Quei cinquantamila risarciti dallo Stato per ingiusta detenzione di Luca Rocca Il Tempo, 21 febbraio 2016 Cinquantamila persone, circa 600 milioni di euro. In Italia l’ingiusta detenzione fa vittime e danni. Scrive il sito internet errorigiuziari.com: "L’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è stato introdotto con il codice di procedura penale del 1988, ma i primi pagamenti - spiegano dal ministero dell’Economia - sono avvenuti solo nel 1991 e contabilizzati l’anno successivo: in soli 22 anni, dunque, oltre 22 mila e 300 persone sono state vittima di ingiusta detenzione o errore giudiziario vero e proprio. Come arriviamo allora alla soglia dei 50 mila? Non tutti coloro che fanno richiesta del risarcimento vengono soddisfatti. Solo un terzo, al massimo due terzi delle domande (le fonti non concordano) - prosegue il sito - vengono accolte e liquidate. Ciò significa che il totale delle persone che avrebbero diritto all’indennizzo previsto per legge, sarebbero molte di più delle 22.323. Tra riparazioni per ingiusta detenzione e indennizzi per gli errori giudiziari veri e propri (quelli cioè sanciti dopo un processo di revisione nei confronti di un condannato con sentenza definitiva, da cui quest’ultimo è stato dichiarato innocente), lo Stato ha speso dal 1991 (anno dei primi 5 casi di risarcimento contabilizzati) a oggi (fine 2013, ndr) ben 575.698.145 euro. Quasi tutto (545.460.908) per risarcire le decine di migliaia di ingiuste detenzioni scontate da innocenti in carcere o agli arresti domiciliari. Facendo una media grossolana, ogni anno dalle casse statali sono usciti 30 milioni di euro come indennizzo per ingiuste detenzioni ed errori giudiziari. Con punte molto più elevate: come gli oltre 56 milioni del 2004, i 49 milioni e passa del 2002, i 47 milioni abbondanti del 2011. "Il dato più basso - continua il dossier - si fece registrare nel 1997 (circa un milione e mezzo di euro, tra ingiuste detenzioni ed errori giudiziari). La tabella del ministero dell’Economia e delle Finanze è tutta da leggere: nella colonna degli importi pagati per errore giudiziario, per esempio, balza agli occhi come il 2012 sia stato l’anno in cui più si è speso per i soli errori (poco meno di 7 milioni di euro). Interessante notare un particolare. Negli ultimi due anni, gli importi liquidati e le domande di risarcimento sono nettamente diminuiti. Stato più virtuoso? Meno innocenti in carcere? No, il vero motivo è un altro. Lo spiegano gli stessi esperti del ministero dell’Economia e delle Finanze: le diminuzioni degli importi corrisposti a titolo di R.I.D. (Riparazione per Ingiusta Detenzione) soprattutto negli ultimi anni non sono conseguenza di una riduzione delle ordinanze, bensì della disponibilità finanziaria sui capitoli di bilancio non adeguata". Boom di innocenti in cella anche nel 2015 La top ten degli errori giudiziari dell’anno. Quattro milioni arrestati ingiustamente In compenso dal 1998 al 2014 gli inquirenti riconosciuti colpevoli sono solo quattro. Milioni di persone incarcerate ingiustamente, migliaia le vittime di errori giudiziari, centinaia di milioni di euro per risarcire chi, da innocente, ha subìto i soprusi di una giustizia letteralmente allo sfascio. I numeri che descrivono il penoso stato del nostro sistema giudiziario non lasciano scampo e immortalano uno scenario disastroso a cui nessun governo è riuscito, finora, a porre rimedio. Il sito errorigiudiziari.com, curato da Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, ha messo in rete i 25 casi più eclatanti del 2015 di cittadini innocenti precipitati nella inestricabile ragnatela della malagiustizia italiana. Casi che contribuiscono a rendere il panorama del nostro impianto giudiziario, come certificano più fonti (Unione Camere Penali, Eurispes, Ristretti Orizzonti, ministero della Giustizia), più fosco di quanto si pensi. Se dall’inizio degli anni 90 gli italiani finiti ingiustamente dietro le sbarre sono stati circa 50mila, negli ultimi 50 anni nelle nostre carceri sono passati 4 milioni di innocenti. E se nell’arco di tempo che va dal 1992 al 2014 ben 23.226 cittadini hanno subìto lo stesso destino, per un ammontare complessivo delle riparazioni che raggiunge i 580 milioni 715mila 939 euro, i dati più recenti attestano che la situazione non accenna a migliorare. Come comunicato dal viceministro della Giustizia Enrico Costa, infatti, dal 1992, anno delle prime liquidazioni, al luglio del 2015 "è stata sfondata la soglia dei 600 milioni di euro" di pagamenti. Per la precisione: 601.607.542,51. Nello stesso arco di tempo, i cittadini indennizzati per ingiusta privazione della libertà sono stati 23.998. Nei primi sette mesi del 2015, inoltre, le riparazioni effettuate sono state 772, per un totale di 20 milioni 891mila 603 euro. Nei 12 mesi del 2014, invece, erano state accolte 995 domande di risarcimento, per una spesa di 35,2 milioni di euro. Numeri che avevano fatto registrare un incremento dei pagamenti del 41,3 per cento rispetto al 2013, anno in cui le domande accettate furono 757, per un totale di 24 milioni 949mila euro. In media lo Stato versa circa 30 milioni di euro all’anno per indennizzi. I numeri a livello distrettuale riferiti ai risarcimenti per ingiusta detenzione collocano al primo posto Catanzaro con 6 milioni 260mila euro andati a 146 persone. Seguono Napoli (143 domande liquidate pari a 4 milioni 249mila euro), Palermo (4 milioni 477mila euro per 66 casi), e Roma (90 procedimenti per 3 milioni 201mila euro). Nel 2014 è stato registrato un boom di pagamenti anche per quanto riguarda gli errori giudiziari per ingiusta condanna. Dai 4.640 euro del 2013, che fanno riferimento a quattro casi, si è passati a 1 milione 658mila euro dell’anno appena trascorso, con 17 casi registrati. La liquidazione, infatti, è stata disposta per più di 1 milione di euro per un singolo procedimento verificatosi a Catania, e poi per altre 12 persone a Brescia, due a Perugia, una a Milano e l’ultima a Catanzaro. Dal 1992 al 2014 gli errori giudiziari sono costati allo Stato, dunque al contribuente italiano, 31 milioni 895mila 353 euro. Ma il ministero della Giustizia, aggiornando i dati, ha certificato che fino al luglio del 2015 il contribuente ha sborsato 32 milioni 611mila e 202 euro. La legge sulla responsabilità civile dei magistrati è stata varata la prima volta nel 1988 e modificata, per manifesta inefficacia, solo nel febbraio di quest’anno. I dati ufficiali accertano che dal 1988 al 2014 i magistrati riconosciuti civilmente responsabili dei loro sbagli, con sentenza definitiva, sono stati solo quattro. Secondo l’Associazione nazionale vittime errori giudiziari, ogni anno vengono riconosciute dai tribunali 2.500 ingiuste detenzioni, ma solo un terzo vengono risarcite. Stefano Livadiotti, nel libro "Magistrati, l’ultracasta", scrive che le toghe "hanno solo 2,1 probabilità su 100 di incappare in una sanzione" e che "nell’arco di otto anni quelli che hanno perso la poltrona sono stati lo 0,065 per cento". "Tossicodipendenza e carcere non si coniugano". Le proposte degli Stati generali di Teresa Valiani Redattore Sociale, 21 febbraio 2016 Politiche sociali, riduzione degli ingressi, kit con materiale sterile e indicazioni internazionali per la prevenzione di overdose e Hiv, misure alternative in automatico e un protocollo che faciliti il rientro nella società, tra le indicazioni in primo piano. "Tossicodipendenza e carcere non si coniugano" perché il carcere "acuisce in modo esponenziale i problemi dell’individuo" incidendo "ancora di più su un’interiorità e un’esistenza già provate e accentuando il tasso di recidiva di chi vi sconta la pena, al contrario di chi usufruisce delle misure alternative". Parte con questa premessa, in tema di dipendenze e carcere, il lavoro del Tavolo 4 degli Stati generali sull’esecuzione penale chiamato a riunirsi su: "Minorità sociale, vulnerabilità e dipendenze". In primo piano tra le proposte: ricorrere al carcere solo per casi eccezionali, rendere automatico il ricorso alle misure alternative, incrementare la prevenzione per Hiv e overdose, allineare le alternative terapeutiche agli interventi sul territorio, predisporre tavoli permanenti interistituzionali e un protocollo che raccolga i dati utili sui detenuti a fine pena per agevolare il reinserimento. Il rapporto finale degli esperti, coordinati da Emanuele Bignamini, direttore del Dipartimento dipendenze Asl 2 di Torino, è disponibile sul sito del ministero della Giustizia insieme agli altri 17 report e tutto il materiale è ora sottoposto a consultazione popolare. Da qualche giorno è attiva una casella di posta elettronica per raccogliere suggerimenti e rilievi sulle relazioni: statigenerali.consultazione@giustizia.it. I messaggi non devono superare i 2 mila caratteri (spazi inclusi) e non è possibile inviare allegati. Azione sinergica. Riconoscendo al carcere il merito di "intercettare un numero rilevante di persone tossicodipendenti che non hanno mai avuto accesso ai Servizi", il Tavolo chiama in causa tutte le forze in campo: "giustizia, sanità, servizi sociali, volontariato e terzo settore", sottolineando la necessità di investire tempo e risorse per arrivare a una visione sociale condivisa, attraverso processi culturali e formativi. Da qui la proposta di prevedere "risorse comuni, anche finanziarie, interministeriali e tra enti diversi, finalizzate alla gestione pratica dei casi multiproblematici. La popolazione tossicodipendente in carcere - spiegano gli esperti - comprende fasce particolarmente marginali e problematiche: persone che vivono uno stato di svantaggio, disagio o marginalità e per le quali, più che una risposta carceraria, sarebbero opportune politiche sociali". Il detenuto dipendente "ha accesso al circuito penitenziario non perché abbia coscientemente scelto la strada del crimine, ma solo perché non ha possibilità di accedere alle risorse che in un welfare funzionante dovrebbero essere garantite a tutti". Un problema che assume dimensioni ancora più eclatanti per gli stranieri senza permesso di soggiorno "che non riescono ad accedere ai benefici, anche quando ne hanno diritto, perché non sono nelle condizioni di proporre una progettualità terapeutica" e di indicare un adeguato domicilio esterno. Le proposte. Riduzione degli ingressi in carcere. Depenalizzazione completa di tutte le condotte riferibili all’ambito del consumo (cessione gratuita e coltivazione a uso personale). Riduzione delle pene per le condotte riferite allo spaccio e al traffico. Ricorso al carcere solo per casi eccezionali. "Riallineamento" dell’affidamento terapeutico a quello ordinario e integrazione dell’affidamento terapeutico con programmi speciali di reintegrazione sociale. Introduzione di un programma speciale di messa alla prova per soggetti con problemi di abuso/dipendenza da sostanze. Definizione del diritto certo degli stranieri alle alternative terapeutiche. Misure alternative automatiche. "L’accesso alle misure alternative alla detenzione, che dovrebbero essere misure di tutela della salute, avviene ora su richiesta del singolo e l’esito della richiesta è difforme e spesso incerto". Da qui il passaggio alle misure alternative in automatico, "in quanto tutelano un diritto alla salute e un interesse della collettività". Overdose e Hiv: incrementare la prevenzione. "Rimane alto il fenomeno delle overdosi, spesso a esito fatale, per le persone dipendenti da eroina dimesse dal carcere. Questo grave problema è legato anche all’insufficiente copertura metadonica e alla difficoltà di mantenere la continuità della cura "dentro-fuori" il carcere. Per ciò che riguarda la prevenzione dell’Hiv, è stato di recente elaborato un pacchetto di interventi dalle principali agenzie delle Nazioni Unite, non ancora applicati in Italia. Il Tavolo propone di recepire le indicazioni internazionali, "riconoscendo pragmaticamente la realtà delle carceri italiani". In particolare: "predisporre linee guida per la prevenzione delle overdosi", allineando la copertura dei programmi relativi al metadone in carcere a quella sul territorio, seguendo le indicazioni della letteratura internazionale. Si chiede inoltre di applicare il pacchetto di interventi di prevenzione Hiv "compresa l’indicazione di rendere disponibile in forma confidenziale il materiale sterile per iniezione ai consumatori di droghe". Allineare le alternative terapeutiche agli interventi sul territorio. Promuovere programmi più articolati, con un ventaglio di obiettivi nelle diverse aree di vita e con più ampio ricorso a misure di sostegno/reinserimento sociale: istituire tavoli di confronto fra operatori della giustizia, operatori sociali e delle dipendenze, per discutere le linee dei programmi, l’integrazione fra le diverse competenze, a partire da un confronto sui modelli culturali che stanno a monte dei programmi stessi. Definire accordi fra Ser.D. e Magistratura di sorveglianza sull’esempio di Milano, in modo che siano riconosciuti due tipi di diagnosi: un modello A, che riguarda la tossicodipendenza diagnosticata al momento dell’ingresso in carcere, e un modello B, che tiene conto della storia della persona e del quadro criminologico. Un protocollo per il reinserimento. "La predisposizione di un protocollo di dimissione che sia in grado di raccogliere dati utili per tracciare i punti di forza e di debolezza delle biografie di ogni detenuto in dimissione e l’applicazione sistematica nel periodo precedente alla scarcerazione, consentirebbe di programmare le misure utili per attenuare l’impatto dell’uscita sin dall’applicazione del protocollo a livello nazionale. Il Protocollo dimittendi può essere applicato stabilmente amministrativamente o attraverso una previsione normativa specifica che integri, coordini e rinforzi le attuali norme". Opg. Il Commissario Corleone "l’obiettivo è chiuderli nei sei mesi del mio incarico" di Giovanni Augello Redattore Sociale, 21 febbraio 2016 Così il Commissario unico per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari da poco nominato dal governo. Quattro gli Ospedali psichiatrici giudiziari ancora da chiudere e sei le regioni in ritardo con le Rems. "Situazione attuale insostenibile. Confido su collaborazione delle regioni". Sei mesi per chiudere gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) e per dare una svolta alla predisposizione delle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, in quelle regioni dove si sono accumulati ritardi. È questa la tabella di marcia da seguire secondo Franco Corleone, nominato Commissario unico per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari dal Consiglio dei ministri. A Redattore sociale racconta le priorità e le difficoltà che bisognerà superare nei sei mesi previsti per l’incarico assegnato. "Questa decisione del governo arriva a quasi un anno dalla data prevista dalla legge per la chiusura degli Opg - spiega Corleone -. L’incarico è per sei mesi e bisogna chiudere una partita che ha un ritardo grave, anche se in qualche modo era una partita difficile". Difficoltà "comprensibili", aggiunge Corleone, ma "il fatto che gli internati abbiano fatto dei ricorsi per illegittimità della reclusione e i magistrati di sorveglianza abbiano dato loro ragione rende la situazione insostenibile. Bisogna rapidamente chiudere gli Opg ancora aperti. L’obiettivo è chiuderli in questi sei mesi". Ad oggi sono quattro gli Opg ancora aperti, spiega Corleone: Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto, mentre gli internati sono poco più di 160. Le regioni in ritardo con le Rems, invece, sono Abruzzo, Calabria, Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto. "Non tutte e sei le regioni sono allo stesso punto - chiarisce Corleone -. Questo andrà verificato. Dove siamo in stato avanzato bisognerà accelerare, dove invece siamo a zero bisognerà trovare soluzioni rapide. Mi rendo conto che dire ‘rapidò in Italia sembra una barzelletta, perché anche per fare una struttura da venti posti sembra che ci voglia uno o due anni, ma confido su un rapporto di grande collaborazione con le regioni per verificare gli intoppi che ci sono stati e come superarli. Alcune regioni, infatti, hanno dovuto fare i conti con ricorsi al Tar, altre hanno avuto difficoltà ad individuare le strutture per via di alcune resistenze dei comuni. Tuttavia, attraverso una collaborazione intensa bisogna arrivare a raggiungere degli obiettivi". Un impegno, aggiunge Corleone, che non investe soltanto le sei regioni in questione, ma anche altre che dovranno accogliere gli internati degli Opg da chiudere. "Nell’Opg di Montelupo, ad esempio, ci sono alcuni sardi e altri liguri. Anche Liguria e Sardegna, regioni non commissariate, dovranno essere in grado di accogliere queste persone perché altrimenti non si va avanti". La sfida, precisa Corleone, non è solo quella della chiusura degli Opg. Per il commissario occorrerà superare un "esame culturale" e stare attenti a "non far risorgere una logica manicomiale". Una sfida che vede coinvolte in primo luogo le Rems. "È chiaro che nelle Rems non ci potrà essere contenzione, questo significa che serve un grande investimento sul personale qualificato e motivato. Bisogna essere consapevoli che questa è una grande prova di civiltà, di umanità, ma chi va a lavorare lì deve essere sostenuto". Infine c’è un fronte "legislativo" che bisognerà affrontare. Quello delle "misure di sicurezza provvisorie - spiega Corleone - che non è chiaro dal punto di vista normativo se devono trovare soluzione nelle Rems o altrove. Questo è un problema affrontato dal tavolo 11 degli stati generali e mi pare con proposte condivise da tutto il tavolo. Un fronte aperto è anche quello della magistratura che non considera nella sua interezza la legge 81/2014 (sul superamento degli Opg, ndr) e quindi bisognerà monitorare le misure di sicurezza che vengono disposte per capire se realmente hanno una necessità di avere una soluzione detentiva, seppure in una Rems, oppure se ci sono le condizioni per rispettare la legge 81 e considerare la soluzione Rems come ultima ratio e individuare invece soluzioni sul territorio, case famiglie o strutture intermedie". Per Corleone, il superamento degli Opg è un "processo culturale" complesso che su alcuni fronti "richiederà molto tempo". Tuttavia, conclude Corleone, "non dobbiamo pensare che queste cose si fanno con la bacchetta magica, ma bisogna imboccare la strada giusta". Dirindin (Pd): "Bene la nomina di Corleone a commissario unico" "La nomina di Franco Corleone a Commissario unico per il superamento degli Ex Ospedali Psichiatrici Giudiziari è una buona notizia, per gli internati e per il Paese che su questo tema fatica a realizzare azioni concrete". Così la senatrice Nerina Dirindin, capogruppo PD in commissione Sanità, commenta la nomina di Corleone da parte del Consiglio dei ministri di Oggi. "Un passo importante - prosegue Dirindin - che ci auguriamo possa accelerare il difficile percorso in atto e possa contribuire alla chiusura degli ex Opg, alla apertura delle nuove strutture ma anche alla reale presa in carico delle persone con problemi mentali autori di reato. L’esperienza di Corleone fa ben sperare anche per il ruolo autorevole che potrà svolgere per promuovere una più ampia collaborazione fra sanità e magistratura". "Il ritardo nella applicazione della legge 81/2014 è comune a molte regioni; quelle inadempienti e quindi commissariate (in cui complessivamente ancora si trovano 164 persone) sono Piemonte, Toscana, Veneto, Abruzzo, Calabria e Puglia". Le Regioni dovrebbero considerare il Commissariamento un’occasione di sostegno (un facilitatore, non un cerbero mostruoso), previsto dalla legge proprio per evitare i ritardi già osservati in passato. Come gruppo PD della commissione sanità siamo convinti che il commissario Corleone saprà sostenere adeguatamente questo percorso, da parte nostra - conclude Dirindin - continueremo a monitorare le iniziative del Governo e delle Regioni su questa delicata materia". Sull’utilizzo dei fondi pubblici ultimatum della Corte dei conti al Csm di Valeria Di Corrado Il Tempo, 21 febbraio 2016 I pm insistono col Consiglio Superiore: come avete speso i soldi pubblici? I giudici di viale Mazzini hanno chiesto la documentazione entro 4 mesi. La Corte dei conti "bacchetta" il Consiglio superiore dalla magistratura. I giudici della sezione giurisdizionale del Lazio hanno ordinato al Csm di depositare la rendicontazione delle spese effettuate nel 2014. Secondo quanto deciso dal collegio, nella camera di consiglio del 14 gennaio scorso, "gli agenti contabili che operano nell’ambito del Consiglio superiore dalla magistratura - è cioè l’istituto cassiere, l’economo e il consegnatario dei beni - sono soggetti al giudizio di conto di competenza della Corte dei conti". Di conseguenza, sono tenuti a fornire la prova documentale di come è stato speso il denaro pubblico per far funzionare il Csm. L’organo di autogoverno della magistratura ha 120 giorni di tempo, dalla notifica della sentenza, per assolvere a quest’obbligo. A meno che non decida di sollevare il conflitto di attribuzione dei poteri davanti alla Corte costituzionale. È dal lontano 1999 che il Csm non presenta i conti giudiziali ai giudici contabili. Quindi, è da 17 anni che la Corte dei conti non esercita la sua funzione di controllo su come sono stati spesi i fondi stanziati dal ministero dell’Economia per il funzionamento degli uffici di piazza dell’Indipendenza. Una volta incamerato questo denaro, infatti, l’istituto cassiere, l’economo e il consegnatario dei beni devono dimostrare a un organo terzo (qual è la magistratura contabile) in che modo le somme sono state erogate: dal pagamento degli stipendi del personale, alle spese di cancelleria o di guardiania. I giudici della Corte dei conti non sono chiamati a valutare nel merito come sono stati spesi i soldi pubblici, ma se tutte le uscite sono giustificate correttamente. La sentenza finale può essere di "discarico", quando il conto è regolare, o di condanna, quando vi sono voci di spesa che risultano non giustificate correttamente. In quest’ultimo caso l’agente contabile viene condannato a rifondere le spese. Ogni volta che il conto giudiziale non viene presentato alla Corte dei conti, ne nasce un giudizio per la resa del conto, esattamente come è successo per il Csm. Quando, la scorsa estate, il presidente della sezione Lazio, Ivan De Musso, ha chiesto all’ente di visionare i conti a partire dall’anno 2010, il segretario generale, con una nota del 4 agosto 2015, ha risposto che "il Consiglio superiore della magistratura, quale organo di rilevanza costituzionale, non è tenuto alla resa del conto giudiziale degli agenti contabili, in analogia a quanto già statuito dalla Corte costituzionale per il Parlamento, la Presidenza della Repubblica e la stessa Corte costituzionale". Inoltre, secondo quanto riferito dal segretario generale, il Csm si è dotato di un nuovo strumento di controllo interno, che garantisce un’autonomia finanziaria e di bilancio. Queste argomentazioni non hanno convinto il presidente della Corte dei conti del Lazio, tanto da decidere di sottoporre la questione alla sezione in sede collegiale. Anche il collegio ha ritenuto infondate le tesi difensive, sottolineando come una pluralità di pronunce della Corte costituzionale ribadiscano come "a nessun ente gestore di mezzi di provenienza pubblica e a nessun agente contabile che abbia maneggio di denaro di proprietà dell’ente è consentito di sottrarsi al dovere di presentare il conto". In questo panorama, non fa eccezione nemmeno il Csm. Infatti, una sentenza del 1891 del Giudice delle leggi ha escluso dal giudizio di conto solo la Presidenza della Repubblica e i due rami del Parlamento. "La funzione primaria del Csm - spiega la sentenza depositata il 17 febbraio 2016 - non può essere equiparata a quella di un potere sovrano, il cui esercizio è intangibile da altra autorità". Insomma, secondo i magistrati di via Baiamonti, il Consiglio superiore della magistratura non può ritenersi "immune" dal controllo della Corte dei conti e, per tutti questi anni, non ha agito correttamente aggirando il controllo dei giudici contabili. "L’assoggettabilità al giudizio di conto dei soggetti che gestiscono risorse pubbliche in seno al Csm - si legge nella sentenza - non è invasiva della funzione costituzionale del Csm, né pregiudica la sua autonomia e tantomeno quella della magistratura, come vorrebbero far credere le argomentazioni difensive. Ma ha come finalità istituzionale l’accertamento della correttezza del "maneggio" di beni e valori di pertinenza pubblica, accertamento che l’ordinamento ha assegnato alla Corte dei conti perché venga svolto da un organo terzo e nelle forme giudiziali a salvaguardia del denaro pubblico". Emergenza baby gang. "Investire sul sociale"… le proposte dell’Unione camere minorili di Teresa Valiani Redattore Sociale, 21 febbraio 2016 Parla la responsabile nazionale del settore penale, Tiziana Petrachi: "Non serve abbassare l’età punibile dei minorenni, bisogna intervenire sulla società e fornire risorse immediate a chi lavora sul campo, soprattutto nelle zone di frontiera". Bambini usati come corrieri della droga, con la cocaina nascosta nelle uova di cioccolato, mentre sulle strade di Napoli si continua a morire nella guerra scatenata dalle baby gang per guadagnare terreno dopo il vuoto di potere provocato dalle ultime imponenti operazioni di polizia. Intervenendo sulla nuova emergenza, il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha proposto di abbassare l’età punibile dei minori. Ma la sua soluzione sta sollevando un coro di "no". "Il problema di fondo è non farsi trascinare dal timore dell’emergenzialità - sostiene l’avvocato Tiziana Petrachi, responsabile nazionale del settore penale dell’Unione nazionale camere minorili. Capisco e posso condividere la posizione di Alfano su un aspetto: purtroppo la criminalità organizzata, soprattutto in determinati contesti, sfrutta molto i minori. Lo stiamo vedendo anche qui in Puglia dove vengono utilizzati bambini anche molto piccoli, di 8, 9, 10 anni, come corrieri della droga. Ma più che innalzare le pene o abbassare l’età punibile dei minori, bisogna intervenire sulla società". Avvocato Petrachi quali sono i primi interventi da attuare? "Occorre responsabilizzare i cittadini, rieducare soprattutto gli adulti: devono rendersi conto che ci vuole senso di responsabilità in tutto ciò che si fa. Prevedere interventi che tendano a limitare la responsabilità genitoriale delle persone che utilizzano i minori. Fornire risorse immediate agli operatori e agli organismi che lavorano sul campo. È necessario dare più possibilità a chi può intervenire nel sociale, impegnando risorse da parte dei comuni, delle province, delle regioni. Bisogna offrire risorse agli operatori che agiscono per rimuovere la causa del disagio, solo in questo modo i problemi possono essere risolti. Non esiste la bacchetta magica. Fenomeni come la camorra, la ‘ndrangheta, la mafia, la sacra corona unita non si possono scardinare dall’oggi al domani ma se non si inizia a lavorare con quella famosa goccia che pian piano erode la roccia, non arriveremo mai a nulla. È inutile arrivare con i fucili spianati se negli uffici gli operatori del sociale non hanno i soldi per la benzina delle macchine di servizio o per fare le fotocopie. Occorre dare fiducia a quelle persone che, come don Ettore Cannavera, sono quotidianamente fianco a fianco a questi ragazzi". Lasciati troppo spesso soli… "Esatto. Il problema è anche che abbiamo regioni non presidiate: bisogna sostenere con forza la rete del sociale, per esempio nelle zone di frontiera del napoletano, a Secondigliano, Scampia, dove ci sono parroci che fanno molto più di tanti altri organismi chiamati ad intervenire. Gli unici presìdi che abbiamo in queste zone sono riferibili al volontariato, alle persone che guardano in faccia i ragazzi che la camorra riesce facilmente ad assoldare, per capire per quale motivo non hanno altre possibilità o alternative a quel tipo di vita. Il fenomeno non può essere giustificato e va combattuto con tutte le nostre forze ma dobbiamo scegliere le armi giuste". Serve l’esercito? "Può anche servire l’esercito, così come può essere utile aumentare il numero degli uomini delle forze dell’ordine ma a tutto questo bisogna affiancare consultori che funzionino, assistenti sociali che possano operare adeguatamente. Le persone delinquono prevalentemente perché si sentono lasciate sole, abbandonate. Non è così semplice dire che un ragazzo sicuramente a 16 anni è già pienamente capace di intendere e di volere, quando forse non lo sono nemmeno i 18enni e i 20enni. Modificare l’età della punibilità significa intervenire sul codice civile dove si prevede che la capacità di agire è fissata ai 18 anni. L’intervento non è più tanto relativo al codice penale, quanto piuttosto al chiedersi: vogliamo diventare maggiorenni a 16 anni? Vogliamo diventarlo a 15? A 10? Per fare paradossalmente un discorso ad ampio raggio". Come vede, in questo ambito, la riforma proposta per tribunali e procure minorili? "Mi trova a cavallo di un’altra situazione che stiamo affrontando a livello di Unione: il disegno di legge del governo sulla riforma del processo civile, che in un emendamento approvato il 27 gennaio scorso dalla commissione giustizia ha previsto l’abolizione dei tribunali per i minorenni e delle procure minorili. Non ci si rende conto che è inutile che abbassiamo l’età della punibilità se poi andiamo a scardinare il sistema minorile che attualmente funziona. Se pretendiamo di abolire le procure e i tribunali per i minorenni e di istituire sezioni specializzate nei distretti di corte d’appello o gruppi specializzati nelle procure ordinarie, vuol dire che non abbiamo compreso il valore del loro ruolo, specialmente in certi ambiti, e che non si può intervenire tagliando a destra e a sinistra. Così come, se alziamo le pene o abbassiamo l’età punibile andiamo solo a riempire ulteriormente le carceri, senza fare attività di recupero delle persone che entrano nel circuito penale e, soprattutto, non favoriamo il reinserimento sociale". Rapporto Antigone. Religione in carcere, un diritto e una risposta alla radicalizzazione Redattore Sociale, 21 febbraio 2016 Le religioni più rappresentate in carcere sono quella cattolica (55,9%), quella islamica (11,1%) e quella ortodossa (4,3%). In 52 istituti ci sono luoghi di culto islamici ufficiali. In altri 132 istituti ci sono invece stanze utilizzate come luogo d’incontro con ministri di culto islamico. 19 i detenuti radicalizzati, 200 gli "attenzionati". I detenuti presenti nelle carceri italiane sono 52.475 (dato al 31 gennaio 2016). Di questi gli italiani sono 34.949, mentre gli stranieri 17.526. Questi ultimi appartengono a 138 nazionalità diverse. Tra queste le più rappresentate sono: marocchini (2.912 detenuti), romeni (2.785), albanesi (2.448), tunisini (1.896), nigeriani (692), egiziani (613). Molto minore la presenza di detenuti di altre nazionalità. Sono questi alcuni dati emersi nel corso del convegno "Diritti religiosi in carcere. Una risposta razionale alla radicalizzazione", promosso oggi a Roma da Antigone per analizzare la situazione negli istituti penitenziari italiani e per lanciare alcune proposte per un reale godimento del diritto di libertà religiosa. Le appartenenze religiose. Il maggior numero di detenuti che ha dichiarato la propria appartenenza religiosa è cattolico (55,9%), con una netta prevalenza di italiani (76,4%). Oltre 5 mila sono i detenuti di fede islamica, vale a dire l’11,1% (di cui 119 italiani), poco più di 2 mila gli ortodossi (4,3%). I ministri di culto che operano negli istituti. Oggi c’è grande eterogeneità nelle regole per l’accesso al carcere dei ministri delle diverse chiese. Da una parte c’è la disciplina prevista per il cappellano cattolico, dall’altra, quella per i ministri delle Chiese che hanno stipulato un’intesa con lo Stato (Tavola Valdese, Assemblea di Dio in Italia - ADI, Unione delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° Giorno, Unione Comunità Ebraiche in Italia - UCEII, Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia - UCEBI, Chiesa Evangelica Luterana in Italia - CELI, Sacra Arcidiocesi ortodossa d’Italia ed Esarcato per l’Europa Meridionale, Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni, Chiesa Apostolica in Italia, Unione Buddista Italiana - UBI, Unione Induista Italiana), spesso con regole diverse l’una dall’altra. Infine ci sono i ministri delle altre Chiese. Detenuti radicalizzati e "attenzionati". Secondo fonti ufficiali del Ministero della Giustizia i detenuti già radicalizzati sono 19 e sono ristretti in appositi sezioni di alta sicurezza; mentre circa 200 sarebbero gli "attenzionati". La terminologia utilizzata è di origine istituzionale. I luoghi di culto. In tutte le carceri vi è una o più di una cappella cattolica. A tal proposito giova ricordare che secondo l’art. 26 dell’Ordinamento penitenziario, "i detenuti e gli internati hanno libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto. Negli istituti è assicurata la celebrazione dei riti del culto cattolico. A ciascun istituto è addetto almeno un cappellano. Gli appartenenti a religione diversa dalla cattolica hanno diritto di ricevere, su loro richiesta, la assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti". Dai dati provenienti dal materiale preparatorio del recente protocollo siglato dal Dap con l’UCOII, 52 istituti risultano ospitare luoghi di culto islamici ufficiali (definibili come moschee). In altri 132 istituti ci sono invece stanze utilizzate come luogo d’incontro con ministri di Culto islamico. Complessivamente 9 imam sono ufficialmente "certificati", mentre altri rientrano nel contesto del volontariato; 69 sono operatori religiosi con la specifica funzione di mediazione religiosa e culturale verso il mondo islamico, di cui 14 volontari In base alle nostre rilevazioni non vi sono altri luoghi di Culto ufficiali relativi ad altre confessioni religiose. Le proposte. Il Tavolo 7 degli Stati Generali si è occupato di "Stranieri ed esecuzione penale". La sua riflessione ha riguardato anche il tema della radicalizzazione. Oggi, poi, è stata la stessa Antigone a ricordare di aver messo a disposizione della riflessione degli Stati Generali sull’esecuzione penale e dei componenti delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato impegnati con l’approvazione della legge delega di riforma dell’Ordinamento Penitenziario un documento articolato in 20 proposte. Una di esse riguardava proprio il tema dei diritti religiosi. "L’accesso a una religione è un diritto ed è ambiguo considerarlo parte del trattamento - afferma l’associazione -. Va inserita nell’Ordinamento penitenziario una norma sui diritti religiosi senza distinzione tra le varie confessioni. Ad oggi c’è grande eterogeneità nelle regole per l’accesso al carcere dei ministri delle diverse chiese. Da una parte, c’è la disciplina prevista per il cappellano cattolico, dall’altra, quella per i ministri delle Chiese che hanno stipulato un’intesa con lo Stato, spesso con regole diverse l’una dall’altra; infine ci sono i ministri delle altre Chiese. Da notare inoltre le difficoltà di accesso giustificate con presunti motivi di sicurezza che ultimamente stanno riscontrando in particolare gli Imam". "Tale diversità di discipline genera confusione ed una compressione del diritto alla libertà di culto del detenuto che, di fatto, dipende dal tipo di culto che questo professa - continua Antigone. Risulta opportuna, dunque, una chiara informazione sulla possibilità di esercitare la libertà di culto all’interno degli spazi di detenzione e l’introduzione di una disciplina comune nell’Ordinamento Penitenziario per tutti i ministri di culto, che regoli anzitutto l’accesso al carcere e, a seguire, le prerogative dei ministri, incentrate non sulle facoltà concesse alle singole chiese, ma sul diritto alla libertà religiosa della persona detenuta, previsto tra l’altro dall’articolo 19 della Costituzione della Repubblica, nonché dall’articolo 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La presenza di detenuti di fede islamica è inoltre numericamente significativa (circa 6 mila detenuti) da giustificare l’indicazione di dar vita a luoghi di culto nei singoli istituti, oltre che prestare un’attenzione non formale alle regole di alimentazione". Veneto: detenuti psicolabili, il Governo commissaria la Regione ritardataria di Filippo Tosatto Il Mattino di Padova, 21 febbraio 2016 L’assessore alla Sanità Coletto di scena al Consiglio dei ministri: "Scelta assurda il centro d’accoglienza di Nogara è attivo dal 21 gennaio". Giornataccia romana per l’assessore regionale alla sanità. Alle nove, influenzato e febbricitante, Luca Coletto ha varcato le porte di Palazzo Chigi, convocato dal Consiglio dei ministri dove Beatrice Lorenzin (Salute) e Andrea Orlando (Giustizia) hanno scandito il ferale annuncio: a causa delle inadempienze nell’allestimento delle Rems - le residenze per l’esecuzione della pena destinate ai detenuti malati di mente provenienti dai disciolti ospedali psichiatrici giudiziari - il Governo ha deciso di commissariare il Veneto, riservando analogo trattamento a Piemonte, Toscana, Abruzzo, Puglia, Sicilia. Il commissario designato è Franco Corleone ("Mi getterò a capofitto nell’incarico"), veterano delle battaglie radicali e già sottosegretario alla Giustizia. Come si è giunti a questo? Rispetto al calendario dettato dal legislatore, l’apertura della Rems veneta - oggi operativa nei padiglioni dell’ospedale dismesso "Stellini" a Nogara, nel Veronese - è giunta in ritardo. Coletto l’ha presa male: "È una decisione senza capo né coda, siamo al commissariamento per adempienza. Comunque, al dottor Corleone garantisco la massima collaborazione e gli assicuro che da noi avrà vita facile perché la nostra Rems è già attiva e a breve sarà completata". Nel dettaglio, l’assessore leghista precisa che "a Nogara, dal 21 gennaio, sono attivi 16 posti letto e altrettanti saranno disponibili entro maggio, per un totale di 32 rispetto ai 23 malati psichici veneti dimessi dagli Opg". Però il Governo contesta il ritardo: "Facciamo chiarezza una volta per tutte. I fondi statali per realizzare una Rems nel nostro territorio sono stati autorizzati il 24 febbraio 2015 e il provvedimento è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 3 marzo successivo; secondo la legge nazionale, le Rems avrebbero dovuto essere inaugurate entro il 21 aprile 2015, cioè in meno di 2 mesi! È vero che i veneti sono abituati a lavorare come muli e in fretta, ma in questo caso ci sarebbe voluto un miracolo, non una procedura d’urgenza". Tant’è. La genesi della misura commissariale (che in effetti oggi appare sfasata sul piano temporale) risale all’autunno scorso, quando l’indisponibilità della nuova struttura e la concomitante chiusura degli Opg di Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere, lasciò i detenuti psicolabili veneti (inclusi quelli ad elevata pericolosità) in una sorta di terra di nessuno, con evidenti rischi sia terapeutici che di tutela della sicurezza collettiva. La stessa magistratura di sorveglianza sollevò il problema, segnalando la presenza di persone "devianti", imputate o condannate, la cui collocazione diventava problematica. Ora il problema - grazie anche alle comunità protette sul territorio - è in via di soluzione. Restano le polemiche (ravvivate dalle frecciate del MS5 a Coletto), un refrain abituale nei rapporti Venezia-Roma. Cagliari: Caligaris (Sdr); farmaci col contagocce in casa circondariale di Uta Ristretti Orizzonti, 21 febbraio 2016 "I farmaci col contagocce a disposizione di Medici e Infermieri nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta stanno rischiando di far lievitare la spesa farmaceutica. La revisione della spesa insomma sembra essere un rimedio peggiore del male anche perché si stanno verificando significative problematiche per chi deve assumere antiretrovirali, antipsicotici, ansiolitici e antidepressivi". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", facendo osservare che "la questione è particolarmente delicata in quanto condiziona fortemente il controllo di disturbi gravi". "La prescrizione di un farmaco - ricorda Caligaris - implicando la determinazione della quantità del principio attivo da far assumere al singolo paziente, è responsabilità primaria del Medico. La distribuzione in ore predeterminate spetta all’infermiere. È notorio quindi che le quantità d’uso dei farmaci richiedono figure di alta specializzazione. Nelle strutture penitenziarie, a causa dell’elevato numero di tossicodipendenti, il controllo è particolarmente attento anche per evitare che si verifichino abusi. In un periodo in cui gli occhi sono puntati sulla sanità soprattutto per ammortizzare il disavanzo, le Aziende Sanitarie Locali hanno promosso e adottato misure di contenimento della spesa farmaceutica. Un’azione ammirevole ma che se non opportunamente calibrata, può avere dei risvolti paradossali". "La presenza di almeno un responsabile della Farmacia in un Istituto come quello di Cagliari-Uta già con quasi 600 detenuti, può aiutare ad evitare gli sprechi garantendo però la costante presenza dei farmaci. Ciò permetterebbe anche di utilizzare al meglio i cosiddetti "generici" in sostituzione di quelli più diffusi e noti, benché per pazienti psicopatici o affetti da epatiti o immunodeficienze i farmaci siano specifici". "Occorre infine ricordare che la condizione di perdita della libertà - conclude la presidente di SDR - non comporta la cessazione del diritto alla salute e alla cura. La vita dentro una struttura chiusa anzi accentua il malessere della persona. La situazione tende infine a peggiorare con l’invecchiamento. I detenuti malati insomma sono pazienti a tutti gli effetti e la responsabilità della loro condizione è in capo alla Azienda Sanitaria Locale di riferimento. Per quanto riguarda Cagliari-Uta quindi la ASL n. 8 e nello specifico la Farmacia Territoriale. La questione merita un’attenzione particolare specialmente per evitare che venga meno il rapporto di fiducia tra medico e paziente". Campobasso: accusati della morte di detenuto, arresto revocato primonumero.it, 21 febbraio 2016 Sono fuori dal carcere i due presunti assassini di Fabio De Luca, il detenuto romano di 45 anni morto in cella nel carcere a Isernia nel novembre 2014. A revocare la misura cautelare è stato, con propria ordinanza, il Tribunale di Isernia. "Il giudice per le indagini preliminari - spiega l’Ansa Molise - ha accolto le istanze dei difensori, gli avvocati Roberto D’Aloisio e Nicola Bonaduce del foro di Termoli-Larino (Campobasso) e dell’avvocato Maria Maruzzelli di Napoli che hanno presentato una serie di memorie ed approfondimenti clinici redatti da un perito dell’Università Federico II di Napoli secondo cui De Luca sarebbe morto a seguito di una caduta avvenuta da un’altezza rilevante". Complessivamente sono 3 le persone indagate per il decesso: a finire in carcere lo scorso 23 novembre erano stati Francesco Formigli di 44 anni e Aniello Sequino di 26: secondo la squadra Mobile che aveva indagato sul caso i due campani, accusati di omicidio volontario premeditato, lo avevano aspettato in cella e colpito alle spalle con uno sgabello avvolto in un asciugamano: Sequino, che era detenuto a Campobasso, è tornato libero, mentre Formigli, detenuto a Napoli, resta in cella per un’altra vicenda nonostante la revoca della misura cautelare. Bologna: manifesto di Cinevasioni disegnato da un detenuto… una pellicola per la libertà di Ambra Notari Redattore Sociale, 21 febbraio 2016 Italiano, 40 anni, la passione per il disegno: è lui l’autore del manifesto di Cinevasioni, il primo festival del cinema in carcere in calendario a maggio alla Dozza. E la settimana prossima il gruppo di lavoro di Ciak in Carcere partirà con le riprese dello spot. Una cinepresa rompe le sbarre e trapassa anche lo schermo di una televisione. Un uomo, da dentro una cella, si prepara a girare. Una pellicola è pronta per essere impressa. È il manifesto di Cinevasioni, il primo festival di cinema in carcere in calendario alla casa circondariale di Bologna dal 9 al 14 maggio. L’ha disegnato uno dei detenuti che frequenta Ciak in Carcere, il laboratorio che l’Associazione Documentaristi dell’Emilia-Romagna sta tenendo all’interno della Dozza dalla metà di ottobre 2015. Una ventina di detenuti tra i 20 e i 70 anni, prevalentemente italiani, che ogni settimana partecipano agli incontri con i docenti, registi, produttori, montatori e sceneggiatori migliori dell’Emilia-Romagna. L’autore del manifesto ha circa 40 anni, è italiano e appassionato di disegno, passione che porta avanti anche in carcere. Cinevasioni, con la direzione artistica di Filippo Vendemmiati, giornalista e regista di ‘Meno male è lunedì’, avrà luogo nella sala grande del carcere, trasformata per l’occasione in una sala cinematografica. 5 giorni di proiezioni alla mattina e al pomeriggio e l’evento conclusivo del sabato, per la premiazione (tutte le informazioni per partecipare sul sito del festival). Unico vincolo: non saranno ammessi film sul carcere, come deciso dalla giuria. Giuria che sarà composta proprio dai detenuti impegnati nel laboratorio Ciak in Carcere, alle prese in questi giorni con lo spot del festival: un corto sceneggiato, interpretato e girato da loro stessi, le cui riprese inizieranno dalla prossima settimana. Belluno: concerto per i detenuti sotto il carcere di Gigi Sosso Corriere delle Alpi, 21 febbraio 2016 Il presidio di una trentina di manifestanti diventa uno spettacolo hip hop tra cori e provocazioni ma nessun atto di violenza. "Belluno brucia e non è stato il re". Il presidio in solidarietà ai detenuti è stato un pomeriggio di sole a scacchi, tra il concerto hip hop e la lettura di documenti dalle carceri di tutta Italia. Rime affilatissime dalle voci amplificate della Deriva antifascista spazio sociale di Bassano e sulle basi di un sound system montato a bordo strada, con le immancabili dediche avvelenate a sbirri, secondini e scribacchini. Lettere sofferenti dalle celle di case circondariali di ogni latitudine, nelle quali si sta anche molto peggio che a Baldenich. Una trentina di manifestanti, la maggior parte arrivati da fuori città ma anche qualche bellunese, che ha attaccato tre striscioni al muro di cinta di via San Giuseppe: "Complici con i detenuti in lotta. Tutte/i libere/i"; "Occupare e resistere ovunque! Solidarietà ai compagni e alle compagne di Padova" e "Nuove carceri, trasferimenti, fogli di via? Portiamo la lotta ovunque!". Quando tra le torrette di sorveglianza sopra il campo da tennis interno, il basco azzurro di un agente della polizia penitenziaria si è stagliato nel blu del cielo sopra le montagne, è cominciato un piccolo spettacolo musicale, con varie voci che si sono alternate, come succede periodicamente in altre città, che convivono con un carcere. Alla fine di ogni canzone, cori e, sul tardi, anche un fumogeno rosso. Microfono aperto, con il quale ognuno ha potuto lanciare i proprio messaggio verso le sbarre. I detenuti non hanno risposto subito, ma dopo un po’ si sono fatti sentire, ringraziando e salutando chi stava cercando di rendere la loro giornata meno monotona. Qualcuno magari prendendo nota di due indirizzi rimbalzati dalla strada, ai quali scrivere, per raccontare la propria esperienza carceraria e trovare degli amici. Qualche provocazione sì, ma nessun atto di violenza, come hanno confermato in serata le forze di polizia, che hanno vigilato sul presidio per alcune ore, senza il bisogno di dover intervenire. Mentre il bar della via deve aver fatto discreti affari con un buon numero di bottiglie di birra vendute ai manifestanti. Distribuzione di un volantino ai passanti di Quartier Cadore, qualcuno francamente un po’ intimidito: "Riallacciamo i fili della lotta: ci vediamo a Belluno" e via con la tragica contabilità regionale, certificata anche il giorno dell’apertura dell’anno giudiziario: l’anno scorso quattro suicidi (due a Padova, e uno a Venezia e Verona); 55 tentativi e 318 atti di autolesionismo. Il totale dei detenuti è di 2808, mentre la capienza regolare di Belluno, Venezia maschile e femminile, Rovigo, Treviso, Padova e Vicenza sarebbe di 1693. La novità e uno dei motivi della protesta è che a Belluno ci sarebbero stati dei trasferimenti: "Negli ultimi mesi più di quaranta ragazzi sono stati "sballati" dal carcere di Venezia a quello di Belluno", si legge nel documento, "una struttura non ancora satura e "periferica" rispetto ai grossi penitenziari della regione. Non far sentire soli i trasferiti e tutti i loro compagni di detenzione significa in questo momento riannodare i fili di una lotta non ancora sopita, che ha saputo parlare anche a chi, del carcere, non ha mai fatto esperienza". "Les prisons des écrivains", di Claudio Besozzi. Nelle cattedrali del male di Chiara Pasetti Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2016 Il ricco e affascinante saggio "Les prisons des écrivains" di Claudio Besozzi, specialista della questione carceraria, propone una riflessione sul tema della prigione attraverso lo sguardo di poeti e scrittori che hanno vissuto (Jean Genet tra gli altri) o immaginato (come Charles Dickens) le "cattedrali del male". Prendendo in esame duecento anni di scritti letterari, in particolare di area francese, italiana, anglosassone e russa, vuole mostrare come è mutata la percezione del carcere dal romanticismo alla contemporaneità. Il concetto di "reclusione" è qui analizzato in duplice senso: dallo sguardo "del fuori verso il dentro" si passa inevitabilmente al modo in cui coloro che sono dentro, ossia i prigionieri, percepiscono il fuori. In entrambi i casi, la prigione resta un’istituzione-topos che genera paura e contemporaneamente curiosità morbosa, senso di disprezzo e al contempo di colpa. Sempre, comunque, è "un pianeta sconosciuto", come scrive Goliarda Sapienza, un fantasma che, secondo Victor Brombert, "perseguita la nostra civiltà". Nel testo si rivela così che da alcuni scrittori, tra cui Stendhal, il carcere è stato dipinto come "un paradiso", uno spazio protetto che consente di realizzare sogni e istanze che la società mira invece a spezzare. Ma è anche "un inferno", come si legge nell’atroce e autobiografico Nel ventre della bestia del "criminale letterato" Abbot. Più spesso la prigione oscilla ambiguamente tra aspetti che potrebbero sembrare positivi, tra i quali in primo piano la possibilità di potenziare la creatività e la conoscenza, consentendo agli artisti di raccontare (e denunciare) il dolore e la sofferenza, e aspetti, al contrario, inequivocabilmente negativi; tra i tanti, il fatto che, in generale, le pratiche e le strategie penitenziarie non solo non raggiungono gli obiettivi preposti (decantati) dai legislatori di normalizzazione e reinserimento dei prigionieri nella società, ma più ancora e più spesso distruggono i detenuti stessi, fisicamente (lo raccontano, tra gli altri, Soljenitsyne, Jackson e Abbot) o spiritualmente (Wilde, Döblin, Gramsci). I detenuti, se in alcuni casi riescono a "rieducarsi" e a sfuggire al "paradigma della recidiva" lo devono soltanto a se stessi e non al sistema carcerario in cui sono stati imprigionati, in ogni senso. Il lavoro di Besozzi induce a riflettere su noi stessi, sulla società, e sui suoi, nostri fantasmi, criminali e non. E lo fa attraverso la letteratura, il solo mezzo capace di scendere davvero al fondo e, come ancora Baudelaire in Spleen, di svelare che "quando la terra è trasformata in un’umida prigione", alla "Speranza", ormai irrimediabilmente sconfitta, non resta che piangere, mentre "l’Angoscia atroce, dispotica", trionfa, piantando "il suo nero vessillo" sul prigioniero, cranio-anima ormai eternamente chinato-incrinata. "La legalità smarrita ", di Luigi Labruna. Testimoni della giustizia perduta di Massimo Di Lauro Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2016 Quasi tutti gli scritti riuniti da Luigi Labruna in questo libro dal titolo drammaticamente attuale (La legalità smarrita) sono animati da una sincera esigenza testimoniale, sollecitata dall’osservazione della vita quotidiana in una città difficile come Napoli, dove l’autore ha sempre vissuto e operato (storico del Diritto romano, è stato preside di Giurisprudenza alla Federico II). Risultato? Un reportage talvolta spietato sui numerosi episodi di disobbedienza della legge, di piccola e grande sopraffazione, di abusi di ogni genere, osservati da Labruna con uno spiccato senso di giustizia che, come scrive nella prefazione Antonio Polito, "gli proviene insieme dallo spirito di cittadino e da quello di studioso". Studioso - vale la pena di precisare - lontano dalle torri d’avorio accademiche, impegnato piuttosto a conciliare la coerenza e la responsabilità dell’intellettuale con quella del testimone di una realtà difficile da raccontare. Ed è proprio questo il pregio che, tra i molti del libro, salta in evidenza: la capacità di racconto dell’autore, che nei vari interventi sui problemi della quotidianità napoletana conferma la sua attitudine a dare forma narrativa ad eventi minimi non meno che a più complesse questioni che affliggono la vita dei cittadini. Sia che si occupi, per fare solo qualche esempio, della vicenda kafkiana occorsa a una giovane hostess, giudicata colpevole di aver messo all’asta su eBay una cintura di coccodrillo acquistata da Hermès a Parigi, o dell’orgia verbale in cui si è avvitata, nella più grande città del Mezzogiorno, la discussione (che dico? la sterile contrapposizione tra sindaco e governo) sul caso Bagnoli; sia che affronti questioni e temi centrali del dibattito pubblico napoletano, come i tempi inaccettabili della giustizia civile in uno dei tribunali più gravati d’Italia, o ancora denunci i vizi di un sistema amministrativo soffocato dallo smog burocratico, Labruna parte sempre e al momento giusto, dal racconto di una vicenda, di una storia reale per poi offrire il suo contributo di idee e di critica assai prezioso, nel segno di una libertà di pensiero nutrita della cultura del dubbio e della tolleranza, ma che non sempre riesce a nascondere una punta di risentimento civile e di sdegno morale. Una lezione questa di vero giornalismo, assai distante da quelle forme di puro saggismo che non contribuiscono certo a facilitare una migliore comprensione della realtà che ci circonda. Algoritmi in campo per prevenire il crimine di Andrea Carobene Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2016 Possibile sfruttare l’analisi dei Big data. Oppure ci si concentra sulle cause per determinare dove e quando il rischio è maggiore Gli abitanti di Modesto, città della California con 210.000 abitanti, dormono sonni più tranquilli. Qui, lo scorso anno, le rapine e i furti di auto sono calati del 14% e quelli nelle abitazioni dell’11 per cento. Modesto è una tra le tante città che sfruttano le potenzialità dell’informatica per rendere più efficiente il lavoro della polizia. Tra queste località vi sono Los Angeles, Atlanta, Chicago e la britannica Medway. L’idea è quella di fare in modo che gli agenti siano presenti dove si sta per compiere un crimine, riuscendo così a prevenirlo. Il "trucco" è quello di usare dei software che, sulla base di dati statistici, prevedono i reati. Uno di questi programmi è PredPol, realizzato da un gruppo di ricercatori delle Università di Santa Clara e della California di Los Angeles. PredPol viene descritto da Heather Graves, portavoce del dipartimento della Polizia di Modesto, come "strumento valido che usiamo per combattere il crimine". Il software analizza 10 anni di statistiche sui reati fornendo come risultato "aree quadrate di 500 per 500 piedi (circa 152 metri) dove è più probabile che possa accadere un reato". Quelle che il software indica sono gli hotspot, le "zone calde", sulle quali concentrare il lavoro preventivo della polizia. Come spiega Graves, il programma è usato per indirizzare "gli agenti nelle aree dove occorre essere presenti per ridurre il crimine". La presenza dei poliziotti "ha un effetto deterrente su reati come rapine e furti di appartamento", e in molti casi favorisce gli arresti. Lo scorso 15 gennaio, sul Journal of the American Statistical Association, Jeffrey Brantingham con altri colleghi ha spiegato nel dettaglio il funzionamento del programma. Brantingham insegna all’Università della California, è tra gli ideatori di PredPol, ed è colui che ne ha seguito l’implementazione per la polizia di Los Angeles, come conferma il capitano Ernest Eskridg, capo del distretto Foothill della città californiana L’algoritmo alla base del funzionamento di PredPol si fonda sulla distribuzione di Poisson, funzione statistica descritta più nel dettaglio nell’articolo a fianco. I ricercatori hanno verificato l’attendibilità del loro algoritmo analizzando l’attività delle polizie di Los Angeles e del Kent, in Inghilterra. Seguendo le indicazioni del programma, l’efficacia delle pattuglie cresce anche di due volte e si ottiene una riduzione dei reati del 7,4 per cento. Sono diversi i programmi che utilizzano metodologie simili. Tra questi CrimeStat: un software statistico di analisi del crimine che può essere scaricato gratuitamente dal sito del ministero della Giustizia statunitense. Altri programmi di questo tipo sono Blue Crush di Ibm o Risk Terrain Modelling, sviluppato all’Università Rutgers nel New Jersey. Come spiega Marco Dugato, che insegna Metodi e tecniche della ricerca criminologica all’Università Cattolica di Milano, occorre tuttavia distinguere fra due diversi approcci. In un caso "si lavora sui crimini avvenuti nel passato e, attraverso un algoritmo, si studia la probabilità che uno specifico crimine possa avvenire in una determinata area dopo un certo tempo". È quanto avviene con un programma come PredPol. Nel secondo approccio, invece, "ci si concentra sulle cause del fenomeno per determinare dove e quando il rischio è maggiore". Lo scorso anno il Centro Transcrime dell’Università Cattolica di Milano, diretto dal professor Ernesto Savona, pubblicò per il ministero dell’Interno un lavoro sulla previsione dei furti nelle abitazioni. Lo studio, realizzato da quattro ricercatori tra cui Dugato, partiva proprio dalle cause: "Noi sappiamo che i reati si concentrano, e che questi hotspot non sono completamente casuali - chiarisce Dugato - ma variano sulla base di alcuni fattori come il contesto urbanistico o le condizioni socioeconomiche di una determinata area. Dopo aver identificato i fattori di rischio e quelli protettivi, il modello di Transcrime seleziona quelli più significativi per costruire le mappe previsionali. Lo studio è stato realizzato su tre città: Milano, Roma e Bari, sfruttando informazioni accessibili con sistemi di open data come le distribuzioni demografiche, le statistiche sul reddito, ma anche la presenza di case popolari o i valori immobiliari. Per verificare l’attendibilità delle previsioni i ricercatori hanno finto di essere nel 2013 e di prevedere cosa sarebbe avvenuto nel 2014, per poi paragonare i loro risultati con le statistiche sui furti realmente avvenuti. Il risultato è stato interessante: a Milano con questo metodo sarebbe stato possibile prevedere il 29,3% dei furti, a Bari il 41,6% e a Roma addirittura il 47,1%, quasi uno su due. Esperimenti di questo tipo dimostrano che con i "big data", è possibile migliorare l’efficacia nella lotta al crimine, come è già avvenuto ad esempio nella Questura di Milano dove il software KeyCrime più volte si è rivelato efficace nella prevenzione di alcuni reati. "Questi programmi - continua Dugato - possono essere usati per analizzare altri fenomeni criminali". Ad esempio, il centro Transcrime "ha sviluppato una serie di modelli per prevedere il rischio di infiltrazioni della criminalità organizzata o del riciclaggio di denaro sporco, mentre a breve partirà un progetto per analizzare i fattori che favoriscono il reclutamento dei terroristi". E proprio Milano è stato il capofila, due anni fa, di Smart Ciber, un programma europeo che aveva come scopo quello di studiare il rischio terrorismo. Il progetto coinvolgeva più città europee e diverse società come A2A, Amsa, Atm o Sea, e si basava sulla mappatura georeferenziata delle infrastrutture critiche del territorio e l’individuazione dei fattori di rischio, tanto quelli relativi ad episodi specifici quanto quelli generati dalla presenza di particolari variabili socioeconomiche. "L’obiettivo - conclude Dungano - è quello di realizzare modelli che abbiano ricadute concrete", capaci di migliorare la sicurezza nelle città. Un obiettivo fondamentale, che la tecnologia può aiutare a raggiungere. Se la fonte del giudice è una serie tv di Christian Salmon* La Repubblica, 21 febbraio 2016 Il falco della Corte Suprema Antonin Scalia morto pochi giorni fa giustificò l’uso della tortura basandosi non su testi giuridici o sul diritto internazionale, ma sull’esempio di Jack Bauer, protagonista di una serie televisiva. Che l’amministrazione americana abbia coperto o autorizzato il ricorso alla tortura dopo l’11 settembre 2001 non è propriamente una scoperta, dopo la pubblicazione delle foto di Abu Ghraib, le testimonianze dei detenuti di Guantánamo o le rivelazioni sulle prigioni "delocalizzate" della Cia in Europa. Il presidente Bush aveva addirittura esercitato il suo potere di veto per bloccare il testo di legge votato dal Congresso che vietava la pratica del waterboarding, un annegamento simulato che il "manuale pratico dell’esercito degli Stati Uniti" assimila a un atto di tortura. Un veto giudicato severamente da Ted Kennedy, che lo aveva definito "uno degli atti più vergognosi della sua presidenza"… Ma una decisione del genere sarebbe stata impossibile se non fosse stata inserita in un quadro segnato da un profondo cambiamento delle norme e dei valori etici accettati dall’opinione pubblica americana. Lo attestano, per esempio, le innumerevoli scene di tortura inserite in serie televisive come 24, Lost, Alias o Law and Order. Dal 2002 al 2005, furono trasmesse, negli orari di massimo ascolto, qualcosa come 624 scene di tortura, contro appena 102 dal 1996 al 2001. "Jack Bauer, il protagonista di 24, non è un torturatore", dichiara al New Yorker Joel Surnow, il creatore della serie, "è solo un cittadino che quando serve si sa dimostrare convincente. Paga carissimo quello che fa, tutto quello che fa lo fa per salvare milioni di vite umane. È l’incarnazione stessa della giustizia. Una macchina per uccidere che sotto sotto tutti sogniamo, perché colpisce soltanto la feccia". Secondo l’associazione americana per la difesa dei diritti umani Human Rights First, 24, oltre a banalizzare la tortura agli occhi dei telespettatori, ha anche ispirato i soldati in Iraq. "Abbiamo un fascicolo di prove che dimostrano che i giovani soldati imitano le tecniche di interrogatorio che hanno visto in televisione", ammonisce David Danzig, che dirige la campagna Primetime Torture. Perfino gli esperti di intelligence si sono preoccupati. A metà novembre del 2006, l’accademia militare di West Point organizzò un incontro con gli sceneggiatori di 24. Ecco cosa scrisse il Los Angeles Times: "I militari hanno espresso l’auspicio che le scene di tortura siano più autentiche. Il che non significa più sanguinose o più feroci. Al contrario, vogliono che siano più realistiche, meno sbrigative". Ma una cosa del genere avrebbe significato rinunciare all’elemento che faceva il successo della serie, e che era legato non solo alla personalità dell’eroe e agli eventi raccontati, ma anche alla suspense creata dal famoso ticking bomb scenario, che offriva alla serie la sua tensione narrativa, la sua efficacia, anche se si fondava su una concatenazione narrativa che Hitchcock, nelle sue conversazioni con François Truffaut, trovava già superata. Ogni stagione di 24 si componeva di ventiquattro episodi della durata di un’ora, che coprivano "in tempo reale" gli avvenimenti di una giornata. La durata degli spot pubblicitari era inclusa nella scansione temporale dell’episodio, materializzata dalla presenza sullo schermo di un orologio digitale che realizzava una sincronia perfetta fra il tempo dell’azione e quello della percezione. Gli avvenimenti erano vissuti e rappresentati al tempo stesso. L’azione non si coniugava più all’imperfetto della finzione, ma in un tempo virtuale: quello dell’urgenza normalizzata, dello stato di emergenza permanente. La minaccia perpetua di un attentato terroristico autorizzava una sospensione del giudizio morale e consentiva di instaurare una nuova legge etica che spingeva tutti a "interrogare" tutti - il padre il figlio, il marito la moglie, la sorella il fratello - in nome della sicurezza di tutti. Si instaurava a quel punto un nuovo regime del politico che non era più fondato su convinzioni condivise, ma sulla generalizzazione del sospetto. Mancava solo la Corte suprema degli Stati Uniti per legittimare una simile deriva. E arrivò nel 2007. Nel corso di un convegno di giuristi a Ottawa, nel giugno di quell’anno, il giudice della Corte suprema degli Stati Uniti, Antonin Scalia, morto nei giorni scorsi, giustificò l’uso della tortura basandosi non su testi giuridici o sul diritto internazionale, ma sull’esempio di Jack Bauer. L’università americana di Georgetown proponeva già un corso che studiava le problematiche legali sollevate dalla serie 24. Secondo la rivista Slate, le lezioni si svolgevano il martedì sera, in modo che gli studenti avessero ancora in mente l’episodio trasmesso la sera prima su Fox News… Era un chiaro segnale della deriva dell’amministrazione americana sotto la presidenza di Bush figlio, che non trovando legittimazione né fondamento nel diritto internazionale, lo ricercava in una serie televisiva che essa stessa aveva ispirato, instaurando una sorta di autolegittimazione attraverso la finzione narrativa e creando una giurisprudenza basata non più sull’anteriorità delle decisioni giuridiche, ma sulla performatività degli atti immaginari, una giurisprudenza "Jack Bauer". Evocando la seconda stagione della serie, dove si vede l’eroe che salva la California da un attacco nucleare grazie a informazioni ottenute nel corso di "interrogatori energici", il giudice Scalia non si faceva scrupoli ad affermare: "Jack Bauer ha salvato Los Angeles, ha salvato centinaia di migliaia di vite umane. Vogliamo condannare Jack Bauer? Dire che il diritto penale è contro di lui? Una giuria condannerebbe Jack Bauer?". *Christian Salmon, scrittore e ricercatore francese, è autore, fra gli altri libri, di Storytelling. La fabbrica delle storie e di La politica nell’era dello storytelling. Un mondo senza pena di morte: a Roma il Congresso dei Ministri della Giustizia di Antonio Salvati notizieitalianews.com, 21 febbraio 2016 Il prossimo 22 febbraio si svolgerà a Roma presso la Camera dei Deputati il IX Congresso Internazionale dei Ministri della Giustizia A World without the death penalty. Ancora una volta radunati dalla Comunità di Sant’Egidio oltre trenta fra ministri e rappresentanti di paesi africani, asiatici, latinoamericani ed europei si incontreranno per meglio approfondire l’evoluzione abolizionista dell’ultimo ventennio - in particolar modo nel continente africano - e individuare nuove strategie per favorire i tanti paesi abolizionisti de facto ad orientarsi con decisione almeno verso una moratoria de jure, primo passo verso l’abolizione. Il Convegno non a caso si svolge in Italia, paese capofila nella lotta per l’abolizione della pena di morte, come ha riconosciuto recentemente il segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon, ringraziando il Presidente Mattarella per il ruolo che l’Italia ha svolto e svolge tuttora nel supportare la campagna per l’abolizione universale della pena di morte. La situazione in cui viviamo ci dice che non esistono diritti conquistati ovunque e per sempre. E che per tutelare ed affermare i diritti dell’uomo occorre un impegno costante e una continua ricerca dei mezzi più appropriati. Sappiamo bene quali sono le difficoltà, quali sono gli ostacoli che fino ad ora hanno rallentato il cammino e che abbiamo ancora davanti. Occorre avere il coraggio di guardare ai diritti umani non come a un elenco di valori o un decalogo di buoni propositi, ma come conquiste del pensiero e della lotta per la dignità di ogni persona, non facili da realizzare e a volte in conflitto tra loro, eppure capaci di costituire un punto di riferimento essenziale per muoversi nel mondo complesso della globalizzazione. Nel rispetto delle culture e delle diversità, delle differenti forme economiche e sociali, non è ammissibile che il mondo del Duemila possa rinunciare al rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo. Le battaglie condotte negli ultimi anni attestano dei punti fermi. L’umanità non appare in grado di poter sopravvivere a lungo secondo le dinamiche di giustizia del passato. L’inflizione della pena di morte non risponde più - come attestano diverse ricerche criminologiche - all’idea di una prevenzione che dipenda dalla intimidazione (o deterrenza) nei confronti della collettività e dalla neutralizzazione del condannato. Al contrario, la pena di morte delegittima nella società il valore della vita e della dignità dell’altro. Nel suo breve e fortunato romanzo L’ultimo giorno di un condannato a morte, Victor Hugo affermava significativamente: "Lungi dall’essere edificante per il popolo, lo demoralizza, e guasta in esso ogni sensibilità, e quindi ogni virtù". L’esperienza storica mostra, infatti, che la neutralizzazione di singoli condannati non incide sulla loro continua sostituzione nelle attività criminose, cioè non induce una diminuzione dei tassi di criminalità. Diversi paesi (Camerun, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Ciad, Tunisia) hanno recentemente allargato l’ambito di applicazione della pena di morte per includervi i crimini connessi al terrorismo e un numero allarmante di paesi che hanno usato la pena di morte negli ultimi due anni lo hanno fatto in risposta a minacce reali, o percepite come tali, alla sicurezza dello stato e alla sicurezza pubblica, poste dal terrorismo, dalla criminalità o dall’instabilità interna. Per esempio, il Pakistan ha revocato la moratoria, che durava da sei anni, delle esecuzioni di civili sulla scia del terribile attacco alla scuola di Peshawar. Il governo si è anche impegnato a mettere a morte centinaia di persone nel braccio della morte che erano state condannate con capi d’accusa connessi al terrorismo. Va, pertanto, risolto anche l’equivoco secondo cui la pena di morte potrebbe trovare giustificazione facendo riferimento alla legittima difesa. Quest’ultima, infatti, attiene esclusivamente - come ha più volte ripetuto efficacemente il giurista Eusebi - all’interruzione non altrimenti realizzabile, con mezzi proporzionati, di una condotta aggressiva in atto. Lo afferma con grande chiarezza papa Francesco, nella sua lettera del 30 marzo 2015 al Presidente della Commissione internazionale contro la pena di morte: "È impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. In Vaticano, poco tempo fa, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta. Oggigiorno la pena di morte è inammissibile, per quanto grave sia stato il delitto del condannato. È un’offesa all’inviolabilità della vita e alla dignità della persona umana che contraddice il disegno di Dio sull’uomo e sulla società e la sua giustizia misericordiosa, e impedisce di conformarsi a qualsiasi finalità giusta delle pene. Non rende giustizia alle vittime, ma fomenta la vendetta. Per uno Stato di diritto, la pena di morte rappresenta un fallimento, perché lo obbliga a uccidere in nome della giustizia. Dostoevskij scrisse: "Uccidere chi ha ucciso è un castigo incomparabilmente più grande del crimine stesso. L’assassinio in virtù di una sentenza è più spaventoso dell’assassinio che commette un criminale". Non si raggiungerà mai la giustizia uccidendo un essere umano". Gli organizzatori del congresso di Roma sono fiduciosi che sarà un’occasione importante per offrire sostegno e strumenti giuridici a quegli Stati che stanno intraprendendo un percorso verso l’abolizione o la sospensione della pena di morte. Insieme alle parole di Papa Francesco, è fondamentale ribadire la sacralità della vita, diffondere la cultura della pace, togliendo spazio al demone della paura, che in questo tempo difficile rischia di travolgere la vita di tanti. Sbarchi. Oim, Unhcr e Unicef: "Sempre più bambini morti in mare" Redattore Sociale, 21 febbraio 2016 L’allarme lanciato dalle tre organizzazioni a poche ore dall’ennesima tragedia del mare lungo le coste siciliane. Più di 340 i bambini morti nel tentativo di raggiungere l’Europa dalla morte del piccolo Aylan. "Contare le perdite non è sufficiente. Dobbiamo agire". Due bambini al giorno hanno perso la vita in mare da settembre dello scorso anno nel tentativo di attraversare con le loro famiglie il Mediterraneo orientale e il loro numero continua ad aumentare. È l’allarme lanciato da Oim, Unhcr e Unicef che con un comunicato congiunto lanciano un appello affinché sia aumentata la sicurezza di coloro che fuggono da conflitti e disperazione. Un appello che arriva a poche ore dall’ennesima tragedia del mare lungo le coste siciliane: sono una trentina i migranti sbarcati questa mattina sulla spiaggia di Torre Salsa, in provincia di Agrigento, ma secondo le prime notizie ci sarebbero corpi in mare. Secondo quanto raccontato dagli stessi migranti, di provenienza magrebina, libica e tunisina, sarebbero stati lasciati in mare da un’imbarcazione nei pressi della costa, ma tra di loro alcuni non ce l’avrebbero fatta. Dalla morte di Aylan Kurdi, spiegano le organizzazioni, sono più di 340 i neonati e i bambini annegati nel Mediterraneo orientale. Il numero totale di bambini che sono morti potrebbe essere anche maggiore, dicono le Agenzie, considerato il numero di corpi dispersi in mare. "Non possiamo voltarci dall’altra parte davanti alla tragedia della perdita di così tante vite innocenti o fallire nel fornire risposte adeguate rispetto ai pericoli che molti altri bambini stanno affrontando - ha detto Anthony Lake, direttore esecutivo dell’Unicef -. In questo momento possiamo non avere la capacità di porre fine alla disperazione che spinge così tante persone a tentare di attraversare il mare, ma gli Stati possono e devono cooperare nello sforzo di rendere questi pericolosi viaggi più sicuri. Nessuno metterebbe un bambino su una barca se fosse disponibile un’alternativa più sicura". I bambini, spiegano le tre organizzazioni, oggi rappresentano il 36 per cento delle persone in transito e la "probabilità che anneghino nel Mar Egeo nella traversata dalla Turchia alla Grecia è aumentata proporzionalmente", spiegano nella nota. Durante le prime sei settimane del 2016, 410 persone delle 80 mila che hanno attraversato il Mediterraneo orientale sono annegate. Questo significa un aumento pari a 35 volte il numero di morti rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. "Contare le perdite non è sufficiente. Dobbiamo agire - ha dichiarato William Lacy Swing, direttore generale dell’Oim a Ginevra -. Questo non è un problema solo del Mediterraneo, né solo dell’Europa. Quella che sta avvenendo è una catastrofe umanitaria che chiede l’impegno di tutto il mondo. Il terremoto di Haiti del 2010 non era una questione solo di un emisfero, né lo era lo tsunami in Asia sudorientale del 2004. In risposta a quei disastri ci fu un’enorme manifestazione di azione umanitaria. La stessa è necessaria in questo caso". Sul tema è intervenuto anche il segretario generale dell’Onu che ha convocato una riunione ad alto livello per affrontare a livello globale il tema della responsabilità condivisa, attraverso vie legali per l’ammissione di rifugiati siriani, che si terrà il 30 marzo a Ginevra. Per Filippo Grandi, Alto commissario per i rifugiati, c’è bisogno di "maggiori sforzi per combattere il traffico di persone. Inoltre, dal momento che molti dei bambini e degli adulti che hanno perso la vita sono persone che stavano cercando di ricongiungersi con parenti in Europa, promuovere soluzioni che consentano alle persone di spostarsi in modo legale e sicuro, ad esempio attraverso programmi di reinsediamento e ricongiungimento familiare, dovrebbe essere un’assoluta priorità se vogliamo ridurre il numero delle morti". Cresce il numero di minori stranieri non accompagnati: +13% nel 2015 Redattore Sociale, 21 febbraio 2016 I dati aggiornati pubblicati nel report di monitoraggio sui Minori stranieri non accompagnati in Italia del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Sono 11.921 al 31 dicembre 2015. Nel 2014, però, un incremento del 66 per cento. Più di 6 mila gli irreperibili. In forte crescita il dato delle domande di protezione internazionale. Sono 11.921 i minori stranieri non accompagnati presenti in Italia al 31 dicembre 2015: un incremento nettamente inferiore rispetto a quello registrato nel 2014 (oltre il 66 per cento rispetto al 2013), ma comunque in crescita rispetto al 2014 del 13 per cento: si è passati cioè da 10.536 msna ai quasi 12 mila del 2014, con una variazione di 1.385 unità. Nel 2013, invece, erano 6.319. È quanto fa sapere il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali nel suo report di monitoraggio sui Mnsa in Italia pubblicato oggi sul sito internet del ministero. Al 31 dicembre, inoltre, sono 6.135 i minori non accompagnati che risultano irreperibili e sono soprattutto i minori di origine eritrea. "Tali dati riflettono la complessità del fenomeno dell’irreperibilità dei minori non accompagnati - spiega il report, dovuto ad una molteplicità di fattori - tra cui il progetto migratorio, l’aspettativa familiare e individuale, le informazioni in possesso dei minori, le reti parentali e di riferimento nei paesi di destinazione". Non si evidenziano scostamenti significativi lungo gli ultimi tre anni per quanti riguarda i paesi di provenienza. L’Egitto continua a essere il paese principale dei minori (23,1 per cento), seguito da Albania (12 per cento), Eritrea (9,9 per cento), Gambia (9,7 per cento) e Nigeria (5,8 per cento). Cresce di qualche punto percentuale la presenza dei minori prossimi alla maggiore età: se nel 2014 i msna con 17 anni erano il 49,5 per cento, nel 2015 rappresentano il 54 per cento. Cresce, anche se i numeri sono molto contenuti, il dato sui minori con età tra 0 e 6 anni: nel 2014 è di 27 unità, nel 2015 invece 43. Come negli altri report, inoltre, la componente maschile rappresenta quasi la totalità dei minori: sono circa il 95 per cento. Per quanto riguarda l’accoglienza, invece, è sempre la regione Sicilia a mantenere il primato anche se con un dato totale in lieve flessione rispetto al 2014: lo scorso anno, infatti, la presenza di msna in Sicilia ha fatto registrare 4.109 presenze (34,5 per cento del totale calcolato tra tutte le regioni), contro le 4.628 del 2014 (il 43,9 per cento). Sale in classifica la Calabria, con 1.126 msna nel 2015, contro gli 839 del 2014. Pressoché invariati i dati per la Puglia (nel 2015 sono 1.102 i msna accolti). Un balzo in avanti per presenze rispetto al 2014 lo fanno Sardegna, Piemonte, Veneto, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Lombardia e Lazio. Il numero delle strutture di accoglienza nel 2015 è di 1.012 unità, di cui 248 in Sicilia, 102 rispettivamente in Campania e in Puglia, 79 in Lombardia e 77 in Lazio. "Più dell’80 per cento delle strutture che accolgono i minori risultano essere autorizzate o accreditate da un ente pubblico: al 31 dicembre 2015, quasi l’85 per cento dei minori non accompagnati sono collocati in tali strutture". Oltre la metà delle strutture non accreditate, infine, sono localizzate in Sicilia (97, circa il 53 per cento). In forte crescita il dato delle domande di protezione internazionale. "Nel corso del 2015 sono state presentate 3.959 nuove domande di protezione internazionale riferite a minori non accompagnati - spiega il report -. Rispetto al 2014, anno in cui le richieste presentate erano state 2.557, il dato è in forte crescita e ha registrato un andamento pari a +54 per cento nell’ultimo biennio". L’incidenza dei minori con cittadinanze provenienti dai Paesi africani si conferma preponderante. "Sono 3.327 i minori di origine africana richiedenti asilo nel 2015 - aggiunge il report -, pari all’80 per cento del totale. In particolare, i principali paesi di provenienza dei minori richiedenti protezione sono il Gambia (1.171 minori, pari al 29,6 per cento del totale), la Nigeria (564 minori, pari al 14,2 per cento del totale) e il Senegal (437 minori, pari all’11 per cento del totale). La geografia di provenienza dei minori richiedenti protezione internazionale differisce rispetto a quella degli adulti, per i quali i paesi di origine prevalenti sono quelli del Corno d’Africa ed in particolare Eritrea e Somalia". Presa in carico "in armonia", per dire addio alla cocaina. È il progetto Care Redattore Sociale, 21 febbraio 2016 Un centro residenziale per il trattamento della dipendenza, senza distacchi da lavoro e famiglia, in un’alternanza tra moduli residenziali e ambulatoriali e un’alta personalizzazione del programma di trattamento. La cooperativa Il cammino è capofila del progetto, finanziato dal Fondo regionale del Lazio per la Lotta alla droga. Presa in carico in armonia con le esigenze della persona, senza distacchi da famiglia o lavoro, un’alternanza tra moduli residenziali e ambulatoriali e un’alta personalizzazione del programma di trattamento, con costi ridotti rispetto alle comunità. Sono questi i punti di forza del progetto Care, un centro residenziale per il trattamento della dipendenza dalla cocaina realizzato nel Lazio grazie ad un finanziamento regionale nell’ambito della programmazione del Fondo regionale lotta alla Droga 2013-2015, in continuità con l’avvio del progetto dal 2011. Capofila la cooperativa sociale Il Cammino, ma alla realizzazione del progetto hanno partecipato anche la cooperativa Parsec, la Asl Frosinone, due Asl romane e con la collaborazione dell’Istituto Superiore di Sanità, del Centro Lacchiarella - Addiction Center (Regione Lombardia), l’Università D’Annunzio di Chieti e il dipartimento di Neuroscienze, Imaging e Scienze Cliniche. Un progetto innovativo perché "permette a chi si rivolge di mantenere i contatti con il lavoro, gli affetti e la famiglia - spiega Stefano Regio, responsabile regionale per le dipendenze del Cnca. Questo meccanismo di presa in carico e di alternanza tra residenziale e ambulatoriale, condotto con una regia di presa in carico ad alta intensità e così personalizzata è il futuro, perché sempre meno le persone possono essere sospese dalla loro vita per tempi così lunghi per fare un percorso di recupero per problemi di dipendenza". Ad oggi sono quasi 200 le persone con problemi di dipendenza che hanno contattato il centro. I maschi rappresentano la maggior parte degli utenti, sono per lo più di cittadinanza italiana e provenienti da Roma. Hanno un’età che si aggira intorno ai 40 anni, con punte di 19 anni e 64. Pochi i laureati (sono il 6 per cento), mentre la metà ha una diploma di scuola superiore. "Un’altissima percentuale di loro lavora - spiega Regio -, ha famiglia e non ha nessuna intenzione di interrompere queste attività per ricorrere ad altri trattamenti". Circa 6 su dieci utenti, infatti, hanno un lavoro stabile, i disoccupati sono il 25 per cento. Tra le sostanze per chi si chiede un trattamento spicca la cocaina, ma in realtà, spiega Regio, si tratta quasi sempre di poliassuntori. Nessun caso di eroina come prima sostanza. Esperienze di questo tipo si contano sulle dita di una mano, spiega Regio. "Ce ne sono altre a Milano, in Veneto o in Emilia Romagna - racconta -. Tutte realtà che tentano di prendere in carico persone dipendenti con un’offerta che è un mix di residenziale e ambulatoriale. Altrimenti abbiamo il Sert che prende in carico in ambulatoriale o le classiche comunità che accolgono persone per 12, 18 mesi o più". Quella del progetto Care, quindi, è una "via di mezzo - aggiunge Regio - che propone una presa in carico intensiva. L’equipe è composta da persone qualificate. La persona chiama e viene subito presa in carico. Gli viene affidato un tutor che segue la regia del progetto personalizzato. Si fa subito una verifica se è stato inviato da un Sert, si fa una prima diagnosi e si individuano le aree problematiche così da delineare un programma di trattamento che definisce un certo numero di moduli residenziali di due o tre giorni. Le persone entrano il venerdì pomeriggio e vanno via la domenica sera. A volte facciamo incontri durante la settimana. Prima e durante e dopo vengono fatti colloqui individuali, con le famiglie e di verifica". I progetti personalizzati, inoltre, hanno una durata che va da un anno ad un anno e mezzo. La chiamano residenzialità "leggera" e negli ultimi due anni sono 93 i moduli realizzati per un totale di 282 giornate di residenzialità. I moduli residenziali si sono svolti con una frequenza media di 4 al mese e vi hanno partecipato complessivamente 80 pazienti. Un modello che oltre a non compromettere l’attività lavorativa dei partecipanti, comporta anche costi più contenuti. "Con delle piccole accortezze - racconta Regio - si è riusciti a mettere su un centro che con le risorse che in modo standard sono sufficienti a seguire 8 persone residenziali, in cui si interrompe la propria vita per stare in comunità, il centro Care riesce a seguire 40 persone". Tra gli elementi innovativi del programma, inoltre, anche gli obiettivi dei trattamenti. "Il progetto non ha come obiettivo soltanto l’astinenza dalle sostanze - continua Regio -. Il progetto si pone degli obiettivi molto precisi che possono anche essere il contenimento dell’uso, una ripresa e mantenimento di attività che in concomitanza del consumo la persona non era più in grado di gestire con soddisfazione". Per il progetto Care, infine, si apre una nuova sfida che è quella dell’accreditamento. "Attualmente nella regione Lazio sono accreditate soltanto le comunità terapeutiche residenziali e semiresidenziali, pedagogico e terapeutico riabilitative - spiega Regio -. Il resto dell’offerta, come la riduzione del danno, è stata finanziata attraverso bandi e presentazione di progetti. Da tanti anni, il versante innovativo nell’ambito delle dipendenze è garantito nella regione Lazio con questi progetti. Ora si è posto il problema della continuità e la regione ha deciso di accelerare i tempi per l’accreditamento di tutto quello che viene riconosciuto come servizio stabile. Da un anno a questa parte è iniziato il processo di trasformazione dei progetti in servizi e noi siamo nel mezzo di questa trasformazione". Ungheria. Orban: "Giusto chiudere i confini, pronti a farlo anche con la Romania" La Stampa, 21 febbraio 2016 Dopo il Consiglio Ue il premier ungherese insiste. E Schengen vacilla. "La chiusura dei confini è giusta". Parola del primo ministro ungherese Viktor Orban che all’indomani di un Consiglio Ue, sostanzialmente irrilevante sul fronte dell’emergenza migrazione, rilancia, nei fatti, la sua minaccia alla tenuta del Trattato di Schengen. Gli occhi di Bruxelles sono ora puntati sull’attesissimo vertice Ue dei primi di marzo con la Turchia, quando si cercherà di accelerare di nuovo, con Ankara, il dibattito sui flussi. Ma nel frattempo la cronaca incalza e si materializza in Europa l’effetto "domino" sul ripristino dei controlli alle frontiere interne. "Noi - incalza Orban - continueremo a tenere chiusi i nostri confini con Serbia e Croazia e se necessario chiuderemo anche quello con la Romania". Ieri, l’agenzia austriaca Apa, aveva annunciato che l’Ungheria avrebbe chiuso da domani anche i suoi tre passaggi di frontiera ferroviari con la Croazia. Ma la notizia è stata oggi smentita all’ANSA dal governo di Budapest. "Non vi è stata alcuna misura e disposizione del genere", ha detto l’ufficio stampa del ministero dell’interno. Tuttavia, soprattutto alla luce delle scelte di Vienna, la tensione cresce di giorno in giorno, soprattutto nel nord est dell’Italia. Il Capo della Polizia, Alessandro Pansa, a Trieste, cerca di rassicurare. Se la decisione dell’Austria di limitare gli accessi di migranti dovesse favorire il flusso verso l’Italia, afferma Pansa, "siamo pronti a gestirlo e ad affrontarlo". Meno rassicuranti le parole di Domenico Manzione, sottosegretario con la delega all’immigrazione: "l’ipotesi prospettata dall’Austria di un cosiddetto Muro del Brennero farebbe diventare l’Italia un sacco nel cuore dell’Europa. La rotta balcanica - spiega Manzione a "Il Mattino" - si trasformerebbe, via mare e via terra, in una rotta adriatica, tutta italiana. È concreto il rischio di avere alla nostra frontiera del nord est una Lampedusa del Nord, ultimo approdo della disperazione che non arriva dal Mediterraneo". Manzione parla di "scelta scellerata", da parte di Vienna. L’Italia, dice, rischia di diventare l’imbuto di un esodo epocale. Oggi al Brennero circa 250 persone, chi in rappresentanza di partiti o sindacati chi di associazioni, ma anche semplici cittadini, hanno organizzato una catena umana, sul valico, per dire no alla costruzione di una barriera fra Austria e Italia. Non un’azione contro Vienna, hanno sottolineato i promotori, ma per dire un no deciso ai muri, che sono il sintomo dell’assenza di una politica europea. È invece - hanno spiegato - un sì convinto all’Europa, perché sappia impedire il ripiegamento su sé stessi degli Stati". Dalla catena umana è stato espresso il sostegno al lavoro dei Presidenti dell’Euroregione, formata da Trentino, provincia autonoma di Trento e di Bolzano, Tirolo austriaco - Ugo Rossi, Guenther Platter e Arno Kompatscher - che dopo essere stati a Vienna, lunedì saranno a Roma per incontrare il ministro degli Interni Angelino Alfano e ribadirgli la loro posizione sulla questione dei migranti e dei controlli al Brennero. Egitto: i giudici non leggono il certificato di nascita, ergastolo a bimbo di 4 anni di Marco Arcano Il Tempo, 21 febbraio 2016 Condannato a morte a 4 anni di età, per "disordini" commessi quando ne aveva quasi uno e mezzo. Questa in Egitto la chiamano giustizia. Pochi giorni fa un bambino è stato condannato in contumacia all’ergastolo per omicidio. Ahmed Mansour Karni, era nella lista di un gruppo 116 oppositori del governo condannati da un tribunale del Cairo con le accuse di omicidio, danneggiamento di proprietà dello Stato, disturbo della quiete pubblica e minacce a soldati e alla polizia, riferisce The Independent. Reati commessi in occasione delle proteste del 3 gennaio 2014, quando il piccolo non aveva compiuto neanche 2 anni. Il suo avvocato, Faisal Al-Sayd, ha spiegato al quotidiano israeliano Jerusalem Post che il nome del bambino è stato aggiunto alla lista per errore. "Il suo certificato di nascita è stato presentato dopo il suo inserimento nella lista degli accusati da parte delle forze di sicurezza. Il caso è stato poi trasferito a un tribunale militare, dove il certificato non è mai arrivato e il bambino è stato condannato in contumacia. Questo prova che il giudice non ha studiato il caso". Il bambino è accusato di omicidio, otto tentati omicidi, danneggiamento di proprietà del ministero della Salute nella provincia di el-Fayoum, 70 chilometri a sud-ovest del Cairo, minacce a soldati e poliziotti e danneggiamento di veicoli delle forze di sicurezza. La sentenza ha causato una tempesta sui social media dove numerosi utenti si sono scagliati contro il sistema giudiziario del Paese e hanno accusato il governo di corruzione. Un altro avvocato, Mohammad Abu Hurria, ha scritto: "Ingiustizia e follia in Egitto. Un bambino di 4 anni condannato all’ergastolo. Non c’è Giustizia in Egitto. La logia si è suicidata tempo fa. L’Egitto è impazzito, è governato da un gruppo di pazzi". Il rapporto Amnesty International, sulle esecuzioni a morte nel 2014 (pubblicato nell’aprile dell’anno dopo) dedica un paragrafo alla zona del Sud-Est asiatico. "L’alta corte in Sri Lanka - scrive - ha condannato a morte un uomo per un reato commesso quando aveva 12 anni. Maldive, Pakistan e Sri Lanka hanno mantenuto la pena di morte per i minori autori di reati". Invece, nel dossier firmato da "Nessuno tocchi Caino", intitolato "Il volto sorridente dei mullah", approfondisce il caso iraniano. In base alla legge della Repubblica islamica, si legge nel documento che "le femmine di età superiore a 9 anni e i maschi con più di 15 anni sono considerati adulti e, quindi, possono essere condannati a morte, anche se le esecuzioni sono normalmente effettuate al compimento del diciottesimo anno d’età". Cina: altra stretta sulla libertà, contenuti stranieri banditi da internet La Repubblica, 21 febbraio 2016 Dal 10 marzo le aziende e i media non cinesi dovranno munirsi di un permesso speciale per pubblicare sul web nel Paese: lo ha deciso il ministero dell’Industria e dell’Information. Le aziende straniere non potranno più pubblicare contenuti online in Cina dal 10 marzo. Lo hanno annunciato il ministero dell’Industria e della Information technology e l’Amministrazione statale della stampa, delle pubblicazioni della radio, dei film e della televisione in un comunicato congiunto. "Le joint venture cinesi-estere e le aziende straniere non dovranno più impegnarsi in servizi editoriali online - si legge nella nota -. Le regole si applicano a informazioni, testi ideologici, foto, mappe, giochi, animazioni, libri-audio e digitali e altri lavori originali di letteratura, arte, scienza e ulteriori settori". Così, dopo le chat vietate sui cellulari, la censura cinese si spinge più in là. Per poter continuare a diffondere contenuti su internet, le joint venture cinesi-internazionali dovranno richiedere un permesso speciale. I media online interni, invece, dovranno informare le autorità competenti sulle loro fonti di finanziamento, sulle spese, sul personale, sulla registrazioni dei domini e dovranno comunque tenere tutte le riserve e gli equipaggiamenti in Cina. È fatto comunque divieto di pubblicare informazioni che potrebbero causare danni all’unità nazionale, alla sovranità e all’integrità territoriale. Vietati anche i contenuti che potrebbero disturbare l’ordine pubblico, minare la stabilità sociale, danneggiare la moralità e mettere in pericolo le tradizioni culturali. La stretta del governo cinese sulla libertà di informazione e di comunicazione dei suoi cittadini, che si rifugiano nei software WhatsApp e Telegram per comunicare al riparo dello sguardo del "Grande Fratello", continua con questa nota che di fatto impedisce la pubblicazione su territorio cinese di qualsiasi contenuto che non sia cinese. Dalla letteratura ai giochi al giornalismo. La Electronic Frontier Foundation, da sempre impegnata sul fronte della difesa della privacy, denuncia l’ultima pratica della censura cinese: la richiesta di rimozione di software sicuri dal proprio telefono per potere monitorare l’uso che di essi viene fatto dai possessori. Nella provincia dello Xinjiang alcuni residenti si sono visti interrompere improvvisamente il servizio telefonico e, dopo le ovvie proteste, sono stati invitati dai propri fornitori di telecomunicazione a rivolgersi alla polizia locale che, contattata, ha brutalmente dichiarato che erano stati scoperti a usare delle VPN, le reti private virtuali, o a scaricare software per la messaggistica sicura. Per riavere la connettività i cittadini avrebbero dovuto rimuovere i software in questione.