ed alla presenza capillare dei notai dell’Ainc. Con tale progetto - afferma il presidente dell’associazione, Notaio Roberto Dante Cogliandro - l’Ainc mette al servizio dei cittadini meno abbienti la professionalità e la competenza dei notai, pronti a fornir loro assistenza giuridica in supporto al progetto di ri-educazione e recupero attuato dal carcere. Puglia: carceri, l’Assessorato al Welfare presenta lo spettacolo "Oltre le sbarre" Dire, 23 febbraio 2016 Parte il 26 febbraio "Oltre le sbarre-spettacolo dal vivo in carcere", iniziativa promossa dall’Assessorato al Welfare della Regione Puglia a favore di alcune tra le fasce più fragili della popolazione attraverso l’utilizzo dei linguaggi teatrali, coreutici e musicali. Spettacolo come strumento di inclusione sociale all’interno di tre tra i principali istituti penitenziali pugliesi, Bari, Lecce e Trani. Attuatore il Teatro Pubblico Pugliese, "Oltre le Sbarre" prevede la programmazione di tre concerti tenuti dall’Orchestra popolare La Notte della Tarantanei tre istituti carcerari a cominciare da venerdì 26 febbraio. L’orchestra eseguirà i brani della tradizione popolare salentina proponendo un medley di arrangiamenti dei maestri concertatori che si sono alternati sul palco di Melpignano nel corso degli anni. L’iniziativa sarà presentata giovedì 25 febbraio, alle ore 11.00, nella Sala Stampa Presidenza della Regione Puglia (lungomare Nazario Sauro 33 - II piano - Bari). Parteciperanno Salvatore Negro, assessore al Welfare - Politiche di Benessere sociale e Pari Opportunità, Programmazione sociale ed integrazione socio-sanitaria; Massimo Manera, Presidente Fondazione La Notte della Taranta; Paolo Ponzio, vice Presidente Teatro Pubblico Pugliese; Giuseppe Martone, dirigente generale del Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria. Brescia: Fp-Cgil "nel carcere di Canton Mombello una situazione aberrante" quibrescia.it, 23 febbraio 2016 Una situazione davvero critica, al limite della sopportazione. Lo scorso venerdì 19 febbraio, presso la Camera del Lavoro di Brescia, si è tenuta l’assemblea con il personale del carcere di Canton Mombello. Considerato il particolare momento di disagio e di grave criticità, altre figure Istituzionali e del terzo settore che si occupano delle problematiche relative al carcere hanno preso parte all’incontro: Alfredo Bazoli, membro della Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati; Gianantonio Girelli, membro della Commissione speciale delle carceri della Regione Lombardia; la Garante dei detenuti del Comune di Brescia, Luisa Ravagnani; il Presidente dell’Associazione Carcere e Territorio, Criminologo Carlo Alberto Romano. I lavoratori della Polizia Penitenziaria hanno denunciato una situazione di grave criticità: in particolare sono state evidenziate da diversi interventi le difficili condizioni lavorative, organizzative e gestionali, aggravate dalla difficoltà nelle relazioni con la direzione; nonché le croniche carenze strutturali del carcere di Brescia. I vari disordini occorsi negli ultimi mesi, risse tra detenuti che hanno visto anche decine e decine di ristretti coinvolti e vari eventi critici, hanno messo a repentaglio la sicurezza dei poliziotti, nonché dei detenuti stessi, se non anche dell’intera struttura. "Diverse sono le ragioni", spiega Calogero Lopresti, coordinatore Regionale Fp Cgil Lombardia: "Il sovraffollamento (circa 350 detenuti sui 206 previsti) l’attuazione della vigilanza dinamica che in questa struttura su quattro piani comporta l’andirivieni continuo degli agenti; la mancanza di nuove tecnologie di sorveglianza come, appunto, la video sorveglianza e l’automazione dei cancelli; il venir meno del principio normativo che prevede la conoscenza della personalità dei ristretti da parte degli agenti; la mancanza dei box agenti all’interno delle sezioni detentive che garantirebbe una gestione più sicura ed efficiente". "Quanto esposto dai lavoratori in assemblea", prosegue il testo del sindacalista, "ha evidenziato una situazione deleteria ed aberrante che ha anche rilievo sulla salute psicofisica dei lavoratori a tal punto che influiscono negativamente persino sulla vita privata e familiare. Questo forte stress comporta un elevato numero di assenze, che dovrebbe portare ad una seria riflessione a chi è deputato alla gestione della struttura penitenziaria. Spiace inoltre constatare che manca, inoltre, quello spirito costruttivo che potrebbe, con una maggiore attenzione, al dialogo e al rispetto reciproco tra i vertici e la base, portare a qualche miglioramento nella vita lavorativa concreta. Praticamente siamo dinanzi ad una situazione disastrosa ed esplosiva a cui si dovrà porre rimedio tramite interventi mirati e risolutivi". I lavoratori hanno proposto una serie di accorgimenti concreti che potrebbero migliorare la situazione: "Box ai piani, telecamere di videosorveglianza e cancelli automatici, aumento del personale anche educativo e amministrativo. Ad oggi lavorano solo due educatori per circa 350 detenuti, mancano anche ragionieri e amministrativi costringendo l’Amministrazione a reperire tali risorse tra i poliziotti penitenziari, quindi, depauperando il personale addetto ai servizi istituzionali. Hanno inoltre chiesto maggior rispetto dei lavoratori, dei loro diritti e della loro sicurezza, con l’applicazione delle regole cogenti. averso lo strumento della mediazione fra i lavoratori e la direzione. Ha inoltre evidenziato come, a riprova della difficile situazione, nella Casa Circondariale sono pochissimi i detenuti immessi al lavoro esterno - ex art. 21 O.P. - a differenza della casa di reclusione di Verziano. Bari: a Loseto apre una "Casa" per i detenuti in permesso premio di Grazia Rizzi baritoday.it, 23 febbraio 2016 "Uno spazio per proteggere i legami familiari" La struttura, che comprende anche un "Centro di sostegno alla genitorialità", sarà ospitata negli spazi della parrocchia San Giorgio Martire. Un progetto che vede il coinvolgimento di più realtà del territorio, nato da una riflessione sul tema dell’affettività familiare e genitoriale di chi vive la difficile esperienza del carcere. Uno spazio accogliente, dove i detenuti in permesso premio potranno incontrare i propri familiari e trascorrervi del tempo, ma anche un luogo di ascolto, in cui trovare sostegno per fortificare quei legami tra genitori e figli inevitabilmente frammentati e resi più precari dall’esperienza del carcere. Nasce con questo duplice intento "Casa Freedom", la struttura che il prossimo 19 marzo sarà inaugurata a Loseto, negli spazi della parrocchia ‘San Giorgio Martirè, insieme al Centro sostegno alla genitorialità Don Tonino Bello. Un progetto frutto di un lavoro di rete, partito più di un anno fa, con una riflessione sui temi della genitorialità in carcere e degli affetti dei detenuti, avviata dal Servizio di Pastorale Carceraria dei Frati Minori di Puglia e Molise insieme alla Caritas Diocesana, alla Cooperativa Maieutica, e all’associazione Famiglia per tutti. Un percorso che si è sviluppato nel tempo, con il coinvolgimento del Garante dei detenuti e dei minori, dell’assessorato al Welfare del Comune di Bari, della Città metropolitana e della comunità parrocchiale del ‘Salvatorè e di ‘San Giorgio Martirè di Loseto. "Ci siamo chiesti come rendere possibile questa utopia: cioè come far sì che i detenuti potessero riacquistare quelli che sono gli affetti genitoriali, i legami con i loro figli, al di là delle sbarre e delle mura di un carcere", spiega Fra Mimmo Scardigno, referente del Servizio di Pastorale Carceraria Frati Minori di Puglia e Molise. Da qui l’idea di realizzare non sono un alloggio, ma anche un ‘Centro di sostegno alla genitorialità’, per offrire ascolto e supporto ai detenuti e alle loro famiglie, e la scelta di intitolarlo a Don Tonino Bello, "perché ci siamo ispirati alla sua figura", perché anche questa è "un’opera che va a sostegno della povertà". E così, l’estate scorsa, il progetto di Casa Freedom ha trovato materialmente la sua dimora, negli spazi della parrocchia San Giorgio Martire di Loseto. "Per la nostra comunità - spiega il parroco Don Lino Modesto - si è trattato del punto di arrivo di un percorso partito da lontano, di una riflessione sviluppata da anni, su come poter dare un segno di attenzione concreto nei confronti dell’uomo più povero, in difficoltà. Avendo a disposizione questa casa canonica, già in passato utilizzata per accogliere persone che ne avevano bisogno, abbiamo pensato di aderire a questo progetto". Un progetto che la comunità ha sostenuto con una vera e propria gara di solidarietà e generosità, donando il necessario per allestire l’alloggio, ma anche raccogliendo fondi per supportare le spese. Un segnale importante, quella della nascita di Casa Freedom, che nella sua semplicità tanto dice di quelle periferie troppo spesso dimenticate. "Bisogna liberarsi di certe idee, di certi schemi - commenta Don Lino - per cui periferia è uguale a degrado. Anche la periferia è in grado di generare culture di sostegno, di solidarietà, di attenzione e di vicinanza al prossimo". Pesaro: delegazione del Consiglio Regionale in visita al carcere di Villa Fastiggi Ansa, 23 febbraio 2016 Problemi sovraffollamento e implementazione servizi sanitari. Ultima visita nell’ambito delle iniziative organizzate per avere un quadro preciso della situazione carceraria marchigiana. In delegazione, presso la casa circondariale di Villa Fastiggi, con l’Ombudsman Andrea Nobili, il vice presidente dell’Assemblea legislativa Claudio Minardi e i consiglieri Piergiorgio Fabbri, Romina Pergolesi (M5s) e Boris Rapa (Uniti per le Marche). La struttura pesarese è stata aperta nel marzo 1989, con una sezione femminile. In base ai dati raccolti attraverso il questionario dell’Ombudsman, attualmente i detenuti presenti sono 224 (di cui 12 donne), su una capienza regolamentare di 153. Gli agenti di polizia penitenziaria attivi sono 151 (in pianta organica 193, assegnati 169) ed in servizio si registrano 5 educatori (in pianta organica 7, assegnati 6). Previsti diversi corsi scolastici e formativi. "Si registra un oggettivo problema di sovraffollamento - ha sottolineato Minardi al termine della visita - che va sicuramente affrontato e risolto, perché sono da evitare concentrazioni così elevate". L’Ombudsman farà pervenire un’informativa al Ministero della Giustizia perché siano posti in essere tutti gli interventi necessari per risolvere la situazione. Altro problema segnalato da Minardi, è quello del servizio sanitario che va implementato: "con Nobili abbiamo chiesto che ci venga fornita una relazione dettagliata sulle necessità che vengono ravvisate. Ad un primo esame è stata posta l’esigenza di alcuni ambulatori specialistici, come quelli di ortopedia e ginecologia, considerato che l’istituto ospita anche una sezione femminile. Va preso in considerazione anche un aumento complessivo dell’orario legato alle prestazioni sanitarie più generali". L’attenzione di Minardi è rivolta anche al rifinanziamento della legge regionale di settore "per fornire sostegno a tutte quelle attività sociali, che costituiscono una prima base concreta per il reinserimento dei detenuti nella società". Evidenziati alcuni problemi strutturali, con evidenti segni di degrado all’esterno dell’istituto. Parma: le parole di Carofiglio in un laboratorio socio-narrativo per studenti e detenuti di Raffaele Castagno La Repubblica, 23 febbraio 2016 Lo scrittore all’università per il laboratorio socio-narrativo che ha coinvolto studenti e detenuti. Bocciati i 5 Stelle: "Parlamentare non può passare da lotteria on-line". Esistono 26 anagrammi per l’espressione "la verità". Tre in particolare colpiscono: "evitarla", "rivelata", "relativa". Secondo Gianrico Carofiglio "per una verità condivisa è fondamentale una libera discussione, che si ha solo se vi è un uso responsabile delle parole". Eppure la ricerca di quelle esatte "è faticosa". È iniziato con un gioco linguistico, che probabilmente sarebbe piaciuto a Umberto Eco, l’intervento dello scrittore nell’aula dei Filosofi dell’università di Parma, per il laboratorio "La manomissione della parole", promosso dall’ateneo, insieme alla cooperativa Sirio e al carcere di Parma, coinvolgendo studenti e detenuti. La riflessione dell’autore, che ha dialogato con il direttore di Repubblica Parma Antonio Mascolo, ha toccato la politica, regalando una sonora bocciatura al Movimento 5 Stelle, seppur non citato esplicitamente: "Un parlamentare non può passare da una lotteria on-line". "Ho letto all’inizio del libro di Carofiglio che manomissione deriva dalla liberazione degli schiavi" ha scritto uno dei detenuti che ha incontrato lo scrittore nel penitenziario di via Burla. Libertà - sembra più che suggerire l’ex magistrato - dalle catene del linguaggio oscuro, astruso, che produce incubi linguistici inespugnabili a ogni tentativo di comprensione. Una sorta di "neo lingua" orwelliana che è quella del potere: politico, giudiziario, burocratico che sia. "Scrivere in modo lungo e confuso - ha detto - usare parole inappropriate, è comodo, più facile. La precisione costa fatica, ma è un imperativo etico. Parlare in modo onesto e preciso è l’essenza della democrazia. Quando in uno Stato le parole perdono significato e la popolazione non capisce i governanti, si perde fiducia". Un’istanza di senso e significato stringente, perché ci sono parole "che hanno perso la capacità di restituire la condizione umana, come carcere e Mediterraneo" ha osservato Vincenza Pellegrino, sociologa dell’università di Parma. Una rivendicazione fatta propria dal rettore Loris Borghi nel suo saluto: "Quando si scrive e si parla bisogna farlo chiaramente. Altrimenti va a repentaglio la democrazia". Confusione e imbarbarimento della lingua che si traducono nella crisi della politica. Carofiglio: "Il continuo vituperio contro i partiti è un grave scadimento della vita democratica. La società, così, non può che fallire." Pare senza appello la bocciatura del modello rappresentato dai 5 Stelle, seppur mai citati: "Il parlamentare non può passare da una lotteria on-line regolata da regole incerte". Una politica, che nell’analisi di Carofiglio, non è tanto marketing pubblicitario, che considera i cittadini come puri consumatori, ma come elettori che si possono controllare con le metafore: "Possono funzionare come uno strumento per trasformare i valori in entità narrative comprensibili o, purtroppo, per manipolare il destinatario". Lo esemplifica citando quelle del ventennio berlusconiano, a cominciare dalla prima: "la discesa in campo", tecnicamente di successo, ma dipinta come priva di "dimensione etica". "Con parole precise. Breviario di scrittura civile" è, secondo Mascolo, "uno spietato reportage del Paese". Un libro che pare esortare a recuperare l’alfabeto di una lingua civile, più che necessaria nell’era dei social network. Perché, come aveva intuito Eco, "il web - ha scritto Ezio Mauro - è un ritorno dalla civiltà della immagini all’era alfabetica, alla galassia di Gutenberg". Roma: ex-detenuto porta a Papa Francesco il "formaggio del perdono" di Simona Mulazzani newsrimini.it, 23 febbraio 2016 Sarà Antonello, casaro, ex-detenuto che ha svolto un percorso alternativo al carcere nella comunità Papa Giovanni a donare, mercoledì, al Papa una caciotta del "formaggio del perdono". L’incontro tra Francesco e Antonello avverrà al termine dell’Udienza generale in Piazza San Pietro, alla quale parteciperanno circa 200 tra detenuti e volontari della Comunità fondata da don Benzi impegnati nel recupero di chi ha commesso reati. "È un formaggio buono prodotto da persone che hanno fatto del male. Significa che chi ha compiuto del male può fare qualcosa di buono, del bene", spiega Giorgio Pieri, responsabile del progetto CEC, Comunità educante con i carcerati. Su questa convinzione si basa il percorso rieducativo, che coinvolge oltre 250 detenuti, messo a punto dalla Comunità Papa Giovanni XXIII. Ad accompagnare Antonello e Giorgio nell’incontro con Papa Francesco ci sarà Mons. Francesco Lambiasi, vescovo di Rimini, promotore, assieme alla Comunità, dell’"Università del perdono" giunta al quarto anno di attività per promuovere la cultura del perdono. "La misericordia indicata da Papa Francesco per il giubileo straordinario non è solo la via più giusta ma anche la più efficace - spiega Giorgio Pieri. Il 75% di chi va in carcere, quando esce torna a commettere reati, mentre tra chi svolge il nostro percorso educativo la recidiva si abbassa al 10%. La vera sicurezza non è data da una giustizia vendicativa ma da una giustizia rieducativa che passa attraverso percorsi di recupero, perché un uomo recuperato non è più pericoloso; contiamo che il Papa possa riconoscere queste realtà come segni di una nuova umanità". Roma: gara di retorica Regina Coeli - Tor Vergata, detenuti contro studenti universitari Ansa, 23 febbraio 2016 Il 5 marzo sfida tra Regina Coeli e Tor Vergata. Duello di retorica tra detenuti e studenti. L’iniziativa, in calendario per il 5 marzo nel carcere romano di Regina Coeli, è organizzata da PerLaRe, Associazione Per La Retorica, insieme alla Crui, Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, alla Casa Circondariale di Roma Regina Coeli e all’Università di Tor Vergata. Il confronto dialettico ha l’obiettivo di premiare la squadra che è maggiormente in grado di difendere la propria tesi con argomentazioni credibili, senza perdere la calma, sbraitare o insultare. Un sofisticato esercizio di auto-controllo e di civiltà, che consiste nell’affermare le proprie ragioni solo con lo strumento pacifico della parola. Le due squadre sono chiamate a sostenere posizioni opposte che riguardano uno stesso argomento di attualità. La gara si svolgerà in due round di 20 minuti ciascuno. Allo scadere del round le posizioni da sostenere si invertono. Il tema del dibattito verterà sui confini della legittima difesa. Sia i detenuti sia gli studenti verranno preparati allo "scontro" da PerLaRe. Le due squadre sceglieranno i loro portavoce, che li rappresenteranno nel dibattito del 5 marzo. Una giuria - composta da un linguista, un attore, due giornalisti, un avvocato - decreterà la squadra vincitrice. La giuria non premierà il talento innato, ma la capacità di impegnarsi. L’iniziativa ha un precedente. Il Bard college di New York ha avviato un programma di riabilitazione nei penitenziari, che prevede la realizzazione di gare di retorica. Nel settembre 2015, i detenuti del carcere Eastern Correctional Facility di New York si sono confrontati con gli studenti di Harvard, sconfiggendoli in un duello basato solo sulla forza delle argomentazioni. Le gare di retorica hanno l’obiettivo di preparare i partecipanti ad affrontare la vita e il lavoro, contesti in cui è inevitabile confrontarsi con opinioni diverse. E, in queste occasioni, saper usare lo strumento della parola può fare la differenza. Napoli: "La lettura libera" a Poggioreale, con De Giovanni e Ciambriello Agenparl, 23 febbraio 2016 Si è tenuto oggi presso il carcere di Poggioreale l’incontro conclusivo dell’iniziativa "La lettura libera", promossa dall’associazione "La Mansarda". Il progetto che prevede la lettura totale di sei libri ha visto il coinvolgimento di quaranta detenuti dei padiglioni Livorno, Firenze ed Avellino. In questa occasione si sono confrontati con gli autori dei primi due libri: "Il resto della settimana" di Maurizio De Giovanni (editore Rizzoli) e "In Co Del Ponte presso a Benevento" (EdiMedia editore) scritto, tra gli altri, da Bruno Menna. Presenti anche l’editore di EdiMedia Danila De Lucia, il direttore del carcere Antonio Fullone e Samuele Ciambriello, coautore di quest’ultimo libro e presidente dell’associazione "La Mansarda". "Queste iniziative -dichiara Ciambriello- riducono le distanze tra le persone e le stesse disuguaglianze". In apertura della tavola rotonda, Ciambriello ha sottolineato la necessità di garantire una continuità formativa ed educativa, e parafrasando Don Lorenzo Milani ha ricordato che la cultura è l’ottavo sacramento, e la stessa è una manifestazione di libertà e dignità. Il Direttore del carcere Antonio Fullone, nel ringraziare l’associazione "La Mansarda" per le diverse iniziative di cui si è fatta promotrice all’interno del penitenziario, a proposito di questo progetto ha dichiarato che "la lettura è una leva importante per cambiare la vita e avere un’occasione di ripensamento, non c’è atto più intimo che leggere un libro". Maurizio De Giovanni ha risposto alle domande e alle curiosità dei detenuti che hanno letto il suo libro: "Ringrazio l’amico Samuele Ciambriello di avermi dato la possibilità di incontrare e confrontarmi con "lettori insoliti" su un tema, quello del calcio, che accumuna diverse categorie sociali e che consente l’incontro tra i sentimenti individuali e collettivi. Il calcio si configura sempre più come un microcosmo nel macrocosmo in cui le differenze tra una categoria sociale e l’altra si annullano". Nelle settimane che seguiranno ai detenuti saranno distribuiti i libri "Anche gli angeli mentono" di Giacomo Cavalcanti (Guida editore) e "Rapido 904, la strage dimenticata" di Giuliana Covella (Graus Editore). A gennaio sono diminuiti i migranti sbarcati in Italia e Grecia, ma non i morti in mare Redattore Sociale, 23 febbraio 2016 Secondo l’agenzia Frontex, il mese scorso sono diminuiti di almeno il 40% gli arrivi sia sulle isole elleniche che lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Un calo dovuto soprattutto al maltempo, che ha provocato anche un maggiore numero di incidenti mortali nell’Egeo. Più delle politiche europee ha potuto il maltempo: cala, e di parecchio, il numero dei migranti in arrivo in Europa a gennaio 2016. Un crollo dovuto soprattutto alle pessime condizioni meteorologiche intorno alle isole dell’Egeo nelle ultime settimane. Sono i dati dell’agenzia Frontex. Il mese scorso, in Grecia sono sbarcati 68 mila migranti, con un calo del 40% rispetto a dicembre 2015, quando i nuovi arrivi erano stati 108 mila (cifra già in calo rispetto ai 155 mila sbarchi di novembre). Nonostante il calo, i dati di gennaio 2016 rimangono comunque 38 volte più alti rispetto a quelli dello stesso periodo del 2015. Le cattive condizioni meteo, nello stesso periodo, hanno portato anche ad un aumento degli incidenti mortali nel tratto di mare che separa la Turchia dalla Grecia. Tra quelli che sono riusciti ad arrivare sulle coste elleniche, i più numerosi sono stati siriani, afghani e iracheni. Cala il numero degli arrivi anche lungo la rotta del Mediterraneo centrale, quella che porta all’Italia. A gennaio sono stati registrati 5.600 arrivi: anche in questo caso una riduzione consistente (del 42%) rispetto ai 9.700 sbarchi di dicembre 2015. In confronto a un anno fa, è comunque arrivato il 55% di profughi in più. Quelli giunti sulle coste italiane sono stati in maggioranza nigeriani. Una diminuzione, più moderata, si registra a gennaio anche nel numero di migranti individuati mentre tentavano di attraversare illegalmente i confini di uno Stato lungo la rotta dei Balcani occidentali. Lo scorso mese ne sono stati fermati in tutto 65.300, contro i 97mila di dicembre 2015. Lungo questa rotta continua a registrarsi una profonda trasformazione nella tipologia di migranti: se un anno fa la maggioranza di chi percorreva questa rotta era originario della regione, in particolare del Kosovo, negli ultimi mesi i migranti individuati lungo questa rotta sono in grande maggioranza sbarcati in Grecia e hanno attraversato la Macedonia, rientrando poi nell’Ue attraverso la Croazia. Fuoco e fiamme contro i profughi nel "Far East" tedesco di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 23 febbraio 2016 Germania. Cresce il clima di odio xenofobo: bus e rifugio presi d’assalto. A Bautzen la folla plaude e impedisce l’accesso ai soccorsi. L’agente che maltratta un minore libanese in Sassonia diventa caso politico. Polizia sotto accusa anche per non aver impedito l’attacco di Bautzen Un autobus di rifugiati preso d’assalto da cento persone e un albergo destinato ai profughi bruciato, fra le grida di gioia della folla e il blocco dei soccorsi. Succede in Sassonia, far east della Germania e bunker dei populisti di destra in guerra contro i rifugiati. E accade, ancora una volta, sotto gli occhi delle forze dell’ordine incapaci di sradicare il mob che terrorizza gli immigrati nel Land più nero del Paese. Due fatti distinti egualmente sintomatici del clima di odio che appesta la Bundesrepublik, un’altra coppia di puntini sulla mappa delle aggressioni razziste ai profughi che nel 2015 ha superato quota 1.600. Segnali inequivocabili della metastasi del "malessere" di un Volk sempre più violento e organizzato, per niente intimorito dalla "tolleranza-zero" sulla xenofobia perseguita, a parole, dal governo federale. "Chi ha tentato di bloccare i pompieri è un criminale" scandisce Stanislaw Tillich (Cdu), primo ministro della Sassonia e rappresentante della comunità soraba, gli slavi tedeschi. Ha appena finito di leggere il rapporto-choc della polizia sull’incendio del rifugio per i profughi a Bautzen, 40.500 abitanti nella lingua di confine con Polonia e Repubblica Ceca: cronaca nera sotto tutti i punti di vista. "Attorno al rogo si è riunito un gruppo di persone, soprattutto giovani e alcolizzati, che osservavano divertiti l’accaduto. È in corso un’inchiesta su chi ha tentato di bloccare lo spegnimento dell’incendio dei vigili del fuoco. L’albergo era vuoto, per fortuna non ci sono feriti" riassume la relazione. Fa il paio con l’autobus di rifugiati assaltato il 19 febbraio a Clausnitz, sempre in Sassonia, immortalato da immagini che hanno fatto il giro sui social-network: bambini, donne, uomini in lacrime insultati da decine di "dimostranti" che gridano "Fuori dai coglioni" e li costringono a scendere, terrorizzati, dal mezzo. Una scena raccapricciante, "insopportabile" secondo il ministro degli interni della Sassonia Markus Ulbig e tutt’altro che imprevedibile. La struttura data alle fiamme a Bautzen avrebbe dovuto aprire i battenti a marzo secondo un piano deciso da mesi, confermano gli amministratori locali, mentre l’assalto ai 20 migranti nel bus sarebbe già al centro di un’indagine interna per capire perché il cordone di 30 poliziotti a protezione del convoglio non ha impedito l’assalto. Anzi. In Rete spunta il video che riprende un agente impegnato a far scendere con la forza dal bus un ragazzo libanese di 14 anni, che scoppia a piangere. Così scattano le denunce ai massimi livelli: il leader dei Verdi in Sassonia Jürgen Kasek deposita un esposto contro la polizia mentre il deputato della Linke al Landtag Rico Gebhardt accende i riflettori sui problemi "cronici" delle forze dell’ordine nella regione più esposta alla violenza contro gli stranieri. La più dura è Nadia Khalaf, delegata Spd, che parla apertamente di "violazione della convenzione sui diritti del fanciullo". Misure ben diverse da quelle applicate ai militanti di Pegida che continuano a ottenere piena agibilità nei "comizi dell’odio" a Dresda, e maniere forti mai utilizzate contro "chi aggredisce migranti, incendia le auto di politici e attacca i giornalisti" ricorda l’informazione non solo progressista. Mentre a Bautzen, capitale della Sorabia, i residenti non riescono a scrollarsi di dosso la "Gelbes Elend" (miseria gialla) ereditata dalla Ddr. Ai tempi della Stasi era il centro delle prigioni politiche del regime di Honecker, oggi l’avamposto del fronte nero che si oppone con tutti i mezzi alla Wilkommenkultur di Angela Merkel. Nella "Giungla" di Calais, in attesa della nuova evacuazione di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 23 febbraio 2016 Appello delle associazioni per evitare lo sgombero, senza proporre vere soluzioni di vita ai rifugiati. 440 minorenni isolati, che la Gran Bretagna non vuole. In queste ore, Calais vive momenti di angoscia e di attesa. Il prefetto, Fabienne Buccio, ha annunciato che i migranti dovranno aver evacuato la zona sud della "giungla" entro stasera alle ore 20. Ha promesso che "la forza pubblica non sarà in azione, se tutti rispettano i termini". Mercoledì dovrebbero intervenire i bulldozer e distruggere l’accampamento, che nel corso degli ultimi mesi si è trasformato in un luogo di vita, sempre orribilmente precario, ma con 1600 capanne costruite da Médecins sans frontières, dal Sécours catholique e dall’associazione l’Auberge des migrants. C’è anche una scuola, una biblioteca, dei luoghi di culto, dei punti di incontro e c’è l’intervento quotidiano delle associazioni. Il ministro degli Interni, Bernard Cazeneuve, afferma che il governo vuole realizzare "un’operazione umanitaria, dove proponiamo una soluzione a tutti", per liberare i migranti dalle grinfie delle mafie dei passeurs, offrendo sistemazioni meno indecenti. Ma i conti non tornano e Calais è di nuovo di fronte a un’equazione impossibile da risolvere: il governo cede di fronte all’esasperazione della popolazione, che alle ultime regionali ha votato sempre più a destra (ultimamente, un abitante ha persino minacciato dei rifugiati con un fucile e sarà difeso dall’avvocato Gilbert Collard, parlamentare del gruppo Bleu Marine). La sindaca di Calais, Natacha Bouchart, continua a chiedere l’intervento dell’esercito. I camionisti denunciano l’assalto alla diligenza da parte di persone disperate, che cercano di salire sui camion per passare la Manica e temono di dover pagare multe salate se qualcuno si è nascosto nel veicolo. La zona dell’Eurotunnel è ormai protetta da barriere, fili spinati, video di controllo, cani poliziotto. Le associazioni, che non difendono certo il bidonville ma chiedono più tempo per trovare soluzioni praticabili, si sono rivolte al tribunale amministrativo di Lille, accusando l’operazione di sgombero prevista per mercoledì di "violazione dei diritti fondamentali": la sentenza è attesa per oggi, e potrebbe sospendere l’evacuazione forzata. 250 artisti e intellettuali hanno firmato una nuova petizione, per denunciare la decisione di evacuazione del governo, che "vuole convincere che è un bene per gli occupanti: in realtà, una politica di dissuasione", che "rende la vita impossibile ai rifugiati". Per i firmatari, "i bulldozer non possono sostituirsi alla politica", "rifiutiamo di ridurre la Francia a dei fili spinati". Il governo propone la sistemazione di parte degli evacuati nei containers di un centro di accoglienza provvisorio insediato di recente a Calais. Circa la metà sono ancora vuoti. I containers sono certo più confortevoli delle capanne improvvisate (anche se non si può fare cucina all’interno). Ma i migranti sono diffidenti, perché l’apertura delle porte dei containers avviene con il riconoscimento palmare, cosa che presuppone di essere schedati e di chiedere l’asilo in Francia. Inoltre, per il prefetto ci sarebbero 800-1000 persone da sistemare, ma le associazioni contestano questa cifra e hanno recensito negli ultimi giorni 3455 persone che vivono ormai nella zona sud della "giungla". Tra cui 440 minorenni isolati, per i quali non sembra sia stata prevista nessuna soluzione sul posto. I migranti sono a Calais per un solo motivo: cercare di passare in Gran Bretagna, con qualsiasi mezzo. Per questo molti rifiutano di chiedere l’asilo in Francia. Molti minorenni hanno la famiglia dall’altra parte della Manica, ma la Gran Bretagna non vuol sentir parlare di ricongiungimento famigliare. Nel week end c’è stata una manifestazione a Calais, con la partecipazione di alcune personalità britanniche (tra cui l’attore Jude Law), hanno chiesto a Cameron di reagire. Nessuna risposta dal premier britannico, che pure utilizza lo spauracchio di Calais che si sposterebbe a Dover, per convincere gli elettori a evitare il Brexit (in realtà, il confine britannico è a Calais grazie agli accordi bilaterali del Touquet, conclusi tra Parigi e Londra nel 2003, che non rientrano nei trattati Ue, ma la Francia minaccia di denunciarli se la Gran Bretagna decide di uscire dalla Ue). Negli ultimi tempi, dei migranti sono stati sistemati in comuni francesi lontani da Calais. Ma poi molti sono tornati sul posto, sempre con la speranza di riuscire ad entrare in Gran Bretagna. Da poco è stato montato un campo alla Grande Synthe, una collaborazione tra il sindaco écolo (ex socialista) Damien Carême, Médecins sans frontières e altre associazioni, per accogliere entro l’inizio di marzo circa 1800 migranti sui più di 3mila concentrati ormai nella periferia di Dunkerque. Un’altra soluzione provvisoria, ma nel rispetto delle norme dell’Alto commissariato Onu ai rifugiati, mentre in molti, di fronte alle minacce vissute a Calais, adesso cercano rifugio in Belgio, sempre per trovare la strada verso la Gran Bretagna. Il problema si sposta, ma resta lo stesso. L’Europa non trova soluzioni e lascia gonfiare le violenze. La strana guerra all’Isis di Paolo Mieli Corriere della Sera, 23 febbraio 2016 Ci accorgiamo delle libertà in pericolo solo in presenza di atrocità come quelle di Parigi. Per gli intellettuali i problemi veri sono sempre altri: come il clima e la disuguaglianza. Ha dell’incredibile quanto l’Europa, nel tempo che intercorre tra un attentato islamista e quello successivo, sia incapace di essere all’altezza della situazione. Due giorni fa l’Isis ha compiuto stragi a Homs e Damasco provocando almeno centottanta morti e venti giorni prima ne aveva causati una settantina. Ma qui da noi è tempo di relax, al più di tranquille discussioni tra specialisti sulle prospettive militari in Siria o in Libia. L’Europa ama questo genere di pause ristoratrici. "Dziwna wojna", (strano conflitto) fu la definizione che per primi diedero i polacchi del curioso clima sul fronte occidentale dopo che nel settembre del 1939 il loro Paese era stato occupato da tedeschi e sovietici, Francia e Inghilterra avevano dichiarato guerra alla Germania nazista, ma poi fino al maggio del 1940 le armi sulla linea Maginot avevano taciuto. Komischer Kriegfu lo sbeffeggiamento che giunse da Berlino. Finché il giornalista francese Roland Dorgelès, collaboratore del settimanale di estrema destra Gringoire, coniò un’espressione destinata a entrare nei libri di storia: drole de guerre. Una strana guerra, effettivamente: per settimane e settimane nei caffè di Parigi si continuò a fare la vita di sempre e sui giornali se ne discuteva come se la conflagrazione non fosse già avvenuta. Persino al fronte fu come se si trattasse di una messa in scena. Poi nel maggio del ‘40 le truppe hitleriane invasero la Francia che crollò su sé stessa e fu l’inizio di un catastrofico quinquennio che avrebbe prodotto decine di milioni di morti. Ripete Niall Ferguson che ci ricordiamo delle nostre libertà soltanto quando siamo in presenza di atrocità come quelle di Parigi. Poi, dopo qualche mese, "l’oltraggio svanisce e torna l’illusione che si possa convivere tranquillamente con la crescita della popolazione islamica in Europa e che l’islamismo non cresca di pari passo". Sicché diventiamo insensibili ai destini di coloro che, prendendoci in parola, continuano a battersi sul campo. In un’intervista a ridosso della strage del Bataclan, il deputato Pd di origini marocchine Khalid Chaouki disse: "L’integrazione è fallita, il buonismo di una certa sinistra fa il nostro male e ai musulmani servirebbe un Papa come Francesco". Le reazioni furono davvero fuori misura. Davide Piccardo coordinatore del Caim di Milano e Brianza: "Chiunque pensi che Chaouki possa essere un interlocutore politico per la nostra comunità si sbaglia di grosso, preferisco parlare con Salvini". Poi uragano su Internet: "I parassiti come Chaouki sono la malattia dell’umanità", "Se non fosse per i musulmani che si sono dati da fare per fargli prendere qualche voto, adesso sarebbe ai semafori a vendere fiori", "Sfigato e opportunista", "È un kebabbaro e un beduino", "È un cancro". Reazioni fuori misura, dicevamo, che avevano l’evidente obiettivo di zittirlo soprattutto nel suo meritorio intento di svegliare le coscienze islamiche non integraliste. Senza che nessuno, al di là di qualche suo compagno di partito, se ne desse per inteso. E ancora. Kamel Daoud, un importante scrittore algerino, dopo i fatti di Colonia ha scritto un editoriale per Le Monde per denunciare la "miseria sessuale" del mondo arabo musulmano. Sullo stesso giornale è stato pubblicato un appello di una ventina di sociologi, storici e antropologi in cui lo si accusa di "riciclaggio dei più triti cliché orientalisti" e di "islamofobia". L’autore de "Il caso Meursault" ha risposto con una lettera sul Quotidien d’Oran in cui protesta contro coloro che gli "comminano una sentenza di islamofobia dalla sicurezza e dalle comodità delle capitali d’Occidente e dai suoi caffè". E sostiene di considerare immorale che con quel verdetto lo si "offra in pasto all’odio locale". Da questo momento, annuncia, si occuperà di letteratura e abbandonerà il giornalismo. Comprensibile, anche perché con quel genere di accuse non si scherza dalle parti di Orano. Imputare a qualcuno di odiare gli islamici in quanto tali, equivale a condannarlo a morte. Ha scritto Alain Finkielkraut che l’islamofobia è un ricatto: il concetto di islamofobia ricalca quello di antisemitismo, e facendo ciò non aiuta "a capire la specificità della situazione". Peggio: "Questa analogia in nome della lotta contro l’islamofobia, occulta la realtà eclatante dell’antisemitismo islamista". Discorso, quello sul ricatto e le minacciose implicazioni derivate dall’uso del termine "islamofobia", che non vale solo per le discussioni tra intellettuali. Un vicino di casa di Syed Farook e Tashfeen Malik (autori della recente strage di San Bernardino) ha riferito di aver notato, giorni prima, qualcosa di strano nel comportamento dei due, ma di non averlo riferito alla polizia per non passare per "islamofobo discriminazionista". Mentre una parte della discussione pubblica si impantana sull’islamofobia, il resto prende il largo. Giusto il tempo di far sbollire l’ira dei giorni successivi a un attentato ed ecco che riemergono tesi sostanzialmente assolutorie nei confronti dei terroristi islamici. C’è chi si dice preoccupato più che dall’universo islamista "dalla nostra vera religione che è il neoliberismo, il fondamentalismo finanziario" (Hanif Kureishi). Chi denuncia essere il terrorismo "solo uno dei tanti pericoli esistenti al mondo" e suggerisce di "non farci distrarre". In che senso? Nel senso che "il cambiamento climatico è la più grande minaccia che dobbiamo affrontare"; e che, "mentre il terrorismo non può distruggere la nostra civiltà, il riscaldamento globale invece può farlo" (Paul Krugman). Chi dice che "è stata l’austerità a far esplodere gli egoismi nazionali e le tensioni identitarie" e che "solo con uno sviluppo sociale ed equo si potrà sconfiggere l’odio" (Thomas Piketty). Discorsi che, a ogni evidenza, ci allontanano dall’epicentro del fenomeno di cui si sta discutendo. Ai quali, per parte nostra, aggiungiamo un tocco di colore italiano. Con il governatore della Sicilia Rosario Crocetta che si paragona al "moderno principe" di Antonio Gramsci e si propone nel ruolo di mediatore per la crisi libica ("Conosco l’islam, ho letto e studiato il Corano, parlo l’arabo: insomma qualcosa ne so"). Nonché il filosofo Gianni Vattimo il quale ricorda che durante il periodo del khomeinismo più repressivo in Iran, assieme ad altri aveva proposto di "bombardare Teheran con videocassette porno e confezioni di profilattici". E suggerisce per oggi analoghi sforzi di fantasia. Strana guerra, davvero, quella in cui ci diciamo impegnati contro il califfato islamico. Strage di San Bernardino. Bill Gates con l’Fbi "Apple decripti l’iPhone del killer" di Andrea Marinelli Corriere della Sera, 23 febbraio 2016 Il fondatore di Microsoft al Financial Times: Cupertino dovrebbe sbloccare l’iPhone dell’attentatore di San Bernardino. Bill Gates è uscito dai ranghi, compatti, della Silicon Valley. Dopo lo scontro dell’ultima settimana fra Apple e l’Fbi sulla possibilità di sbloccare l’iPhone dell’autore della strage di San Bernardino, in California, in cui il 2 dicembre morirono 14 persone, il fondatore di Microsoft ha affermato che le aziende tecnologiche dovrebbero essere obbligate a cooperare con le forze dell’ordine nelle indagini sul terrorismo. In un colloquio con il Financial Times, l’uomo più ricco del mondo ha reso pubblica la propria posizione nel dibattito, alimentato da due opposte correnti di pensiero: quella che chiede una maggiore sicurezza a scapito della privacy, e quella che, invece, rifiuta l’equazione sorveglianza-sicurezza e teme che il caso possa costituire un precedente pericoloso. Secondo Gates, tuttavia, non sarebbe coì. "Si tratta di un caso specifico, in cui il governo chiede di avere accesso a informazioni. Non stanno facendo una richiesta generale, questa riguarda un caso specifico", ha dichiarato, sostenendo che, come per le banche, chiedere informazioni su un conto non vuol dire avere automaticamente accesso a tutti gli altri. Ovviamente, ha specificato, devono essere stabilite delle regole. Il caso tecnologico più importante del decennio - Finora tutti i principali esponenti del mondo tecnologico - dal fondatore di Facebook Mark Zuckerberg a quello di Twitter Jack Dorsey, fino all’amministratore delegato di Google Sundar Pichai e quello della stessa Microsoft Satya Nadella, che non si era espresso ufficialmente ma aveva lasciato trapelare la sua posizione attraverso un portavoce - si erano schierati con Tim Cook, amministratore delegato di Apple, che si è rifiutato di creare un software che permetta all’Fbi di decriptare il telefono di Syed Farook, come ordinato da un giudice federale. Cook ha definito la richiesta un "esempio spaventoso di superamento dei limiti" da parte del governo americano, che stabilirebbe "un pericoloso precedente in grado di minacciare le libertà civili dei cittadini". Nonostante il direttore dell’Fbi abbia provato a ridurre la portata della richiesta, secondo Edward Snowden, il whistleblower che ha scoperchiato lo scandalo-privacy della Nsa, sarebbe "il più importante caso tecnologico del decennio". Egitto: nessuna verità per Giulio Regeni e la repressione infuria di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 23 febbraio 2016 L’Italia allenta la pressione, il boia no. Solo ieri 116 condannati, tra cui un bimbo di quattro anni (!). Agli arresti lo scrittore Ahmed Naji. Tra i tavoli dei bar del Cairo, mentre fino a qualche giorno fa tutti gli avventori citavano Giulio e la necessità di fare chiarezza, ora il clima è cambiato. "L’Italia non fa la voce grossa", si sente ripetere. In verità, due sono i motivi per cui il pressing del governo Renzi sul presidente al-Sisi non sembra affatto significativo. L’Italia è pronta a sostenere l’Egitto in caso di guerra in Libia. Questo è ormai uno dei punti più delicati della politica estera italiana dopo la formazione di un governo di unità nazionale che non accenna a decollare e i raid Usa su Sabrata. In secondo luogo, gli accordi economici per lo sfruttamento dei giacimenti di gas Eni, a largo di Port Said, sono tra le priorità in politica economica. Ieri il ministero del Petrolio egiziano ha dato il via libera definitivo ad Eni per lo sviluppo di Zohr XI, la storica scoperta dello scorso settembre che cambierà gli equilibri economici nel Mediterraneo orientale. Pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Giulio Regeni era prevista proprio la firma dei contratti attuativi per procedere con i lavori, che dovrebbero chiudersi entro il 2017, tra Eni e autorità egiziane. Tutto questo rende la verità nel caso Regeni più difficile da esigere e nelle mani delle autorità egiziane che hanno tutto l’interesse a depistare e insabbiare il caso. Nei giorni scorsi, gli egiziani erano tornati a protestare proprio sulla scia dell’indignazione per la morte del giovane dottorando italiano. Dopo le richieste di fare chiarezza sulla vicenda, avanzate la scorsa domenica dal premier Renzi, il ministro dell’Interno, Abdel Ghaffar, ha fatto riferimento all’intesa con l’Italia e alla necessità di "arrestare i responsabili". Ma sembra che le autorità egiziane non vogliano collaborare davvero con il team di investigatori italiani (Ros, Sco e Interpol), che si trova ormai da quasi tre settimane al Cairo. Gli inquirenti resteranno ancora, come richiesto anche dalla famiglia del giovane friulano in un’intervista rilasciata nei giorni scorsi. L’Egitto è tornato ad alzare la voce per gli abusi compiuti dalla polizia. Decine di familiari di prigionieri politici e desaparecidos si sono radunati alle porte del Sindacato dei giornalisti per chiedere "processi giusti". Alcuni dei manifestanti tenevano tra le mani le foto dei loro familiari, detenuti nella prigione di al-Aqrab, quasi tutti processati da tribunali militari e condannati a morte. Non solo, i dirigenti del Centro per la riabilitazione delle vittime di Violenza e Tortura (Nadeem) hanno annunciato che resisteranno al provvedimento di chiusura della clinica, disposta direttamente dal governo. Secondo Amnesty International sono 41mila i prigionieri politici in Egitto, circa 1500 i casi di sparizioni denunciate e migliaia le condanne a morte. Solo ieri il Tribunale del Cairo ha condannato a morte 116 persone per gli scontri del 3 gennaio 2014 tra sostenitori dei Fratelli musulmani e polizia che causarono 13 vittime. Tra i condannati a morte figurerebbe anche un bambino di quattro anni che all’epoca dei fatti ne aveva due. Questo dimostra ancora una volta che i giudici procedono a condanne sommarie senza neppure studiare i casi dei condannati o leggere i nomi degli imputati in aula. In una lettera dal carcere, uno dei leader del movimento 6 aprile, Ahmed Maher, ha criticato la repressione che ha impedito migliaia di egiziani di tornare a protestare contro il regime militare lo scorso 25 gennaio. Nel giorno in cui Giulio Regeni è sparito, quinto anniversario dalle rivolte del 2011, non ci sono state significative manifestazioni di piazza. E dopo le proteste dei giornalisti e gli arresti di comici e fumettisti, ieri lo scrittore Ahmed Naji è stato arrestato dopo aver subìto una condanna a due anni di prigione per linguaggio osceno. Le accuse si riferiscono al suo ultimo romanzo Istikhdam al-Hayah (Usando la vita) del 2014. Naji ha respinto le accuse. Secondo lo scrittore, autore di Rogers (2007), i giudici continuano a riferirsi al testo come a un articolo mentre si tratta di uno dei capitoli del suo libro. Anche il caporedattore del quotidiano Akhbar al-Adab, Tarek al-Taher, che lo ha pubblicato, dovrà pagare una multa di 1500 euro. Il sindacato dei giornalisti ha definito la sentenza un attacco all’"immaginazione degli scrittori". Egitto: l’uccisione di Giulio Regeni non è un crimine isolato a cura dell’Arci Il Manifesto, 23 febbraio 2016 L’omicidio di Giulio Regeni è parte di una sistematica campagna tesa a chiudere lo spazio pubblico in Egitto. In una sola stazione di polizia al Cairo i gruppi per i diritti umani hanno documentato 14 casi di morte dopo tortura negli ultimi due anni, con 8 persone assassinate nel 2015. Anche il crimine di sparizione forzata è diventato frequente: le organizzazioni per i diritti che documentano questi casi stimano si sia arrivati a una media di circa tre casi al giorno. Le impressionanti notizie sulle torture e l’omicidio del ricercatore universitario italiano Giulio Regeni hanno prodotto un’inedita attenzione su alcune delle più grandi violazioni dei diritti commesse in Egitto contro cittadini e cittadine egiziani. Tra i commenti espressi in Egitto sul caso Regeni, uno è particolarmente significativo: "Giulio era come noi, ed è stato ucciso come noi". Un altro cittadino europeo, Ibrahim Halawa, che è stato imprigionato in Egitto nell’agosto del 2013 ed è stato vittima di maltrattamenti, ha testimoniato a una organizzazione non governativa per i diritti umani che "alcuni prigionieri erano costretti nudi in una posizione crocifissa nel corridoio della prigione, e altri sono stati sottoposti a scariche di elettricità - venivano usate vasche di acqua per aumentare il dolore". Lettere e testimonianze In una lettera spedita alla sua famiglia ha scritto: "Questo è un luogo dove si sperimentano torture.… Le parole non riusciranno mai a rendere giustizia di quello che succede nelle carceri egiziane". Autorevoli organizzazioni sociali per i diritti umani hanno confermato innumerevoli casi di detenuti sottoposti a torture, a maltrattamenti e ad abusi sessuali, come descritto da Halava. Ciò avviene per estorcere confessioni e informazioni, ma anche nel contesto di pratiche punitive sistematiche, rivolte non solo contro i prigionieri politici ma anche contro ogni sorta di detenuti. Secondo un comunicato congiunto di quindici gruppi egiziani per i diritti umani, nel corso del solo novembre 2015 sono stati registrati 49 casi di tortura, inclusi 9 casi di morte durante la detenzione. In una sola stazione di polizia nel distretto Matareya del Cairo i gruppi per i diritti umani hanno documentato 14 casi di morte in conseguenza di tortura negli ultimi due anni, con 8 persone assassinate solo nel 2015. Nel 2015, anche il crimine di sparizione forzata è diventato frequente in modo allarmante. Le organizzazioni per i diritti che documentano questi casi stimano si sia arrivati a una media di circa tre casi al giorno, e sottolineano il coinvolgimento di parecchie forze di sicurezza e dei servizi. Nonostante questa realtà impressionante, l’Egitto non ha messo in opera nessuna delle raccomandazioni relative alla tortura che ha ricevuto durante la sua Revisione Periodica Universale nel novembre 2014. Queste raccomandazioni sono state presentate da Francia, Slovenia, Svizzera, Danimarca, Spagna, Botswana, Palestina e Gaza. Ancor più preoccupante, l’Egitto ha respinto tutte le raccomandazioni presentate in relazione alle sparizioni forzate. L’impunità degli aguzzini Tali pratiche, così come la quasi totale impunità dei corpi di sicurezza e del Ministero degli Interni, stanno ulteriormente minando la legalità in Egitto, già erosa a un grado mai raggiunto così come descritto dal capo del Comitato denunce al para-governativo Consiglio Nazionale dei Diritti umani. Dal 2011, nessuno dei governi egiziani ha provato seriamente a realizzare riforme del settore della sicurezza o a lottare contro la sua cultura dell’ impunità. Al contrario, negli ultimi due anni, la legittima lotta contro il terrorismo è stata usata come una scusa per rafforzare questa cultura. Il rafforzamento del "prestigio" dello Stato - inteso come la sua capacità di instillare paura- è considerato come la soluzione al terrorismo. Sfortunatamente, il presidente Sisi non ha dimostrato una volontà politica chiara di voler porre termine a queste pratiche. Nel suo discorso del 3 dicembre alla Accademia di Polizia Egiziana, egli ha negato che le sparizioni forzate e la tortura siano sistematici in Egitto, e ha esplicitamente dichiarato che si tratta solo di casi individuali. Questa dichiarazione differisce grandemente dai dati del report del Dipartimento di Stato Usa sulle pratiche dei diritti umani, il quale ha evidenziato più di 60.000 casi di arresti legati ad attività politica in Egitto nel solo 2013. Ancora, il presidente Sisi non considera i diritti umani come una priorità: durante un’intervista televisiva il 1 febbraio 2016 egli ha affermato che è difficile e molto delicato conciliare diritti umani e sicurezza. Oggi, mentre non c’è modo di far rendere conto ai responsabili, il flagello della tortura e delle sparizioni forzate sta aumentando l’instabilità perché nutre l’emarginazione, la rabbia e la disperazione fra componenti chiave della società egiziana. Rendendo la propria gioventù vulnerabile ai discorsi radicali e all’estremismo violento, l’Egitto sta diventando un terreno sempre più fertile per il terrorismo, per la crescita della violenza politica e della guerra civile. La tortura, le sparizioni forzate e l’impunità per questi crimini sono attualmente fra le più gravi minacce alla sicurezza nazionale egiziana - una minaccia che non possiamo ignorare nella odierna situazione regionale. Nelle parole dell’ex prigioniero statunitense Mohamad Soltan, che ha avuto esperienza di abusi fisici durante la sua detenzione in Egitto, "la brutalità e la schiacciante perdita di speranza sta creando una situazione che giova alla narrativa dello Stato islamico, viene usata per reclutare persone e circolare il loro messaggio". Il presidente Sisi rifiuta di ammettere che la stabilità e il rispetto dei diritti umani sono sinonimi; il 5 novembre il sindacato egiziano dei medici ha minacciato uno sciopero generale in tutti gli ospedali pubblici per protestare contro l’inazione della Procura sulle sistematiche violazioni dei funzionari di polizia contro il personale medico per ottenere trattamenti preferenziali. E invece, la Procura egiziana ha aperto una inchiesta sulla chiamata allo sciopero dei sindacati egiziani in quanto illegale. Il destino spaventoso di Giulio Regeni dovrebbe dare la sveglia ai partners europei dell’Egitto. L’Europa, come l’Egitto, si confronta con le minacce di estremismi violenti che vanno combattuti senza violare i diritti dei cittadini; nessuno stato, nessun governo è interamente senza colpa, ma ciò non li condanna al silenzio di fronte alla caduta degli alleati in una spirale di violenza. L’argomento della necessità non è più funzionale a giustificare un supporto acritico all’Egitto. Il corpo di Islam Atito Nel maggio 2015, il direttore del Cairo Institute Bahey El Din Hassan si è rivolto al Parlamento Europeo sul caso di uno studente egiziano il cui destino è stato simile a quello di Giulio. Il corpo del giovane Islam Atito è stato trovato in una zona desertica alla periferia del Cairo. Il Ministero degli Interni ha dichiarato che Atito avrebbe aperto il fuoco contro le forze di sicurezza e che sarebbe stato ucciso durante un conflitto a fuoco. E invece testimoni hanno collocato Islam nella sua Università pochi giorni prima che il suo corpo fosse ritrovato, quando fu scortato da un funzionario scolastico e da agenti di sicurezza fuori dal campus, e mai più rivisto. In risposta alla dichiarazione di Hassan davanti al Parlamento Europeo, il Cairo Institute è stato posto sotto inchiesta da un giudice. Atito avrebbe potuto essere l’ultima vittima di crimini tanto orrendi, se il presidente egiziano fosse stato pubblicamente avvertito che gli alleati dell’Egitto non avrebbero più tollerato sparizioni forzate e torture, e se la Procura avesse aperto una inchiesta imparziale sul suo caso. Sfortunatamente ciò non è stata considerata una priorità e dozzine di altre persone, incluso Giulio, hanno condiviso il suo destino. Nello stesso mese, un’altra autorevole organizzazione per i diritti umani ha lavorato a un progetto di legge per definire la tortura in accordo con gli standard internazionali. Il leader di questa organizzazione e i giudici che egli aveva invitato a un simposio per discutere il progetto di legge sono stati tutti posti sotto inchiesta e i giudici sono stati sospesi. Chiediamo urgentemente ai leader europei di sottoporre queste richieste alle autorità egiziane: a) un cambio immediato della politica su tortura e sparizioni forzate: la gravità e l’ampiezza della crisi attuale dovrebbe essere pubblicamente riconosciuta, la supervisione e l’assunzione di responsabilità di tutte le forze di polizia e di sicurezza dovrebbe essere annunciata come urgente priorità. b) di invitare il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla Tortura e il Gruppo di Lavoro sulle sparizioni forzate a visitare immediatamente l’Egitto. c) di concedere alle organizzazioni per i diritti, egiziane e internazionali, il pieno accesso a tutti i luoghi di detenzione e a poter visitare tutti i prigionieri in essi trattenuti. Consentire al Consiglio Nazionale per i diritti umani di compiere visite non annunciate in tutti questi luoghi, per assicurarsi che siano consoni alle norme, alla legge e alle garanzie costituzionali. d) di investigare senza ritardi sulle denunce delle famiglie delle vittime di sparizioni forzate, e comunicare i risultati in modo ufficiale alle famiglie e ai collegi legali. Condurre investigazioni serie e trasparenti su tutte le denunce di torture da parte della polizia e delle forze di sicurezza; chiamare i colpevoli alle loro responsabilità senza eccezioni. e) di perseguire tutti i funzionari egiziani di polizia direttamente coinvolti in pratiche criminali relative a pratiche di tortura e sparizioni forzate. f) di inserire il crimine di sparizione forzata nella legge egiziana, e non renderlo soggetto a nessuna prescrizione. Ratificare la Convenzione per la protezione di tutte le persone dalle sparizioni forzate e il Protocollo opzionale della Convenzione contro la Tortura. g) sulla tortura, di fare i necessari emendamenti al Codice Penale e al Codice di procedura penale in modo che essi corrispondano all’articolo 52 della Costituzione, che proibisce la tortura in tutte le forme e tipi. Il Consiglio Nazionale Arci all’unanimità ha impegnato tutta l’associazione al massimo impegno per ottenere verità e giustizia per Giulio Regeni e tutte le vittime della repressione in Egitto. Nell’ambito di questa campagna, vi inviamo un documentato report su torture e sparizioni forzate in Egitto, con le richieste alle autorità italiane ed europee. Il rapporto è scritto sulla base della documentazione raccolta da associazioni egiziane dei diritti umani con le quali l’Arci collabora. Per chi volesse relazionarsi direttamente con loro, siamo a disposizione per fornirvi i contatti. Libia: l’Italia dice sì all’America "droni armati Usa da Sigonella" di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 23 febbraio 2016 I Reaper saranno utilizzati per la difesa delle forze impegnate contro Daesh Il governo dovrà concedere di volta in volta il "via libera" al Pentagono. L’Italia ha concesso le piste di Sigonella ai droni armati americani diretti in Libia, nel nord Africa e in genere contro Daesh, il sedicente Stato Islamico: è un nuovo passo del crescente impegno militare sulle sponde del Mediterraneo, in attesa del possibile intervento di terra. Si tratta con ogni evidenza dei Predator B, ribattezzati non a caso "Reaper", mietitori, che il Pentagono già utilizza ampiamente per "esecuzioni mirate" in Pakistan, Yemen e Somalia. Non sono invece dotati di armamento i droni da ricognizione Global Hawk, che gli Usa schierano a Sigonella già dal 2011. Alla Difesa sottolineano che non si tratta di un "via libera" indiscriminato: dalla base siciliana i velivoli a pilotaggio remoto partono esclusivamente per compiti di protezione degli "operatori impiegati nella lotta al terrorismo", e solo dopo una autorizzazione del governo che viene concessa volta per volta. In altre parole, al governo italiano viene di fatto concesso un potere di "veto" sui bersagli oggetto dei raid e quindi sulle operazioni con le forze speciali, che potranno essere seguite anche dai droni italiani da ricognizione. È una situazione molto diversa rispetto al 2011, quando le "minacce" dell’aeronautica francese contro le installazioni dell’Eni spinsero l’Italia a superare le esitazioni per partecipare alle operazioni contro Gheddafi. Le missioni dei Reaper serviranno a sostenere le operazioni più o meno clandestine delle forze speciali americane, britanniche, francesi e italiane. Nei fatti è la prima conferma concreta della presenza delle avanguardie militari occidentali sul territorio libico. La notizia è comparsa ieri sul sito del Wall Street Journal, che cita come fonte funzionari del Pentagono e precisa che la decisione è stata presa già il mese scorso, "silenziosamente". Quest’ultimo termine, "quietly", compare persino nel titolo del giornale americano, il quale sottolinea che gli Usa incontrano serie difficoltà nel convincere gli alleati a impegnarsi nella lotta a Daesh. Secondo il Wsj, il governo americano sta facendo pressioni perché Roma autorizzi l’uso delle sue basi per operazioni come l’attacco di venerdì scorso su Sabratha, che aveva per obiettivo Noureddine Chouchane, il leader jihadista considerato responsabile dell’assalto al museo del Bardo, a Tunisi, il 18 marzo scorso. Ma il governo italiano non sembra disponibile a questo passo. Anonimi "funzionari italiani" citati dal quotidiano sottolineano in privato che una decisione come questa riaccenderebbe l’opposizione interna, specialmente in caso di perdite fra i civili. Dopo mesi di incertezze, l’amministrazione Obama sta aumentando il suo impegno in Libia, pur nella certezza che il centro della battaglia contro Daesh, il sedicente Stato Islamico, resta fra Siria e Iraq. Il Pentagono vorrebbe anche una base in nord Africa, perché Sigonella non è considerata l’ideale: è molto vicina al teatro delle operazioni, ma le condizioni del tempo spesso impediscono il decollo dei droni. Un’altra base sarebbe necessaria soprattutto per le operazioni di sorveglianza, ma finora le nazioni del nord Africa hanno risposto negativamente. L’uso di basi lontane, a partire da quella di Gibuti, già impegnata per le operazioni in Somalia e Yemen, comporta voli più lunghi, minore autonomia e dunque inferiori capacità di controllo, visto che i droni da sorveglianza devono essere riforniti e controllati regolarmente. Lo scarso entusiasmo dei Paesi africani di fronte alle richieste della Casa Bianca non permette grande ottimismo nemmeno sul prossimo intervento in Libia, prima con l’allargamento dell’operazione navale europea Eunavfor Med nelle acque territoriali libiche, poi con la presenza diretta sul terreno di truppe occidentali. Questa fase dovrebbe essere legata alla richiesta di un governo libico riconosciuto: oggi il Parlamento di Tobruk dovrebbe votare sul gabinetto formato da Fayez al Serraj, ma l’accordo politico ancora non c’è, e difficilmente verrà raggiunto a breve termine. In più, nei mesi scorsi Tobruk non è apparsa accondiscendente con l’Occidente: ha contestato presunte violazioni italiane delle acque territoriali libiche, e nei giorni scorsi Serraj ha condannato - almeno ufficialmente anche il raid Usa su Sabratha. Se l’invito libico tarderà ad arrivare, mentre Daesh continua a rafforzarsi in Libia, l’unica via percorribile per far partire l’intervento sarebbe cercare all’Onu un accordo non facile per una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. "Tregua in Siria da sabato", telefonata tra Obama e Putin. Assad: "elezioni il 13 aprile" di Nicola Lombardozzi La Repubblica, 23 febbraio 2016 Dallo stop alle ostilità esclusi gli attacchi contro lo Stato islamico e Al Nusra Gentiloni da Erdogan. Intercettazioni dei contatti tra esercito turco e Isis. Troppe scene di sangue e di morte nelle ultime ore dalla Siria, Putin e Obama stringono i tempi e, dopo un breve colloquio telefonico, annunciano un accordo per un cessate il fuoco da sabato 27 febbraio. In realtà si tratterebbe soprattutto dell’inizio di una guerra finalmente coordinata, e quasi da alleati, ma solo contro il nemico comune: i militanti dello Stato Islamico e l’organizzazione Al Nusra, vera e propria filiale di al Qaeda in terra siriana. Usa e Russia studieranno insieme attacchi e strategie con una sinergia di intelligence militare già provata segretamente nei mesi scorsi. Tutte le altre organizzazioni di combattenti, se faranno in tempo ad aderire al trattato entro venerdì, saranno invece risparmiate sia dagli attacchi delle aviazioni russa e americana che dall’offensiva dell’esercito governativo. Il tutto dovrebbe portare a un miglioramento della situazione generale, favorire gli aiuti ai profughi e aprire nuovi sviluppi per una trattativa politica. Tra gli schieramenti che hanno la possibilità di beneficiare della tregua ci sono anche due gruppi che Mosca considera pericolosi e che bersaglia da tempo con i suoi missili. Si tratta degli Uomini Liberi della Grande Siria (Ahar al Shaam) e dell’Esercito dell’Islam (Jund al Islam). Due organizzazioni salafite che mirano ad abbattere il regime del presidente Assad. Mosca ha tentato fino all’ultimo di inserirle nel pacchetto dei nemici, anche per tranquillizzare Assad che continua a chiedere al Cremlino di garantirgli una via d’uscita lenta e sicura. Alla fine Putin ha deciso di cedere, e il presidente Assad ha annunciato elezioni politiche il 13 aprile. Di certo, in questa settimana di margine fino al cessate il fuoco gli attacchi dei Sukhoj russi e dei tank siriani contro i nemici di Assad saranno massicci. Mentre un comunicato della Casa Bianca precisava che "l’accordo è un passo ulteriore verso un processo di pace", Putin decideva di rompere il silenzio dei media durante il ponte festivo per la Giornata nazionale delle Forze Armate e interveniva alla tv Rossija con toni sobri ma soddisfatti: "Questo accordo può diventare un esempio mondiale per il futuro della lotta al terrorismo". E al contempo rassicurava i russi sul terrorismo: "Colpiremo lo Stato Islamico fino alla vittoria". Resta aperto il tema Turchia. Erdogan, che oggi ha ricevuto il nostro ministro Gentiloni, continua a essere al centro delle accuse russe. Ieri anche un giornale turco riferiva di prove sull’aiuto militare turco a militanti dell’Is, pubblicando intercettazioni pesanti sulla gestione congiunta dei transiti al confine. La Russia chiede agli Stati Uniti di fare qualcosa di visibile contro l’alleato "scorretto". Se ne parlerà in altre telefonate più riservate tra i due leader previste già nei prossimi giorni. Stati Uniti: il Pentagono presenterà oggi il piano per chiudere Guantánamo La Stampa, 23 febbraio 2016 Nel carcere militare, sull’isola di Cuba, ci sono 91 detenuti. Il Pentagono presenterà oggi al Congresso l’atteso piano del presidente Barack Obama per la chiusura del carcere militare statunitense di Guantánamo. Il presidente americano, che si era impegnato a chiudere l’impianto della base navale statunitense a Cuba all’inizio della sua presidenza nel 2009, sta cercando di mantenere la sua promessa prima di lasciare l’incarico il prossimo gennaio. Il portavoce del Pentagono, il capitano Jeff Davis, ha detto che l’amministrazione intende rispettare la scadenza della giornata di oggi e presentare la sua dettagliata proposta per la chiusura della struttura dove sono ancora detenuti 91 prigionieri. Il piano dovrebbe prevedere l’invio alle loro terre d’origine o in Paesi terzi i detenuti che hanno il nulla osta per il trasferimento, 35 al momento, portando i rimanenti, diverse decine, su suolo statunitense in carceri di massima sicurezza. Il documento, però, non farà il nome di luoghi di detenzioni alternativi su suolo americano. Le località ipotizzate su suolo americano non vengono rese note, mentre l’amministrazione vuole evitare di alimentare qualsiasi clamore politico su siti specifici nel corso dell’anno delle elezioni presidenziali. Il Congresso ha da tempo vietato, sin dal 2011, tali trasferimenti verso gli Usa. Un’altra opzione che verrà citata nel progetto dell’amministrazione sarà la possibilità di inviare alcuni prigionieri all’estero per il procedimento penale e il processo, secondo quanto riportato da un funzionario degli Stati Uniti. Il piano di chiusura potrebbe anche servire come modello per come trattare i futuri sospetti terroristi catturati nella lotta contro lo Stato islamico. Iraq: oltre 90 condanne a morte dall’inizio dell’anno di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 febbraio 2016 Tra i paesi che rimarranno probabilmente sordi all’appello di papa Francesco per una moratoria delle esecuzioni durante il Giubileo, c’è l’Iraq. Qui, in sole sei settimane, i tribunali ha emesso 92 condanne a morte, 40 delle quali in un solo giorno, il 18 febbraio. Il processo del 18 febbraio riguardava 47 imputati (sette sono stati assolti) per il cosiddetto "massacro di Speicher", la base militare nei pressi di Tikrit in cui, nel giugno 2014, almeno 1700 cadetti vennero trucidati dallo Stato islamico. Fatti gravissimi, senza ombra di dubbio. Ma al di là della contrarietà alla pena di morte per motivi di principio, la giustizia in Iraq funziona in modo tale da far correre più di un rischio che siano messi a morte degli innocenti: le procedure seguite non corrispondono agli standard internazionali sul giusto processo, i diritti della difesa sono limitati e la maggior parte degli imputati ritratta la confessione iniziale denunciando che è stata estorta con la tortura. Secondo la legge irachena, prima di procedere all’esecuzione le condanne a morte devono essere ratificate dal presidente. Ora che alla presidenza della repubblica non c’è più Jalal Talabani, che non ratificò neanche una condanna durante il suo mandato, è possibile che l’arretrato di oltre 600 condanne a morte venga smaltito presto. Le pressioni da parte del parlamento e di parte dell’opinione pubblica sul nuovo presidente, Fuad Màsum, si fanno sempre più forti. L’idea che si vuole dare è quella della "risposta forte" al terrorismo, anche se la storia ha sempre dimostrato che l’uso della pena capitale in contesti del genere produce l’effetto contrario. Per il "massacro di Speicher", sono stati emessi oltre 600 mandati di cattura. A parte i 47 processati il 18 febbraio, gli altri dovrebbero essere imputati in un unico "maxiprocesso" che potrebbe terminare con centinaia di condanne a morte. Turchia: almeno 30 giornalisti sono in carcere, non lasciamoli soli di Maso Notarianni Il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2016 Ricevo dal collega turco Murat Cinar un appello rivolto a tutti i giornalisti italiani. Un appello che credo non possa che essere raccolto e rilanciato. Perché ci chiede di impegnarci a non sottacere le notizie che arrivano dalla Turchia, un Paese oggi al centro delle dinamiche di guerra (in Siria e non solo) e che fa parte della Nato. "Alleato" dell’Occidente, che calpesta i diritti umani, nega la libertà di espressione e di informazione e che molti accusano di complicità verso l’Isis. "Nel 2012 Reporter Senza Frontiere definiva la Turchia come "carcere più grande del mondo per i giornalisti". Sono passati 4 anni ed attualmente nelle carceri si trovano almeno 30 giornalisti. Giornalisti che pubblicano o ripubblicano certi articoli, alcune fotografie, interviste o video, vengono accusati di "incitare la popolazione per provocare una rivolta armata contro il governo centrale", "istigare e delinquere", "collaborare con un’organizzazione terroristica" oppure di "appartenere ad un’organizzazione terroristica". Tutto questo diventa possibile grazie ad una serie di realtà legislative presenti nel codice penale. Censura e repressione vengono sostenute anche con l’ausilio del potere amministrativo e di buona parte dei media mainstream. Non mancano umiliazioni pubbliche, offese volgari, accuse senza fondamenti, licenziamenti, violenze fisiche e processi informali seguiti da esecuzioni mediatiche. Mentre attraverso diversi cambiamenti legislativi, il sistema giuridico e quello amministrativo riescono ormai in pochi minuti a oscurare interi portali di notizie online oppure singoli articoli, bloccare l’accesso ad un singolo account nei social media, nel mondo cinematografico, televisivo ed artistico crescono e si radicano a 360 gradi anche la cultura della censura e dell’autocensura. Diversi giornalisti sono in carcere da anni e aspettano la condanna, alcuni sono in attesa di sentire e capire quali siano le loro colpe ed alcuni invece vengono trattenuti per attendere l’inizio del loro processo. Le condanne richieste in alcuni casi prevedono anche l’ergastolo in condizioni aggravate. Nonostante i diversi appelli lanciati da varie istituzioni in tutto il mondo e da altri singoli e gruppi di giornalisti, la Turchia continua ad essere un paese fortemente difficile e rischioso per la libertà di stampa. Per questi motivi invitiamo tutti i giornalisti che lavorano in Italia a non lasciare soli nella loro battaglia i colleghi detenuti in Turchia. Chiediamo a tutti i giornalisti di aggiornare sistematicamente i propri lettori in merito alla libertà di stampa, espressione e pensiero in Turchia. Gran Bretagna: il primo campus universitario dentro un carcere di Ivano Abbadessa west-info.eu, 23 febbraio 2016 Ci sono 85 celle singole, 2 biblioteche e 1 aula di informatica. Benvenuti nel primo campus universitario costruito dentro un carcere. Siamo a Kent, contea a sud-est di Londra, dove un’intera ala dello storico penitenziario locale è stata riservata alle attività accademiche. Con la possibilità di scegliere tra oltre 100 corsi (dalla zoologia all’economia), avvalersi di tutor personali contattabili online e frequentare lezioni, in presenza e via web, tenute da docenti e ricercatori. Un servizio unico che, a differenza dei classici centri di detenzione, garantisce la possibilità di scontare la pena e preparare gli esami universitari lontano da fastidiosi rumori o compagni di cella svogliati e sgraditi. Per maggiori informazioni: prisonerseducation.org.uk/case-studies/swalesides-open-academy Francia: detenuto si collega sul social network Periscope, scoppia polemica politica La Repubblica, 23 febbraio 2016 Quando la tecnologia varca le sbarre di un penitenziario ci si può imbattere in un piccolo "documentario" in diretta. È quanto successo nella prigione francese di Luynes, nella regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra, dove un detenuto si è filmato in diretta su Periscope, l’applicazione che permette di dialogare con gli spettatori. Il video finale dura 34 minuti e l’uomo, con il viso parzialmente coperto, risponde alle domande più svariate mentre fuma e ascolta musica insieme al suo compagno di cella. L’uso dell’applicazione è vietato nel carcere e, come spiegato dal detenuto stesso, se si viene scoperti si va incontro a un rapporto da parte dei sorveglianti. Per questo, e anche per l’inedito dialogo tra un carcerato e i suoi "spettatori", il video sta diventando un caso politico e mediale in Francia. Costa d’Avorio: rivolta nel carcere di Abidjan, dieci persone uccise Askanews, 23 febbraio 2016 Si tratta di nove detenuti e una guardia di sicurezza. Dieci persone sono morte durante una protesta nella principale prigione della Costa d’Avorio, ad Abidjan. Tra le vittime figura anche una guardia, ha riferito il procuratore generale Aly Yeo. Secondo quanto si è appreso, la rivolta è scoppiata sabato, quando alcuni detenuti armati di kalashnikov hanno attaccato lo staff della prigione. Nove detenuti sono morti, compreso Coulibaly Yacouba, conosciuto come Yacou il cinese", considerato boss di alto rango nel Paese. Il bilancio della rivolta comprende anche otto feriti tra le guardie di sicurezza e 13 fra i prigionieri.