Il Papa: "chiedo una moratoria per la pena di morte per il Giubileo" di Ester Palma Corriere della Sera, 22 febbraio 2016 L’appello da piazza San Pietro ai "governanti di tutto il mondo per l’abolizione". E la distribuzione della "Misericordina plus", la scatoletta a forma di medicinale con il Rosario e il santino di Gesù. "Chiedo ai governanti di tutto il mondo di abolire la pena di morte. E a quanti tra loro sono cattolici di compiere un gesto coraggioso ed esemplare: che nessuna condanna venga eseguita in questo Anno Santo della Misericordia". Nel suo primo Angelus in San Pietro dopo il viaggio in Messico (definito "una trasfigurazione") Papa Francesco torna a affrontare temi forti come quello della pena capitale. E intanto fa distribuire fra i fedeli la "Misericordina Plus", una nuova scatoletta a forma di medicinale che contiene la coroncina del Rosario e un santino di Gesù misericordioso". "La trasfigurazione nel Messico ferito" - "Il viaggio apostolico che ho compiuto nei giorni scorsi in Messico è stata un’esperienza di trasfigurazione". Così ha esordito Papa Francesco all’Angelus. "Il Signore - ha sottolineato - ci ha mostrato la luce della sua gloria attraverso il corpo della sua Chiesa, del suo Popolo santo che vive in quella terra. Un corpo tante volte ferito, un Popolo tante volte oppresso, disprezzato, violato nella sua dignità. In effetti, diversi incontri vissuti in Messico sono stati pieni di luce: la luce della fede che trasfigura i volti e rischiara il cammino". No alla pena di morte - E poi il tema della pena di morte nel mondo: "Domani - ha detto papa Francesco dopo aver recitato l’Angelus - avrà luogo a Roma un convegno internazionale dal titolo "Per un mondo senza la pena di morte", promosso dalla Comunità di Sant’Egidio. Auspico che possa dare un rinnovato impulso all’impegno per l’abolizione della pena capitale. Un segno di speranza è costituito dallo sviluppo, nell’opinione pubblica, di una sempre più diffusa contrarietà alla pena di morte anche solo come strumento di legittima difesa sociale. In effetti, le società moderne hanno la possibilità di reprimere efficacemente il crimine senza togliere definitivamente a colui che l’ha commesso la possibilità di redimersi. Il problema va inquadrato nell’ottica di una giustizia penale che sia sempre più conforme alla dignità dell’uomo e al disegno di Dio sull’uomo e la società, e anche a una giustizia penale aperta alla speranza del reinserirsi nella società. Il comandamento "non uccidere" ha valore assoluto e riguarda sia l’innocente che il colpevole". "Il Giubileo straordinario della Misericordia - ha suggerito papa Francesco - è un’occasione propizia per promuovere nel mondo forme sempre più mature di rispetto della vita e della dignità di ogni persona. Anche il criminale mantiene l’inviolabile diritto alla vita, dono di Dio. Faccio appello alla coscienza dei governanti, affinché si giunga ad un consenso internazionale per l’abolizione della pena di morte. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà - ha spiegato - sono chiamati oggi ad operare non solo per l’abolizione della pena di morte, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà". Il ricordo di Don Benzi - Prima di salutare i fedeli, Francesco ha mostrato la scatolina della "Misericordina", una scatolina che contiene la corona del Rosario e l’immaginetta di Gesù Misericordioso. "Lo abbiamo già fatto una volta, ma questa è più efficace, è plus". "La Quaresima - esorta Bergoglio - è un tempo propizio per compiere un cammino di conversione che ha come centro la misericordia. Perciò, oggi, ho pensato di regalare a voi che siete qui in piazza una "medicina spirituale". Ora la distribuiranno i volontari, tra i quali ci sono poveri, senzatetto, profughi e anche religiosi. Accogliete questo dono come un aiuto spirituale per diffondere, specialmente in questo Anno della Misericordia, l’amore, il perdono e la fraternità". E ha concluso ricordando Don Oreste Benzi, il sacerdote che ha dedicato buona parte della sua missione alle ragazze violate, comprate e vendute per le strade. È in corso il suo processo di canonizzazione, circostanza che Bergoglio ha sottolineato definendolo "Servo di Dio". L’occasione per questo ricordo è stato l’annuncio l’appuntamento per venerdì prossimo a Roma per l’iniziativa contro la tratta promossa dalla "Comunità Papa Giovanni XXIII" da lui fondata. Si svolgerà, come ha annunciato Francesco, "per le strade del centro di Roma una "Via crucis" di solidarietà e di preghiera per le donne vittime della tratta". Il progetto del Papa. Pena di morte, una proposta importante di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 22 febbraio 2016 L’invito ad una moratoria durante l’Anno Santo mobilita autorevolmente i fedeli, i vescovi e i governanti cattolici e rappresenta un’innovazione rispetto al passato. Papa Francesco lancia una proposta rilevante: "Propongo a quanti sono cattolici di compiere un gesto coraggioso ed esemplare: che nessuna condanna venga eseguita in questo Anno Santo della Misericordia". Mobilita autorevolmente i fedeli, i vescovi e i governanti cattolici per la moratoria delle esecuzioni. Quali reazioni positive o critiche ci saranno? Si pensi ai governatori americani. Bergoglio delegittima religiosamente la pena capitale: "Il criminale mantiene l’inviolabile diritto alla vita, dono di Dio". La sua posizione ha innovato rispetto al passato. Wojtyla e Ratzinger avevano fatto passi in avanti, ma pesava l’ipoteca della continuità con l’insegnamento tradizionale. Si poteva smentire la storia della Chiesa? Ancora nel 1868, furono eseguite due condanne a morte (approvate da Pio IX) nella Roma papale. Francesco è consapevole di quanto lucidamente affermava papa Giovanni: "Non è il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio". E il Vangelo narra dell’iniqua condanna alla croce dell’unico "giusto" per i cristiani. La moratoria delle esecuzioni per il Giubileo è parte d’un disegno ambizioso del Papa: l’abolizione della pena di morte. Su questo la Chiesa dovrà dialogare anche con gli altri cristiani e le religioni. La posizione del Papa è però oggi di grande rilievo, quando vari governi pensano a reintrodurre la pena capitale, nella lotta al terrorismo e al narcotraffico. Francesco delegittima la pena di morte anche dal punto di vista dell’efficacia sociale: le società hanno altre possibilità "di reprimere il crimine". In Messico, il Papa ha incontrato un’escalation di violenza. Una società violenta non deve trascinare lo Stato ad altra violenza. La proposta del Giubileo della Misericordia è invece la realizzazione di un’inclusiva "salute sociale", che generi cultura, crei reti, prevenga il crimine e realizzi condizioni carcerarie mirate al recupero. La geopolitica della misericordia di Agostino Giovagnoli La Repubblica, 22 febbraio 2016 In Messico, Francesco non ha solo testimoniato appassionatamente la misericordia verso gli ultimi: li ha anche invitati ad impegnarsi per il proprio riscatto. Pur chiedendo perdono agli indios, non ha lasciato spazio all’autocompatimento. Pur fermandosi a lungo davanti alla Vergine di Guadalupe che "protegge" il popolo messicano, è stato durissimo contro la metastasi del narcotraffico e severo con i giovani che entrano nel giro dei narcotrafficanti. Ai vescovi e ai religiosi ha chiesto di essere "pastori del popolo di Dio e non chierici di Stato", mentre rinnovava la condanna della corruzione che distrugge gli Stati e abbandona i più deboli alla violenza. Il suo messaggio ha raggiunto il culmine nella prigione di Ciudad Juarez. Se "chi ha sperimentato l’inferno può diventare un profeta nella società", come ha detto ai carcerati, allora davvero tutto è possibile. Quel che è fatto è fatto, ha riconosciuto alludendo realisticamente ai reati commessi dai detenuti, ma "questo non significa che non ci sia la possibilità di scrivere una nuova storia". Rivolgendosi ai carcerati, Francesco non parlava solo del carcere. La cultura dello scarto, che qui è dominante, condiziona in realtà tutta la società. Il carcere è espressione di una più ampia "cultura che ha smesso di scommettere sulla vita" e di una "società che ha abbandonato i suoi figli". In quest’ottica, la misericordia è ciò che rimette in moto la storia: non un di più auspicabile, ma un quid necessario per "una migliore convivenza". La religione di Francesco non somiglia affatto all’oppio dei popoli di cui parlava Karl Marx. Si collega, invece, ad un disegno in cui gli incontri con i leader politici (da Obama a Putin, da Merkel a, se possibile, Xi Jinping) e con i leader religiosi (da quello recente con Kirill al prossimo con el-Tayeb, sheickh di al-Azhar) sono in funzione di una geopolitica dei popoli. Francesco è, infatti, in sintonia con la "geopolitica delle emozioni" di Dominique Moisi secondo cui i popoli sono dominati di volta in volta da sentimenti diversi: paura, umiliazione speranza. Francesco appare un grande leader del XXI secolo perché in grado di spostare milioni di persone dalla paura o dall’umiliazione alla speranza. Ma per molti europei - lo mostrano i commenti di questi giorni - questo papa resta soprattutto un "modernista" (visto da destra) o un "progressista" (visto da sinistra), un pontefice che non difende abbastanza i valori morali o che critica audacemente il capitalismo ultraliberista. In realtà, la dichiarazione congiunta con il patriarca di Mosca non è certo un documento modernista; è stata, però, firmata al termine di un incontro di grande portata storica che avvicina, dopo mille anni di separazione, non solo due Chiese ma anche Europa orientale e Europa occidentale. In Messico, Francesco è stato molto severo con chi distrugge la famiglia, "base di ogni sana società"; lo ha fatto, però, parlando di colonialismo ideologico, uno dei modi attraverso cui si esprime la sopraffazione dei popoli forti su quelli deboli. Gli è stato, inoltre, attribuito un atteggiamento tipico da papa sudamericano anti- yankee, ma agli Stati Uniti ha inviato soprattutto un messaggio contro l’uso politico della paura verso i migranti, come ha sottolineato il New York Times. Non solo l’applicazione delle categorie di modernista e di progressista urta contro troppe contraddizioni, ma entrambe tradiscono anche la convinzione che, qualunque cosa dica o faccia, Francesco si inserisce comunque in un sistema chiuso e in giochi già fatti. Il papa, insomma, può solo spostare un po’ più a destra o un po’ più a sinistra gli equilibri esistenti. Francesco, invece, vuole cambiare la storia e questo è, per molti europei, semplicemente impossibile. È però interessante che, proprio in Europa, la "geopolitica della misericordia" abbia avuto un precedente illuminante. Nel 1943, in piena Seconda guerra mondiale, un prestigioso esponente del pensiero laico e anticlericale e antifascista convinto, Benedetto Croce, espresse un sentimento diffuso. Sostenne, infatti, che, dopo la devastazione provocata dal nazismo e dal fascismo, solo una parola cristiana avrebbe potuto rimettere in modo la storia europea: perdono. Dopo il passaggio dell’Europa dalla guerra al dopoguerra, anche molte altre transizioni del XX secolo hanno implicato processi di riconciliazione. Croce irrideva con sarcasmo gli studiosi modernisti di inizio Novecento che, sulla base di rigorose argomentazioni esegetiche e filologiche, negavano l’autenticità della pagina del Vangelo di Giovanni che lui considerava più espressiva di tutto il cristianesimo. È il brano dell’adultera perdonata da Gesù perché "chi è senza peccato scagli la prima pietra". Proprio a questo brano, non a caso, si è riferito Francesco concludendo il suo viaggio in Messico con la visita nel carcere di Ciudad Juarez. Piano nazionale contro i suicidi in carcere, cure "automatiche" a soggetti con patologie di Marzia Paolucci Italia Oggi, 22 febbraio 2016 "Un piano nazionale per la prevenzione del suicidio in carcere, la revisione dei dispositivi di legge e di bilancio per prevedere l’offerta "automatica" di cure al soggetto con patologie da dipendenza e non più a richiesta come accade ancora oggi e la riduzione del volume degli ingressi in carcere in violazione della legislazione antidroga". Sono alcuni degli obiettivi che si propone il tavolo su minori e dipendenze, uno dei 18 rapporti online dei relativi tavoli degli stati generali dell’esecuzione penale organizzati dal ministero della giustizia per una maggiore dignità del carcere tanto per chi ci lavora quanto per chi sta scontando la sua pena. Il prossimo step è quello della consultazione pubblica con istituzioni e associazioni del settore che daranno il loro parere. Sulla base dei rapporti dei tavoli, il comitato scientifico degli stati generali elaborerà quindi un documento di sintesi. Gli argomenti dedicati spaziano da tematiche strettamente attinenti agli spazi carcerari fi no agli aspetti normativi e organizzativi della vita in carcere. Tanti i temi sviscerati dai tavoli: sicurezza, dipendenze, affetti, responsabilizzazione, minori, stranieri, lavoro e formazione, istruzione, salute, sanzioni, giustizia riparativa, mediazione, regole internazionali fi no al reinserimento e alla presa in carico territoriale. Nei board dei tavoli operatori penitenziari, magistrati, avvocati, docenti, esperti, rappresentanti della cultura e dell’associazionismo civile. Gli incontri tra i componenti dei tavoli sono sempre avvenuti su piattaforma web dedicata. Nel corso dei lavori sono previste visite negli istituti penitenziari, incontri con operatori e detenuti, audizioni di gruppi di esperti e altre iniziative. Per ciascuno dei 18 tavoli, sono noti i componenti, il materiale documentale raccolto, le iniziative intraprese e il rapporto di medio termine presentato da ciascun tavolo al comitato scientifico per fare il punto sul lavoro, sul metodo seguito, sulle difficoltà incontrate, sulle idee intorno alle quali si sta ragionando e sugli obiettivi che ci si ripromette di conseguire. Tra i coordinatori dei tavoli, liberi professionisti, magistrati requirenti e giudicanti, docenti universitari e politici con un’esperienza mirata nel settore. Ogni tavolo ha finora prodotto delle linee di intervento e degli obiettivi da raggiungere nel breve termine. Da una selezione, tra i temi più sentiti e ricorrenti dell’esecuzione penale, ne è emerso "il ruolo infantilizzante, afflittivo e inabilitante dello spazio della pena, le cui cause possono essere attribuite a sovraffollamento, politiche di sicurezza che hanno limitato i movimenti, relegato i detenuti nelle celle e ostacolato le attività di lavoro e di relazione e il piano carceri caratterizzato da controverse collocazioni territoriali e inadeguate tipologie costruttive". Cinque le linee di proposte elaborate e finalizzate ad altrettanti obiettivi. Si comincerà definendo criteri di progettazione in conformità alle direttive europee e di quelli per la ristrutturazione degli istituti esistenti secondo i parametri della "vigilanza dinamica" con il coinvolgimento di detenuti e operatori penitenziari nella riqualificazione e gestione degli spazi. Altri obiettivi riguarderanno poi la definizione dei criteri di progettazione delle strutture territoriali per l’esecuzione delle misure alternative e la valorizzazione dell’esistente cominciando dalla manutenzione degli istituti anche grazie a detenuti in possesso dei requisiti professionali. Per la "vita detentiva", l’obiettivo è invece quello di "adottare un modello di detenzione, rispetto all’attuale ancora sostanzialmente caratterizzato da passività e segregazione, in linea sia con i parametri costituzionali di finalità rieducativa della pena e sua umanizzazione che con le migliori prassi in ambito europeo. Attenzione particolare va posta al regime del 41-bis con l’indicazione di eliminazione delle restrizioni meramente vessatorie". La legge Pinto trova il modello da utilizzare per effettuare la richiesta di indennizzi di Gabriele Ventura Italia Oggi, 22 febbraio 2016 Lo ha messo a disposizione il ministero della giustizia. In attesa che arrivi il decreto. Disponibile il modello per richiedere il pagamento degli indennizzi Pinto. È stato infatti pubblicato dal ministero della giustizia sul proprio sito internet e deve essere utilizzato in attesa dell’emanazione del decreto ministeriale di cui all’art. 5-sexies, comma 3, legge n. 89/2001. Via Arenula precisa inoltre che la dichiarazione che il creditore deve rilasciare all’amministrazione debitrice, al fi ne di ricevere il pagamento delle somme liquidate in base alla legge Pinto, deve attestare: la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l’esercizio di azioni giudiziarie per lo stesso titolo, l’ammontare degli importi che l’amministrazione è ancora tenuta a corrispondere, la modalità di riscossione prescelta. Per quanto riguarda le azioni intraprese per l’escussione del credito, il creditore deve quindi dichiarare o di non aver intentato azioni giudiziali aventi a oggetto il pagamento delle somme dovute per il titolo indicato, come per esempio giudizi di ottemperanza o procedure esecutive, oppure, in caso abbia intentato azioni giudiziali, il creditore deve indicare gli estremi di riferimento: autorità giudiziaria adita, numero e anno del procedimento, oggetto della domanda, nome e indirizzo dell’avvocato patrocinante, data di presentazione della domanda, stato attuale del procedimento. Quanto alle modalità di pagamento, i pagamenti a mezzo vaglia sono possibili solo per importi fi no a mille euro. Presunzione d’innocenza a tinte Ue, una nuova Direttiva adottata dai Paesi membri di Paolo Bozzacchi Italia Oggi, 22 febbraio 2016 Verso una normativa unica europea sulla presunzione d’innocenza. Questo l’obiettivo della nuova direttiva adottata nei giorni scorsi dai ministri della giustizia dei paesi membri, che accoglie la proposta della Commissione del 2013, a garanzia dei diritti fondamentali di tutte le persone coinvolte da procedimenti penali. Le nuove norme proibiscono apertamente alle autorità giudiziarie di menzionare in ogni forma la colpevolezza dell’imputato, prima che la colpevolezza stessa sia sancita dal giudice con una sentenza. E dunque spazio a una nuova definizione unica europea della presunzione d’innocenza. Non solo. La direttiva chiarisce che l’onere della prova spetta all’accusa, invece che alla difesa. E ogni dubbio a riguardo va sciolto a favore della difesa stessa. Sancito anche il diritto di rimanere in silenzio e di non accusare se stessi. Che non può essere usato contro sospettati o indagati. Anche il diritto di essere presente al processo è definito "essenziale" per garantire un processo equo. "Ogni violazione di questo diritto", precisa la direttiva, "garantirà all’imputato il diritto a un nuovo processo". Il commissario europeo alla giustizia, Vera Jourova, ha commentato: "Il diritto a un processo equo è un diritto fondamentale e deve essere rispettato nella pratica ovunque in Europa. Oggi siamo di fronte ad alcune differenze nazionali nella protezione della presunzione d’innocenza nell’Unione europea. Le nuove regole comuni garantiranno che i diritti dei sospettati siano rispettati dalla polizia e dalle autorità giudiziarie in modo omogeneo. Prima della sentenza chiunque sia accusato dovrebbe essere protetto con la presunzione di innocenza. E questo contribuirà a costruire un vero spazio giudiziario unico europeo basato sul mutuo riconoscimento dei diritti fondamentali". Dal punto di vista giuridico la nuova direttiva si basa sui diritti fondamentali sanciti dalla Carta europea dei diritti fondamentali e sulla Convenzione europea dei diritti umani. Ora gli stati membri avranno due anni per implementare le nuove norme negli ordinamenti nazionali, e la Commissione lavorerà a stretto contatto con le autorità dei paesi Ue per assicurare che venga rispettata questa tempistica. Faranno eccezione la Danimarca e il Regno Unito, che potranno esercitare la clausola dell’out-out. Il testo della nuova direttiva sul sito www.europa.eu/rapid. La mappa del crimine italiano: Milano capitale dei furti, Torino del danneggiamento: di Davide Mancino Corriere della Sera, 22 febbraio 2016 Sono le otto di sera di un fine settimana: il momento di controllare un’ultima volta che sia tutto in ordine, per poi finalmente chiudere le serrande e tornare a casa a rilassarsi. Dopo una lunga giornata di lavoro, non c’è che da rimettere a posto le teche. Quando l’addetta arriva a un certo contenitore, però, qualcosa non va. Due spazi vuoti, al posto di una fede e un anello. E non soltanto di quelli: decine di diamanti incastonati, piccoli e grandi. Tutto sparito nel nulla: 350 mila euro andati in fumo nel giro di pochi secondi. Siamo in via Gesù, a Milano, nella gioielleria Salvati all’interno del Four Seasons Hotel, ed è venerdì 19 settembre. L’ennesimo caso, certo, ma fra quelli che nel 2014 fanno più rumore. Sarebbe potuto succedere in qualsiasi altra città, e invece è successo nel capoluogo lombardo, perché proprio Milano è la capitale italiana dei furti. E che sia così lo si capisce dalle informazioni registrate dall’Istat, che misura quante sono le denunce per ciascun tipo di reato. Per il 2014 - ultimo anno per cui sono disponibili informazioni - i dati indicano che Milano è di gran lunga la città d’Italia con il maggior numero di furti segnalati alle autorità giudiziarie. Con circa 7.800 denunce ogni 100 mila abitanti precede Bologna (7.600), mentre i comuni che seguono risultano molto più in basso: città come Roma, Torino, Firenze, Venezia, Rimini o Catania, in cui le denunce rispetto alla popolazione sono state fra 5 e 6 mila. Più in generale, per questo tipo di crimine il nord-ovest appare come l’area più colpita mentre al sud - con l’eccezione appunto di Catania - l’incidenza è assai minore. Che dire invece degli altri reati? La situazione si capovolge nel caso delle rapine, delle quali proprio nel meridione ne viene segnalato il maggior numero. Sono coinvolte in primo luogo città come Napoli, insieme a Bari, Palermo e di nuovo Catania. Eppure qui Milano resta un caso a parte rispetto al resto del centro-nord, tanto da risultare la terza città d’Italia per rapine denunciate. E il capoluogo lombardo non è neppure l’unico: anche a Torino questo tipo di reato emerge con frequenza assai maggiore rispetto al resto del settentrione. Per le questioni di droga la situazione appare grosso modo simile fra nord, sud e isole. È invece al centro che risultano più denunce, con molti comuni medio-grandi che ne registrano il maggior numero: Bologna in primo luogo, poi Firenze, ma fra le più colpite risultano anche Milano e Roma. Napoli, invece, mostra valori relativamente bassi, almeno fra le grandi città. Sud e isole si confermano in testa per quanto riguarda gli omicidi, con un’incidenza grosso modo doppia rispetto al nord-ovest, e quadrupla rispetto al nord-est. I numeri però vanno messi in prospettiva: come segnala il rapporto sul benessere equo e sostenibile dell’Istat, nel complesso l’Italia "presenta il valore più basso in Europa". Nuoro e Crotone registrano nel 2014 il maggior numero di omicidi rispetto alla popolazione che vi abita, mentre fra i centri principali - almeno da questo punto di vista - il più sicuro è Torino. Proprio a Torino invece le denunce per danneggiamenti superano quelle di qualsiasi altra città italiana, con Milano e Genova che seguono grosso modo sullo stesso livello: si tratta di un reato che arriva all’orecchio della magistratura a nord-ovest molto più che in tutto il resto del paese, tanto che rispetto al sud le denunce di questo tipo sono due volte e mezzo di più. Ma come stanno andando le cose, negli ultimi tempi? Le città sono più sicure o no rispetto al passato? Molto dipende dal tipo di crimine. Per i reati contro la proprietà la situazione peggiora almeno dal 2010 - primo anno per cui sono disponibili i dati Istat, e proprio nel 2014 le denunce complessive per furto arrivano a un nuovo picco massimo: salgono a circa 2.600 ogni 100 mila abitanti, contro le 2.200 di quattro anni prima. Per le rapine il quadro è simile anche se, dopo tre anni consecutivi di aumento, la tendenza pare quanto meno essersi invertita - anche con una certa rapidità - nel 2014. I crimini violenti contro le persone sono invece spesso stabili, quando non in calo. Come sottolinea il rapporto sulla sicurezza pubblica del ministero dell’Interno, gli omicidi diminuiscono ormai da anni, con l’eccezione del 2013 in cui soltanto il naufragio del 3 ottobre a largo di Lampedusa porta con sé 366 vittime. Molte meno anche le morti legate alla criminalità organizzata: erano 147 nel 2007, diventano 49 nel 2014. Restano in sostanza invariate, invece, le denunce per reati di droga, lesioni o percosse. Per capire come stanno cambiando le cose nelle principali città possiamo dare un’occhiata più da vicino. A Milano le denunce per furto aumentano parecchio dal 2010 al 2012, e nonostante un leggero calo nel 2013 all’ultima rilevazione restano ancora vicine al picco. Una crescita che troviamo anche a Roma e Torino, dove però si parte da un livello più basso, mentre a Napoli appaiono stabili a un livello relativamente basso, almeno fra le grandi città. A Milano salgono decisamente e poi calano un po’ le denunce per rapina, che però non arrivano al livello di Napoli e sono leggermente superiori a quelle registrate a Torino. Nella capitale, al contrario, la magistratura si occupa di questo reato assai meno spesso, né ci sono stati grandi cambiamenti negli ultimi anni. Al di là di qualche fluttuazione, per quanto riguarda gli omicidi a Milano e Torino la situazione appare piuttosto stabile. Napoli ha visto un’impennata di vittime nel 2011 e 2012, ma la situazione è poi migliorata in maniera netta, anche se non fino a tornare ai livelli precedenti. Questo tipo di dati, va ricordato, ha però anche diversi limiti. Il principale è che non rappresentano i reati commessi, ma soltanto quelli denunciati. Quello che possiamo capire del crimine, a partire dalle statistiche, viene dunque limitato da quanto le persone sono disposte a rivolgersi alle autorità. Eppure esistono tanti motivi per cui questo può non succedere. Il reato può portare "benefici" a tutti i soggetti coinvolti: è il caso della corruzione, del riciclaggio o dello spaccio di droga, dove né chi offre né chi riceve ha il minimo interesse a denunciare il fatto. A volte, ed è un’altra opinione comune, l’entità del crimine è tanto piccola che non vale neppure la pena sporgere denuncia. O ancora può mancare la fiducia verso le forze dell’ordine, tanto da pensare che, a conti fatti, denunciare un reato sia del tutto inutile perché comunque non se ne verrà a capo. Un’idea senz’altro più diffusa nel sud Italia e che, in quest’area, potrebbe portare a sottostimare almeno alcuni tipi di crimine. L’ultima - e più delicata - ragione è la vergogna. Quando si tratta di violenze sessuali, per esempio, è del tutto comprensibile che le vittime esitino prima di raccontare ciò che gli è successo. Tutte insieme, queste ragioni ci spiegano perché è meglio prendere i dati di molti reati con un po’ di prudenza; in altri casi, a cominciare dagli omicidi, è invece assai difficile nascondere il crimine: almeno in quel caso, abbiamo la ragionevole certezza che le cose siano migliorate davvero. E non di poco. Coltivare la marijuana non è reato di Valeria Di Corrado Il Tempo, 22 febbraio 2016 L’esponente radicale Bernardini era accusata di avere in casa 56 piantine. La soddisfazione della donna: "Sono autorizzata a piantare ancora erba". Rita Bernardini non ha il "pollice verde" per la marijuana, per questo il Tribunale di Roma ha archiviato il procedimento che la vedeva indagata per produzione di sostanze stupefacenti. Secondo la Procura le 56 piante di cannabis che la segretaria dei Radicali Italiani coltivava sul suo terrazzo erano innocue, perché "troppo piccole e tenute in condizioni climatiche sfavorevoli per produrre quantità di principio attivo tale da superare la soglia dell’offensività". Una pronuncia che sta già facendo discutere il mondo del web. Lo scorso 15 maggio, su mandato della Procura, la polizia ha perquisito l’abitazione della Bernardini, sequestrando le 56 piantine di marijuana che dal primo di aprile coltivava sul balcone di casa. Nelle settimane precedenti aveva pubblicato minuziosamente sui social network i progressi nella crescita degli arbusti. Il suo scopo principale era quello di alimentare il dibattito sulla legalizzazione e l’uso terapeutico della cannabis. "Voglio essere arrestata come tutti gli altri cittadini", scriveva su Twitter e Facebook. In questo non è stata accontentata, ma la procura, dopo il sequestro, l’ha iscritta sul registro degli indagati contestandole la violazione del Testo unico sulla droga. La coltivazione della marijuana, infatti, è vietata dall’articolo 26 del Dpr n. 309 del 1990. Pochi giorni dopo il sequestro, il 4 giugno, il pubblico ministero ha chiesto al giudice delle indagini preliminari l’archiviazione del procedimento, motivandolo così: "Ai fini della rilevanza penale occorre ravvisare in concreto l’offensività della condotta. Nel caso di specie occorre considerare che gli arbusti rinvenuti nell’abitazione dell’indagata, seppure in numero di 56, sono di piccole dimensioni (40 di circa 30 centimetri di altezza e 16 di circa 12 centimetri), piantati in modeste quantità di terriccio contenuto in buste di stoffa e custoditi in un terrazzo con esposizione a condizioni climatiche sfavorevoli". "In assenza di accorgimenti mirati e di specifiche modalità di coltivazione (quali lampade per assicurare condizioni idonee allo sviluppo completo del principio attivo) - spiega il pm - le piantine non avrebbero potuto mantenersi e crescere fino a produrre quantità di principio attivo tale da superare la soglia dell’offensività. Tanto che dalle numerose piante sequestrate è stato rilevato un esiguo quantitativo di principio attivo, pari a soli 0,468 grammi". In pratica, le piante di marijuana dalla Bernardini erano inoffensive perché troppo piccole e, secondo la Procura, non sarebbero nemmeno potute maturare perché la segretaria dei Radicali le coltivava male. Tenendoli all’aria aperta e nel clima di Roma, gli arbusti - in base a quanto mette nero su bianco il pm - non avrebbero avuto possibilità di arrivare a produrre quantità di principio attivo "offensive". Solo una coltivazione come quella che sfrutta le lampade per ricreare un microclima ideale per questo tipo di specie vegetale avrebbe, secondo la tesi della Procura, offerto prospettive di crescita alle piante della Bernardini. Il gip Stefano Meschini ha sposato in toto la tesi sostenuta dall’accusa e l’8 febbraio scorso ha archiviato il procedimento, ritenendo "che la richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero è fondata e che devono qui ritenersi come integralmente trascritte le argomentazioni addotte dal pm". "Vuol dire che sono autorizzata a coltivare la marijuana sul mio balcone, come ho sempre fatto - commenta Rita Bernardini - Sono contenta soprattutto per i malati che non hanno accesso ai farmaci a base di cannabinoidi. Non uso le lampade perché mi piace la coltivazione naturale, alla luce del sole. Mi inchino di fronte al giudizio della procura, secondo cui le piante, in quelle condizioni climatiche, erano innocue. Di diverso parere, però, sono stati gli agenti che nel 2014 mi hanno sequestrato piantine di cannabis durante il congresso dei Radicali Italiani. Per quella vicenda sarò processata a Siena. È stato dimostrato che avevano un principio attivo intorno al 16%. Eppure le avevo coltivate sempre sul balcone di casa, con le stesse modalità". Alla luce di questa pronuncia dei magistrati romani, d’ora in poi dal terreno di scontro giuridico sulla legalizzazione della marijuana, ci si dovrà spostare sui manuali di giardinaggio. No profit, appalti solo per chi adotta il modello 231 di Alberto Barbiero Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2016 Gli organismi no-profit che intendono acquisire servizi sociali da amministrazioni pubbliche devono dotarsi di un modello di organizzazione per la gestione dei rischi in base alle previsioni del decreto legislativo 231/2001. Nella deliberazione 32/2016 l’Autorità nazionale anticorruzione evidenzia l’obbligo per i soggetti del terzo settore assumendo a presupposto sia il tenore letterale delle previsioni contenute all’articolo 6 del decreto legislativo (rivolte agli enti forniti di personalità giuridica, alle associazioni anche prive di personalità giuridica e alle società private concessionarie di un pubblico servizio) sia la natura dei servizi erogati. Le indicazioni dell’Anac - L’Autorità nazionale anticorruzione richiede agli enti no-profit di dotarsi di un modello di organizzazione che preveda soprattutto l’individuazione delle aree a maggior rischio di compimento di reati e la previsione di idonee procedure per la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente nelle attività definite "a maggior rischio" di compimento di reati. Il modello deve contenere anche elementi illustrativi delle modalità di gestione delle risorse idonee a impedire la commissione dei reati, e inoltre la previsione di un appropriato sistema di trasmissione delle informazioni all’organismo di vigilanza. La determinazione 32/2016 evidenzia per i soggetti no-profit anche l’obbligo di nominare l’organismo di vigilanza deputato al controllo sul funzionamento e sull’osservanza del modello e al suo aggiornamento (con autonomi poteri di iniziativa e di controllo); è necessario, poi, prevedere e attuare adeguate forme di controllo sull’operato dell’organismo stesso. Le conseguenze per gli operatori - Le indicazioni dell’Autorità nazionale anticorruzione presentano rilevanti implicazioni sulla gestione degli affidamenti. Anzitutto, l’obbligo previsto nella determinazione risulta più forte rispetto alla la previsione dell’articolo 6 del decreto legislativo 231/2001, che prefigura l’adozione del modello organizzativo nei casi in cui l’ente voglia evitare di rispondere dei reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da dirigenti e altri dipendenti, ma non ne impone l’utilizzo. L’adozione del modello organizzativo-gestionale 231 sembra rientrare nel novero dei requisiti di capacità tecnico-professionale (articolo 42 del Codice dei contratti); va tuttavia specificato che in questo caso l’obbligatorietà verrebbe meno in quanto questi requisiti possono essere oggetto di scelta da parte delle stazioni appaltanti in relazione allo screening degli operatori economici. Risulta più difficile ipotizzare che l’obbligo sia configurabile come requisito di ordine generale, poiché introdurrebbe un’integrazione all’articolo 38 per via non normativa. La previsione contenuta nella determinazione 32/2016 sembra esplicarsi meglio nella definizione dell’obbligo tra i requisiti di esecuzione dell’appalto, ossia tra gli elementi che regolano la resa delle prestazioni e il correlato assetto organizzativo essenziale. Per le stazioni appaltanti, specularmente, potrebbe prospettarsi la partecipazione alle gare per servizi sociali di un numero molto limitato di enti no-profit (quelli già dotati del modello organizzativo previsto dal decreto legislativo 231), con una riduzione dei margini di offerta:?una riduzione che potrebbe avere conseguenze sotto il duplice profilo delle proposte tecnico-qualitative e di quelle economiche. Solo dopo sollecitazioni e un’attesa eccessiva scatta l’omissione di atti d’ufficio di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 29 dicembre 2015 n. 51051. Solo dopo una serie di sollecitazioni e richiami rimasti inevasi sussiste omissione o rifiuto di atti d’ufficio. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 51051 del 29 dicembre 2015. La consumazione del reato da parte del consulente tecnico d’ufficio del giudice non scatta infatti dopo un qualsiasi ritardo dell’ausiliario nell’espletamento dell’incarico, ma occorre che il ritardo - oltre a essere preceduto, senza che venga fornita dall’agente giustificazione alcuna, da sollecitazioni ad adempiere da parte dell’ufficio che della sua opera si sarebbe dovuto avvalere - sia connotato dal superamento di ogni tempo di ragionevole tolleranza (o comporto) e rimesso, nella sua determinazione, alla stima del giudice del procedimento in cui l’opera avrebbe dovuto prestarsi. Quando il rifiuto diviene rilevante - La Cassazione è partita dal rilievo che il rifiuto dell’atto di ufficio diviene penalmente rilevante in quanto l’atto omesso sia connotato, per rilievo e natura del bene protetto, da indifferibilità, restando in tal caso il reato integrato anche dalla silente inerzia del pubblico ufficiale protratta senza giustificazione oltre i termini di comporto o, se del caso, di decadenza. Da ciò derivando che, a prescindere dalle ipotesi di violazione di un termine perentorio (quindi di un termine fissato per legge a pena di decadenza dall’esercizio della relativa potestas da parte del pubblico ufficiale), allorché il termine rimasto inevaso abbia invece natura meramente ordinatoria, soccorre per l’integrazione del rifiuto penalmente rilevante il superamento del ragionevole comporto o tempo di indugio tollerato. Nel caso specifico - In questa prospettiva, con riferimento alla condotta del consulente tecnico d’ufficio del giudice, inadempiente ai suoi uffici, la Corte ha ritenuto che il ritardo nel deposito dell’elaborato rientra ancora, di per sé, in quel ragionevole tempo di indugio, non penalmente sanzionato, perché l’opera dell’ausiliario può ancora essere resa per ragioni di giustizia; mentre si realizza il rifiuto penalmente rilevante allorquando, dopo una pluralità di solleciti provenienti dall’ufficio giudiziario rispetto ai quali il consulente si sia mantenuto in uno stato di silente omissione, il giudice abbia provveduto alla sua sostituzione: questa, infatti, attesta del superamento di ogni ragionevole comporto e determina la consumazione del reato. Applicabilità al convivente more uxorio della causa di non punibilità Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2016 Reato - Cause di non punibilità - Delitti contro l’amministrazione della giustizia - Necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un danno grave alla persona - Applicabilità della scriminante al convivente more uxorio. La causa di non punibilità prevista dall’articolo 384, comma primo, cod. pen. in favore del coniuge opera anche in favore del convivente more uxorio. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 4 agosto 2015 n. 34147. Reato - Cause di non punibilità - Delitti contro l’amministrazione della giustizia - Necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un danno grave alla persona - Applicabilità della scriminante al convivente more uxorio - Esclusione. Non può essere applicata al convivente more uxorio, responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente, la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto degli articoli 384, comma primo, e 307, comma quarto, cod. pen., i quali non includono nella nozione di prossimi congiunti il convivente more uxorio. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 22 novembre 2010 n. 41139. Reato - Cause di non punibilità - Delitti contro l’amministrazione della giustizia - Necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un danno grave alla persona - Applicabilità della scriminante al convivente more uxorio - Esclusione. Al convivente "more uxorio", che abbia commesso il reato di favoreggiamento personale in favore del convivente, non si applica la causa di non punibilità di cui all’articolo 384, comma primo, cod. pen., operante per il coniuge. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 18 maggio 2009 n. 20827. Reato - Cause di non punibilità - Delitti contro l’amministrazione della giustizia - Necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un danno grave alla persona - Applicabilità della scriminante al convivente more uxorio - Esclusione - Questione di costituzionalità - Manifesta infondatezza. Non può essere applicata al convivente more uxorio responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto degli articoli 384, primo comma, e 307, ultimo comma, cod. pen.; quanto precede non è in contrasto con i principi di cui all’art. 3 della Costituzione tenuto anche conto di quanto già affermato dalla Corte costituzionale con pronunce n. 124/1980, 39/1981, 352/1989, 8/1996, 121/2004. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 26 ottobre 2006 n. 35967. Falsità ed omissioni sulle condizioni di reddito ai fini del beneficio Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2016 Difesa - Patrocinio a spese dello Stato - Dichiarazioni sostitutive e altre comunicazioni o indicazioni sul limite di reddito - Falsità e omissioni - Reato di cui all’articolo 95 d.P.R. n. 115 del 2002. Integrano il delitto di cui all’articolo 95 d.P.R. n. 115 del 2002 le false indicazioni o le omissioni anche parziali dei dati di fatto riportati nella dichiarazione sostitutiva di certificazione o in ogni altra dichiarazione prevista per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 12 ottobre 2015 n. 40943. Difesa - Gratuito patrocinio - False dichiarazioni sulle condizioni di reddito ai fini del beneficio - Rilevanza - Specialità della norma di cui all’articolo 95 d.P.R. n. 115 del 2002 è speciale rispetto a quella di cui all’articolo 483 cod. pen. Il reato di cui all’articolo 95 d.P.R. n. 115 del 2002 è integrato non già da qualsivoglia infedele attestazione ma dalle dichiarazioni con cui l’istante affermi, contrariamente al vero, di avere un reddito inferiore a quello fissato dal legislatore come soglia di ammissibilità, ovvero neghi o celi mutamenti significativi del reddito dell’anno precedente, tali cioè da determinare il superamento di detta soglia. La norma di cui all’articolo 95 d.P.R. n. 115 del 2002 è speciale rispetto a quella di cui all’articolo 483 cod. pen. con la conseguenza che i due reati non sono in rapporto di concorso formale. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 18 marzo 2008 n. 12019. Difesa - Patrocinio a spese dello Stato - Falsità od omissioni nella dichiarazione sostitutiva prodotta a corredo dell’istanza - Configurabilità del reato di cui all’articolo 95 d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115. In tema di patrocinio a spese dello Stato, non integra il reato di cui all’articolo 95 d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 la falsa attestazione, da parte del richiedente, nella dichiarazione sostitutiva prevista dall’articolo 79, lett. c), del medesimo d.P.R., di non essere proprietario di beni mobili registrati, atteso che detta dichiarazione ha per oggetto soltanto le condizioni di reddito, da determinarsi secondo le modalità di cui al precedente articolo 76, e non anche la consistenza dei beni facenti parte del patrimonio degli interessati. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 9 novembre 2007 n. 41306. Difesa - Gratuito patrocinio - Dichiarazione non veritiera resa dall’istante ai fini del beneficio - Rilevanza - Condizioni di integrazione del reato di cui all’articolo 95 d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115. In tema di patrocinio a spese dello Stato, ai fini dell’integrazione della violazione di cui all’articolo 95 del d.P.R. n. 115 del 2002 non assume rilievo qualunque imperfetta dichiarazione resa in sede di istanza di ammissione al beneficio, ma solo quella in cui l’interessato attesti, contrariamente al vero, di possedere un reddito inferiore a quello minimo stabilito per l’accesso al patrocinio. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 20 giugno 2006 n. 21194. Spara, ma con giudizio di Umberto Eco "Dedalus" Il Manifesto, 22 febbraio 2016 (Articolo pubblicato sul Manifesto del 25 luglio 1971). In questo corsivo estivo, Dedalus-Eco racconta un fatto di cronaca quasi banale: un colpo partito per sbaglio a un poliziotto sardo per festeggiare un gol di Gigi Riva. Ma in queste poche righe c’è tutta l’Italia di quegli anni (e di adesso). "La notizia in questione è sui giornali di giovedì scorso. Andrebbe appesa in albi murari invitando la popolazione dei quartieri a un concorso a premi, per vedere chi riesce a interpretarla in modo ragionevole (cioè chi riesca a interpretarla salvando da un lato l’esistenza dei fatti e dall’altro la razionalità del sistema). Badate, il gioco contro-informativo non consiste nel dire, che so, "dopo la rivoluzione sarà diverso", oppure "in Cina non si fa così". No, no. Assumiamo per buona la logica vigente, siamo in una democrazia parlamentare, la notizia va giudicata nella logica della democrazia parlamentare. Dunque, il 14 giugno dello scorso anno Oronzo Quaranta, da Ostuni, Brindisi, si esalta perché Riva, nella Italia-Messico, fa un bel goal. Folle di gioia, cava la pistola e spara un colpo per esprimere la sua felicità. Oronzo non solo è tifoso e sconsiderato, ma è anche un pessimo tiratore, perché ammazza la signora Giuseppina Murru. Ozonzo va naturalmente sotto processo. Omicidio colposo, d’accordo (è sicuro che il poveretto non aveva intenzioni omicide); però un cittadino che per tifo calcistico perde il controllo a tal punto dovrebbe come minimo essere internato in un manicomio criminale, sia pure con la consulenza del professor Basaglia. Morale, quattro mesi con la condizionale. Pochino, direte voi, anche per un omicidio colposo. Si richiede la pena di morte per un individuo, senza dubbio malato, che uccide una ragazzina, e Oronzo non è senza dubbio un malato? E se è colposo il gesto di Oronzo, giustificato dall’entusiasmo calcistico, non è altrettanto colposa la sassata di uno studente che, per entusiasmo politico, reagisce a un bel tiro di lacrimogeno? Ma la storia non è finita qui. Perché Oronzo è un agente di pubblica sicurezza, e quando ha sparato il suo mortaretto (ci si perdoni il ferale gioco di parole) era di servizio (sentite sentite) a un posto di blocco presso Nuoro. A questo punto interviene il tribunale militare per dire: no, Oronzo me lo giudico io. Voi dite: il tribunale militare giudica inconcepibile che un cittadino in armi, a cui lo Stato ha concesso l’uso della pistola per difendere la collettività, dia prova di tale irresponsabilità. Infatti si condanna a cinque e più anni di galera uno che non vuol fare il servizio militare perché gli ripugna sparare: giusto e sacrosanto, sparare è un dovere di tutti i cittadini, ma allora quando un cittadino tradisce questo dovere sparando fuori luogo, è l’ergastolo. Nossignore. Il tribunale militare vuole processare a modo suo Oronzo per violazione di consegna e spreco di proiettili. Il tribunale civile per questi due reati gli ha dato trenta giorni di reclusione; invece in circostanze analoghe i tribunali militari hanno comminato ben tre mesi di reclusione, due per violata consegna e uno per spreco di pallottola. Così Oronzo sarà processato a settembre non per l’omicidio, già sistemato con la condizionale, ma per violazione e spreco, e si prenderà, male che vada, tre mesi. Il concorso a premi concerne alcuni casi possibili. E se Oronzo invece di una signora avesse ucciso per sbaglio un bracciante in sciopero? Ci sarebbe stato lo spreco di pallottola, visto che prima o poi su quel bracciante avrebbe dovuto sparare? E quando degli agenti, presi dal panico, perdono il controllo e sparano su un gruppo di anarchici e colpiscono un passante nelle natiche (vedi l’infausto giorno di Saltarelli), si ha spreco di pallottola e violata consegna? Oppure l’entusiasmo per Riva non giustifica il salto dei nervi, mentre l’odio per gli studenti extraparlamentari sì? Oppure la consegna non è violata perché è stato dato ordine di sparare? Quante pallottole sono state "sprecate" ad Avola? Come vedete è una serie di piccole questioni che si possono porre con una certa legittimità. Perché qui, intendiamoci, siamo nella logica del legittimo. Io voglio sapere cosa accadrà al prossimo obiettore di coscienza che rifiuti di fare il soldato perché è tifoso del Cagliari e non sa cosa potrebbe succedergli durante il prossimo campionato. Così come si presentano le cose, il consiglio potrebbe essere: "fai il soldato, o l’agente: male che ti vada prendi quattro mesi con la condizionale e quanto ai tre della violata consegna e lo spreco di materiale dello Stato, vedessi mai che la partita coincide con una occupazione di case popolari, e ne esci pulito?". Bologna: "trattamento inumano e diritti violati", risarcimento per un ex detenuto di Gianluca Rotondi Corriere della Sera, 22 febbraio 2016 E al Tribunale di Sorveglianza arrivano i reclami di 40 carcerati per la mancanza di acqua calda. Hanno inondato il Tribunale di sorveglianza di ricorsi per ottenere un diritto basilare. Per i detenuti della Dozza farsi una doccia calda è diventata un’impresa. Quando va bene possono lavarsi dalle 8,15 alle 9 del mattino, ma spesso non riescono a farlo nemmeno durante quella risicata finestra. Così sono costretti ad arrangiarsi: scaldano l’acqua all’interno delle celle con i fornelletti a gas e, a turno, si lavano come possono. Da mesi, infatti, l’impianto del carcere perde i pezzi e tra guasti e malfunzionamenti l’acqua calda è razionata, costringendo agenti di polizia penitenziaria e detenuti a fare i turni per lavarsi. A volte poi, come accaduto di recente manca del tutto. Una situazione molto difficile, sollevata nei giorni scorsi sul Corriere di Bologna dai sindacati di polizia penitenziaria e ora approdata davanti ai giudici. Sono una quarantina i detenuti che hanno presentato reclamo al Tribunale di sorveglianza chiedendo di tutelare i propri diritti e ripristinare condizioni minime di dignità all’interno dell’istituto di via del Gomito. Il primo ricorso, una sorta di "causa" pilota, è stato discusso lo scorso 12 febbraio dall’avvocato Antonio Materia davanti al giudice Sabrina Bosi. Nel reclamo si lamentano "condizioni detentive deteriori" alla Dozza e si reclama "un trattamento umano" e rispettoso dei propri diritti. In udienza il detenuto che ha sottoscritto il reclamo ha spiegato al giudice quanto sta accadendo nel carcere sollecitando un intervento risolutorio. La giudice ha chiesto chiarimenti alla direzione del carcere, che ha mandato una relazione sottolineando che la situazione si è complicata quando, il 31 dicembre scorso, è scaduto il contratto per l’erogazione dell’energia con la ditta che aveva la manutenzione degli impianti. L’azienda sarebbe stata però inadempiente e ora è in atto un contenzioso con il provveditorato regionale. In attesa di un nuovo appalto la gestione è passata a un’altra impresa i cui interventi, secondo la direzione, avrebbero notevolmente ridotto le disfunzioni. Ma il giudice ha ritenuto necessarie ulteriori spiegazioni e rinviato l’udienza al 23 marzo segnalando però la situazione a tutte le istituzioni coinvolte: ministero di Giustizia, Procura, Tribunale, Dipartimento e Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria. La prossima settimana sono in programma altre dieci udienze, per altrettanti detenuti che si sono affidati agli avvocati Antonio Materia ed Ettore Grenci per lamentare condizioni non dignitose di vita legate appunto alla mancanza di acqua calda. Ma ci sono altri trenta reclusi le cui istanze riguardano anche un nuovo aspetto, non meno degradante. L’avvocato Materia porterà all’attenzione dei giudici l’impossibilità per i detenuti di poter restare al buio di notte nelle proprie celle. L’illuminazione interna è infatti assicurata da un neon che non si può spegnere, così resta acceso 24 ore al giorno. Di recente lo stesso legale ha ottenuto dal Tribunale civile un risarcimento di 10.000 euro in favore di un ex detenuto che ha passato alla Dozza 1276 giorni. L’uomo lamentava un trattamento inumano e ben trentuno violazioni del regolamento penitenziario. È stato necessario attivare il Tar per far sì che lo Stato pagasse. Sulla mancanza di acqua calda è intervenuta la Camera penale con un comunicato indirizzato a tutti i soggetti preposti in cui sottolinea la violazione dell’articolo 27 della Costituzione e dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Si chiede che "questa grave situazione venga superata adottando gli interventi necessari, anche straordinari, per garantire i diritti dei detenuti". Il consiglio direttivo "si riserva di intraprendere le necessarie iniziative di protesta e denuncia qualora il diritto delle persone ristrette nel carcere di Bologna continui a subire le segnalate limitazioni a causa delle carenze del servizio di fornitura di acqua calda". Milano: detenuti al laboratorio Skilifting, quando la libertà corre su un paio di sci di Carlo D’Elia Il Giorno, 22 febbraio 2016 I detenuti del carcere di Opera cercano una nuova opportunità nel laboratorio Skilifting. Costruirsi una vita nuova si può. Basta impegnarsi sodo in un progetto, un sogno, un lavoro. Kais e Abdel, detenuti del carcere di Opera, lo stanno scoprendo ogni giorno passato nel laboratorio Skilifting di via Rosselli a Peschiera Borromeo. Kais, 35 anni, originario di Tunisi, e Abdel, 31, proveniente dal Marocco, non hanno mai visto la neve. Non sono mai stati su una pista da sci. Prima di iniziare questa esperienza a malapena conoscevano la differenza tra snowboard e sci. Eppure, da quasi sei mesi, con forza di volontà e determinazione hanno imparato le tecniche di manutenzione e riparazione delle attrezzature per lo sci. Il progetto, mirato al reinserimento sociale post-detentivo, è promosso dal 2012 dalla cooperativa Il Bivacco di Melegnano. Dalla pulizia delle lamine alla sciolinatura, dalla riparazione della soletta alla tassellatura. Un servizio completo, quello offerto dal laboratorio Skilifting di Peschiera, fatto quasi tutto a mano, con prezzi contenuti per i clienti. Kais e Abdul sanno bene che questa è una grande opportunità. Di quelle da non lasciarsi scappare nella vita. "Alla fine è un lavoro che mi piace - dice Kais, che dovrà scontare ancora poco tempo in carcere prima di tornare in libertà. Stiamo imparando con voglia di fare un mestiere che magari potrà servirci. Dopo sei mesi di lavoro ho imparato a mettere la sciolina sugli sci e sulla tavola da snowboard e a pulire le lamine. E pensare che in montagna non ci sono mai stato e la neve nemmeno ho idea di come sia fatta". Da regolamento, i due detenuti sono obbligati a percorrere ogni giorno lo stesso tragitto. I cancelli del carcere di Opera si aprono attorno alle 8 per Kais, dieci minuti più tardi tocca a Abdel. Un viaggio di 20 chilometri. Un impegno quasi quotidiano: il negozio è aperto dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 21 e il sabato dalle 10 alle 20. "Importante per me avere un po’ di libertà - spiega Abdel -. In questi mesi di attività ho iniziato a riprendere possesso della mia vita. Godere di qualche ora di libertà ogni giorno, parlare con gente diversa e fare una professione nuova è straordinario". Insieme a loro, nel piccolo laboratorio di via Rosselli a Peschiera Borromeo, lavorano il responsabile della cooperativa Giulio Di Rosa e il maestro di sci Tommaso Cremaschi. Oltre alla riparazione e alla manutenzione, nel laboratorio affittano anche le attrezzature per chi pratica sport invernali e organizzano escursioni in montagna a prezzi vantaggiosi. "I detenuti in permesso possono lavorare in un luogo sano, con la possibilità di imparare un mestiere nuovo - spiega il responsabile Giulio Di Rosa, che dal 2013 collabora con Il Bivacco -. Il nostro dovere è quello di garantire il reinserimento sociale di chi sta scontando una pena in carcere. Tornare alla normalità è possibile. Qui abbiamo a disposizione uno spazio sano, ottimo per sperimentarsi. Ma il laboratorio non si fermerà agli sport invernali. In estate siamo pronti a partire con la manutenzione delle racchette da tennis". Savona: Arecco (Ln): detenuti impiegati in lavori socialmente utili, opportunità disattesa savonanews.it, 22 febbraio 2016 "A Savona tanti cittadini lamentano la scarsa pulizia e cura dei giardini pubblici, marciapiedi. La risposta potrebbe venire dall’applicazione della normativa". "Lavori socialmente utili, un’opportunità purtroppo disattesa da parte di troppe amministrazioni pubbliche". A mettere in luce questo fatto è il consigliere della Lega Nord Massimo Arecco, che prosegue: "Nell’ambito del savonese il personale dell’ufficio di esecuzione penale esterna del ministero di Grazia e Giustizia incontra palesi difficoltà ad individuare amministrazioni pubbliche disponibili ad elaborare programmi congiunti per l’applicazione del trattamento". "Per certi tipi di reati, prosegue l’esponente forzista, la legge consente agli imputati per reati minori punibili con la sola pena pecuniaria, o con la pena edittale detentiva non superiore a quattro anni, di svolgere, tra le altre cose, lavori di pubblica utilità". "Ciò costituisce, evidenzia Arecco, un danno notevole per la collettività che, "a costo zero", potrebbe disporre di abbondanza di manodopera da impiegare in molteplici attività per le quali le risorse economiche disponibili sono carenti e inoltre, dal punto di vista sociale, consentirebbe il pieno recupero degli imputati per reati minori". "Al tempo stesso, prosegue l’esponente leghista, questa circostanza, depriva di un’opportunità preziosa persone alle quali si potrebbe evitare un futuro contatto con la realtà carceraria". "Nel caso specifico di Savona, continua l’esponente della Lega Nord, tanti cittadini lamentano la scarsa pulizia e cura dei giardini pubblici, dei marciapiedi, segnalano l’inciviltà di quei padroni di cani che non ne raccolgono le deiezioni o che lasciano "sporcare" liberamente gli animali senza alcuna attenzione, criticano il proliferare di azioni vandaliche attuate imbrattando pareti e facciate con scritte e graffiti, oppure invocano una migliore manutenzione dei sentieri boschivi". "Il Comune, prosegue Arecco, innanzi a tali condivisibili critiche, adduce di frequente la giustificazione che, stante l’entità del problema, non è in grado di investire ulteriori denari per incrementare il numero di mezzi e di operatori da impiegare per risolvere tali problemi, scaricando esclusivamente l’intera colpa sul comportamento scarsamente civico delle persone. In parte, tale giustificazione può essere in parte condivisa, ma la soluzione deve, in ogni caso, essere individuata e attuata dalla pubblica amministrazione". "La risposta potrebbe venire dall’applicazione della normativa vigente. Decine di persone, che volessero usufruire dei benefici di legge consentiti dal programma di trattamento, potrebbero essere quotidianamente impiegate, a titolo gratuito, per spazzare e lavare quotidianamente i marciapiedi dell’intera città, cancellare le scritte sui muri, svuotare i cestini dei rifiuti, mantenere puliti i sentieri nelle aree boschive circostanti il centro urbano, ecc.". "Penso, prosegue Arecco, al riguardo, al risparmio economico che ne ricaverebbe la partecipata comunale ATA. Ciò gioverebbe evidentemente alla collettività, senza costituire elemento di disturbo per un mercato del lavoro asfittico e in crisi". "Al tempo stesso, ed in una più ampia prospettiva, evitare oggi incarceramenti, laddove possibile, potrebbe domani scongiurare il rischio di situazioni di sovraffollamento delle strutture penitenziarie. "È incredibile come chi, periodicamente invoca indulti e amnistie per motivi umanitari, non favorisca l’implementazione degli strumenti giuridici esistenti. Stupisce che, in una città da sempre governata dalla sinistra, temi sociali e di pubblica utilità come questi, in realtà, non abbiano mai interessato gli amministratori pubblici. Quando si parla di nomine ed incarichi, invece", conclude Arecco. Firenze: a Sollicciano iniziati lavori di adeguamento del campo di calcio e di rugby met.provincia.fi.it, 22 febbraio 2016 La soddisfazione dei presidenti di commissione Armentano, Perini e Giuliani. Questa la dichiarazione congiunta dei presidenti di commissione Nicola Armentano (Sanità), Serena Perini (Pari Opportunità) e Maria Federica Giuliani (Cultura e Sport). "Con soddisfazione apprendiamo che il presidente della Asd Lupi di Sollicciano Stefano di Puccio ha ottenuto dal provveditore del carcere Carmelo Cantone la possibilità di procedere ai lavori di adeguamento del campo di calcio e di rugby all’interno del carcere di Sollicciano. Tale adeguamento consentirà alla squadra di rugby formata da detenuti di poter svolgere partite amichevoli, e la prossima stagione anche partite di campionato, all’interno del carcere. È’ un bel risultato per il presidente Di Puccio, sostenuto dall’amministrazione comunale di Firenze, che si è speso per consentire agli atleti detenuti di misurarsi contro veri avversari, dopo molti mesi di solo allenamento. Alle sollecitazioni del Presidente Stefano Di Puccio solertemente ci siamo impegnati per perorare la causa, ne è testimonianza la commissione congiunta svoltasi all’interno di Sollicciano. La nostra attenzione non si fermerà solo al rugby, ma ci impegneremo, oltre a sostenere le attività già esistenti, ad aggiungere altre attività, anche formative. Crediamo infatti che con lo sport e con le relazioni che spesso si innescano con esso, si possono trovare motivazioni per rendere la detenzione più dignitosa e con una speranza futura positiva. Prossima missione sarà trovare risorse, sia finanziare che umane, per portare a compimento il progetto". Parma: le parole dei detenuti in attesa dello scrittore Carofiglio La Repubblica, 22 febbraio 2016 Oggi laboratorio in carcere e poi incontro alle 17 in Università. L’attesa negli scritti dei carcerati, alcuni dei quali ergastolani, che rinunciano all’ora d’aria per riappropriarsi non solo del linguaggio ma di spezzoni di vita. Le parole dietro le sbarre, parole spesso fermatesi all’adolescenza, poi è calato il carcere, la colpa, l’errore. Lunedì arriva in carcere lo scrittore Gianrico Carofiglio per il laboratorio narrativo "La manomissione delle parole". Tramite Giuseppe La Pietra della cooperativa Sirio che porta avanti il progetto abbiamo chiesto scritti, impressioni di detenuti che partecipavano a questo importante operazione. Eccoli: Antonio G: "Guardando l’articolo di giornale della presentazione di questo progetto, leggo che Sirio è definita come una stella splendente, parlando appunto del fatto che una percepisce le parole in base al proprio vissuto, per me è strano leggere quella frase perché per me Sirio è sta una cella dove sono stato detenuto". Corrado F: "Partecipo per l’egoismo di voler uscire dalla detenzione, partecipo per una mia necessità di dare e avere qualcosa, per sentirmi vivo nel carcere. Nella parola c’è libertà quindi questo corso è un modo per potermi esprimere liberamente, possibilità che altrimenti non avrei". Ciro: "Esternare ciò che molti pensano di sapere ma che in realtà non sanno, esternare ciò che in realtà è il carcere". Domenico D: "Sentire che noi, persone detenute, possiamo essere una risorsa per la società, credere che il nostro vissuto possa passare da una cosa brutta, come può essere la detenzione, a una cosa bella come il poter spiegare il nostro vissuto". Aurelio C: "Sento di poter essere un contributo alle domande che ci saranno fatte, creare una sorta di confronto con l’esterno". Giovanni M: "La manomissione delle parole potrebbe essere intesa come una mistificazione della realtà". Antonio D.G: "Manomettere le parole è la possibilità di ritagliarsi uno spazio culturale personale, è in base alla mia esperienza personale che capisco il significato delle parole". Giovanni D: "L’incontro con gli studenti è importante perché pensano che il carcere sia lontano da loro ma in realtà non è cosi. Inoltre c’è un grosso distacco tra il momento più alto del corso (l’incontro con gli studenti) e la quotidianità del carcere". Gianfranco R: "Con la manomissione delle parole si può cambiare la storia del mondo, ho letto all’inizio del libro di Carofiglio che manomissione deriva dalla liberazione degli schiavi". Giovanni M: "Un arricchimento del mio bagaglio culturale". Andrea G: "Partecipo per la possibilità di confrontarmi con l’esterno". Antonio D.G: "Nello scrigno dei ricordi chiara e luminosa è rimasta l’ultima sera da uomo libero, ne sento ancora la fragranza. Quel momento rappresenta ciò che voglio ritornare ad essere: un ragazzo padrone dei propri sentimenti. Ultime righe di una pagina di storia rimasta incompleta. Dopo c’è l’abisso del carcere... La prigione, nel momento stesso in cui varchi il portone, ti inghiotte nella sua oscurità, per mesi è come se sparissi nelle tenebre ed è in quei momenti che senti il bisogno di ritornare a scrivere pagine della tua nuova vita pagine difficili, ma pur sempre colorate della tua esperienza". Arienzo (Ce): detenuti incontrato i giovani di Officina Volturno, per "un futuro diverso" interno18.it, 22 febbraio 2016 Grande entusiasmo per l’iniziativa organizzata in sinergia con le dirigenti del penitenziario Marianna Adanti e Maria Rosaria Casaburo. "Un futuro diverso per tanti ragazzi sottratti alla camorra": sono le basi su cui fondano le lodevoli iniziative messe in campo dall’associazione culturale "Officina Volturno - Contro la camorra noi non molliamo" presieduta dall’ingegnere Tommaso Morlando e presente sul difficile territorio casertano - con sede a Castel Volturno - da oltre 15 anni. L’ultima, in ordine cronologico, quella tenuta presso la casa circondariale di Arienzo. Un’iniziativa organizzata in sinergia con le dirigenti del penitenziario, le dottoresse Marianna Adanti e Maria Rosaria Casaburo. Tra le due realtà è nato un perfetto connubio. Da un lato la ferma volontà della direzione del carcere di Arienzo finalizzata a progetti sociali e di integrazione dei detenuti, dall’altro le intenzioni dell’associazione casertana che si pone come fondamentale obiettivo quello di accogliere molti giovani dell’hinterland casertano garantendo loro un’ospitalità al fine di evitare che gli stessi possano intraprendere la strada della malavita e, di conseguenza, del carcere. Un confronto di vita fra giovani sottratti alla camorra e giovani detenuti. Per l’occasione i ragazzi sono stati accompagnati dall’ingegnere Angelo Morlando e a fare gli onori di casa ci hanno pensato il direttore in missione, la dottoressa Marianna Adanti, gli educatori Rosaria Romano e Francesca Pacelli ed il cappellano don Sergio Cristo. "Mi auguro che l’esperienza di vita di questi giovani ragazzi dell’associazione culturale "Officina Volturno" - ha sottolineato la direttrice Marianna Adanti - fatta di rinunce e sacrifici sia di esempio per chi, invece, ha scelto un percorso di vita diverso quale è quello della delinquenza. L’incontro con questi ragazzi sono certa rappresenterà un monito ed un messaggio importante per i detenuti che, attraverso le attività offerte dal penitenziario, potranno sfruttare tutte le migliori opportunità alla fine del loro percorso una volta usciti dal carcere". L’incontro tra ragazzi e detenuti è stato molto apprezzato da entrambe le parti. Durante il tour i giovani accompagnati dall’ingegnere Angelo Morlando hanno potuto illustrare anche la propria esperienza nel mondo del giornalismo attraverso l’associazione "Officina Volturno", anche editrice della testata giornalistica "Informare". Padova: Vendramin (Ser.T.); è allarme eroina, abbiamo in cura anche quindicenni di Elisa Fais Il Mattino di Padova, 22 febbraio 2016 "Si abbassa l’età in cui i giovanissimi iniziano a farne uso". Tra i ragazzi torna in voga lo "speedball" un tremendo mix con la cocaina. I giovani padovani fanno uso di droghe pesanti già dalla prima superiore. È quanto emerge dagli ultimi dati del Dipartimento per le dipendenze dell’Usl 16. Nel corso del 2015 sono finiti in cura al Sert 51 ragazzi di età compresa tra i 15 e i 24 anni per dipendenza da eroina e 27 per cocaina. "Negli ultimi anni si è abbassata notevolmente l’età in cui i giovanissimi fanno il primo incontro con la droga", dichiara il direttore del Sert, Andrea Vendramin, "tra l’altro la diffusione e il traffico delle sostanze stupefacenti è capillare. Eroina e cocaina sono facilmente acquistabili anche dai più giovani". Accade che intorno ai 14 anni si prova prima la cannabis e poi si passa alle droghe più pesanti, eroina in primis: non più in vena, ma fumata. "L’uso di eroina negli anni non è mai scomparso", aggiunge Vendramin. "Oggi direi che eroina e cocaina si contendono il primato. Spesso i giovani cominciano con la cocaina e per spegnere gli effetti collaterali finiscono per fare uso anche di eroina. La dipendenza da eroina può essere contrastata grazie al metadone, ma allo stato attuale non esistono interventi farmacologici specifici per la dipendenza da cocaina. Tra i giovani sta tornando in voga il cosiddetto speedball, popolare negli anni 80 e 90, che prevede l’assunzione in contemporanea di cocaina e eroina allo scopo di fornire un intenso impeto di euforia, che dovrebbe combinare gli effetti di entrambi gli stupefacenti e far ridurre gli effetti dell’ansia". La sede principale del Sert è all’Ospedale ai Colli e comprende anche la sezione distaccata all’Ospedale di Piove di Sacco. Il team è composto da 10 medici più il direttore, cinque psicologi, 10 educatori, tre assistenti sociali, 14 infermieri, cinque operatori socio sanitari, un amministrativo e un tecnico. Il Sert collabora con diversi servizi come ad esempio la Prefettura, le comunità terapeutiche e i reparti di Neuropsichiatria infantile, Gastroenterologia e Malattie infettive. "Per ogni utente si stabilisce un piano di trattamento individualizzato", spiegano Annella Marisa Sciacchitano, medico tossicologo e Nicoletta Caroti, educatrice, "la presa in carico è multidisciplinare". Il lavoro è incessante: in media ciascun medico segue 350 pazienti (il dato comprende ogni tipo di dipendenza). Il 74% degli utenti è residente all’Usl 16, il 18% proviene da altre Usl e l’8% è extracomunitario senza fissa dimora. "La tossicodipendenza è una malattia cronica recidivante", specifica la dottoressa Caroti, "significa che la remissione è un successo, ma il paziente può ricaderci in un momento di difficoltà. Il sistema nervoso centrale è come un computer: anche quando non si pensa più alla droga, l’informazione rimane comunque registrata. Ecco perché non si deve provare. Per superare una dipendenza bisogna trovare la motivazione al cambiamento". Cinema: "Fuocoammare" di Gianfranco Rosi, a Lampedusa la morte silenziosa di Cristina Piccino Il Manifesto, 22 febbraio 2016 Berlinale. In concorso "Fuocoammare", il nuovo lavoro di Gianfranco Rosi Leone d’Oro con il precedente "Sacro GRA" a Venezia, si confronta questa volta con il tema dei migranti. Meryl Streep appare con gli occhialini tondi dal grande schermo che sovrasta l’entrata del Palast. "Adesso voglio vedere i film" dice ai microfoni sul tappeto rosso. Sarà due giorni fa, il giorno dell’apertura, ma poco importa. Lei è stupenda anche nel mega formato gif. Berlinale, primo fine settimana di folla, di sole, di code infinite, di sale sempre sold out dove lavorare è abbastanza difficile, la "macchina organizzativa" tedesca non è poi così impeccabile come la leggenda vuole. Anzi la Germania della politica merkeliana di rigore e controllo sembra in affanno, capita persino di vedere i topi in strada: comune denominatore europeo o nostalgia di Nosferatu? Ed è stato ieri anche il giorno del film italiano, l’unico nella selezione, in concorso, Fuocoammare, nuovo lavoro di Gianfranco Rosi, Leone d’oro col precedente Sacro GRA ma soprattutto autore di capolavori come Below Sea Level. Uno dei nostri migliori registi, Rosi, tra i pochi a cui dare fiducia anche quando annuncia di voler confrontarsi con un tema sensibilmente complesso come quello dei migranti sull’isola di Lampedusa, e dunque con le immagini di una realtà che l’urgenza della cronaca ha quasi consumato. Ma Fuocoammare, come il titolo di una vecchia canzone, e i ricordi della guerra di una vecchia signora, con l’attualità dei servizi televisivi, le inchieste, i doc "impegnati" non ha nulla a che vedere. Non ci sono "teste" parlanti, interviste, dissertazioni, i racconti delle sofferenze diventano le rime di una ballata rap. E Rosi riesce a filmare quello che non si può filmare, la morte,il dolore, i corpi dei cadaveri coperti nei sacchi che vengono tirati su ogni giorno dai barconi in mezzo al mare, ognuno con le sue storie di cui non si sa ma che in fondo, a quel punto, non sono nemmeno importanti. Lo fa con pudore, e sono i momenti più forti del film, mettendosi dalla parte degli uomini dei soccorsi, quasi a farci guardare quella realtà nei loro occhi e condividerne il sentimento a volte, troppe volte, di impotenza. Ascoltiamo le voci, le grida di aiuto via radio ai posti di controllo, è un lavoro quotidiano che appare infinito. Però l’isola non è solo questo, ci sono i suoi abitanti, c’è la sua vita, ci sono i gesti della "normalità" di tutti, andare a pesca, a scuola, combattere il maltempo perché sennò non si riesce a tirare le reti e a guadagnare, occuparsi della casa. Gli sbarchi anche lì sembrano inghiottiti dalle voci alla radio che comunica le cifre degli annegati: "poveri cristiani" commenta una donna girando il pomodoro del sugo. La linea narrativa si muove su questa alternanza dei due piani di realtà dove in uno, quello degli isolani, il personaggio-guida è Samuele, un ragazzino di dodici anni piuttosto strano, che parla in dialetto stretto, tira tutto il giorno con la fionda agli uccellini, ha un occhio pigro e, figlio di pescatori, soffre di mal di mare. A scuola non combina nulla e passa le sue giornate camminando per l’isola che appare deserta insieme a un amico che lo segue con la fionda, perché per essere bravi, spiega Samuele, ci vuole una passione. Lo schema è un po’ quello del precedente Sacro Gra, una sorta di circolarità in uno spazio chiuso, come è quello di un’isola, nel quale ritornano le stesse figure che però non diventano mai con l’eccezione di Samuele, dei personaggi. Rimangono lì, accennati, con qualche ammiccamento all’eterno dna nostrano da commedia all’italiana - tutti ridono quando il ragazzino parla e succhia dal piatto gli spaghetti - circondati da santini madonne e padri pii. Silenziosi come il sub che si immerge ogni mattina nelle acque cercando ricci, immersi nella loro vita di sempre. Samuele spara al cielo con le armi finte, e fischia ai cardellini, li cerca nella notte per tirargli i sassi, eppure se si guarda meglio forse si possono accarezzare. Ecco, la metafora (parolona per carità) degli occhiali del ragazzino e del suo occhio pigro, (un po’ The look of silence il magnifico film di Oppenheimer ) sembra essere il punto di vista del regista, o almeno il posto che ha scelto per sé nonostante l’invisibilità della sua presenza. Rosi sull’isola ha passato quasi un anno, e si capisce che gli isolani si sono abituati a lui. Eppure Rosi non sembra cercare una relazione, a parte col ragazzino, e in fondo neppure tanto, il rapporto rimane sempre nella distanza, di loro non sappiamo nulla se non qualche frammento di quotidiano, cucinare, fare la maglia, uscire a pesca. Mai un commento su quanto accade, tranne nelle parole del medico, mai neppure un conflitto. È questo l’occhio pigro? L’abitudine, la stessa di tutti noi ormai, a quanto avviene davanti a noi? Il rifiuto di guardare anche quando è tanto vicino a te? Non è moralista Rosi, piuttosto ricerca una tensione morale, ed è quella che gli permette di filmare i migranti dando alle immagini a cui siamo "abituati" una forza e un’evidenza mai vista. Anche qui non c’è relazione, ed è giusto però che sarebbe viziata o impossibile. Ci sono istanti di verità, c’è la ricerca di una consapevolezza, di una coscienza, e da cineasta - quale è - c’è la necessità di trovare un’immagine che rispetti ognuna di queste persone restituendone la singolarità. È una domanda forte, ed importante, perché come dicono i protagonisti, un regista egiziano e uno iracheno, di un bel film del Forum, In the Last Days of City, "invece che parlare dei film si parla solo di politica", il cinema deve riuscire a rispondere al confronto col proprio tempo - siamo tutti africani ha detto Meryl Streep aprendo il festival - e la scelta di un’immagine è di per sé un gesto politico. Per questo anche nelle sue incertezze quella di Fuocommare è una scommessa importante col nostro tempo e con la sua fragilità. Cinema: Rosi "ho obbligato l’Europa a guardare Lampedusa e il dramma dei migranti" di Arianna Finos La Repubblica, 22 febbraio 2016 "Penso a tutti quelli che hanno attraversato il mare per arrivare a Lampedusa e a quelli che non ce l’hanno fatta". Gianfranco Rosi stringe l’Orso d’oro della Berlinale per Fuocoammare. "Penso a tutti quelli che hanno attraversato il mare per arrivare a Lampedusa e a quelli che non ce l’hanno fatta". Gianfranco Rosi stringe l’Orso d’oro della Berlinale per Fuocoammare e chiama il medico Pietro Bartolo sul palco: "Mi ha insegnato che Lampedusa è un’isola di pescatori, che accettano tutto quel che viene dal mare. Siamo tutti pescatori e dobbiamo accettare tutti quello che viene dal mare". La sfida per il regista, già Leone d’oro con Sacro GRA, era "sradicare il bombardamento di immagini quotidiane dei telegiornali, una realtà narrata in termini di cifre a cui siamo assuefatti. Era importante testimoniare la tragedia umana in corso". Tra le immagini più forti del film, in sala dallo scorso giovedì, ci sono quelle dei cadaveri ammassati sotto la stiva di un barcone. Rosi afferra il cellulare e cerca tra le foto. "Ecco". Eccolo in tuta bianca mentre si cala nella botola che sbuca sul pavimento del barcone dipinto di azzurro. In un’altra foto è già sotto, la camera in spalla. "Quelli intorno alla botola sono i bulloni, servono per sbarrare ogni via di uscita alle persone che sono sotto. Il 15 agosto 2015 in quaranta sono morti asfissiati a venti miglia dalla costa della Libia, dopo appena cinque ore di navigazione. Nessuno racconta di loro". Lo ha fatto lei a Berlino, città che ha accolto solo quest’anno 80 mila migranti. "In questi anni da Lampedusa sono passate 400 mila persone. Non è mai stato considerato un fenomeno, ma qualcosa che l’Italia doveva risolvere da sola. La scorsa estate tutto è cambiato e l’Europa si è improvvisamente accorta che ci sono masse di persone in movimento. E ha iniziato a reagire, purtroppo non bene. Un mio amico che vive qui da vent’anni mi ha detto che anche la sinistra è terrorizzata, tutti sono contro la Merkel. Mi fa paura anche la manipolazione politica: "Apriamo ai siriani". E tutti gli altri?". In Austria è in vigore il tetto giornaliero e una serie di altre misure anti-immigrati. "Lo trovo vergognoso. Se l’Europa non riesce a fare i conti con una politica europea e non nazionale, sarà la fine di tutto. La cosa che fa più paura non sono i confini fisici, ma quelli mentali. Ciò che è successo a Berlino qualche giorno fa, il pullman assediato dai passanti che si sono accorti dei migranti all’interno, è vergognoso. Il direttore della Berlinale Dieter Kosslick ha giustamente confessato il dolore per qualcosa che lo riporta alla Germania di settant’anni fa". Questo premio al Festival ha un significato politico forte. "Fuocoammare non è un film politico, non consegno giudizi o soluzioni. È un grido di dolore. Ma la sua valenza politica è imprescindibile: perciò era importante mostrarlo qui". Nel film la vita degli abitanti e quella degli immigrati scorrono parallele senza incontrarsi. "Sono arrivato a Lampedusa per raccontare l’identità dell’isola, non volevo che il film fosse solo un collettore di storie legate all’immigrazione. Ho scoperto l’esistenza di due vite parallele. Non esiste un reale incontro tra i pescatori e gli immigrati: Lampedusa non è più l’approdo di chi arrivava e interagiva con gli abitanti. Ora i profughi vengono presi in mare, c’è un controllo medico, un bus che li porta in centro, si fermano lì per la prima identificazione. Ho seguito l’intero viaggio di un gruppo di nigeriani dal soccorso sulla nave militare al trasbordo sulla guardia costiera, lo sbarco a Lampedusa, l’arrivo in centro. È nata così la scena in cui il giovane nigeriano con il suo rap racconta l’orrore del viaggio, il deserto, la prigione in Libia, gli stenti. Quando sono tornato al centro, tre giorni dopo, erano tutti spariti". Qualcuno ha parlato di pornografia, di fronte alle immagini dei corpi nella stiva. "Non avrei mai voluto raccontare i morti, né li ho cercati. La tragedia del barcone mi è arrivata addosso e non ho avuto scelta. Mi sono trovato di fronte a quelle immagini e sarei stato ipocrita a non usarle. Il comandante della nave mi ha spinto: "Devi andare sotto la stiva e filmare. Sarebbe come trovarsi davanti alle camere a gas dell’Olocausto e censurarsi perché le immagini sono troppo forti. Il film è un viaggio emotivo verso quelle immagini necessarie. Nulla è gratuito, nessuno è manipolato". Quali reazioni ha avuto a Berlino? "Un eritreo e un somalo dopo la proiezione sono venuti ad abbracciarmi: "Grazie per aver raccontato il nostro dramma". Sono abituato al fatto che i miei film dividono, stavolta non è successo. Magari c’è qualche voce di dissenso, qualcuno ha urlato "pornografia". Ma la critica e il pubblico l’ha sostenuto e credo che sia anche arrivato l’amore con cui è stato fatto. Spero di aver creato qualcosa che resti e aiuti a creare consapevolezza. Non possiamo più fare finta di non sapere. Siamo tutti responsabili". Cinema: Pietro Bartolo "io, medico della speranza nell’isola che accoglie tutti" di Alessandra Ziniti La Repubblica, 22 febbraio 2016 Pietro Bartolo dall’ambulatorio nel cuore del Mediterraneo all’Orso d’oro di Berlino "Quanti stranieri ho curato? Dicono 250 mila in 25 anni, ma io non tengo il conto: sono uomini, non numeri". "Lo dedico alla mia isola, alla mia gente, ma anche a tutti quelli che non ce l’hanno fatta". Appena sbarcato a Milano da Berlino, l’Orso d’oro portato fieramente sotto braccio, l’emozione di sentire Meryl Streep dire che Fuocoammare merita l’Oscar, la voce di Pietro Bartolo si incrina, mentre il pensiero va alle decine di migliaia di migranti in condizioni drammatiche e ai tantissimi corpi senza vita passati dal suo ambulatorio a Lampedusa. Il medico da trent’anni motore instancabile dei soccorsi ai migranti, adesso non vede l’ora di smettere i panni dell’attore e tornare a indossare il camice. "So che stanotte sono arrivati in duecento, avrei voluto essere con loro invece che qui. Questo mondo non mi appartiene di certo, ma è stata un’avventura travolgente e sono felice di aver accettato questa scommessa. Lampedusa, il suo ruolo in tutti questi anni di migrazione epocale, riguarda tutta l’Europa. C’è chi alza muri, chi tira su fili spinati, ma non saranno né muri né fili spinati a fermare questa gente. L’unico modo di fermarla è aiutarla nel suo Paese, e fino a quando non si riuscirà a farlo, il dovere di ognuno di noi è di assisterla, accoglierla. Come ha fatto sempre il popolo di Lampedusa. È questo che racconta il film di Rosi. E spero che anche questo serva da stimolo a persone, istituzioni, che possono fare e non hanno finora fatto". Può servire anche un film? "Sì. In Germania ho trovato quello che non mi sarei mai aspettato. Non facciamo altro che leggere di frontiere chiuse, di respingimenti, ma io qui ho trovato grande sensibilità e grande affetto. Ho visto centinaia di persone commuoversi, con le lacrime agli occhi, sono stato travolto da un interesse e da un’emozione che non mi sarei mai aspettato. E allora credo, spero, che questo possa servire. Io il mio obiettivo l’ho già raggiunto, riuscire ad avviare un’opera di sensibilizzazione, svegliare le coscienze". Da un ambulatorio di frontiera alle passerelle del festival di Berlino. Come ha fatto Rosi a convincerla a cambiare ruolo? "Il nostro è stato un incontro casuale. Rosi era a Lampedusa per cominciare a girare il film quando ha avuto bisogno di me per alcuni suoi acciacchi. È venuto in ambulatorio e abbiamo cominciato a parlare. Tre ore e più, mi chiedeva di tutto sulla storia di Lampedusa. Poi gli ho fatto vedere delle immagini che hanno segnato la mia vita, che porto sempre con me in una chiavetta usb e da allora è cominciato tutto". Già, le immagini di tante tragedie che l’hanno vista sempre in prima linea. Come quella di Kebral. "Non dimenticherò mai il volto di quella ragazza eritrea. Era la mattina del 3 ottobre 2013, sul molo i pescherecci scaricavano uno dietro l’altro decine di corpi di uomini e donne morti nel terribile naufragio davanti alle coste dell’isola. Quella ragazza era lì, allineata tra i cadaveri. Sembrava morta, ma quando l’ho toccata e le ho sentito il polso ho avvertito un flebile segno di vita. È stata una corsa contro il tempo, l’ho presa in braccio, l’abbiamo portata in ambulatorio. Era viva, l’abbiamo salvata. È stata una delle gioie più grandi della mia vita". Quanti migranti sono passati dalle sue mani? "Non ho mai tenuto la contabilità perché per me sono tutte persone e non numeri, ma mi dicono più di 250 mila in 25 anni. Dal primo sbarco di tre tunisini su una barchetta ai settemila che nel 2011, in una sola settimana, nell’anno della Primavera araba, invasero Lampedusa. Erano molti di più della popolazione dell’isola. I lampedusani aprirono le loro case, diedero loro vestiti, cibo, letti, affetto. In quell’occasione Lampedusa mostrò a tutto il mondo il suo cuore grande. Ed è per questo che porterò loro dopodomani questo Orso d’Oro. So che mi aspettano tutti con grande emozione, non vedono l’ora. E d’altronde se lo sono meritato. È un popolo che ha dato sempre tutto con grande abnegazione senza mai lamentarsi, senza mai chiedere e ottenere niente in cambio". È un popolo che si merita il premio Nobel? "Certamente, sarebbe un grande riconoscimento per tutti noi". Il telefono di Pietro Bartolo squilla continuamente. Lo chiama il sindaco Giusy Nicolini, emozionata e felicissima, lo chiama sua moglie, medico rimasta a Lampedusa con i tre figli, lo chiama il parroco dell’isola, don Mimmo, che ha dedicato la sua omelia domenicale alla vittoria di Fuocoammare. E tutti pensano già all’organizzazione della grande festa nell’isola, con un primo grosso problema da risolvere. "A Lampedusa non abbiamo un cinema - dice Bartolo. Adesso Gianfranco Rosi dovrà fare in modo che arrivi uno schermo gigante, e una troupe per proiettarlo in piazza e dare questa possibilità alla gente". Televisione: un’Italia sorniona che piange l’eroe (ma non lo imita) di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2016 Ad alcuni sarà piaciuta, ad altri meno, qualcuno avrà provato sorpresa e sgomento. Ma un fatto è certo: la fiction "Io non mi arrendo" - la storia di Roberto Mancini, il poliziotto che scoprì l’ecocatastrofe della Terra dei fuochi - ha chiarito a 7 milioni e mezzo di italiani che simili disastri criminosi non avvengono per caso né all’improvviso; che provarli è faticoso e non scevro di ostacoli; che, oltre alle armi, ai boss servono occhi che non vedono e bocche che non parlano. Che, infine, l’impegno personale deve ancora oggi spingersi fino all’eroismo per non venire vanificato dalle potenti spinte contrarie. Il film di Rai1, dunque, ha il merito di sollevare il tema della responsabilità, raccontando quella fetta di Casertano martoriata da rifiuti tossici e roghi alla diossina, in parallelo con la storia del poliziotto, morto per i veleni inalati e oggi medaglia d’oro alla memoria. Milioni di italiani, dunque, ora sanno che la Terra dei fuochi è la risultante del connubio tra gli appetiti camorristi e imprenditori senza scrupoli, controllori "a disposizione" in cambio di denaro, cinici arrampicatori della politica, professionisti affermati che con le loro firme e le loro facce rendono plausibili transazioni sporche. Senza tutti questi ingredienti, non sarebbero state possibili le grandi parabole criminali che crescono per decenni e poi finiscono nei faldoni di imbelli commissioni parlamentari. Per impedire questa eterogenesi dei fini (quando di eterogenesi si tratta) non bastano le manette: occorre che ciascun segmento sociale si decida a rilevare i rischi potenziali e si impegni a rendere impraticabili, a prevenire con rigore le violazioni deontologiche, i doppi registri, le virtù di facciata. Vedendo l’impegno e l’umanità di Roberto Mancini, ci si chiede quanti siano i poliziotti, i funzionari, gli amministratori disposti alla stessa abnegazione. Sicuramente sono tanti, anche se lo sceneggiato fa ben comprendere quale sovrumana tenacia sia richiesta a questi servitori dello Stato. Ed è provato che il bubbone venefico della Terra dei fuochi sia il frutto dello stesso humus in cui si sono radicati i "locali" della ‘ndrangheta in Lombardia, in cui allignano racket e usura, gli appalti dirottati, il lavoro nero nei campi e nei cantieri, il traffico dei migranti. Tutti ambiti in cui le bande criminali poco potrebbero senza l’ignavia e il calcolo di migliaia di persone "normali", apparentemente immerse nei rispettivi (e rispettabili) ruoli, ma intanto portatrici di una subcultura avvezza alla clientela, al favoritismo dalle ricompense non dovute. Una riflessione merita, infine, il ruolo dell’informazione e dell’intrattenimento nella crescita della consapevolezza in un Paese che pur piagato da mafie, corruzione e malaffare, non pare svegliarsi. Dieci anni fa, aprile 2006, veniva pubblicato "Gomorra", il libro di uno sconosciuto Roberto Saviano, poi venduto in oltre 2 milioni di copie in Italia e 10 milioni nel mondo, che ha il merito storico di aver puntato i riflettori sul mefitico regno dei Casalesi, intrattenendo con una buona scrittura. Dopo dieci anni, Saviano, ora notissimo e 36enne, è costretto a dividersi tra una vita in Italia protetta dai carabinieri e un’altra, anonima, oltreoceano. Ciò che capita a Saviano, come ai giornalisti e ai testimoni di giustizia, le polemiche feroci e insinuanti che a ondate lo investono, è un fenomeno che si comprende appieno solo mettendolo in relazione con gli esiti della sua denuncia. Perché mescolato alle ovvie gelosie dell’ambiente letterario per il seguito dello scrittore e la diffidenza dei politici per il suo peso, c’è il lavorìo mai interrotto di boss e accoliti, come dimostrano le assurde proteste per la serie "Gomorra", proprio come avveniva con l’antesignana "Piovra". I media, la letteratura, l’arte, gli intellettuali sono essenziali per far uscire le realtà criminali dal chiuso dei verbali e della saggistica per ricercatori. Ed è quanto mai ipocrita commuoversi per gli eroi civili come Roberto Mancini, il sindaco Vassallo, Giorgio Ambrosoli o il giudice Falcone, senza riconoscerne il valore quando sono persone impegnate, competenti, generose e anche ben vive. Slot machine ridotte del 30%". Ma sono quelle già in magazzino di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 22 febbraio 2016 Fra il 2000 e il 2014, in un Paese dove il Pil procapite crollava del 7,5 per cento, il fatturato del gioco d’azzardo è cresciuto in termini reali del 350 (trecentocinquanta) per cento, a 84 miliardi e mezzo. C’è chi sostiene che in fondo è un fenomeno naturale: si sa che durante i periodi di crisi aumenta il numero di quanti si affidano alla sorte. Sarà. Ma l’ineluttabilità di questo rapporto fra causa ed effetto può spiegare solo in parte, e in una parte molto piccola, quello che è successo in Italia. Fra il 2000 e il 2014, in un Paese dove il Pil procapite crollava del 7,5 per cento, il fatturato del gioco d’azzardo è cresciuto in termini reali del 350 (trecentocinquanta) per cento, a 84 miliardi e mezzo. Il 5 per cento del nostro prodotto nazionale. Per capirci: mentre la disoccupazione galoppante distruggeva a ritmi mai sperimentati nel secondo dopoguerra la ricchezza prodotta da ogni italiano, le bische legalizzate ingrassavano. Succhiando oltre il 10 per cento della cifra che gli italiani destinano ai consumi privati e facendoci così conseguire negli ultimi quindici anni l’unico record che possiamo vantare in Europa, per quanto niente affatto edificante. Quello, appunto, del giro d’affari del gioco d’azzardo. Con alcune significative implicazioni. Per esempio, il numero dei siti internet spuntati come funghi: trecento novantuno. Niente male, per un Paese che sta ancora faticosamente superando la soglia dell’analfabetismo informatico. Per esempio, il numero delle slot machine: sono una ogni 140 residenti nel nostro Paese, neonati compresi. Con una diffusione pressoché doppia rispetto al resto dell’Unione europea. E anziché diminuire, come prevede la legge, minacciano addirittura di aumentare. Conosciamo le argomentazioni dei sostenitori di questo gigantesco e maleodorante business. Se non fosse legale, sarebbe consegnato alla criminalità organizzata, e poi lo Stato incassa un sacco di soldi che altrimenti dovrebbe rastrellare aumentando le imposte, senza dire dei 120 mila addetti che ci lavorano. Come se quella del gioco d’azzardo non fosse di per sé una tassa occulta, e il sistema delle concessionarie, molte delle quali hanno sede a Cipro, Malta o Gibilterra, oppure hanno il capitale schermato da società fiduciarie, non contenesse elementi di opacità. Quanto alla criminalità organizzata, che sia fuori dal giro è tutto da dimostrare. E questo è il meno al confronto delle conseguenze sociali se è vero, come sostengono alcuni studi autorevoli, che la ludopatia colpisce ormai un italiano su 75. Una situazione che ha responsabilità ben individuate e condivise. Da una parte lo Stato, dall’altra una lobby assai influente, capace com’è di rispondere colpo su colpo a ogni tentativo di ridimensionarne la sfera d’azione. Particolarmente istruttivo quello che è successo con l’ultima legge di stabilità. Mentre si sta scrivendo, a ottobre, spunta nelle bozze l’ipotesi di far aprire altri 22 mila punti gioco, con il progetto di raggranellare mezzo miliardo. La cosa più sconcertante è che questo succede quasi nelle stesse ore in cui il capo dello Stato Sergio Mattarella conferisce allo studioso Maurizio Fiasco l’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica, testuale, "per la sua attività di studio e ricerca su fenomeni quali il gioco d’azzardo e l’usura, di grave impatto sulla dimensione individuale e sociale". Gioco d’azzardo, precisa la nota del Quirinale, "illegale e legale". Scoppia una rivolta, con i grillini in prima linea, e il premier Matteo Renzi annuncia: "Con il nostro governo saranno ridotti a quindicimila i punti gioco. E segnatamente i bar con le macchinette verranno ridotti, da seimila potranno essere al massimo mille. La verità è semplice: noi stiamo riducendo i punti gioco in Italia e combattendo così l’azzardo. Chi dice il contrario mente". L’offensiva prende corpo in un articolo della legge di stabilità che stabilisce una riduzione del 30 per cento delle slot machine. Però con una certa calma, nell’arco di quattro anni. Il 31 dicembre del 2019 non ce ne dovrebbero essere in attività più di 265 mila: una ogni 225 italiani. Comunque una cifra, in rapporto alla popolazione, ancora ben più elevata rispetto alla Spagna (una ogni 245 abitanti) e alla Germania (una ogni 261 tedeschi). Sul fatto poi che quel numero sia davvero tassativo, qualche dubbio c’è per com’è scritta la legge. Dice infatti che il taglio del 30 per cento dovrà essere applicato alle macchinette in circolazione alla data del 31 luglio 2015. Già, ma quante erano? Ed è qui che salta fuori una sorpresina. Perché alla fine dello scorso anno, giusto nei giorni in cui la legge di stabilità vedeva la luce, si scopre che nei magazzini ce ne sarebbero altre 82.500 rispetto alle 342.200 in esercizio. Per un totale di 424.700, che ridotto del 30 per cento fa poco meno di 300 mila: numero ben diverso dalle 265 mila di cui sopra. Interessante notare che in alcuni casi le slot rilevate in magazzino sono una percentuale niente affatto trascurabile di quelle attive. Per la Codere, il 35 per cento. Per la Hbg, il 39. Per Netwin, il 63. E per Nts le slot in magazzino sono addirittura più di quelle funzionanti: il 113 per cento. Vedremo come andrà a finire. Di sicuro il gioco d’azzardo continua a esercitare un fascino irresistibile nel Palazzo. Nel governo che si propone per legge di porre un freno al dilagare delle slot machine c’è ancora chi vorrebbe raddoppiare il numero dei casinò, riunendoli tutti sotto una holding. Pubblica, naturalmente. "Ecco perché noi di Apple difendiamo i segreti dell’iPhone" di Federico Rampini La Repubblica, 22 febbraio 2016 Parla un ingegnere della Mela sotto anonimato: "Basta violarne uno per mettere a rischio la privacy di tutti". "Che ne diresti se ti vendessi una casa, ma tenendomi un mazzo di chiavi da usare a tua insaputa, per entrarci anche quando sarai diventato tu il proprietario? O per darle alla polizia, se me le chiede? Ti sentiresti sicuro? Ti sembrerebbe un trattamento corretto da parte mia, cioè del venditore? E poi, chi ti assicura che quel mazzo di chiavi da me custodito non finisca in mano a un ladro?". La metafora immobiliare la sta usando con me un ingegnere di Apple. Vuole spiegarmi perché, dal suo punto di vista, è assurda la richiesta dell’Fbi e della magistratura americana, di "penetrare" dentro un iPhone. La contesa tra la giustizia americana - cioè in ultima istanza l’Amministrazione Obama - e il colosso digitale della Silicon Valley, dominerà l’attenzione per molto tempo. Spacca l’opinione pubblica, i media e il mondo politico. Tutto ha origine perché l’Fbi vuole il contenuto di un iPhone usato dai due terroristi che fecero strage a San Bernardino, California: 14 morti il 2 dicembre scorso. Il chief executive di Apple, Tim Cook, ha detto no alle richieste di Fbi e magistratura. Attirandosi un plauso quasi unanime dai media. E la condanna quasi altrettanto unanime dal mondo politico, capace di un’intesa bipartisan pur nel clima arroventato della campagna elettorale. Cook parla solo tramite i suoi legali, ha rifiutato richieste d’interviste da tutti i giornali e tv. All’interno di Apple vige una segretezza totale, il quartier generale di Cupertino impone regole di comportamento implacabili. L’ingegnere che accetta di parlarmi, un’antica conoscenza per motivi familiari, lo fa a condizione che sia rispettato il suo anonimato. Non rivela segreti industriali; del suo lavoro parla pochissimo, ma si occupa proprio del software per gli iPhone. Mi spiega i ragionamenti che hanno spinto Cook e che lui descrive come ampiamente condivisi da tutti i collaboratori, e anche dalle altre aziende della Silicon Valley, nonché dalla maggioranza degli utenti. Dunque, proseguiamo con la metafora dell’appartamento. "Ora ci chiedono di poter entrare nel tuo iPhone da una porta di servizio, una porta sul retro. Ma questa porta non esiste, andrebbe costruita ad hoc. Non c’è, o per meglio dire non c’è più un’entrata segreta con cui noi possiamo introdurci nel tuo iPhone a tua insaputa o contro la tua volontà". L’attuale livello di protezione della privacy è relativamente recente. Risale al settembre 2014 cioè al varo del sistema operativo iOS8, nell’era successiva alle rivelazioni di Edward Snowden, cioè lo scandalo detto Nsa-gate. La "gola profonda", il transfuga della National Security Agency, disvelò un livello di cooperazione insospettato fra le grandi aziende tecnologiche degli Usa e i servizi segreti. Ebbe un enorme impatto politico, nel mondo intero. E anche fra gli utenti americani. Per Apple esplose un problema di credibilità, di fiducia presso i clienti. "Da allora - mi spiega l’ingegnere di Cupertino - il codice pin del tuo iPhone è diventato una barriera invalicabile. Io che sono un esperto di iOS8 non posso entrare nel tuo iPhone neanche se lo voglio. E dopo 10 tentativi sbagliati di comporre il pin, automaticamente il tuo iPhone cancella i dati perché si presume che sia finito in mano a un ladro. No, ti assicuro, una porta di servizio non esiste". Prendo in parola il mio interlocutore e lo seguo nella metafora dell’appartamento. Gli obietto che in casa mia l’Fbi può entrarci eccome, con un mandato del giudice. All’occorrenza sfondando la porta. E nessuno giudica che questa sia una violazione delle libertà costituzionali. In nome della lotta al crimine e al terrorismo, abbiamo accettato regole e procedure che autorizzano una violazione del mio domicilio. Così come la magistratura può autorizzare l’intercettazione delle mie telefonate. La risposta dell’ingegnere di Cupertino: "Quelle regole non si applicano all’iPhone. Ad altri sì. Per esempio l’intercettazione delle telefonate riguarda le telecom, che sono delle utility, dei servizi di pubblico interesse anche quando sono private. Le telecom sono regolate da leggi che non si applicano a noi Apple". Il mio amico ingegnere vota Bernie Sanders, non è un individualista-liberista a oltranza. Ma è convinto che la battaglia del suo capo Cook sia sacrosanta, in difesa di principi fondamentali della democrazia americana. Il caso Apple-Fbi è già tracimato nella campagna elettorale, con l’appello di Trump a boicottare i prodotti Apple. La politicizzazione è inevitabile. La Silicon Valley, da sempre liberal su temi come l’ambiente e i matrimoni gay, è un serbatoio di voti e di finanziamenti elettorali per i democratici. Tanto che qualcuno si è stupito dello scontro Obama-Cook e ha perfino dubitato che l’Fbi e il Dipartimento di Giustizia non avessero la copertura della Casa Bianca (che invece gliel’ha data). Cook è un personaggio inviso alla destra come pochi: dichiaratamente gay, militante anti-razzista, ha raccontato come la sua coscienza politica maturò nell’infanzia trascorsa tra i razzisti del Ku Klux Klan, in Alabama. I mass media lo stanno appoggiando contro Obama, compreso il progressista New York Times che si è schierato dalla parte di Apple. Al Congresso invece democratici e repubblicani potrebbero unirsi e far passare una legge che renda obbligatoria la cooperazione chiesta dal giudice a Cook. Si potrebbe finire davanti alla Corte suprema, essa stessa oggetto di battaglia politica dopo la morte del giudice Scalia. Cook ha già mobilitato due grandi avvocati di sinistra, Ted Olson e Theodore Boutrous, protagonisti della battaglia per i matrimoni gay in California. Profughi, il muro della Macedonia di Vladimiro Polchi La Repubblica, 22 febbraio 2016 Stop agli afgani in arrivo dalla Grecia, mentre l’Austria invia 450 soldati a presidiare le frontiere In Germania va in fiamme un hotel destinato a ospitare i migranti e i residenti festeggiano. La Macedonia sbarra il passaggio ai migranti afgani in cammino sulla rotta balcanica. L’Austria rafforza la presenza militare alle frontiere, spedendo altri 450 soldati ai suoi confini. Non passa giorno in Europa senza che un nuovo "muro" ai rifugiati venga eretto. E mentre in Germania un gruppo di cittadini festeggia davanti al rogo di un hotel per profughi, l’Italia registra l’ennesimo sbarco: 242 ragazzi, tutti africani, approdati a Lampedusa. L’ultimo fronte è dunque quello macedone: afgani in transito verso il Nord Europa sono stati fermati ieri a Idomeni, alla frontiera tra Grecia e Macedonia. Lo conferma una fonte della polizia greca: "Siamo stati avvisati questa mattina (ieri, ndr) dalle autorità macedoni che non lasceranno più passare gli afgani". La Macedonia ha giustificato la decisione citando una scelta analoga compiuta dalla Serbia, mentre sarebbero stati fatti passare i migranti siriani e iracheni. Posta nel cuore della rotta balcanica, la Macedonia aveva deciso già a novembre di filtrare per nazionalità i migranti, lasciando transitare soltanto afgani, siriani e iracheni. Nelle stesse ore, l’Austria annuncia un rafforzamento militare lungo le sue frontiere per far fronte all’afflusso di migranti. Il governo di Vienna ha disposto da oggi il dislocamento di altri 450 soldati, portando così a 1.450 il numero di militari sui confini. Non solo. Una compagnia di polizia militare di Salisburgo è preallertata per impedire a eventuali "gruppi violenti di passare la frontiera". "A cosa serve l’Europa - chiede il premier Matteo Renzi - se in nome della solidarietà i nuovi Paesi arrivati si buttano per prendere e poi si rifiutano di dare, immaginando che la solidarietà sia un optional?". A raccontare la tensione di questi giorni è anche quanto accaduto nella mattina di ieri in Germania. Un hotel destinato ai profughi a Bautzen (ma ancora in allestimento e dunque vuoto) è stato danneggiato da un incendio, mentre gruppi di residenti festeggiavano per il rogo. "Attorno all’incendio si è riunito un gruppo di persone, soprattutto uomini alcolizzati, che hanno osservato divertiti l’accaduto - racconta un portavoce della polizia di Goerlitz - c’è adesso un’inchiesta su chi ha tentato addirittura di bloccare l’intervento di spegnimento dei vigili del fuoco". Sempre in Germania un richiedente asilo di 20 anni è morto dopo essere stato accoltellato durante una lite in un centro di rifugiati in Baviera. Mentre in Italia Matteo Salvini attacca il prefetto di Treviso ("vai a casa e cambia lavoro"), che avrebbe ipotizzato la requisizione delle case sfitte contro la mancata collaborazione dei comuni nell’accoglienza ai profughi. Polpette di maiale ai figli dei migranti, dove finisce l’accoglienza danese di Marco Imarisio Corriere della Sera, 22 febbraio 2016 Viaggio nella cittadina di Randers, Jutland, dove un’ordinanza obbliga "ogni residente o ospite a mangiare carne di porco", servita anche nelle mense e negli asili. Gli ultimi manifesti con Santa Claus che fuma marjuana sono chiusi nelle teche del museo che racconta la storia della città. Ma appena tre anni fa erano appesi alle vetrine di negozi e bar che somigliavano parecchio ai coffee shop olandesi. Nell’aprile del 2013 la municipalità di Randers stanziò tre milioni di corone, l’equivalente di 450mila euro, per migliorare una reputazione e una immagine troppo legate alla definizione di "Christiania dello Jutland", laddove il paragone con il celebre quartiere libertario e anarchico della capitale Copenaghen comportava una notorietà dovuta a spaccio di droga e libero consumo di alcolici. La "guerra delle polpette" - Nelle ultime settimane la sesta città danese per numero di abitanti, 96.000 contando i sobborghi, è diventata il simbolo della "frika delle krigen", la guerra delle polpette, che la sta rendendo celebre anche all’estero. "Onde limitare l’affluenza e l’influenza dei migranti, ogni residente o ospite di questa città deve mangiare carne di maiale". L’idea è venuta a Frank Norgard, brizzolato consigliere comunale del Df, il partito di estrema destra danese, che mentre cammina tra le case in legno del centro storico ribadisce la bontà delle sue intenzioni. "Vogliamo che i bambini nati in Danimarca possano nutrirsi del nostro piatto nazionale anche in futuro, preservando così l’identità del cibo danese". Nelle scuole e negli asili - Il provvedimento che introduce l’obbligo di servire carne di maiale nelle scuole e negli asili nido, sottoponendolo in linea di principio anche a chi non la può mangiare per motivi religiosi, è una novità assoluta. Non solo a queste latitudini. Neppure in Francia e in Italia, dove in passato lepenisti e leghisti hanno affrontato la questione dei menu diversificati negli istituti, si era arrivati a una scelta così radicale. Succede invece in una città della tollerante Danimarca che vanta un welfare accogliente e statistiche che certo non fanno gridare all’invasione. Sui 780mila migranti arrivati nel secondo semestre del 2015 nei 28 stati membri dell’Unione europea, solo 13.000 hanno presentato richiesta di asilo al governo di Copenaghen. Ma è proprio da qui che lo scorso 3 gennaio è cominciato l’effetto domino dell’Europa sulla crisi dei migranti. La Danimarca è il primo Paese che ha deciso la chiusura delle proprie frontiere, seguita a ruota dalla Svezia. Subito dopo ha approvato una legge che permette alla polizia di requisire denaro e oggetti di valore dei rifugiati. La politica locale - Randers, Danimarca. Una parte per il tutto. La guerra delle polpette è stata vinta dai sostenitori della carne di maiale obbligatoria per un voto di scarto, 16 favorevoli e 15 contrari. Il sindaco è un deputato del Partito liberale e può contare su 13 consiglieri. Il Df, partito del popolo danese, garantisce l’appoggio esterno con tre eletti che risultano decisivi. Nel suo piccolo è la riproduzione di quel che accade su scala nazionale dal 28 giugno 2015, giorno di elezioni che hanno consegnato una non-vittoria ai Liberali e il ruolo di ago della bilancia all’estrema destra. "Questa dipendenza politica genera decisioni assurde che non riflettono il vero sentire della nostra gente - dice Mogens Niholm, esponente dei social-liberali di Randers -. Sono tanti quelli che si vergognano per aver votato l’ordinanza sulle polpette. Hanno obbedito perché costretti. Tanto sanno che i Consigli dei genitori, decisivi nelle nostre scuole, non la applicheranno mai per intero". La ministro dell’Integrazione - A Copenaghen è diverso. La posta in gioco più alta e l’esposizione mediatica obbligano il governo al decisionismo senza compromessi sui confini e gli averi dei migranti. "Non è vero che siamo cambiati. Noi, come gli svedesi, ci siamo resi conto una politica più rigida sugli stranieri è premessa essenziale per la loro integrazione nella nostra società". La parte dell’avvocato difensore dell’Europa del Nord tocca a Inger Stoiberg, ex giornalista e attuale ministro dell’Integrazione. "Se vogliamo che il trattato di Schengen sopravviva bisogna controllare in modo severo le frontiere esterne dell’Unione europea. Facciamo funzionare gli hotspot e la libera circolazione degli uomini tornerà quella di prima. Non dipende da noi". Stoiberg nega l’influenza dell’estrema destra, ma le statistiche dicono che qualcosa è cambiato proprio in questi ultimi mesi. Ancora nel 2014, quando il governo era nelle mani di una maggioranza conservatrice ma autosufficiente, la piccola Danimarca era stata il quinto Paese del mondo nell’accoglienza di richiedenti asilo (37.280) in ordine alla quantità di abitanti, il secondo dell’Unione europea per i profughi siriani. "Quelli che accettiamo hanno diritto a una casa e ad un programma di integrazione che prevede un posto di lavoro fisso. Quindi se vogliamo mantenere il nostro generoso welfare ci deve essere un limite alla quantità di profughi che possiamo ricevere". Il ministro fa una smorfia quando si accenna alla guerra delle polpette. "In linea di principio sono favorevole al fatto che i nuovi arrivati rispettino i valori che definiscono l’identità danese". Intanto Randers è finita sulle pagine dei principali quotidiani e sui siti di mezzo mondo. Ma a giudicare dagli insulti arrivati via Internet, non è detto che la sua reputazione sia migliorata rispetto ai tempi Siria: bombe, esecuzioni e code per il pane, Raqqa sempre più stretta nell’incubo di Francesca Paci La Stampa, 22 febbraio 2016 La testimonianza di un attivista: gli jihadisti in crisi reclutano i bambini. "La situazione qui a Raqqa è peggio di sempre. I raid aerei colpiscono ovunque, mi riferisco in particolare alle bombe russe che puntano in modo specifico i civili. Tutti vedono la differenza tra gli aerei della coalizione internazionale e quelli di Putin che sostiene Assad e mira alla gente normale. Intanto l’Isis continua a imprigionare chiunque alzi la testa e pretende tasse per servizi che non esistono". Il racconto di Abu Mohammed, anima del blog collettivo e clandestino "Raqqa is Being Slaughtered Silently", arriva dalla disgraziata capitale siriana dello Stato islamico da due anni ostaggio degli jihadisti. L’esercito di Damasco avanza da una parte e i curdi dell’Ypg incalzano da nord, ma per quel che resta dei 200 mila abitanti la controffensiva significa passare dalla galera alla trincea. "L’elettricità c’è solo tre ore al giorno. L’acqua manca. Le rare medicine sono riservate ai miliziani e negli ospedali si muore di tubercolosi, leishmaniosi, influenza. Da mangiare c’è ma i prezzi sono schizzati alle stelle: il riso che una volta costava 25 pound siriani al chilo oggi ne costa 250". Abu Mohammed descrive la vita nelle retrovie del Califfato dove la somma dei bombardamenti e del ribasso del petrolio ha messo in crisi le banche dell’Isis. Da settimane sono stati dimezzati i salari, le "imposte" vanno pagate in dollari e i detenuti risparmiati dal boia possono uscire con una cauzione di almeno 500 dollari. Nella città che fino al 2014 si considerava "liberale" si aggirano fantasmi, uomini a capo chino e donne nere dalla testa ai piedi: "Alcuni lavorano ancora nei supermercati, fanno riparazioni di auto, piccola amministrazione, commercio ambulante. La maggior parte passa il tempo in casa. Gli adulti escono per fare la fila per il cibo al Kitchen Relief o con i secchi di plastica per la distribuzione dell’acqua. I bambini, in assenza di scuole, stanno in strada, vanno in moschea o vengono portati ai campi di addestramento". Secondo uno studio della Georgia State University e uno del CTC Sentinel, l’Isis in difficoltà recluta minori a man bassa, nell’ultimo anno il numero dei baby kamikaze è triplicato e un terzo di loro viene mandato all’assalto al di là delle linee nemiche. Il principale centro di addestramento è appena fuori Raqqa. Ma l’Isis è davvero in difficoltà? "Ci sono meno esecuzioni e punizioni pubbliche, l’Isis è occupato da altro, specialmente ad Aleppo dove ha mandato molti combattenti. Fino a poco tempo fa c’era una gabbia in piazza in cui venivano messi i prigionieri, ora non più. Invece nei mercati c’è ancora la polizia religiosa femminile al Khansa. L’Isis sta perdendo ma per Raqqa oggi cambia poco. Ieri hanno giustiziato un giovane, si chiamava Ahmed Alhamza, gli hanno sparato in testa perché "infedele". E intanto piovono le bombe. I miliziani si nascondono tra i civili, negli edifici popolosi, appena finiti i raid tornano a pattugliare le strade. Molti di noi tentano la fuga ma anche chi riesce a eludere la sorveglianza Isis non può più andare in Turchia perché le milizie curde bloccano la strada". Abu Mohammed ha perso amici e compagni del blog, scoperti e giustiziati dall’Isis. Sa che all’orizzonte ha i curdi e sulla testa i caccia internazionali: "L’Isis sarà sconfitto ma non voglio che i curdi prendano Raqqa perché anche loro sono terroristi, avanzano bruciando case e cacciando gli abitanti, l’hanno già fatto a Tel Abyad. E poi vogliono dividere la Siria. Non mi rallegrano neppure le bombe perché non risparmiano i civili. Da due anni il mondo vuole eliminare l’Isis ma non è successo niente. L’unico sostegno che vorrei è al Libero Esercito Siriano". Pakistan: coppia rischia la pena di morte per un sms "blasfemo" mai inviato di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 febbraio 2016 Nel luglio 2013 Maulvi Mohammed Hussain, l’imam di Gojra, nel Pakistan orientale, denuncia alla polizia di aver ricevuto un sms contenente insulti nei confronti del profeta Maometto. L’autore dell’sms - dice l’imam - è Shaqfat Emmanuel. Il cellulare usato è quello di sua moglie, Shagufta Kausar. Shaqfat e Shagufta sono una coppia cristiana. Hanno quattro figli. Lui è semi-paralizzato agli arti inferiori. Il fatto è che quell’sms Shaqfat Emmanuel non l’ha mai mandato. Il cellulare della moglie era stato rubato mesi prima e non risulta essere mai stata attivata una Sim a nome di Shagufta. In mano all’accusa c’è solo uno scontrino che attesta l’acquisto della scheda telefonica abbinata al numero da cui è partito l’sms. In Pakistan le leggi contro la blasfemia, che prevedono anche la pena di morte, sono usate in modo del tutto arbitrario. Si applicano nei confronti delle minoranze (quella cristiana, ma anche i musulmani considerati "eretici") e non poche volte vi si ricorre per risolvere dispute tra privati o per mera vendetta personale. Da anni, le organizzazioni per i diritti umani chiedono che siano abolite. Il caso più celebre, di cui abbiamo parlato più volte in questo blog, è quello di Asia Bibi, la cui condanna a morte è ancora in piedi e le cui condizioni di salute nel frattempo si stanno aggravando Shafqat Emmanuel continua a sostenere di essere stato costretto a confessare sotto tortura e perché non riusciva a sopportare la vista della moglie che veniva a sua volta torturata dalla polizia. La settimana scorsa i legali della coppia hanno presentato all’Alta corte di Lahore un’istanza di rilascio su cauzione. Negli oltre due anni e mezzo trascorsi in carcere, le condizioni di salute di Shafqat Emmanuel sono profondamente peggiorate. Iran: la taglia su Rushdie e il gioco ambiguo del regime di Guido Olimpio Corriere della Sera, 22 febbraio 2016 Nel corso degli anni il regime ha espresso posizioni diverse sulla fatwa. La hanno lasciata decantare, poi confermata, tirata fuori quando serviva per manovre politiche. In Iran c’è chi prova a cambiar pagina, spera in una normalità che porti fuori dal clima di rivoluzione permanente dove si trovano a loro agio i radicali. Che, però, hanno sempre i mezzi per creare problemi. E sanno bene su quali tasti insistere per attirare l’attenzione globale. Quaranta organizzazioni mediatiche iraniane hanno offerto 600 mila dollari di taglia sulla testa di Salman Rushdie, l’autore dei versetti satanici. Un appello alla vendetta nell’anniversario dell’oscena fatwa emessa dall’ayatollah Khomeini il 15 febbraio del 1989. Una prova che per i duri e puri il tempo non passa mai. Usano in modo strumentale quella pagina nera consapevoli dell’impatto che può avere. Si muovono mentre il presidente Rouhani, con l’accordo nucleare e contatti, prova a ridisegnare il ruolo per un paese fondamentale. Nel corso degli anni il regime ha espresso posizioni diverse sull’editto religioso. Lo hanno lasciato decantare, poi confermato, tirato fuori ogni volta che è servito per manovre politiche tra i confini iraniani e all’estero. Spesso i mullah sono rimasti nell’ambiguità. È la loro arte, è la loro arma. Non se la sentono di smentire in modo netto la famosa decisione del padre della Repubblica islamica e tengono comunque sotto pressione lo scrittore, che non potrà mai rilassarsi nel timore di un killer nascosto nell’ombra. Celebre la formula usata dagli ayatollah quando chiedevano loro se il decreto di morte approvato dall’imam di Qom fosse ancora valido: la freccia è già stata scoccata. Nel senso che, anche volendo non è possibile fermarla. Un’assunzione di responsabilità preventiva nel caso che qualche zelota trovi una breccia per eseguire la missione assassina. Non importa quando. Ecco perché il premio in dollari offerto dai media può essere solo l’ennesima provocazione degli estremisti, ma anche la spia di come l’Iran debba ancora superare molti esami di affidabilità.