I riti suicidi di deputati e senatori di Michele Ainis Corriere della Sera, 20 febbraio 2016 La forma vince sulla sostanza, ma è una vittoria di Pirro, perché la democrazia si nutre di regole formali che non devono diventare caricaturali fino all’ostruzionismo. Il Parlamento è diventato un Tar. Tendi l’orecchio sui dibattiti che s’intrecciano in quell’aula, e ti perfora i timpani un estenuante contenzioso su vizi formali e irregolarità procedurali. Insomma sul come, non sul cosa. Sulle forme, non sulla sostanza. Anche perché le prime hanno generato una quantità di riti irrituali: decreti legge straordinari usati in via ordinaria, deleghe in bianco, maxiemendamenti, fino all’invenzione di quest’ultima legislatura: l’emendamento premissivo, sul quale si giocano le sorti del ddl Cirinnà. Nel gennaio 2015 l’aveva brevettato il senatore Esposito, per superare l’ostruzionismo sull’Italicum; nel febbraio 2016 l’ha riproposto il senatore Marcucci, per blindare la legge sulle unioni civili. Come funziona? In breve, si tratta d’un compendio che riassume i principi ispiratori della legge, una summa teologica che precede ogni altro articolo del testo. E siccome gli emendamenti si votano secondo le regole di Bentham, siccome da quelle regole discende l’istituto della preclusione, siccome la preclusione impedisce due voti contraddittori sul medesimo argomento, la conclusione è presto detta: se passa l’emendamento premissivo, non può essere posto in votazione alcun altro emendamento che ribalti la scelta già operata. Sicché la maggioranza incassa l’approvazione della legge prima ancora d’approvarla, ma a prezzo di contorsioni logiche, d’acrobazie procedurali. Perché ciascun emendamento dovrebbe recare una proposta di modifica, mentre l’emendamento premissivo modifica il progetto di legge senza modificarlo, anzi paralizzando ogni modifica. Perché quest’ultimo si configura perciò come un emendamento rivolto a evitare emendamenti: il suicidio del legislatore. E perché le regole parlamentari tendono a consentire le massime opzioni possibili sui progetti di legge in discussione, non a rendere impossibili anche le opzioni minime. Risultato: l’emendamento premissivo scarica i conflitti sulle regole, dunque sui garanti delle regole, i presidenti delle assemblee legislative. E gli effetti politici? Quell’espediente avrebbe dovuto permettere al Pd di superare l’opposizione della Lega, invece ha mandato all’opposizione pure i 5 Stelle. Doveva sveltire l’iter d’approvazione della legge Cirinnà, ma lo ha rallentato, rinvio dopo rinvio. Tanto che adesso nessuno sa bene come uscirne; l’ultima trovata, a quanto pare, è lo spacchettamento attraverso emendamenti premissivi parziali, una roba che farebbe l’invidia della Nasa. D’altronde noi italiani abbiamo un talento speciale per gli arzigogoli. Anche quando non ne avremmo bisogno, giacché in questo caso la Lega aveva rinunciato a fare ostruzionismo, ritirando 4.500 emendamenti su 5.000. E tuttavia non basta, non basta mai: c’è sempre l’incognita dei voti segreti, cui si è interessato perfino il cardinal Bagnasco. Un’altra questione procedurale, come il conflitto d’attribuzioni fra poteri dello Stato depositato da 40 senatori dinanzi alla Consulta, perché la legge non aveva esaurito l’esame in commissione. Dopo di che c’è un vizio formale in quel ricorso per vizi formali: 40 senatori saranno anche potenti, ma non costituiscono un potere dello Stato. Morale della favola: la forma vince sulla sostanza, ma è una vittoria di Pirro. Perché la democrazia si nutre di regole formali, però i formalismi disegnano una caricatura delle regole, e in ultimo impediscono la stessa vita democratica. Succede nelle assemblee parlamentari, succede nelle assemblee condominiali, quando le baruffe sui millesimi precludono qualsiasi decisione. C’è tuttavia un’allerta da trasmettere ai nostri avvocati, pardon, senatori: attenti, se convertite ogni intervento in un’arringa, se trasformate la politica in processo, il Parlamento finirà per diventare un tribunale, ma i tribunali sostituiranno il Parlamento. Il ministro Orlando "ad aprile conclusione degli Stati generali dell’esecuzione penale" Dire, 20 febbraio 2016 A fine aprile si concluderà il lavoro degli "Stati generali dell’esecuzione penale" con un evento alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Lo annuncia il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, intervenendo all’incontro incontro Consiglio superiore della magistratura- Scuola Superiore della Magistratura, alla presenza del Capo dello Stato, su prospettive formazione magistrati. "Il richiamo all’azione normativa ed organizzativa svolta per assicurare l’adeguamento del nostro sistema penitenziario ai principi enunciati dalla Corte dei Diritti dell’Uomo- dice il guardasigilli - mi consente di richiamare qui i lavori degli Stati generali che ho voluto promuovere e che volgono al termine. Per mesi, in questa innovativa procedura di consultazione pubblica, oltre duecento esperti e rappresentanti dell’associazionismo civile che ruota intorno al mondo del carcere, si sono raccolti intorno a diciotto tavoli tematici, per l’approfondimento dei punti più delicati e critici della materia dell’esecuzione penale. Anche in vista della revisione dell’ordinamento penitenziario". L’iniziativa, tuttora aperta al dibattito pubblico, continua Orlando, "si concluderà nel prossimo mese di aprile, con un evento alla presenza del Presidente della Repubblica, a cui rinnovo la mia gratitudine. L’obiettivo ultimo è più ampia mobilitazione possibile della coscienza civile del Paese sul fronte di una percezione collettiva della pena e del carcere come strumenti di rieducazione e riparazione e nondi una mera retribuzione punitiva. Una consapevolezza essenziale per la stessa effettività della tutela della sicurezza collettiva. Questo percorso - che ho appena illustrato nei suoi passaggi fondamentali dinanzi alla Commissione Giustizia della Camera e che illustrerò la prossima settimana in Commissione Giustizia del Senato - si doterà anche dei fondamentali contributi del Consiglio Superiore della Magistratura e della Scuola Superiore della Magistratura". Secondo il ministro, "sarà questa un’ulteriore, concreta dimostrazione del valore della condivisione di modelli culturali nuovi e moderni, da parte di Istituzioni autonome ma tutte vocate all’incessante promozione dei valori identitari della Repubblica". Chiusura degli Opg, quando il sonno della Regione genera mostri di Giuliana De Vivo pagina99, 20 febbraio 2016 Gli Opg dovevano chiudere 11 mesi fa. Ma l’inadempienza dei governatori ha creato il caos. A Castiglione delle Stiviere un internalo è morto soffocato mentre mangiava. Le buone intenzioni sono rimaste al di qua delle sbarre arrugginite. Succede, quando non si hanno le idee chiare: si opta per la soluzione tampone. Provvisoria, consegnata al definitivo da indolenza e inettitudine. È la strada intrapresa da un terzo delle Regioni italiane rispetto all’applicazione della legge n. 81 del 2014. Entrata in vigore lo scorso 1 aprile, annunciata come svolta epocale: mai più le storture degli ospedali psichiatrici giudiziari, si disse. Sostituiti da strutture più raccolte, con 20 posti letto al massimo, governate da personale sanitario anziché sorvegliate-dalia polizia penitenziaria. Le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) sarebbero state teatro di questo atteso passaggio dalla contenzione alla cura. Costo del biglietto: 172 milioni di euro. Gli Opg con gli internati inebetiti da psicofarmaci, i lettini delle torture e le bottiglie di plastica calate nei wc per impedire ai topi di risalire dalle fogne, l’horror show da dimenticare. Eppure undici mesi dopo Piemonte. Veneto, Toscana, Abruzzo, Calabria e Puglia sono in difficoltà sulla regia. Lo scorso fine ottobre erano state invitate formalmente a "garantire la presa in carico dei propri residenti internati negli ex Opg", si legge nell’ultima relazione congiunta di ministero delia Salute e della Giustizia. La territorialità era uno dei principi sanciti dalla nuova norma, ogni Regione doveva, occuparsi dei propri malati. E trasferire nelle Rems solo quelli giudicati dalla magistratura ancora "potenzialmente pericolosi": per gli altri dovevano partire percorsi di risocializzazione, o l’affidamento a strutture intermedie come istituti specializzati e case famiglia. Invece, da Torino a Bari, a giorni la questione sarà affidata. a un commissario unico, con il compito di individuare gli attori per questa sceneggiatura rimasta sulla carta. La bozza di delibera del Consiglio dei ministri, pubblicata l’11 febbraio dal Sole 24 Ore, designa per questo ruolo Franco Corleone, già garante dei detenuti e sottosegretario alla Giustizia. "Se vogliamo fare una sintesi la parola chiave è caos", osserva Massimo Lensi, dei Radicali di Firenze. L’Opg di Montelupo fiorentino non è affatto chiuso, ospita ancora 48 persone di cui 25 toscane. La Rems sorgerà nel padiglione Livi dell’ospedale di Volterra, che però va buttato giù e ricostruito ex novo. Nel frattempo c’è una struttura-ponte, temporanea, nel padiglione Morel 3: "Al momento ne è aperta una sola parte, con 10 ospiti, che dovrebbero arrivare a 23 con l’ampliamento previsto entro marzo. Succede qui da noi come altrove: le poche Rems provvisorie in funzione sono già. tutte piene". Eccola, la misura tampone. Che non basta, e segrega ancora 164 persone negli ex Opg: oltre a quello toscano, Reggio Emilia, Aversa, Barcellona. Pozzo di Gotto e Castiglione. delle Stiviere. La struttura mantovana, considerata per anni un modello perché il personale sanitario prevaleva nettamente su quello penitenziario già prima della riforma, rischia, di trasformarsi in un altro scenario del fallimento: ci si è limitati a un cambio formale, da Opg a "sistema polimodulare di Rems provvisorie". Da protocollo ci sarebbero 160 posti letto, magli ospiti al momento sono 223, di cui 88 originari delle Regioni inadempienti, che hanno preferito pagare la Lombardia, affinché si tenga i loro internati, "invece che affrontare la questione a livello locale, comprese le proteste dei cittadini, perché nessuno vuole il "matto criminale" vicino casa. Qualche giorno fa un internato è morto soffocato mentre mangiava. Una fatalità può sempre accadere, ma il punto è che sono troppi, stanno stipati, viene a mancare l’attenzione costante verso ciascuno di loro che la legge impone", continua Lensi. Il commissario in pectore Corleone è d’accordo: "Castiglione è un neo-manicomio, le residenze previste dalla legge 81 devono essere piccole". E su come gestire il problema dice a Pagi-na99 che "bisogna affrontarlo caso per caso, individuare luoghi dove ci siano strutture già esistenti da riconvertire nel giro di 60 giorni". A molte amministrazioni infatti i fondi erogati hanno fatto gola, la nuova, normativa è stata vista come una gallina dalle uova d’oro per buttarsi a pesce in appalti nuovi, "invece quei soldi devono servire per formare e pagare il personale sanitario, anche perché il costo pro capite per internato in Rems lievita di 5 o 6 volte rispetto all’Opg", continua Lensi. Che ammette: "Così com’è sta diventando una Basaglia 2". Rivoluzionaria nei principi, gravemente lacunosa nell’esecuzione. Colpa anche della mancanza di modifiche al codice penale, che continua a prevedere la misura di sicurezza in Opg. "Non siamo affatto contro questa legge, ma è vero che solo eliminando il doppio binario, cioè la possibilità di comminare la misura al "reo folle", ci si assicura che le Rems non diventino Opg". Intanto, in attesa dell’ennesimo tecnico a supplire l’insipienza della politica, gli ospiti dell’Opg di Montelupo hanno fatto ricorso alla magistratura di sorveglianza: di fatto, sostengono, sono detenuti illegalmente, non c’è più alcun titolo giuridico per farli restare lì. "Commissario unico" per il superamento degli Opg, l’incarico a Franco Corleone Il Messaggero, 20 febbraio 2016 Spetterà a Franco Corleone l’incarico di chiudere il capitolo degli ex manicomi criminali e lasciare alle spalle anni di polemiche ma anche di dignità umana oltraggiata. Con la sua nomina da parte del Consiglio dei ministri a Commissario unico per il superamento degli Ex Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dovrà infatti assicurare il completamento delle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) in sei regioni, dove ancora sono complessivamente internate 100 persone: Piemonte, Toscana, Veneto, Abruzzo, Calabria e Puglia. "Un incarico di grande responsabilità - ha commentato Corleone - in cui intendo gettarmi a capofitto". Corleone, garante dei detenuti della Toscana, già senatore e sottosegretario alla Giustizia, avrà a disposizione sei mesi. Il Commissario dovrà intervenire per garantire ad ogni internato la dimissione, così da poter chiudere le strutture superstiti di Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto. I nodi però "sono numerosi", spiega Corleone dichiarandosi "pronto a collaborare pienamente con le regioni". Dovrà infatti anche "assicurarsi che la magistratura applichi integralmente la legge 81 che prevede il ricovero nelle Rems come l’ultima soluzione, dando la precedenza ai servizi di salute mentale del territorio". Il commissariamento "è l’ultimo passaggio per la soluzione storica di un problema che ha fatto dibattere animatamente in questi anni", per il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo. Le reazioni - La notizia è accolta con entusiasmo dal Comitato Stop Opg. "L’abbiamo sollecitata da mesi e finalmente è arrivata", commenta il portavoce Stefano Cecconi. Le regioni prendono atto. "Avrà vita facile, perché la nostra Rems è già attiva e a breve sarà completata", commenta l’assessore alla Sanità del Veneto Coletto. Gli fa eco l’assessore alla programmazione sanitaria dell’Abruzzo Silvio Paolucci: "Un provvedimento ininfluente, in quanto il 4 aprile sarà inaugurata la Rems di Barete, che renderà la nostra Regione e adempiente". "Confidiamo - dice il presidente della Regione Piemonte Chiamparino - che la scelta del governo ci aiuti a risolvere alcune criticità". Stop Opg: bene nomina commissario, piena collaborazione "Una buona notizia. L’abbiamo sollecitata da mesi e finalmente è arrivata". È il commento del Comitato Stop Opg alla nomina, da parte del Consiglio dei ministri, del Commissario unico per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari. "Inviamo i nostri auguri e la piena disponibilità a collaborare a Franco Corleone: conosciamo la passione e la competenza con cui ha svolto il suo lavoro di garante dei diritti dei detenuti e delle persone prive della libertà", commenta il portavoce Stefano Cecconi che sottolinea "va riconosciuto l’impegno e la determinazione con cui il sottosegretario De Filippo ha seguito il percorso". Il Commissario dovrà intervenire per garantire ad ogni internato la dimissione, così da poter chiudere gli Opg superstiti di Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto. Ma, sottolinea Cecconi, "il mandato è più ampio" e "riguarda tutto il territorio nazionale, per la piena e corretta applicazione della legge 81/2014, che privilegia decisamente misure di sicurezza alternative alla detenzione con progetti di cura e riabilitazione individuale". Ora, conclude "possiamo fare un altro passo avanti lungo la strada della legge 180, che decretando la chiusura dei manicomi ha restituito speranza, diritti e dignità a migliaia di persone". Il divieto di intercettazione dei colloqui tra il difensore e l’imputato camminodiritto.it, 20 febbraio 2016 Garanzie di libertà e diritto di difesa: la sanzione dell’inutilizzabilità delle captazioni vietate ai sensi dell’art. 103 comma 5, c.p.p. Il colloquio tra difensore e detenuto non incontra i limiti quantitativi generalmente imposti nelle altre tipologie di colloqui fruibili dall’internato, costituendo infatti un diritto fondamentale di difesa dell’imputato, non suscettibile di restrizioni di alcuna sorta. L’art. 18 della legge dell’Ordinamento Penitenziario, e in senso più tecnico l’art. 37 del d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230, infatti, definisce le modalità attraverso le quali devono svolgersi i colloqui individuando, nello specifico, i soggetti con i quali il detenuto vi può essere ammesso; restano fuori dal novero di questi soggetti proprio i difensori, posto che il fondamento del diritto al colloquio con il proprio difensore è compiutamente sancito da una norma processualistica quale l’art. 104 del Codice di procedura penale che riconosce espressamente il diritto dell’imputato in custodia cautelare di conferire con il difensore "fin dall’inizio dell’esecuzione della misura". Si tratta di una disposizione specificamente dettata dal codice al fine di tutelare il soggetto detenuto non già in esecuzione di pena definitiva, ma in quanto sottoposto a misura di custodia cautelare in carcere. È con particolare riguardo a tali soggetti, infatti, che si esprime in misura maggiore la finalità della garanzia difensiva posta dalla norma citata. Premesso il contesto normativo di riferimento, si vuole soffermare l’attenzione su un aspetto legato al concreto svolgimento di tali colloqui con il difensore, muovendo dal presupposto che la legge ne garantisce l’assoluta riservatezza, presidio di garanzia per il contenuto delle stesse conversazioni intrattenute; il diritto viene sancito da una disposizione processualistica avente portata generale come l’art. 103 comma 5 c.p.p., che pone il divieto di sottoporre a intercettazioni le conversazioni e le comunicazioni tra detenuto e difensore, nonché consulenti tecnici e loro ausiliari, e quindi soggetti la cui attività è coperta dal segreto professionale. L’importanza pratica di questa disposizione è data dalla sanzione stabilita nel caso di violazione del divieto, che consiste appunto nell’inutilizzabilità in giudizio delle intercettazioni eventualmente effettuate in contrasto con il diritto di difesa. La disciplina del divieto di sottoporre a controllo auditivo le conversazioni, fisiche o telefoniche, tra detenuto e difensore, esprime un corollario con il diritto alla difesa, qui ulteriormente garantito dalla segretezza del colloquio, che appunto può essere sottoposto al solo controllo visivo per evidenti ragioni di sicurezza all’interno dell’istituto penitenziario. La norma processuale intende salvaguardare in primo luogo le libertà del difensore che, in un processo di stampo accusatorio quale quello delineato nel nuovo codice, costituiscono presidio di tutela del diritto di difesa dell’imputato, al fine di operare quel necessario bilanciamento con le esigenze proprie delle indagini, che si realizza assicurando la segretezza delle conversazioni, e in generale delle comunicazioni, intercorrenti fra detenuto e difensore. Si osserva sul punto che l’ampiezza della disposizione codicistica consente di considerare come soggetti destinatari della garanzia di libertà del difensore gli "assistiti" in quanto tali, ma è chiaro che la rilevanza della segretezza di cui al quinto comma, dal punto di vista pratico, non può che esprimersi in maniera particolare con riferimento ai detenuti in custodia cautelare e quindi imputati o anche soltanto indagati, a seconda della fase in cui la misura restrittiva è stata disposta. L’imputato-indagato, infatti, conferisce con il difensore al fine di definire una strategia difensiva da seguire nel corso delle indagini (per esempio mediante la decisione di volere approfondire alcuni aspetti facendo ricorso alle indagini difensive) e quindi nella successiva fase processuale che potrà istaurarsi. Volendo approfondire il tema dei colloqui intercorsi fra le mura del carcere, si deve ricordare la portata del divieto probatorio dell’art. 103 comma 5, che è esplicito rispetto ad ogni attività di captazione delle conversazioni tra imputato e difensore; la sanzione processuale prevista dall’ordinamento nel caso in cui tali intercettazioni dovessero essere state effettuate è, come già ricordato, l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni. Tale inutilizzabilità, che rileva in ambito probatorio, viene dichiarata dal giudice mediante un controllo ex ante sul contenuto delle conversazioni intercettate, e quindi un tipo di controllo che non comporta anche la previa visione del contenuto delle intercettazioni, alla luce del fatto che la conversazione attiene alla funzione difensiva. A questo risultato si giunge mediante la distruzione delle risultanze di tali intercettazioni, senza che il giudice possa subire, dall’esame di esse, alcuna suggestione. Trattandosi di intercettazioni di cui è vietata l’utilizzazione, i risultati delle stesse captazioni eventualmente disposte non potranno essere, quindi, utilizzati in quanto eseguite al di fuori dei casi consentiti dalla legge a norma dell’art. 271 c.p.p., e si dovrà procedere alla distruzione dei verbali di intercettazione, ai sensi dell’art. 268 del codice di rito che stabilisce, appunto, che il giudice dovrà disporre anche d’ufficio lo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione. La disciplina ricavabile dall’art. 103 comma 5 c.p.p., come già sottolineato, ha quindi una rilevanza ultronea rispetto ai colloqui vis a vis del detenuto con il proprio difensore, in quanto il diritto fondamentale di difesa che esprime, ha certamente una diretta incidenza in ambito prettamente penitenziario, ma si rivolge in quanto diritto sancito in via generale da una norma processualistica, a tutte le comunicazione intercorse, a prescindere se avvenute nel consorzio libero o nella cella adibita ai colloqui di un penitenziario. Per completezza di trattazione, infatti, è utile richiamare una recente pronuncia della Corte di Cassazione che ha avuto ad oggetto proprio la portata del divieto di intercettazioni delle conversazioni o comunicazioni dei difensori con i propri assistiti in relazione ad una vicenda in cui il soggetto assistito non era in vinculis, e quindi avente una diversa contestualizzazione rispetto ai colloqui avvenuti all’interno del carcere (o nel luogo in cui è stata disposta la misura cautelare degli arresti domiciliari). In questa occasione, e a prescindere dal fatto che ha dato origine al ricorso per Cassazione, la Suprema Corte ha ribadito che la ratio dell’art. 103 quinto comma, cod. proc. pen., nel vietare le intercettazioni delle conversazioni o comunicazioni dei difensori, è quella di garantire l’esercizio del diritto di difesa. In questa occasione, come del resto in precedenti analoghi che costituiscono ormai orientamento consolidato (v. in particolare Cass. Sez. VI, Sentenza n. 35656 del 16/06/2003, che ha ritenuto utilizzabile l’intercettazione della conversazione in cui l’avvocato aveva preavvertito il suo cliente delle iniziative assunte dalle forze di polizia, fornendo consigli su come evitare la cattura e commettendo così il reato di favoreggiamento), la seconda sezione penale ha ribadito che il divieto ha ad oggetto "le sole conversazioni o comunicazioni relative agli affari nei quali i legali esercitano la loro attività difensiva, e non si estende, quindi, alle conversazioni che integrino esse stesse reato", Cassazione penale, sez. II, 06/10/2015, n. 43410 (dep. Il 28 ottobre 2015). Nel quadro dei colloqui con il difensore, la tipologia dei colloqui telefonici deve essere presa in esame separatamente in quanto, se da un lato è riconducibile alla nozione di colloqui in senso lato, è altresì vero che il legislatore penitenziario ne ha fatto specifica menzione nelle disposizioni attuative del Codice di procedura penale, all’art. 35. Questa norma, in rubrica "corrispondenza telefonica", definisce una serie di aspetti che pongono delicate problematiche in tema di organi deputati al rilascio dell’autorizzazione. Resta fermo che anche con riferimento ai colloqui telefonici intercorsi tra difensore e detenuto, il legislatore ha espressamente escluso l’utilizzazione ai fini probatori delle intercettazioni, eventualmente captate, di tali conversazioni telefoniche, e lo ha fatto mediante l’ampia formulazione dell’art. 103 comma 5 c.p.p.: un’interpretazione in senso diverso contrasterebbe con la stessa garanzia difensiva posta dall’art. 104. A ciò si aggiunga che l’autorizzazione prescritta dalla legge (art. 35 comma 5 disp. att. c.p.p.) a proposito dei colloqui telefonici tra l’imputato e il difensore, rende diversa questa disciplina da quella riferita ai colloqui fisici, in quanto per le chiamate telefoniche in entrata e in uscita con il proprio difensore, l’imputato deve ottenere la preventiva autorizzazione rilasciata dall’autorità procedente, se il giudizio di primo grado non è ancora concluso, e dal magistrato di sorveglianza dopo la sentenza di primo grado. Si tratta quindi di una precisa regola dell’ordinamento penitenziario legata alle concrete modalità di esercizio delle conversazioni, che tuttavia non incide in senso negativo sulla tutela e sulle garanzie di libertà del difensore. Delitti e castighi di Adriano Sofri Il Foglio, 20 febbraio 2016 Caro Renzi, per risarcire la memoria di Regeni l’Italia riconosca il reato di tortura. Gentile Matteo Renzi, presidente del Consiglio e segretario del Pd, le scrivo a proposito dell’atteggiamento che l’Italia, il suo governo e il suo parlamento tengono rispetto all’assassinio di Giulio Regeni. Si è chiesto giustamente che le convenienze geopolitiche ed economiche con l’Egitto non inducano a rassegnazione e ipocrisia rispetto a un episodio così infame e rivelatore, e al contrario che quelle reciproche convenienze valgano a rivendicare verità e giustizia. Il governo, sia pure con apparenti intermittenze, ha sostenuto e sostiene, in particolare attraverso il ministro Gentiloni, di volere che a giustizia e verità si arrivi. Vedremo che cosa ne risulterà. C’è in alcuni l’illusione che le relazioni internazionali debbano e possano ignorare i rapporti di forza e i condizionamenti contestuali, e c’è all’opposto uno stucchevole oltranzismo della ragion di Stato e di un supposto realismo. Avvertire nel pieno di un impegno a indagare dell’ineluttabile impossibilità di arrivare alla verità vuol dire scommetterci sopra e mostrarsi più realisti del generale al Sisi. Vedremo che cosa ne risulterà, dunque. Però c’è una risposta, la più essenziale e la più appropriata, che l’Italia, il suo governo, il suo Parlamento, possono dare allo strazio di un loro giovane ed esemplare cittadino e al paesaggio che ha spalancato su quel regime "conveniente". Questa risposta è dettata dalla parola più significativa e sconvolgente sull’accaduto, la più ricorrente in notizie e commenti: tortura. Giulio Regeni è stato torturato: dunque non è stato ucciso per odio privato o comune criminalità, ma per la violenza tipica di un qualche apparato statale o parastatale. L’orrore e lo sdegno universale che attraversa l’Italia inciampa però in un ostacolo grottesco: perché l’Italia non riconosce nel proprio codice il reato di tortura. Non lo riconosce, benché fin dal 1988 - ventotto anni fa - abbia ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984. Non lo riconosce, benché in Parlamento siano state presentate e via via sepolte molte decine di disegni di legge sul punto. Non lo riconosce, benché la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia condannato l’Italia della Scuola Diaz per il crimine di tortura, e si appresti (a maggior ragione) a condannarla ancora per i tre giorni e le tre notti di Bolzaneto. Non lo riconosce, benché si compiaccia tagliando nastri di ricordare d’aver dato i natali a Cesare Beccaria e a Pietro Verri e ad Alessandro Manzoni. Non lo riconosce, benché lei stesso, presidente Renzi, abbia dichiarato a suo tempo che a cancellare quelle e altre macchie "la prima cosa da fare è introdurre subito il reato di tortura" - a suo tempo. Naturalmente, il Parlamento è più responsabile del governo, e l’opinione pubblica, quella così commossa e offesa dal destino di Giulio Regeni, è a sua volta responsabile e frustrata. In questi giorni si è ricordata la sequela di episodi - uno per tutti, passione e morte di Stefano Cucchi - che pesano sulla limpidezza dell’indignazione italiana contro torture e uccisioni perpetrate altrove. Tuttavia i delitti possono avvenire e hanno il nome di delitto, e non impediscono, a condizione di essere riconosciuti e affrontati, di protestare senza riserve contro i delitti altrui. Ma è arduo e perfino grottesco denunciare lo scandalo della tortura contro un cittadino italiano in Egitto quando l’Italia rilutta scandalosamente a scrivere il nome di tortura dentro il suo codice. Si esige verità e giustizia per Giulio Regeni: vedremo che cosa ne risulterà. Ma risarcirne la memoria togliendo il reato di tortura dal ripostiglio del Senato in cui è accantonato è la scelta migliore che si possa fare, per noi e per le stesse vittime egiziane di quel regime. Una scelta efficace e non solo simbolica, che permetterebbe di dire davvero che Giulio Regeni non è vissuto né morto invano. Si tiri fuori quella legge, si rinunci alle miserabili porcherie come la pretesa che torturatore sia solo chi tortura più di una volta, e la si voti. Magari poi la si chiamerà comunemente Legge Regeni, e qualcuno in futuro si chiederà da dove venga quel nome: da un italiano in Egitto. Abruzzo: addio agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, la Regione porti la Rems a Barete di Filippo Tronca abruzzoweb.it, 20 febbraio 2016 "La Regione Abruzzo può ancora, a prescindere dal commissariamento, ritirare la delibera che destina 4,7 milioni per realizzare la Residenza regionale per le misure di sicurezza (Rems) a Ripa Teatina, in provincia di Chieti, e rimodulare le risorse a vantaggio dei centri di salute mentale, e alla rete assistenziale che dovrà curare i pazienti psichiatrici, mantenendo come definitiva la struttura aquilana di Barete, che è adeguata e funzionale". A parlare è Alessandro Sirolli, referente abruzzese del comitato stop-Opg, in giorni cruciali e lastricati di polemiche sull’applicazione della legge 81 del 2014 che sta portando alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). L’Abruzzo infatti è stato appena commissariato, assieme ad altre cinque Regioni italiane, dal sottosegretario alla giustizia e Garante dei detenuti, Franco Corleone, commissario unico, in quanto non ha definito ancora dove localizzare la Rems regionale, ovvero la "Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza", una struttura più a misura d’uomo dove intanto dovranno essere ospitati una decina di pazienti psichiatrici e detenuti con problemi mentali, internati nell’Opg, e in arrivo quasi tutti dall’Opg di Aversa (Caserta), per riconoscere anche alle persone con patologie mentali sottoposte a detenzione il diritto di ricevere lo stesso tipo di assistenza sanitaria a prescindere dalla loro condizione giuridica. La Rems doveva essere realizzata a Ripa Teatina, abbattendo e ricostruendo un rudere destinato a casa di riposo assistita per anziani (Rsa) e prima ancora a centro riabilitativo per spastici. Ma poi c’è stato il dietrofront, seppure non messo nero su bianco dalla Regione, anche perché si è registrata la contrarietà da parte della popolazione locale che temeva la presenza sul territorio di detenuti con problemi mentali. Ora l’unica chance è la struttura provvisoria a Barete, in provincia dell’Aquila. Che sarà pronta ad inizio aprile. Contro le inadempienze della Regione Abruzzo ha lanciato fuoco e fiamme il consigliere regionale di Forza Italia Mauro Febbo, che considera uno spreco i 150 mila euro per adeguare, per di più in forte ritardo, la struttura di Barete, quando si potevano intanto utilizzare le strutture ospedaliere di Guardiagrele o Ortona, in provincia di Chieti. L’assessore regionale alla Sanità Silvio Paolucci ha risposto piccato: "Intanto - ha detto - non è arrivata nessuna comunicazione ufficiale di commissariamento. In secondo luogo, i pazienti in arrivo dall’Opg di Aversa, abruzzesi di nascita, saranno ospitati nella struttura provvisoria di Barete, perché altrove non è stato possibile". L’iniziale intenzione di allestire la Rems provvisoria a Guardiagrele è stata di fatto affossata da un ricorso al Tribunale amministrativo regionale. Sirolli interviene nella polemica invitando a rimettere al centro il senso stesso dell’epocale riforma, e ad avviare subito una stretta collaborazione con il neo commissario. Il passaggio decisivo è proprio la rimodulazione dei fondi, che, assicura Sirolli, devono essere destinati alla rete assistenziale sul territorio, non sprecati per costosi interventi edilizi. "Il senso condivisibile della riforma è quella di chiudere gli Opg, che in molti casi, se non tutti, si sono dimostrati solo luoghi di reclusione, non di cura, terapia e riabilitazione, spesso molto peggio delle carceri". Le Rems ben concepite, come quella di Barete invece sono strutture piccole, divise in mini appartamenti, sul modello delle case famiglia, dove i pazienti, seppure vigilati in modo discreto dalle guardie penitenziarie, possono essere coinvolti in percorsi di riabilitazione e cura da parte dei Centri di salute mentale del territorio. Progetti personalizzati e per questo efficaci, che potranno consentire ai Tribunali di sorveglianza di applicare misure alternative all’internamento, previste dalla legge 81, svuotando e rendendo nel tempo residuali le Rems, utili solo per i casi più critici. Fulcro della nuova politica dunque devono essere le politiche di riabilitazione, non il contenitore, ovvero le Rems. In una logica ribaltata rispetto a quella che portò alla costruzione dei manicomi. "Con i fondi a disposizione - spiega Sirolli - vanno fatti interventi edilizi su tutti e nove i Centri di salute mentale della regione alcuni dei quali sono dentro scantinati. Per un percorso di salute mentale l’accoglienza e il decoro di un luogo sono importantissimi. E poi ovviamente vanno destinate congrue risorse per i progetti personalizzati, e per gli operatori che vanno in molti casi adeguatamente formati. Servono percorsi lavorativi, formazione, borse lavoro. Mantenendo Barete come unica Rems regionale, senza inutile spreco di soldi per allestire altre strutture". Ferrara: detenuto di 45 anni si impicca in carcere, salvato dagli agenti estense.com, 20 febbraio 2016 Scampato in extremis un 45enne grazie alla polizia penitenziaria. Il Sappe: "Gli eventi critici aumentano sempre più". Ieri sera, poco prima di mezzanotte un detenuto italiano, di 45 anni, rinchiuso nel carcere di Ferrara, ha tentato il suicidio e solo grazie al pronto intervento della polizia penitenziaria è stato salvato da morte certa. "L’uomo si è impiccato - riferiscono Donato Capece e Giovanni Battista Durante, segretario generale e segretario generale aggiunto del Sappe, ma gli agenti se ne sono accorti subito e lo hanno tratto in salvo, con l’aiuto del medico del carcere che gli ha praticato il massaggio cardiaco, nell’attesa che arrivasse il personale del 118". Un caso che secondo Capece e Durante non è affatto isolato, al punto che "ogni anno la polizia penitenziaria salva la vita ad oltre 1.000 detenuti che tentano il suicidio in carcere, nonostante le tante carenze di personale. Il nuovo modello organizzativo che prevede la vigilanza dinamica, con le stanze aperte tutto il giorno, non ha risolto il problema degli eventi critici che continuano ad aumentare sempre di più". Durante sottolinea come a suo avviso il problema principale del nuovo modello organizzativo consista nella maggior libertà di cui godono i detenuti all’interno delle carceri, dove durante il giorno non devono rimanere all’interno delle celle. "Questo ci obbliga a una minor sorveglianza - afferma il segretario aggiunto del Sappe, che unita alla carenza di personale può comportare un rischio per i detenuti, ma nonostante ciò ogni anno la polizia penitenziaria salva circa 1.200 detenuti da tentati suicidi o episodi di autolesionismo o assunzione di droga. Il modello andrebbe pensato in maniera diversa: occorrerebbe selezionare i detenuti più meritevoli di usufruire di questo regime, invece che aprirlo a tutti in maniera indiscriminata. E il sistema andrebbe fortemente integrato con nuovo personale, non solo per quanto riguarda la polizia penitenziaria ma anche le altre figure che lavorano in una casa circondariale". Aversa (Ce): l’Opg diventerà carcere a custodia attenuata, presto decreto di riconversione di Nicola Rosselli Il Mattino, 20 febbraio 2016 Da manicomio criminale a istituto di pena a basso indice di pericolosità, il tutto al centro della città normanna. Sono trascorsi undici mesi e l’ospedale psichiatrico giudiziario Filippo Saporito, che questa mattina sarà teatro di una visita del sottosegretario alla giustizia Gennaro Migliore, continua ad avere aperti i battenti e ad ospitare pazienti-detenuti nonostante una legge specifica ne avesse decretato la chiusura. Da quel 31 marzo 2015ad oggi gli addetti alla struttura carceraria non hanno mai smesso di prestare la propria opera perché, sebbene non arrivino nuovi ospiti, continuano ad esserci ancora 23 pazienti che non hanno ancora trovato ospitalità nelle Rems (acronimo che sta per residenze per l’espiazione delle misure di sicurezza) semplicemente perché non ce ne sono ancora a sufficienza per soddisfare il fabbisogno. "In questo momento - ha dichiarato la direttrice dell’ospedale psichiatrico giudiziario aversano Elisabetta Palmieri - sono 23 i pazienti ricoverati. Si tratta di persone provenienti da Campania, Lazio, Abbruzzo e Molise. Alcune di queste regioni non hanno predisposto Rems, altre le hanno ma con posti letto non sufficienti per cui si attende che queste si adegui no". Intanto, ad Aversa rimangono un nutrito numero di agenti di polizia penitenziaria, infermieri, sanitari e amministrativi. Tutte persone che, probabilmente, continueranno a prestare la propria opera ad Aversa dove una parte dell’attuale patrimonio immobiliare che fa capo all’ospedale psichiatrico giudiziario verrà riconvertito per ospitare un carcere a basso indice di pericolosità. La conferma viene, però, dalla stessa responsabile dell’ospedale psichiatrico giudiziario aversano, anche se non in maniera formale. "Siamo - afferma la dottoressa Palmieri - dinanzi ad un progetto che diverrà ufficiale quando ci sarà il decreto di conversione. Nella pratica saremo di fronte ad un istituto a basso indice di pericolosità". Quando le viene chiesto se questo significa che ci saranno detenuti che di giorno saranno a spasso per la città per poi far ritorno di notte in carcere, la dirigente specifica: "Basso indice di pericolosità non significa che ospiterà detenuti in regime di semilibertà, ma detenuti con problematiche fisiche o anziani che stanno per finire di scontare la propria pena". Intanto, proprio ieri, il consiglio dei ministri ha nominato Franco Corleone, commissario unico per curare la chiusura degli Opg. Il mandato che è stato affidato al Commissario è ampio: riguarda tutto il territorio nazionale, per la piena e corretta applicazione della legge 81/2014, che privilegia decisamente misure di sicurezza alternative alla detenzione con progetti di cura e riabilitazione individuale. "Questo - si legge in una nota di Stop Opg della Cgil - è possibile nella stragrande maggioranza dei casi, come indicano le relazioni al Parlamento. Decisivo perché ciò si realizzi è il ruolo della magistratura e il rapporto di collaborazione con le Regioni e le Asl. Allora il ruolo delle Rems - e quindi la detenzione - può e deve diventare residuale rispetto a cure che devono svolgersi nei servizi di salute mentale e socio sanitari del territorio. Servizi che vanno sostenuti e ai quali vanno subito assegnate le risorse finanziarie e umane necessarie. Ora possiamo fare un altro passo avanti lungo la strada della legge 180, che decretando la chiusura dei manicomi ha restituito speranza, diritti e dignità a migliaia di persone". Fermo (Ap): delegazione regionale visita il carcere "edificio vecchio, criticità strutturali" fermonotizie.info, 20 febbraio 2016 Valutazione positiva sulle attività che aprono la strada alla risocializzazione dei detenuti, ma essi sono 62, contro i 41 previsti. Nuovo appuntamento con le iniziative promosse dall’Ombudsman, Andrea Nobili, e dalla Presidenza del Consiglio regionale per avere una fotografia precisa della situazione carceraria marchigiana. In visita alla Casa di reclusione fermana lo stesso Ombudsman, la Vicepresidente dell’Assemblea legislativa Marzia Malaigia ed il Presidente della Commissione Affari istituzionali, Francesco Giacinti. L’istituto penitenziario è ospitato in una struttura nata come convento e risalente al XVI secolo. Nel 1993 ne è stata disposta l’assegnazione ad uso governativo come Casa circondariale, con una rimodulazione nel 1996 a Casa di reclusione di media sicurezza. In base agli ultimi dati raccolti attraverso un questionario predisposto dall’Ombudsman, attualmente i detenuti presenti sono 62, su una capienza regolamentare di 41 (tollerata fino a 52). Gli agenti di polizia penitenziaria attivi sono 43 (in pianta organica 50, assegnati 44) ed in servizio si registra un solo educatore (in pianta organica ne sono previsti 2). Assistenza sanitaria garantita attraverso 3 medici e 4 infermieri. Previsti corsi scolastici e formativi. "Sono rimasta piacevolmente sorpresa dal colloquio con i detenuti - sottolinea Marzia Malaigia - riscontrando in alcuni di loro un buon livello di cultura e percependo la loro piena volontà per raggiungere un positivo reinserimento sociale. Molti sono impegnati nella redazione di un giornalino, "L’altra Chiave News", che viene distribuito anche all’esterno ed in collaborazione con le scuole" Secondo la Vicepresidente del Consiglio si tratta di "un progetto che aiuta i detenuti a raccontare la vita di chi sta dentro a chi sta fuori, cercando nel contempo di ricostruire un nuovo percorso di vita. Con il consigliere Giacinti ci siamo impegnati affinché i detenuti possano ricevere gli strumenti tecnici necessari per la migliore realizzazione del giornalino. In coda alla nostra visita, è emersa la necessità da parte di qualche detenuto di poter ricevere un sostegno per i familiari che vivono al di fuori del carcere". Per il Presidente della Commissione Affari Istituzionali si è trattato di "un incontro estremamente positivo, anche per l’opportunità che ci è stata offerta di avere un contatto diretto con i detenuti". "La maggiore preoccupazione espressa da quest’ultimi - sottolinea Giacinti - è quella legata ai problemi che quotidianamente si trovano ad affrontare le famiglie, sulle quali grava il peso della loro detenzione. Particolarmente interessante le attività svolte all’interno della struttura, come la realizzazione del giornalino, che aprono una finestra verso l’esterno e forniscono un contributo significativo sulla strada della risocializzazione e del reinserimento dei detenuti". Da ultimo, Giacinti evidenzia alcune criticità di tipo strutturale, "dovute soprattutto alla vetustà dell’edificio che ospita la Casa di reclusione". Prossima ed ultima visita prevista per lunedì presso la Casa circondariale di Pesaro a Villa Fastiggi. Teramo: il Consigliere regionale Mariani si impegna per il completamento del carcere cityrumors.it, 20 febbraio 2016 Una visita costruttiva che ha permesso al Consigliere regionale Sandro Mariano di toccare con mano le positività e le problematiche della casa circondariale di Castrogno. "A colpirmi", ha detto il consigliere, "è stata soprattutto lo spazio da poco attivato dedicato ai bambini fino a 3 anni, figli di detenute che vivono finalmente in una realtà totalmente estranea al carcere, senza dovere fare i conti, cioè, con le brutture che non è giusto che un bambino viva. Mi sono sentito pieno di orgoglio nel riflettere sul fatto che Castrogno è uno dei tre carceri in Italia ad avere mostrato il giusto rispetto per i bambini". Mariani ha poi preso l’impegno di lavorare per il completamento delle strutture in costruzione e adoperarsi affinché siano integrati gli organici, compreso quello relativo al personale medico e paramedico. Inoltre ha assicurato che a breve organizzerà una nuova visita con il governatore D’Alfonso per ratificare gli impegni assunti. Accompagnato dal direttore Stefano Di Liberatore, dal capitano di Polizia penitenziaria Igor De Amicis e dal responsabile della Medicina penitenziaria, Massimo Forlini, Mariani ha visitato il settore femminile e quello maschile ed ha constatato la professionalità e la capacità del personale del carcere. "Non è sotto gli occhi di tutti, ovviamente", prosegue Mariani, "ma in carcere c’è la presa in carico del detenuto in toto. Questo significa che le capacità e le professionalità dei lavoratori della casa circondariale devono essere composite. Si tratta di una struttura davvero complessa, che deve essere in grado di curare una malattia, rieducare, comprare un paio di scarpe, gestire una situazione fiscale o pensionistica. La visita di oggi impone degli impegni, allora, per sostenere Castrogno, che presenta tutte le caratteristiche per esprimere il meglio, una volta che, soprattutto gli organici, saranno completati". Sulmona (Aq): via all’ampliamento del reparto per detenuti nel nuovo ospedale rete5.tv, 20 febbraio 2016 "Dopo ripetute vertenze e richieste di adeguamento ai canoni di sicurezza previsti dalla normativa vigente, non ultima quella sulla sicurezza e salubrità, la Uil-Pa Polizia Penitenziaria, finalmente è stato approvato il progetto sull’implementazione del nuovo repartino penitenziario presso il nuovo ospedale di Sulmona". Lo rende noto Mauro Nardella, segretario provinciale della Uil penitenziari, che ricorda come siamo passati "10 anni dalla volta in cui la Uil-Pa denunciò per la prima volta lo stato di degrado nel quale versava un reparto preda di inconvenienti strutturali. Gli stessi inconvenienti capaci di far refluire, nella stanza in cui venivano costretti a vivere e a lavorare autentici coraggiosi, liquidi fognari rendendo di fatto ancor più invivibile un luogo del quale non abbiamo mai mancato di equipararlo a una trappola per topi". "Posto angusto - aggiunge - privo di adeguata illuminazione naturale e per nulla sicuro, il reparto presso il quale vengono ricoverati i detenuti di stanza al carcere di Via Lamaccio costringe tuttora i detenuti e i poliziotti che ivi prestano la loro opera a delle autentiche sfide con la sorte e con la salute. A dire il vero molto è stato fatto da quel lontano 2007 e se oggi possiamo tirare un sospiro di sollievo lo dobbiamo ad una persona speciale e che, malgrado non avesse siìufficienti stanziamenti, non ha mai abbandonato l’idea di rendere quell’anfratto quanto meno parzialmente liberato da inconvenienti siano essi di natura sicur-tecnica siano essi di natura sicur-sanitaria. Parlo di Marco Lotito, responsabile del servizio di prevenzione e protezione presso il medesimo ospedale, al quale la Uil-Pa Polizia Penitenziaria e, non è riduttivo dire, tutta la polizia penitenziaria di Sulmona ringrazia di vivo cuore. Un particolare ringraziamento lo dobbiamo anche e soprattutto al Direttore Sanitario pro-tempore dell’ospedale Santissima Annunziata Tonio Di Biase. Lo dobbiamo a lui e a Marco Lotito se il grido d’allarme lanciato dalla Uil-Pa ha trovato la sua giusta collocazione in materia di soluzione della problematica". Favignana (Tp): la Uil-Pa chiede Consiglio comunale aperto su base navale penitenziaria tp24.it, 20 febbraio 2016 Il coordinatore regionale del sindacato Uil-Pa, Gioacchino Veneziano, scrive al sindaco Pagoto e al prefetto Falco e ai parlamentari provinciali, sulla chiusura della base Navale di Polizia Penitenziaria di Favignana. Il responsabile sindacale chiede al sindaco di Favignana un consiglio comunale straordinario con la partecipazione dei senatori e deputati provinciali. Questa la comunicazione di Veneziano. Il 25 settembre 2011, dopo 3 anni di lavori ed una spesa di circa 11 milioni di euro, è stata inaugurata la nuova Casa di Reclusione di Favignana intitolata a Giuseppe Barraco, Agente Scelto di Polizia Penitenziaria che prestava servizio alla Base Navale di Favignana, in qualità di Nocchiere Motorista. Il 21 dicembre 1991, nel corso di una burrasca, nonostante fosse libero dal servizio, non esitò ad aiutare i colleghi per assicurare gli ormeggi di una motovedetta del Corpo perdendo la vita durante le operazioni di ancoraggio. Fatta questa introduzione, la Base Navale della Polizia Penitenziaria a Favignana è presente da più di 6 lustri, e ha svolto più di 100 interventi in occasione di malori o incidenti sia in mare che sulla terraferma, è stata impegnata nei casi di sbarchi di migranti, e con le due motovedette d’altura classe V. sta coadiuvando le operazioni di controllo nell’area marina protetta delle isole Egadi, la più grande d’Europa con i suoi 53.992 ettari di mare come prevede l’accordo con l’Amministrazione Penitenziaria al fine di potenziare le attività di vigilanza, durante il periodo estivo, sui pescatori di frodo. Il Servizio Navale avrebbe dovuto costituire un supporto operativo logistico alla struttura penitenziaria, oltre ad essere uno strumento di controllo dell’arcipelago delle isole Egadi. Detto questo, fermo restando i motivi che hanno costretto il personale della "Navale" a "non operare" a pieno regime nei compiti istituzionali, lo stesso servizio pare abbia un costo annuale di poco superiore alle 20.000 euro. Quindi il rischio di vedere cancellare da Favignana una "Forza dello Stato" che costituisce un presidio di legalità per il territorio isolano, appare incredibile, anche perché il motivo principale dell’ipotizzata chiusura è forse il risultato di una inattività operativa. Chiariamo da subito che i poliziotti non sono stati messi in condizione di svolgere il servizio delle traduzioni dei detenuti/internati dalla terraferma all’isola e viceversa. In realtà facendo quattro conti, nell’anno 2015, sono stati trasferiti tramite aliscafi e/o motonavi quasi 100 detenuti, impiegando pressappoco 400 unità di Polizia Penitenziaria del Nucleo Traduzioni e Piantonamenti di stanza presso la Casa Circondariale di Trapani. Un lavoratore del comparto sicurezza ha un costo lordo giornaliero di circa € 100 euro, la spesa del servizio scelto dall’Amministrazione Penitenziaria (non usando la Polizia Penitenziaria della Navale), si aggira a quasi € 400.000 annue, senza considerare l’acquisto degli abbonamenti alla società di navigazione Siremar. Ovviamente bisogna calcolare gli intermezzi di tempo che subiscono le scorte che devono attendere ed attenersi agli orari ufficiali della compagnia. Naturalmente non è misurabile la "spesa" in termini di rischio che si cagiona trasportando persone detenute in con mezzi "civili", esponendo ad un forte pericolo non solo chi opera, ma anche i cittadini che si trovano a spostarsi con i già citati mezzi pubblici. Il Ministro della Giustizia Onorevole Andrea Orlando ed il Capo della Polizia Penitenziaria Presidente Santi Consolo devono sapere che la traduzione di un detenuto andata e ritorno con le motovedette della "Penitenziaria" avrebbe un costo di circa € 60 (sessanta) per il consumo di gasolio, e l’equipaggio imbarcato potrebbe concorrere alla composizione della scorta, con risparmi di spesa enormi. Per tutti i motivi esposti, che rafforzano la certezza che l’eventuale soppressione della Base Navale della Polizia Penitenziaria a Favignana rappresenterebbe un colpo ai cittadini Egusei, perché siamo convinti che un giusto impegno porterebbe indubbi vantaggi sia di risparmio, che di sicurezza, salvaguardando un presidio di legalità e sicurezza e senza imbarazzo anche i posti di lavoro del personale della Navale ad una delle più antiche e gloriose specializzazioni del Corpo di Polizia Penitenziaria. All’Onorevole Guardasigilli Andrea Orlando e al Capo del Dipartimento Presidente Santi Consolo si invia la presente nella certezza che prenderanno a cuore la questione e metteranno in campo le migliori energie per consentire la permanenza della Polizia Penitenziaria della Base Navale a Favignana. Il Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Angelo Urso è pregato di supportare la presente. Pertanto si esorta il Signor Sindaco di Favignana dott. Giuseppe Pagoto ad indire un Consiglio Comunale straordinario, invitando i Senatori della Provincia di Trapani e i Deputati eletti all’ARS, prendendo atto che già in sede di consiglio comunale del 16 febbraio 2016 ne ha fatto richiesta. Arienzo (Ce): giovani a confronto con i detenuti, iniziativa sociale alla Casa circondariale metropolisweb.it, 20 febbraio 2016 Lodevole iniziativa presso casa circondariale di Arienzo è quella organizzata dalle dirigenti del penitenziario dott. Marianna Adanti e Maria Rosaria Casaburo in data 20.02.2016 che fra le innumerevoli attività di carattere sociale promosse a favore della popolazione detenuta ha ospitato l’Associazione Culturale "Officina Volturno Contro la Camorra Non Molliamo". L’Associazione, il cui presidente è l’ingegnere Tommaso Morlando è operativa da oltre 15 anni nel difficile territorio casertano con sede in Castel Volturno ed ha quale fondamentale obiettivo quello di accogliere molti giovani dell’interland casertano garantendo loro un’ospitalità al fine di evitare che i medesimi possano intraprendere la strada della malavita e del carcere. Un confronto di vita fra giovani sottratti alla Camorra e giovani detenuti. I ragazzi sono stati accompagnati dal ingegnere Angelo Morlando. Presenti in istituto il direttore in missione dottoressa Marianna Adanti, gli educatori Rosaria Romano e Francesca Pacelli ed il cappellano don Sergio Cristo. Sassari: per i detenuti di Bancali 2 ore di pet-terapy La Nuova Sardegna, 20 febbraio 2016 Per i detenuti del carcere di Bancali è stata una bellissima esperienza. Per un paio d’ore hanno potuto interagire con sei cani impiegati nella pet terapy. La direttrice della struttura penitenziaria Patrizia Incollu ha infatti consentito a Marcella Laddomata, Gabriele Tosciri, Silvia Pintus, Andrea Loriga e Monica Spanu di portare i propri cani all’interno del carcere. Così Boris (un pitbull di 11 anni), Miele (un labrador di 3 anni), Apollo (yorkshire di 7 anni), e poi ancora Emma (meticcia di 7 anni), Licia (rottweiler di 8 mesi) e Emma (rottweiler di 2 anni) per qualche ora hanno reso la mattinata dei detenuti diversa e speciale. Le attività svolte sono state prevalentemente ludiche e di mobility: quindi lanci della pallina con riporto, salti nei cerchi, movimenti vari. "Non ci aspettavamo una simile partecipazione e coinvolgimento da parte dei detenuti - dice Marcella Laddomata - hanno ascoltato con grande attenzione i racconti sui nostri cani, e poi si sono divertiti moltissimo nella pet-terapy. Qualcuno ha chiesto addirittura se c’era la possibilità di svolgere volontariato all’interno dei canili, e tutti vorrebbero che questa nostra visita da occasionale si trasformasse in qualcosa di più duraturo e concreto". Comportamentisti, veterinari, volontari e taxi dog hanno tutta l’intenzione di presentare un vero e proprio progetto di pet-terapy per Bancali. Sarebbe quasi un’iniziativa pilota, perché purtroppo è difficile reperire fondi per promuovere attività come questa. Cuneo: i detenuti del carcere di Saluzzo in scena al Teatro Toselli con "Amunì" targatocn.it, 20 febbraio 2016 L’appuntamento con "Amunì" si terrà martedì 23 febbraio alle 21 (alle 11 per le scuole). Si terrà martedì 23 febbraio alle 21 (alle 11 per le scuole), lo spettacolo "Amunì", organizzato e interpretato dai detenuti del carcere di Saluzzo. "Davanti a me vedo un gruppo di detenuti che si muovono in un grande spazio vuoto. Li osservo e vedo uomini nel pieno della vita, nell’età di essere padri. Basta un gesto involontario o una parola uscita dal controllo e la visione cambia completamente, ora li vedo figli. Figli-padri, padri-bambini, figli difficili e padri assenti, figli senza padri non perché orfani ma in quanto privi di padri autorevoli, testimoni delle responsabilità della vita. Ora vivono nell’attesa del ritorno alla libertà e nel frattempo, diventati loro stessi padri, attendono il ritorno del padre". Questo è il punto di partenza del lavoro svolto dalla Compagnia Voci Erranti nel 2013 con i detenuti del Laboratorio Teatrale del carcere di Saluzzo. Tredici detenuti della casa di reclusione R. Morandi hanno messo in scena una storia di undici fratelli che attraverso i giochi e i ricordi dell’infanzia ritornano a loro volta bambini. "Che cosa vuol dire essere padre? Chi me lo può insegnare? C’è un altro Padre? Cosa sarebbe cambiato nella mia vita se papà fosse stato presente?" Amunì è quindi il frutto della riflessione dei detenuti sul tema della paternità, sul senso di essere contemporaneamente figli e padri, padri assenti e figli difficili, figli cresciuti senza padri non perché orfani, quanto piuttosto perché privi di padri autorevoli, portatori di valori e testimoni delle responsabilità della vita. Pensieri di vite recluse, dubbi abitati dai sensi di colpa e responsabilità mancate, nostalgie di infanzie negate che prendono forma sul palcoscenico in un contesto di festa dal sapore amaro dell’assenza. Lo spettacolo, scritto e diretto da Grazia Isoardi, con le coreografie di Marco Mucaria, viene replicato all’esterno del carcere, in spazi pubblici e teatri cittadini, grazie al fatto di essere un progetto integrato che, mettendo insieme detenuti che godono di permessi premio, ex detenuti e alcuni attori di Voci Erranti, assume il valore di continuità e collegamento tra il "dentro" e il "fuori". Il lavoro teatrale Lo spettacolo è frutto del Laboratorio Teatrale portato avanti all’interno della Casa di Reclusione "R. Morandi" di Saluzzo. Questo progetto ha avuto inizio nell’ottobre 2002 per volontà del Direttore, Dott.ssa Marta Costantino, e della Responsabile dell’Area Educativa. Nato come puro percorso di formazione teatrale, l’attività è diventata man mano un luogo di espressione e possibilità di creazione artistica di grande importanza per la elevata valenza educativa del lavoro artistico e per la possibilità di contatto tra i detenuti e il mondo esterno che esso prevede. Dal 2004 il gruppo partecipa a Rassegne e Festival teatrali portando gli spettacoli al di fuori delle mura. Inoltre nel 2006 Rai3 ha dedicato al progetto una puntata della trasmissione "Racconti di vita" e la Televisione Belga Kvs, nel 2008, ha prodotto un documentario sull’esperienza del gruppo. Nel febbraio 2008 è stato rappresentato lo spettacolo "Lividi" all’interno della Stagione di Teatro Sociale del Teatro Eliseo a Roma. L’attività si svolge due giorni alla settimana per un gruppo di circa 20 detenuti ed è un percorso che sviluppa un programma di lavoro fisico e di educazione vocale. Il teatro in carcere è cultura che diventa occasione di cambiamento, luogo in cui il detenuto può rivedersi e sperimentare un modo nuovo di relazionarsi, scoprire capacità espressive e rielaborare il proprio vissuto. Perché come disse, un giorno, Mario "se invece che pane e pistole avessi mangiato pane e cose belle, oggi non sarei in galera a far credere di essere un grande uomo". Pena di morte: ministri giustizia di 30 paesi a Roma il 22 febbraio onuitalia.com, 20 febbraio 2016 Mongolia in dicembre entra in club stati abolizionisti. La Comunità di Sant’Egidio riunisce il 22 febbraio alla Camera dei Deputati 30 ministri della giustizia di paesi sia abolizionisti che mantenitori della pena di morte. È il nono congresso di rappresentanti di ogni continente si riuniscono per discutere delle prospettive di abolizione in uno spazio in cui, nello spirito di dialogo che è la cifra delle iniziative della Comunità, si esaminano i percorsi possibili e realisti per una gestione più umana della giustizia. In ordine di tempo, l’ultimo paese ad avere abolito la pena di morte è stata la Mongolia, lo scorso 4 dicembre, anche grazie a questo paziente lavoro. Il 22 e 23 febbraio il Segretario di Stato per la Giustizia della Mongolia sarà a Roma. Alcuni dei colleghi che troverà nella capitale italiana (El Salvador, Rwanda, Timor Est, Togo) hanno già abolito la pena capitale da tempo; altri (Repubblica Centrafricana, Mali, Sierra Leone, Sri Lanka) hanno sospeso le esecuzioni e aderito alla moratoria approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite; altri ancora, come il Vietnam e la Somalia, mantengono la pena di morte. Secondo Sant’Egidio, in un tempo di guerra diffusa come il nostro, invocare soluzioni semplificate e ricercare capri espiatori, in nome della sicurezza, può sembrare naturale e riscuotere successo. Il terrorismo alza il livello della violenza e spinge l’opinione pubblica a schierarsi: con o contro. E contro equivale a sopprimere, anche fisicamente, il violento. Le immagini di esecuzioni barbare, come nei video dell’Isis, diffondono nella società una cultura della morte. È la sfida del terrorismo globale: propagandare la paura. Ma la violenza fa solo il gioco della paura. E la pena di morte, espressione di una cultura violenta, non aiuta a combattere il crimine. La pena capitale - afferma Sant’Egidio studi e statistiche alla mano - non è un deterrente, non diminuisce i crimini commessi, non garantisce maggiore sicurezza e aggiunge solo altra violenza e altra morte. E soprattutto quando uno Stato uccide in nome della legge, abbassa il livello del suo sistema legislativo al livello di chi uccide. Il congresso di Roma è stato organizzato anche come un’occasione importante per offrire sostegno e strumenti giuridici a quegli Stati che stanno intraprendendo un percorso verso l’abolizione o la sospensione della pena di morte. "Riaffermare la sacralità della vita e diffondere una cultura della pace può togliere terreno alla paura, che in questo tempo difficile rischia di prevalere nelle scelte di tanti", afferma la Comunità in un comunicato postato sul sito web. Europa debole con i forti, fortissima con i deboli di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 20 febbraio 2016 Profughi. Se decine di milioni di morti nelle guerre europee non sono un buon argomento per un continente unito, alcune decine di migliaia di migranti annegati lo saranno per un minimo di solidarietà umana? "Io non l’ho voluto!", grida Dio - nel grande dramma Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus - davanti al mondo intero che si autodistrugge in guerra. "Noi non l’abbiamo voluto!", grideranno i capi di governo a Bruxelles, Berlino, Londra, Parigi, Roma e nelle altri capitali europee, quando fatalmente l’Unione europea andrà alla fine in pezzi. Ma a quel punto, chi avrà voluto e che cosa davvero avrà determinato questo esito? Prima di abbozzare una risposta, converrà ricordare ai Salvini, ai Farage, ai Grillo e a tutti gli altri agitatori della domenica che sono stati settanta i milioni di morti della seconda guerra mondiale e i più di venti della prima ad aver spinto nella direzione di un’unificazione europea - e questo dopo tre secoli di conflitti incessanti in cui tutti si battevano contro tutti. L’Europa non ha nulla da insegnare in tema di pace, solidarietà e diritti, perché è stata sino a settant’anni fa il continente più mortifero della storia. E oggi ricomincia a contorcersi in conflitti, chiusure, minacce e ripicche come se avesse dimenticato tutto. Intendiamoci. Magari un accordo dell’ultimo minuto con Cameron si troverà. Ma i nodi continueranno a venire al pettine, perché le ragioni della crisi sono sistemiche, e non dipendono solo dall’avventatezza del premier inglese, che è lanciato nel risiko del Brexit per ragioni di esclusiva politica interna. La ragione fondamentale è che la Ue manca di qualsiasi progetto politico-sociale comune, e che tutti i suoi membri sono vincolati a logiche locali, ai piccoli dividendi politici nazionali, in una fase di stagnazione e incertezza economica che radicalizza ogni scelta. In questo senso Cameron, indubbiamente uno statista mediocre, non è più responsabile di Merkel, Hollande e tutti gli altri, compreso il nostro gioviale primo ministro. Consideriamo la questione dei profughi. Se la Ue avesse uno straccio di politica estera comune, e soprattutto non dipendente dalle pulsioni neo-imperiali di Cameron o di Hollande o da quelle anti-russe degli Usa, si sarebbe posta da anni la questione dei profughi e non improvvisamente, nell’agosto 2015, come ha fatto Merkel. Non si affiderebbe in tutto e per tutto a Erdogan perché tenga lontano dall’Europa i profughi, concedendogli, oltre a 3 miliardi di euro, mano libera contro i curdi e in Siria. E soprattutto avrebbe affrontato la questione umana e sociale dei profughi, dalla Siria e da altri paesi in guerra, in modo solidale, distribuendo equamente gli oneri dell’accoglienza ai vari paesi e lavorando a un’integrazione sociale degli stranieri che, nel lungo periodo, avrebbe sicuramente giovato alla sua economia. E invece no. Debole con i forti e fortissima con i deboli, concede a Cameron un referendum che a suo tempo ha rifiutato alla Grecia. Abbozza una ricollocazione dei profughi che fallisce clamorosamente. E ora deve digerire la chiusura delle frontiere in Austria, Ungheria e altri stati balcanici, ciò che si ripercuoterà a catena in tutto il continente. Invece di creare un piano di sicurezza sociale per tutti i membri si appresta a concedere all’iperliberista Cameron una riduzione dei benefici per i migranti Ue in Inghilterra. Nel frattempo, ricominciano gli sbarchi in Sicilia, con altri annegati, e la buona stagione è alle porte. Intanto, la situazione in Siria e Libia è sempre più esplosiva. A quasi settant’anni dai primi trattati europei, questa è la realtà del vecchio continente. Se decine di milioni di morti nelle guerre europee non sono un buon argomento per un continente unito, alcune decine di migliaia di migranti annegati lo saranno per un minimo di solidarietà umana in Europa? I governi Ue litigano e i profughi continuano a morire di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 20 febbraio 2016 Il rimpallo di accuse tra leader europei mostra che l’idea di un’Unione collaborativa sui temi cruciali - come è quello dell’immigrazione - è davvero un’utopia. Lo spettacolo penoso messo in scena ieri a Bruxelles fa ben comprendere che cosa potrà accadere nei prossimi mesi. Il rimpallo di accuse tra leader europei mostra che l’idea di un’Unione collaborativa sui temi cruciali - come è quello dell’immigrazione - è davvero un’utopia. Visto da quei barconi stipati di uomini, donne e bambini in fuga, il vertice dei capi di Stato e di governo è la prova di quanto lontani siano i politici dalla realtà. I numeri degli sbarchi dicono che in meno di due mesi sono giunti sulle nostre coste quasi 7.000 stranieri. La maggior parte non ha diritto all’asilo perché proviene dall’area del Nord Africa, ma in attesa che si completi la procedura di identificazione ed eventualmente di espulsione, si dovrà provvedere alla loro accoglienza. Altri possono invece aspirare allo status di rifugiati. Per tutti trascorreranno mesi prima di arrivare a definire la loro posizione e dunque il futuro. Le promesse di collaborazione degli altri Stati per un ricollocazione di eritrei e siriani giunti in Italia e Grecia si sono infrante di fronte agli egoismi nazionali. Nell’ottobre scorso la Commissione europea aveva assicurato che in due anni sarebbero state trasferite altrove 40 mila persone. L’accordo prevedeva che non ci fossero quote obbligatorie, ma tutti si erano impegnati a fare la propria parte. Non è andata affatto così, anzi. In sei mesi siamo riusciti a trovare una nuova collocazione soltanto per 300 profughi, si sono tirati indietro Paesi come la Spagna e la Francia. E c’è chi ha fatto anche peggio decidendo di ripristinare i controlli alle frontiere, vanificando così lo spirito del Trattato di Schengen sulla libera circolazione. Da adesso in poi la situazione può soltanto peggiorare. Nel corso del vertice dei ministri dell’Interno che si è tenuto un mese fa ad Amsterdam sei Stati hanno comunicato ufficialmente l’intenzione di continuare per due anni ad effettuare la verifica dei documenti di chi attraversa i loro confini. L’elenco comprende Germania, Svezia, Danimarca, Norvegia, Francia e Austria. Vuol dire che a maggio - quando appunto sarà concessa la proroga - il trattato sarà di fatto sospeso con il rischio assai concreto di essere poi definitivamente abolito. A ciò si aggiunge infatti la resistenza messa in atto dai Paesi del gruppo Visegrad - Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca - rispetto a una politica di piena accoglienza, con la minaccia di alzare steccati pur di fermare l’ondata migratoria. Le conseguenze per l’Italia sono facilmente immaginabili. Le partenze dalla Libia certamente aumenteranno con la bella stagione e il mare calmo. E altre "rotte" rischiano di aprirsi. Perché chi scappa dalla guerra non può fermarsi e se davvero troverà la strada sbarrata, troverà un altro modo di arrivare in Europa. Lo farà, ad esempio, passando da Albania e Montenegro e poi attraversando l’Adriatico proprio come accadeva negli anni 90. Le notizie che giungono dai Balcani dicono che gli scafisti si stanno già organizzando per gestire al meglio questo nuovo affare. Entro qualche mese il nostro Paese corre il pericolo concreto di trovarsi isolato, stretto in una morsa, visto che al nord ci saranno le frontiere chiuse, mentre noi non possiamo sbarrare il confine più ampio che abbiamo: il mare. È bene attrezzarsi per non farsi trovare impreparati. È bene sapere, visto quanto accaduto lo scorso anno con il rifiuto di alcune Regioni a mettere a disposizione i posti letto e alcuni partiti a fomentare le proteste di piazza, che nessuno potrà tirarsi indietro. Ognuno dovrà fare la propria parte, primi fra tutti governatori e sindaci. Sarà necessario avere strutture dove sistemare chi chiede asilo, assistere le donne, pensare ai bambini garantendo condizioni di vita accettabili. Sarà indispensabile velocizzare ulteriormente il lavoro delle commissioni che esaminano le istanze, snellire le procedure in modo da poter stabilire nel più breve tempo possibile chi ha diritto allo status di rifugiato e chi invece deve essere riportato nel Paese d’origine. Ci vorrà grande impegno, serviranno soldi. Fa bene il presidente del Consiglio Matteo Renzi a dire che chi non collabora non ha diritto ai fondi europei, ma anche l’Italia deve rispettare le disposizioni dell’Unione sul foto-segnalamento e l’apertura dei centri di identificazione, proprio per essere credibile quando alza la voce. Perché bisogna sempre tenere a mente che mentre i governi fissano tetti di ingresso e alzano muri, i profughi continuano a morire. Renzi: stop fondi a chi non accoglie profughi. Ungheria: ricatto politico di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2016 Oggi nuovo round al vertice di Bruxelles su migranti e Brexit. Isolata l’Austria, che però afferma di voler proseguire con i tetti giornalieri. Le decisioni austriache hanno infiammato il dibattito e il Paese si sarebbe trovato isolato davanti alle critiche dei leader degli altri Stati che hanno dimostrato disappunto nei confronti delle misure di Vienna, in particolare sui tetti per accoglienza e transito giornalieri di richiedenti asilo. Juncker a Roma il 26 febbraio, vede Renzi e Mattarella - Intanto, come promesso il mese scorso durante la polemica con il presidente del Consiglio Matteo Renzi, il numero uno della commissione Ue Jean-Claude Juncker fa sapere che sarà in visita a Roma fra una settimana, il 26 febbraio. In programma ci sono incontri con lo stesso Renzi, con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con il presidente del Senato Pietro Grasso e con l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano. Renzi: passi avanti su migranti, qualche passo indietro su Gb - "Passi in avanti timidi sull’immigrazione, qualche passo indietro sull’accordo inglese". Così, in una sorta di tweet, aveva fatto stamattina il punto il presidente del Consiglio Matteo Renzi , parlando con i giornalisti a tarda notte. Insomma, sull’accordo con la Gran Bretagna, ha concluso Renzi, "sono sempre fiducioso, ma un pò meno ottimista di quando sono entrato". Incontri bilaterali con Tusk, Hollande e Merkel - Tra i passi avanti invece, il vertice straordinario Ue-Turchia a marzo con i capi di stato e di governo europei e il premier turco Ahmet Davutoglu; l’impegno a mantenere un "approccio europeo" alla crisi migratoria senza far prevalere la logica delle azioni unilaterali, annunciato dal presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker che ha sintetizzato la discussione e le decisioni prese dal Vertice Ue sull’immigrazione. In sostanza, è rimasto tale quale era prima dell’inizio del Vertice il capitolo dei ricollocamenti dei rifugiati, sul quale Juncker ha auspicato che si proceda "in modo più coraggioso". Il piano concordato è rimasto di fatto quasi lettera morta. Renzi ha tenuto oggi incontri bilaterali, a margine della seconda giornata di lavoro del vertice, con il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, con il presidente francese Francois Hollande, e con la cancelliera tedesca Angela Merkel. Renzi e il monito ai Paesi dell’Est - Ieri il premier italiano aveva mandato un messaggio chiaro ai Paesi dell’Est. Prendendo la parola durante la cena del Consiglio europeo, Renzi ha detto: o accettate i migranti o noi, Paesi contributori, vi bloccheremo i fondi. "Inizia ora la fase della programmazione dei fondi 2020. O siete solidali nel dare e nel prendere, oppure - avrebbe chiarito Renzi - smettiamo di essere solidali noi Paesi contributori. E poi vediamo". Un monito, secondo quanto si apprende, apprezzato dai Paesi fondatori, Germania e Francia in testa. E che ha ottenuto anche una sponda dalla martoriata Grecia, con il premier Alexis Tsipras impegnato a spingere per una accelerazione sui ricollocamenti. Un gesto che rilancia una sintonia lungo l’asse Roma-Berlino: una svolta netta se pensiamo che, solo a dicembre, l’ultimo Consiglio europeo era stato caratterizzato da un forte scontro tra il premier e la cancelliera Angela Merkel. Polonia: Renzi non può ricattare nessuno - La risposta dei Paesi dell’Est non si è fatta attendere: "Matteo Renzi non può ricattare nessuno. Penso che sui migranti dovremmo cercare soluzioni, non puntare il dito" contro qualcuno, ha detto a Bruxelles il ministro degli Affari europei polacco Konrad Szymanski - citato dalla tv polacca Tvn24 - replicando alle parole del premier di stanotte. Ungheria: da Renzi ricatto politico sui fondi - La minaccia di Renzi di tagliare i fondi europei a quei Paesi, soprattutto dell’Est, che bloccano i ricollocamenti dei migranti rappresenta "un ricatto politico". Questa invece replica da Budapest del portavoce del governo ungherese di Viktor Orban, Zoltan Kovacc, citato dall’agenzia di stampa Tanjug. L’Ungheria, ha ribadito il portavoce commentando le parole di ieri di Renzi al Consiglio europeo a Bruxelles, si oppone al sistema di quote per la ridistribuzione dei profughi all’interno dell’Unione europea. Egitto: omicidio Regeni, crescono i sospetti sulla Sicurezza di Stato di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 20 febbraio 2016 Egitto. Montano al Cairo le proteste contro la polizia. Due morti a Darb el-Ahmar e Assiut. Il nome di Giulio Regeni è sulla bocca di tutti al Cairo. Tra i tavoli dei bar di Sayeda Zeinab e nei caffè di Abdin, il centro antico della capitale egiziana, le responsabilità della polizia egiziana e più nello specifico della Sicurezza di Stato (Amn el-Dawla) sono evidenti. I segni sul corpo di Giulio parlano chiaro e rimandano alle pratiche dei torturatori per antonomasia che ogni giorno sconvolgono le vite di centinaia di giovani egiziani. I primi a non poter più sopportare le pratiche arbitrarie degli scagnozzi del regime sono proprio gli egiziani. Se le proteste del 2011 sono iniziate per criticare i crimini dei poliziotti, per ricordare la morte di un giovane ad Alessandria, Khaled Said, ucciso proprio dalla polizia locale, le cose sono solo peggiorate negli ultimi anni. Tra il 25 e il 28 gennaio 2011 la polizia era quasi sparita dalle strade del Cairo. Finché non è stata chiara l’ondata controrivoluzionaria che ha rinvigorito il ministero dell’Interno. Proprio con l’accordo tra militari e polizia è stato possibile realizzare il golpe militare del 3 luglio 2013. Da quel giorno è iniziata la vendetta della polizia e dei magistrati contro i Fratelli musulmani: centinaia di condanne a morte, arresti sommari, omicidi di massa. Ma la polizia nel regime militare di al-Sisi può fare davvero il bello e il cattivo tempo. Giovedì sera due uomini tra cui un poliziotto sono saliti su un taxi Suzuki nel quartiere di Darb el-Ahmar, nel centro antico del Cairo. Una volta raggiunta la loro destinazione si sono rifiutati di pagare il tassista: una pratica comune per i poliziotti che vivono di piccole tangenti, minacce e corruzione. Ne è nato un alterco e il tassista è stato ucciso. Le ricostruzioni si fanno sommarie ma sembra che il poliziotto sia stato aggredito dalla folla. È subito iniziata una protesta spontanea nel quartiere contro la polizia. Un caso simile si è verificato lo scorso giovedì ad Assiut, città dell’Alto Egitto. Un altro dei quartieri cairoti dove gli scontri tra cittadini e polizia sono all’ordine del giorno è Matareya. La zona ha una forte maggioranza di Fratelli musulmani. Lì le pratiche della polizia sono sempre più dure e le torture contro gli islamisti moderati quotidiane. Proprio i medici degli ospedali di Matareya hanno protestato per la continua falsificazione dei report dei torturati, imposta con minacce dalla polizia locale. Stavolta, con Giulio Regeni, la fabbricazione di prove false potrebbe non bastare per le autorità egiziane. Sebbene la stampa filo-governativa stia accreditando la pista dell’omicidio deciso dalla Fratellanza musulmana, nessuno crede a questa ricostruzione. Gli islamisti moderati hanno subìto la più dura repressione della loro storia. I loro leader sono in prigione, incluso l’ex presidente Morsi, con accuse vaghe e inconsistenti. Il partito, Libertà e giustizia, la confraternita e anche la Coalizione per la legittimità, nata per difendere l’ex presidente eletto, sono state dichiarate fuori legge dal 2014 in poi. Accusare quindi il primo partito di opposizione della morte del giovane dottorando italiano è davvero l’ultimo dei depistaggi per non risalire alle vere responsabilità. Vari apparati potrebbero essere coinvolti nell’arresto, tortura e morte di Giulio. Prima di tutto il Mabahes (la polizia investigativa). È una polizia di primo livello impegnata a prelevare i sospettati di reati politici. Tra gli esponenti del Mabahes figura proprio Khaled Shalaby, detto "Erkab" (che in arabo vuol dire "sali in macchina"). Shalaby è un torturatore, condannato in primo grado dal tribunale di Alessandria, e a guida delle indagini nel caso Regeni. Dal Mabahes, Giulio Regeni potrebbe essere passato di mano in mano fino ad arrivare all’Amn el-Dawla dove sarebbe stato torturato per giorni. Non è ancora chiaro quanti giorni siano passati dal momento dell’arresto alla morte. Qui sono intervenuti anche tanti ritardi sia nella diffusione della notizia sia nell’attivazione delle autorità competenti da parte egiziana. È possibile che nell’arresto di Giulio sia intervenuta anche l’Amn el-Markazi (Sicurezza centrale). Tuttavia, questo gruppo paramilitare è controllato dall’esercito e di solito non opera nella zona di Doqqi. Se però Giulio Regeni è stato arrestato nei pressi della metro Mohamed Naguib anche Amn el-Markazi potrebbe essere coinvolta nel prelevamento del giovane, mentre non sono impegnati in arresti le forze della polizia militare (shorta al-askareya) che di solito intervengono solo in caso di grandi manifestazioni ed erano molto impegnate in piazza Tahrir. Le lunghe torture sono spesso perpetrate anche dai baltagy (criminali) alle dipendenze degli uomini del ministero dell’Interno. Si tratta di malavitosi difficili da controllare e che spesso agiscono impunemente e dispongono di grandi somme di denaro che poi reinvestono in piccoli business e negozi nelle aree dove vivono. Infine, sono state diffuse le immagini della decapitazione di due uomini in borghese da parte di Beit al-Mekdisi, gruppo attivo nel Sinai. I due sono presentati come delle spie dell’Intelligence militare. I jihadisti del Sinai rivendicano la loro affiliazione allo Stato islamico (Isis) e si sono resi responsabili di decine di arresti sommari, decapitazioni e attentati. Sono centinaia i soldati e i poliziotti uccisi nella regione dove vige ormai da mesi lo stato di emergenza. Egitto: la morte di Regeni richiama quella di tutti i desaparecidos di Vincenzo Mattei Il Manifesto, 20 febbraio 2016 Perché Giulio Regeni ha fatto questa fine orrenda? La spietatezza e la brutalità del regime egiziano erano ben noti ai giornalisti, ai ricercatori, ai professori universitari e a chiunque abbia vissuto per un certo periodo in Egitto. Molti giornalisti freelance hanno rischiato la vita nelle sommosse e nelle manifestazioni di piazza durante la Primavera Araba. Ma è con il massacro dei Fratelli Musulmani in piazza Rabaa Al Adawaya del 14.08.13 che la situazione in Egitto è andata precipitando, sotto il regime di Al Sisi le condizioni per i giornalisti e gli attivisti egiziani e stranieri sono diventate pessime, molti hanno abbandonato il paese dopo essere stati pedinati e fermati in strada, dopo perquisizioni in casa e fermi in commissariato per ore. Ma morire così violentemente ad opera delle torture della polizia o dei servizi segreti egiziani come probabilmente è accaduto a Giulio Regeni era una possibilità alquanto remota per un occidentale. Purtroppo in Egitto esiste una netta differenza in base alle nazionalità: se fosse successo ad un africano o ad un egiziano non avrebbe avuto tanta eco nei media internazionali. Ma perché sono arrivati ad infierire in questo modo sul corpo di Giulio? Senza dubbio conoscevano la nazionalità della vittima, ed erano coscienti della risonanza mediatica alla quale andavano incontro. Quindi che cosa si cela dietro quest’atto meschino e inumano? Sicuramente hanno avuto un ruolo fondamentale le lotte intestine (che esistono dai tempi di Nasser) dei tre apparati statali che controllano il paese (polizia, servizi segreti e forze armate) per ottenere maggiore potere ed influenza sulle decisioni politiche. Il 22 gennaio scorso Eric Trager su Foreign Policy descriveva questa dinamica conflittuale. Sempre secondo Trager alcuni anchormen della tv statale, controllata dai servizi segreti, hanno criticato apertamente l’operato di Al Sisi. FP afferma che i militari sarebbero scontenti di come il presidente stia affrontando il terrorismo nel paese, e sarebbero delusi di come stia affrontando la persistente crisi economica che sta affossando il paese. Quindi Giulio Regeni potrebbe essere stato la "vittima sacrificale" del conflitto tra i tre apparati egiziani per screditarne uno, molto probabilmente i servizi segreti. L’altra ipotesi sulla morte di Giulio, analizzata più volte da Giuseppe Acconcia sul manifesto, è che sia stata un monito per tutti gli studiosi e i giornalisti occidentali che ficcano il naso dove non dovrebbero offuscando così l’immagine dell’Egitto all’estero. La polemica per la pubblicazione dell’articolo post mortem di Giulio da parte de il manifesto è stata ben affrontata con una risposta molto esaustiva con l’editoriale di Tommaso Di Francesco del 15.02.2016. Alcuni su FB hanno affermato che la redazione di via Borboni aveva spinto Giulio ad inoltrarsi in ambiti pericolosi, quelli appunto dei sindacati e dei movimenti operai, senza un’adeguata preparazione che gli consentisse di capire il pericolo. Questa asserzione è stata smentita da numerose fonti: infatti sarebbero stati i supervisori di Cambridge a impegnarlo in questa direzione. Il manifesto è sempre stato sensibile alle condizioni operaie e sindacali e le ricerche di Giulio in Egitto vertevano proprio su questi argomenti che erano quindi pubblicabili ma da contestualizzare. Come collaboratore freelance di Alias (il settimanale culturale de il manifesto) ho inviato dall’Egitto alcuni reportage sul movimento degli attivisti egiziani che nella maggior parte dei casi non venivano pubblicati immediatamente, spesso passavano settimane. Attraverso l’articolo di Di Francesco la redazione de il manifesto ha ritrattato alcune posizioni che aveva preso nel caso di Regeni e si è scusato apertamente con la famiglia. Tale atto, raro nel panorama giornalistico, rende onore al manifesto che ha mostrato di saper ascoltare le opinioni e le supposte critiche. Perché è sempre stato un giornale di discussione ed approfondimento, con le diverse anime che si esprimono sulle colonne della stessa animando il dibattito, pubblicando i diversi punti di vista anche se agli antipodi. In un certo senso il manifesto è stato un precursore dei social: un "muro di carta" sul quale diverse opinioni ed interventi confluivano, e confluiscono, dando voce e spazio a persone e storie che rimarrebbero sconosciute all’opinione pubblica. Per fare in modo che Giulio non sia morto invano, ora il manifesto deve continuare a perorare, come d’altronde sta già facendo, la causa di quei 40.000 e oltre prigionieri politici che quotidianamente subiscono torture, sevizie e violenze di ogni genere nelle carceri egiziane. Deve continuare a fare pressioni sul governo italiano e sulla Commissione europea per fermare la politica repressiva del potere cairota, perché i servizi segreti, la polizia e i corpi paramilitari egiziani sono alla stessa stregua dei macellai dell’Isis. I metodi repressivi di Al Sisi, che diventano una fucina per futuri jihadisti, non si discostano di molto da quelli che sono stati di Pinochet e di Videla in America Latina. Se oggi si criticano quei regimi e tanto ci si indigna per quei massacri di allora, altrettanto si dovrebbe fare per quello che sta accadendo in Egitto, proprio per il rispetto dei diritti e della dignità umani che l’Occidente sbandiera al mondo intero. I governi occidentali hanno appoggiato in passato regimi dittatoriali spietati in Medio Oriente contribuendo alla situazione attuale di caos nella regione. Alla luce degli eventi degli ultimi 15 anni, i risultati della guerra in Afghanistan e in Iraq, come le prigioni di Guantánamo e di Abu Ghraib non hanno sortito altri effetti se non l’instabilità totale nel Medio Oriente e l’insorgere dell’Isis e di centinaia di cellule terroristiche. I giovani egiziani che il 25 gennaio di cinque anni fa chiedevano pane, giustizia e libertà sono stati traditi per l’ennesima volta dai governi occidentali che hanno chiuso gli occhi sulla repressione violenta, sui sequestri, sulle sparizione e sulla reclusione forzata di migliaia di egiziani ignorando i report di Amnesty International e di Human Rights Watch. Nel nome di Giulio Regeni bisogna portare avanti la battaglia mediatica per tutti i desaparecidos egiziani e il manifesto deve continuare a denunciare, come già fa, quei governi che per mero opportunismo economico e politico appoggiano i "terrorismi di Stato". I rischi del caso Libia e l’impegno dell’Italia di Franco Venturini Corriere della Sera, 20 febbraio 2016 Rispetto a quelle precedenti, l’azione militare sferrata ieri dagli Stati Uniti a è stata di ben più ampia portata, destinata a lanciare una serie di messaggi. Non è ancora cominciata una nuova guerra di Libia, ma sarebbe sbagliato, anche da parte italiana, non percepire la dimensione inusuale dell’attacco che aerei americani hanno sferrato all’alba di ieri contro bersagli dell’Isis alle porte di Sabrata. I cacciabombardieri Usa hanno bombardato un campo di addestramento, e hanno raso al suolo un edificio all’interno del quale si trovava il tunisino Noureddine Chouchane, considerato uno dei responsabili dell’attacco del marzo 2014 contro il Museo del Bardo a Tunisi nel quale furono uccisi anche quattro turisti italiani. La morte di Chouchane viene data per "probabile" , e l’incursione è costata la vita ad almeno quaranta persone. Tutte o quasi tutte non libiche. Sulla carta l’iniziativa statunitense non si discosta dal "doppio binario" deciso da Obama lo scorso anno: via libera ad attacchi circoscritti contro bersagli certi, e contemporaneo appoggio Usa al processo politico che dovrebbe portare alla nascita di un governo libico unitario legittimato a chiedere aiuti esterni per stabilizzare la Libia. Rispetto alle incursioni precedenti del luglio e del novembre scorsi, tuttavia, non può sfuggire che questa volta si è trattato di una azione militare di ben più ampia portata, destinata a lanciare, senza cambiare linea, una serie di messaggi. Agli uomini del Califfato, beninteso, che negli ultimi mesi sono diventati più numerosi e più audaci. Ma anche ai libici, e in particolare al Parlamento di Tobruk, per far capire che la pazienza ha un limite e che il voto sulla nuova compagine governativa riunita dal premier incaricato al Sarraj deve aver luogo prestissimo. E infine agli alleati italiani, francesi e britannici (tutti avvertiti del raid in anticipo) per confermare che l’America fa e farà il necessario per combattere l’Isis, ma si aspetta un loro decisivo impegno perché, come ebbe a dire John Kerry, "non si può assistere passivamente alla nascita in Libia di un falso Califfato che punta a impadronirsi di miliardi di petrodollari". Caduti a Sabrata, i missili e le bombe degli F-15 statunitensi dovrebbero aver lasciato il segno anche a Tobruk. Soprattutto si spera che siano stati correttamente valutati da quel generale Haftar, appoggiato dal Cairo, che è all’origine della prima bocciatura parlamentare del governo di unità e che potrebbe avere in animo di organizzare una nuova battuta d’arresto nel voto previsto in linea di massima per lunedì o martedì prossimi. Un nuovo "no" del Parlamento riconosciuto dalla comunità internazionale spingerebbe evidentemente la crisi libica verso esiti non più diplomatici ma militari, perché l’Isis utilizzerebbe l’ulteriore tempo guadagnato per rafforzarsi ancora costringendo gli alleati occidentali a interventi mirati. Cercando di colpire soltanto i seguaci stranieri di al Baghdadi ed evitando di colpire cittadini libici estranei all’Isis (come pare sia riuscito a fare l’attacco Usa a Sabrata). Ma anche il sospirato "sì" dei deputati di Tobruk al nuovo governo unitario comporterebbe incognite e impegni gravosi. Difficilmente il gabinetto potrebbe insediarsi a Tripoli, bisognerebbe trovargli un’altra sede e provvedere a proteggerla. Qualora giungesse, come previsto, la richiesta d’aiuto di al Sarraj, si dovrebbe decidere chi fa cosa. L’Italia, che ha molto contribuito al processo diplomatico, prevede addestramento militare, assistenza logistica, sorveglianza armata di nodi strategici, operazioni navali. Non prevede per ora incursioni aeree, che sarebbero lasciate a inglesi, francesi e americani. E le unità di terra, in massima parte truppe speciali, si muoverebbero al seguito delle unità libiche da loro stesse addestrate, sotto formale comando libico e con l’appoggio di milizie amiche come quella di Misurata. Si vuole evitare di fomentare il nazionalismo libico contro lo straniero, anche per scongiurare il pericolo che l’Isis possa reclutare nuovi adepti anti-occidentali e anti-infedeli. Una operazione del genere sarebbe già complessa e pericolosa. Ma non abbiamo la certezza, e non l’avremo nemmeno dopo un eventuale voto positivo a Tobruk, che le intenzioni trovino riscontro nelle possibilità concrete. Per questo bisognerebbe spiegare all’opinione pubblica italiana in cosa consiste davvero il rischio Libia. Per questo bisognerebbe che ne prendesse atto il Parlamento italiano. Non possiamo farci cogliere in contropiede con i tagliagole dell’Isis a 400 chilometri dalle nostre coste. E l’incursione non ordinaria degli F-15 americani serve a ricordarcelo. Turchia: arrestato il giornalista siriano Rami Jarrah La Repubblica, 20 febbraio 2016 Il reporter indipendente, molto conosciuto per essere una delle poche voci dalle zone di guerra, è stato fermato dalla polizia di frontiera e portato in una località sconosciuta. Tre settimane fa aveva incontrato Erdogan. Petizione e mobilitazione online per il suo rilascio. È stato arrestato dalle autorità turche un rinomato giornalista siriano, uno dei pochi testimoni dalle zone tormentate dalla guerra civile e dagli attacchi dell’Is in Siria. L’ong siriana per la libertà di stampa e i diritti umani The Syria Campaign (Tsc) ha diffuso la notizia dell’arresto di Rami Jarrah da parte delle autorità turche lo scorso mercoledì. L’organizzazione rivela che non è stato possibile conoscere le motivazioni di questo provvedimento, salvo il fatto che Jarrah è stato interrogato dai poliziotti in merito alla sua attività lavorativa. L’arresto è avvenuto quando si è presentato alla polizia dell’immigrazione per chiedere un permesso di residenza in una zona al confine con la Siria. Ieri notte Jarrah è stato trasferito in una località sconosciuta e nessuno dei suoi familiari, amici e colleghi al momento sa dove si trova. Gli attivisti e gli amici del giornalista hanno anche lanciato una una petizione on-line che sta raccogliendo migliaia di adesioni. Prima di sparire Rami Jarrah sarebbe riuscito a parlare con i colleghi della sua agenzia, Ana Press, dicendo di essere detenuto ad Adana e di essere rinchiuso insieme ad "elementi dell’Is". "Ha avuto un litigio con uno di loro e ora teme per la propria sicurezza". Rami Jarrah è un giornalista molto attivo: agli inizi della rivoluzione del 2011, come riporta tsc nella nota, ha documentato la ribellione di Damasco usando uno pseudonimo, Alexander Page, e ha usato Skype per aggirare il blocco imposto dal regime sui media. "Jarrah è conosciuto per il suo lavoro indipendente sulla guerra in Siria, svolto nel corso di tanti anni e con grande rischio", ha dichiarato Nina Ognianova, coordinatrice del Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) per l’Europa e l’Asia centrale. "I giornalisti siriani come Jarrah, che hanno trovato rifugio in Turchia, dovrebbero essere protetti e non essere oggetto di arresti o persecuzioni", ha aggiunto. Di recente Jarrah ha poi lavorato ad Aleppo per documentare i bombardamenti da parte dell’esercito siriano e russo, a rischio della vita. "Ha raccontato i crimini di guerra perpetrati contro i civili e ha dato voce a coloro che si oppongo sia all’Is che al regime e ai suoi alleati", riferisce ancora il Tsc. Tre settimane fa, riferiscono i suoi amici, aveva incontrato il premier turco Erdogan per discutere di Siria. Il suo lavoro, sin dagli inizi della rivoluzione, è stato quello di "riportare la verità", credendo nel fatto che quello "fosse il solo modo per assicurare la libertà e la giustizia". Per le persone che lo hanno conosciuto "è un eroe", e per questo "deve essere liberato", conclude la nota. Jarrah, nato a Nicosia (Cipro), è cresciuto in Gran Bretagna. Dopo aver fatto ritorno a Damasco, nel 2004, venne fermato e lasciato senza passaporto. Nel 2011 venne arrestato mentre filmava le rivolte presso la Grande moschea di Damasco, detenuto e torturato per tre giorni e poi nuovamente rispedito fuori dal Paese con una confessione estorta che fosse un terrorista. Raccontò poi di aver ricevuto diverse minacce di morte. Per il suo lavoro l’associazione della stampa canadese per la libera espressione gli ha conferito il Press Freedom Award. Stati Uniti: liberato Albert Woodfox, detenuto-simbolo da 43 anni in isolamento Adnkronos, 20 febbraio 2016 È stato liberato negli Stati Uniti Albert Woodfox, il detenuto americano rimasto più a lungo in cella d’isolamento, per ben 43 anni. Il suo caso, assieme a quello di altri due detenuti liberati nel 2001 e il 2013, è stato per anni una vicenda simbolo del cattivo funzionamento della giustizia americana. I tre, noti come gli "Angola three", dal soprannome dato al carcere dove erano rinchiusi, erano stati accusati di aver ucciso Brent Miller, una guardia del penitenziario di Stato della Louisiana, nel lontano 1972. Woodfox si è sempre detto innocente ed è ora stato liberato, nel giorno del suo 69esimo compleanno, dopo aver accettato di non opporsi l’accusa più leggera di omicidio colposo. "Anche se sono ansioso di provare la mia innocenza ad un nuovo processo, le preoccupazioni per la mia età e la mia salute mi hanno spinto a risolvere il caso con la mia non opposizione ad una imputazione minore", ha detto l’afroamericano. Woodfox è stato condannato due volte per la morte di Miller, ma le sentenze sono sempre state ribaltate per la difesa insufficiente e il sospetto di discriminazione razziale. Ora si è in attesa del terzo processo. Secondo Amnesty International non è mai stata trovata "nessuna prova fisica che leghi i tre uomini all’omicidio, le prove del Dna che potenzialmente potevano discolparli sono andate perdute e le condanne si basavano su dubbiose testimonianze di altri detenuti". La liberazione di Woodfox giunge mentre negli Stati Uniti si discute sempre di più sull’opportunità di rinchiudere i carcerati in cella d’isolamento. Il presidente Barack Obama ha deciso il mese scorso di vietarlo per i minorenni nelle carceri federali. Bosnia: procura chiede nuovamente il carcere cautelare per leader politico Radoncic Nova, 20 febbraio 2016 La procura centrale bosniaca ha chiesto oggi al tribunale di emettere un nuovo provvedimento di carcere cautelare nei confronti del leader dell’Alleanza per un futuro migliore (Sbb, maggioranza) Fahrudin Radoncic. Lo riferisce l’agenzia di stampa "Fena". Il tribunale aveva respinto precedentemente la richiesta della procura di estendere la misura cautelare dopo il primo mese, ordinando due giorni fa la scarcerazione di Radoncic. Quest’ultimo è accusato di intralcio alla giustizia in quanto, secondo fonti non ufficiali, avrebbe tentato di esercitare influenza su una testimone nel processo contro il narcotrafficante bosniaco-albanese Nasser Kelmendi. Dalla procura hanno affermato oggi che Radoncic ha infranto negli ultimi due giorni le condizioni della libertà vigilata. La maggioranza bosniaca, dall’arresto di Radoncic, sta affrontando una nuova crisi a poco più di un mese dall’intesa tra il leader dell’Sbb e gli altri rappresentanti della maggioranza, in primo luogo il presidente del Partito d’azione democratica (Sda, democratici musulmani e leader della maggioranza) Bakir Izetbegovic. Anche quest’ultimo è rimasto coinvolto nella caso Radoncic ed era stato interrogato dalla magistratura lo scorso 3 febbraio in qualità di testimone. I dettagli della sua deposizione non sono stati diffusi, ma la tensione tra il potere esecutivo e quello giudiziario in Bosnia è salita a un livello senza precedenti. La magistratura continua a affrontare duri affondi dai leader dei serbi bosniaci, in primo luogo dal presidente della repubblica Srpska, l’entità serba, Milorad Dodik, che ha annunciato l’intenzione di indire un referendum popolare contro le ingerenze del sistema della giustizia centrale sul territorio di Banja Luka. L’arresto di Radoncic ha suscitato polemiche anche tra l’elettorato bosniaco musulmano, di cui sia Radoncic che Izetbegovic fanno parte. I deputati dell’Sbb presso la Camera dei rappresentanti avevano inviato dopo l’arresto del loro leader una lettera aperta al ministro della Sicurezza, il serbo Dragan Mektic, chiedendo "spiegazioni sul lavoro operativo della polizia". I deputati dello schieramento di Radoncic avevano inoltre chiesto delucidazioni sulle dichiarazioni precedenti del ministro, il quale aveva annunciato, alla vigilia del fermo del leader bosniaco musulmano, "arresti spettacolari". Mektic aveva ribadito durante una conferenza stampa di non avere infranto "nessuna disposizione legale" e ha evidenziato che il suo operato riflette "semplicemente quanto promesso nel corso della campagna elettorale, ovvero lottare contro la criminalità organizzata e la corruzione". Mektic aveva detto di "non avere mai fatto nomi sui futuri arrestatati" ma di avere "parlato soltanto di scandali che sono ben noti a tutti quanti". Il ministro aveva inoltre ribadito di "non avere nessuna ingerenza operativa" e di "non avere mai partecipato al lavoro della polizia". Mektic aveva concluso affermando che "le accuse nei miei confronti sono invane e gli arresti proseguiranno". Nonostante l’arresto di Radoncic, comunque, l’Sda aveva confermato la sua fedeltà alla coalizione di governo con l’Sbb.