Richiesta documenti conclusivi Tavoli di lavoro Stati generali esecuzione penale Ristretti Orizzonti, 1 febbraio 2016 Lettera della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia al Ministro Orlando. All’attenzione del Ministro della Giustizia, Andrea Orlando e, per conoscenza, alla c.a del Coordinatore del Comitato scientifico degli Stati generali Prof. Glauco GIOSTRA Ai componenti del Comitato Adolfo CERETTI Luigi CIOTTI Franco DELLA CASA Mauro PALMA Luisa PRODI Marco RUOTOLO Vladimiro ZAGREBELSKY Francesca ZUCCARI Gentile Ministro Orlando, la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, l’organismo maggiormente rappresentativo di Enti, Associazioni e Gruppi impegnati in esperienze di volontariato nell'ambito della giustizia, all'interno e all'esterno degli istituti penitenziari, di cui la sottoscritta, Ornella Favero, è Presidente, chiede di poter avere accesso al più presto ai documenti definitivi prodotti dai Tavoli di lavoro degli Stati Generali, che hanno concluso di recente la loro attività. La Conferenza ha apprezzato da subito la voglia di innovare e produrre una svolta culturale nell’esecuzione penale, che ha caratterizzato la sua scelta di indire gli Stati Generali, e ha però anche espresso fin dall’inizio il suo dissenso sulle modalità con cui il Volontariato era stato coinvolto all’interno dei 18 Tavoli. Ma nello stesso tempo, a lavori quasi conclusi, ritenevamo e riteniamo più importante dare il nostro apporto a questa seconda fase, di diffusione dei risultati dei Tavoli, di approfondimento e discussione all’interno della società, piuttosto che restare attaccati alla nostra insoddisfazione. Lei sa bene, per averlo sottolineato più volte, che molte delle attuali opportunità (ancora troppo limitate) di occupare il tempo della pena in modo sensato e di costruire dei percorsi di reinserimento guidati e sostenuti sul territorio si devono ai volontari impegnati nelle carceri e nell’area penale esterna, volontari che si riconoscono nella Conferenza Nazionale. È per questo che le chiediamo di essere REALMENTE coinvolti nel dibattito che si dovrebbe aprire nella società sui temi della Giustizia, del carcere e del reinserimento, e di esserlo a partire dalla possibilità di leggere finalmente le relazioni conclusive degli Stati Generali, di discuterne e di portare il confronto su questi temi nelle carceri stesse e nella società, come già facciamo da anni con tanti progetti come quello che coinvolge le scuole, “A scuola di libertà”. Ci auguriamo che questo appello possa essere da Lei accolto, e che possa essere dato ascolto al più grande coordinamento che opera in questo campo a livello nazionale, superando la poca chiarezza che c’è stata nella fase iniziale dei lavori degli Stati Generali. Noi siamo disponibili a collaborare, speriamo che ci sia dato modo di farlo. Padova, 31 gennaio 2016 La Presidente, Ornella Favero Alleghiamo un piccolo promemoria sulla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, fondata nel 1998 e con sede a Roma, rappresenta Enti, Associazioni e Gruppi impegnati in esperienze di volontariato nell'ambito della giustizia, all'interno e all'esterno degli istituti penitenziari. Ad oggi è strutturata sul territorio con 18 Conferenze Regionali (che riuniscono circa 200 Associazioni), e con l'adesione di numerosi Organismi del Volontariato: A.I.C.S., Antigone, A.R.C.I., Caritas Italiana, CNCA - Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, Comunità Papa Giovanni XXIII, Forum Salute in Carcere, J.S.N. - Jesuit Social Network Italia Onlus, Libera, S.E.A.C. Complessivamente i volontari che afferiscono alla C.N.V.G. sono oltre 10mila. Nel mese di novembre 2014 la CNVG ha stipulato con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria un Protocollo operativo, protocollo che viene a integrare i Protocolli precedenti: con il Ministero della Giustizia siglato in data 08 giugno 1999; con la Direzione Generale Esecuzione Penale Esterna del D.A.P. siglato in data 28 luglio 2003. L’importante riconoscimento del Ministero e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Il DAP riconosce la CNVG quale soggetto referente per le scelte programmatiche che riguardano gli ambiti di interventi del volontariato nel settore dell'esecuzione penale e più ampiamente nel settore giustizia – ci stimola a lavorare intensamente per migliorare la vita delle persone detenute e a impegnarci affinché si sviluppi sia a livello politico che di società una cultura nuova dell’esecuzione della pena. Nel 2013 la Conferenza ha istituito la giornata nazionale A scuola di libertà, ogni anno nel periodo intorno al 15 novembre oltre 10.000 studenti hanno l’occasione di conoscere il carcere e il mondo della Giustizia, di riflettere sui meccanismi che portano a scivolare nell’illegalità e a comprendere che un'altra Giustizia è possibile, per citare il motto di una delle scorse edizioni. La Presidente, Ornella Favero Carcere di Padova, lunedì 8 febbraio 2016: giornalisti fra le sbarre Il Mattino di Padova, 1 febbraio 2016 Lunedì 8 febbraio più di cento giornalisti entreranno in carcere a Padova "per imparare", partecipando a un corso di formazione organizzato dalla redazione di Ristretti Orizzonti e dall’Ordine dei Giornalisti del Veneto, sotto l’egida degli Stati Generali dell’Esecuzione penale. Impareranno ascoltando esperti di pene e carcere e persone detenute, assisteranno a un dialogo e un incontro tra vittime e autori di reato, sentiranno un ex ministro della Giustizia parlare di ergastolo con gli ergastolani. E si misureranno con una idea di Giustizia "dal volto umano", che aiuta a riparare i danni prodotti dai reati anche attraverso l’incontro. Le domande che vorrei fare ai giornalisti Penso che ci dovrebbe essere più attenzione, sensibilità e responsabilità nel dare le notizie. Spesso la rappresentazione mediatica dei reati, della prigione e dei detenuti è sbagliata. Ed in certi casi fa più male della stessa pena detentiva. Penso che i giornalisti dovrebbero fare come ci ha insegnato la responsabile di Ristretti Orizzonti, che spesso ci raccomanda: "Utilizzate sempre un linguaggio pacato, semplice, diretto e onesto". E noi cerchiamo di seguire questa raccomandazione, facendo un giornalismo sociale, alternativo, di controinformazione. Penso che alcuni giornalisti di cronaca nera spesso più che informare scrivono quello che va di moda al momento. Per esempio si prende un tragico caso, scandaloso o emotivamente coinvolgente. Poi lo si enfatizza con servizi, foto, titoli, ospiti noti, analisi approssimative ed esperti all’occorrenza che si prestano ad una informazione da spettacolo noir. E la televisione è peggio della carta stampata perché ha un ruolo più rilevante. E spesso si vedono giornalisti che cercano costantemente lo scoop assaltando e marcando strette le vittime dei reati. Approfittando dei loro sentimenti a pochi giorni, e a volte anche a poche ore dal reato subito, gli fanno la brutta e invasiva domanda: è disposto a perdonare? Il grande giornalista Kapuscinki ripeteva spesso che per essere un buon giornalista si doveva avere queste qualità: "L’empatia con la fonte, la lontananza da un certo cinismo giornalistico, la comprensione delle diverse culture, l’ascolto, l’utilizzo di fonti e storie poco battute, la vicinanza con il territorio e con le persone, con le comunità locali, la condivisione". Si sa, i giornalisti hanno sempre esercitato un’importante funzione di crescita culturale e sociale a favore dell’opinione pubblica. Ricordo che i giornalisti impegnati sul fronte della guerra del Vietnam, quando si resero conto che i notiziari ufficiali mentivano rispetto alle proporzioni e alle caratteristiche dell’impegno bellico statunitense, avviarono una campagna d’informazione che sarebbe diventata decisiva per convincere l’opinione pubblica a prendere posizione contro la guerra. Io credo che in Italia la giustizia e le prigioni sono quelli che sono anche perché, a differenza degli altri Paesi, nel nostro manca una informazione corretta sull’argomento. Sì è vero, le notizie si danno ma si danno spesso senza approfondimento. E una buona proposta di legge sull’affettività in carcere può trasformarsi in una proposta di legge per istituire bordelli in carcere. Ecco perché l’evento del Seminario di formazione per i giornalisti, di lunedì 8 febbraio 2016, organizzato dalla redazione (formata in gran parte da detenuti) di "Ristretti Orizzonti" nel carcere di Padova, può essere molto importante sia per chi sta dentro sia per chi sta fuori da queste mura. Ai molti giornalisti che saranno presenti farei queste domande: 1) La società vorrebbe chiudere i criminali e buttare via le chiavi, ma perché non scrivete che prima o poi in parecchi usciranno? E che molti di loro quando saranno fuori potrebbero vendicarsi di essere usciti più cattivi di quando sono entrati? 2) Siamo anche quello che leggiamo. Non credete che è difficile migliorare le persone dentro solo con la sofferenza del carcere, e fuori con una informazione superficiale e sensazionalistica? 3) Lo sapete che in Italia esiste una pena che non finisce mai (o che finisce nel 9.999)? Come mai le persone sono convinte che in Italia l’ergastolo non esiste o che non lo sconta nessuno, quando invece ci sono persone che sono dentro da venti, trenta, quarant’anni? Che ne pensate? 4) Scrivete con la penna, con il cuore o con la testa? 5) È corretto scrivere che un assassino è uscito dopo "solo" vent’anni di carcere? 6) Pensate che sono più i giornalisti che influenzano l’opinione pubblica o è l’opinione pubblica che influenza il modo di informare dei giornalisti? 6) Il carcere secondo noi non è la medicina, ma è la malattia, non cura quindi, non curano soprattutto proprio le pene troppo lunghe: ma voi che cosa intendete con la formula "certezza della pena"? Grazie a quei giornalisti che risponderanno. Un sorriso fra le sbarre. Carmelo Musumeci La Giustizia dell’incontro L’idea di Giustizia che c’è dietro a tanta informazione è quella della cattiveria: si pensa che la Giustizia non debba essere giusta, la Giustizia debba essere cattiva. Quando il ministro della Giustizia ha indetto gli Stati Generali dell’esecuzione della pena, si è posto come obiettivo prima di tutto di cambiare nel nostro Paese la cultura sulle pene e sul carcere. Proviamo allora a contribuire a un cambio culturale così profondo partendo dall’idea non di una Giustizia che divide, che allontana, che esclude, ma di una Giustizia che crea possibilità di incontro: l’incontro tra vittime e autori di reato nella mediazione penale, l’incontro tra l’autore di reato e la comunità dove dovrà rientrare definitivamente alla fine del suo percorso, l’incontro tra le persone detenute e la società dentro a un carcere trasparente e aperto al confronto. Questi i temi di cui si parlerà al seminario di formazione dell’8 febbraio: La matassa delle paure e le responsabilità dell’informazione Di paura, insicurezza e informazione parlerà Glauco Giostra, Ordinario di Procedura penale dell’Università di Roma "La Sapienza" e coordinatore del Comitato Scientifico degli Stati Generali dell’esecuzione della pena Il carcere dell’incontro e del confronto La detenzione potrebbe diventare realmente per il condannato l’occasione per imparare ad assumersi la responsabilità delle sue scelte. Affronterà il tema di un carcere responsabilizzante Lucia Castellano, ex direttrice del carcere di Bollate che ha lavorato per sconfiggere l’idea di carcere che infantilizza, rende passivi e non rispetta la dignità delle persone. La pena che fa incontrare il reo e la comunità Bisogna lavorare per diffondere forme di esecuzione "comunitaria" della pena, nelle quali cioè la collettività è chiamata ad una presa in carico del condannato durante la fase più delicata del suo percorso, quella della sua "convalescenza sociale". A spiegare che cos’è questa nuova giustizia sarà Francesco Cascini, magistrato, Capo del nuovo Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità Il libro dell’incontro Negli ultimi anni, lontano dai riflettori mediatici della scena pubblica, vittime e responsabili della lotta armata degli anni settanta hanno cercato, insieme, di ricomporre la ferita aperta da quegli anni sofferti. Ne è nato Il libro dell’incontro. Dialogheranno su questi temi Adolfo Ceretti, Ordinario di Criminologia all’Università Milano-Bicocca e mediatore penale, Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle Brigate rosse nel 1978, e Grazia Grena, ex appartenente alla lotta armata L’incontro impossibile? Sembra una impresa addirittura impossibile parlare di una pena che permetta un confronto e un incontro anche con i "cattivi per sempre", "i mafiosi", condannati all’ergastolo senza speranza. E invece è possibile lavorare perché nessuno più sia considerato solo il suo reato. Alcuni ergastolani parleranno di ergastolo con Giovanni Maria Flick, che è stato ministro della Giustizia e presidente della Corte costituzionale. L’obiettivo di questo seminario è fornire - attraverso le relazioni di esperti e le testimonianze di detenuti - alcuni spunti di riflessione e qualche utile strumento per garantire una corretta informazione su giustizia, carcere ed esecuzione della pena. Volontariato Penitenziario: è Laura Marignetti la nuova Presidente del SEAC Ristretti Orizzonti, 1 febbraio 2016 È Laura Marignetti la nuova Presidente del SEAC (Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario), organismo che dal 1968 coordina, in varie regioni italiane, associazioni di volontariato attive nell’ambito della esecuzione penale: il Consiglio Nazionale del SEAC lo ha deciso con votazione unanime. La affiancheranno nel suo mandato triennale i due Vicepresidenti Fabio Tognotti, coordinatore SEAC per il Trentino, e Francesco Cosentini, che ricopre lo stesso ruolo per la Calabria. Laura Marignetti, avvocato, ha maturato una lunga esperienza di volontariato nell’associazione Sesta Opera San Fedele di Rieti. Subito dopo l’elezione ha espresso l’auspicio che il SEAC possa attuare le linee programmatiche che si è dato nella sua assemblea di novembre: incremento del servizio volontario nelle misure alternative alla carcerazione (oggetto di una giornata di studio nel prossimo mese di maggio), impegno di sensibilizzazione per una sempre maggiore capacità di reinserimento sociale delle persone in esecuzione penale, difesa dei diritti e della dignità delle persone detenute. Perché servono i direttori di carcere di Antonella Tuoni (direttrice dell’OPG di Montelupo Fiorentino) Ristretti Orizzonti, 1 febbraio 2016 Nei primi mesi del 2011, uno degli unici due direttori aggiunti rimasti a Sollicciano, - istituto, allora, con più o meno mille detenuti, fugge da quella struttura dove già le persone lì ristrette lamentano di non avere acqua calda per lavarsi anche se ancora non ci sono i topi a dare loro la sveglia mattutina e va a dirigere l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino. Non è che lì la situazione sia rosea, siamo in piena attività della così detta commissione Marino ma almeno avrà l’opportunità di rispondere direttamente di ciò che riuscirà o non riuscirà a fare. Uno dei due reparti, quello immortalato nel video girato dalla commissione e che di lì a poco verrà sequestrato e chiuso, è in condizioni disastrose, mentre in una porzione dell’altro reparto sono in corso lavori di ristrutturazione. Si pratica la contenzione ed i lavoratori lamentano condizioni di impiego altrettanto pessime. Tra i mille problemi strutturali legati alla vetustà ed all’incuria della struttura rileva l’inefficienza dell’impianto antincendio. Manca il documento di valutazione dei rischi. Le pulizie nei locali della direzione non vengono fatte per carenza di manodopera. I soldi per pagare una ditta di pulizie non ci sono e, si può ben comprendere, gli internati non garantiscono continuità ed abilità necessarie ad assorbire quel lavoro. In occasione di uno degli accessi nella struttura, riferiscono i collaboratori di quel direttore, lo stesso senatore Marino, abituato alle toilette del Senato, si stupisce dei bagni della direzione. Quel direttore dirige anche Empoli, perché in Toscana, come in altre regioni d’Italia, mancano i dirigenti e rende questo servizio, (doppia responsabilità), allo Stato, gratis: la distanza fra Empoli e Montelupo non è tale da far scattare alcuna missione e quindi non ha diritto ad alcunché; da un certo punto di vista però questo sacrificio personale gli consente di risolvere il piccolo grande problema delle pulizie degli uffici impiegando una delle detenute di Empoli. Tutt’oggi una detenuta lavora a Montelupo. Nel corso di un convegno presso il Senato della Repubblica denuncia la situazione in cui sia il medesimo direttore che gli altri lavoratori sono costretti a prestare servizio, parla dello scandalo della contenzione e segnala, incidentalmente, che le manichette degli idranti presenti ai piani di uno dei due reparti (l’altro reparto, come detto, verrà chiuso di lì a poco) non sono collegate alle vasche di accumulo dell’acqua e pertanto sono inefficienti. Per metà quel reparto era stato ristrutturato dalle Opere Pubbliche ma, inspiegabilmente, consegnato in siffatte condizioni. Peraltro, l’istituto, riferiscono i collaboratori, nel 2010 è stato oggetto di una approfondita ispezione dipartimentale e quindi la situazione in cui versa la struttura è arcinota. Scattano le denunce della Commissione Marino alla Procura. Un decreto ministeriale individua il direttore degli istituti penitenziari come datore di lavoro pertanto chiunque sieda su quella poltrona, non importa quando sia arrivato, se da un giorno o da un anno, è responsabile della salute e della sicurezza dei lavoratori e dei detenuti. Non importa se ha a disposizione cento euro o cento milioni. A fine 2011 firma due verbali di elezione di domicilio. Nei limiti del budget a disposizione, che ammonta a poche migliaia di euro per la manutenzione ordinaria e straordinaria di una villa del settecento ove è ospitato l’OPG di Montelupo, ottempera alle prescrizioni che vengono imposte al direttore avvalendosi, (la fortuna assiste gli audaci), della collaborazione gratuita del figlio di un poliziotto che è tecnico della sicurezza e lo aiuta a redigere sia il piano di autocontrollo per la cucina detenuti sia ad imbastire il documento di valutazione dei rischi. Non basta. Deve nominare un difensore. "Perché non ha chiesto da subito al Ministero i soldi della contravvenzione?" lo interroga il Pubblico Ministero che segue la vicenda, forse infastidito da quel fascicolo ponderoso e scottante che riguarda l’orrore di una delle cinque strutture dello Stato indegne per un Paese appena civile, orrore che impone di trovare un capro espiatorio da immolare sull’altare delle responsabilità di chi sapendo ha ignorato e potendo non ha fatto. Sono giorni intensi colmi di frustrazione e scoramento, di telefonate concitate con il suo diretto superiore e di toni molto alterati. Nonostante tutto continua a scrivere e scrivere e a segnalare e si ritrova davanti ad un plotone di esecuzione per avere scritto troppo. Nel frattempo vieta l’uso dei fornellini a gas: arrivato da poco a Montelupo, quel direttore, un internato muore per uno sballo finito male. C’è anche il nodo gordiano della contenzione: non si capacita di come per anni e anni i poliziotti abbiano legato ago e filo gli internati ai loro letti. C’è una magistratura di sorveglianza, ci sono magistrati che dirigono gli uffici ministeriali, possibile che nessuno si sia mai posto il problema se sia o meno legittimo, se non addirittura lecito, legare ad un letto una persona sulla base di un semplice certificato medico? Si convince che la contenzione non può essere standardizzata, come propone il servizio sanitario, ma va proprio abolita. I sindacati, tutti i sindacati, sono sul piede di guerra, la Magistratura di Sorveglianza e gli uffici di livello superiore tacciono. Nel 2012 la contenzione a Montelupo viene definitivamente eliminata con un ordine di servizio del direttore. Nello stesso anno, primi mesi dell’anno, una domenica mattina, presto, molto presto, squilla il telefono di servizio che, per mero rispetto verso i suoi collaboratori, considerato che nessuno retribuisce al direttore la reperibilità ventiquattr’ore su ventiquattro, tiene acceso: è divampato un grosso incendio al primo piano, è tutto fumo ed odore di bruciato, un detenuto in osservazione ha dato fuoco alle pareti imbottite della cella che con imprevista rapidità si sono infiammate, ci sono i vigili del fuoco, quattro agenti sono finiti all’ospedale, intossicati, gli internati, comunque, sono al sicuro nei cortili passeggi; nessun morto, nessun ferito, il primo piano è un disastro: le scale di accesso completamente annerite dalla fuliggine, le telecamere della video sorveglianza appese al soffitto colano come stalattiti. La storia della violazione delle normativa in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro non è finita; quel direttore è convinto di non avere alcun torto, di avere agito bene e allora perché dovrebbe risultare che ha contravvenuto la normativa se era arrivato a Montelupo da pochi mesi, aveva 18.000 euro di budget e dirigeva due istituti? Tant’è, dovrebbe affrontare un processo di durata imprecisata, certo avrebbe forse la soddisfazione di spiccare tanti santi in paradiso, come dice con comprensibile rabbia. Pazienza! Anticipa quattromila euro che corrispondono più o meno al suo stipendio per un mese e mezzo di lavoro. I soldi verranno restituiti dal Dipartimento; una partita di giro, lo Stato che paga se stesso poiché inadempiente. Ancora oggi mi chiedo: se non mi fossi autodenunciata in senato finendo sotto procedimento penale e non avessi caparbiamente insistito per la messa a norma dell’impianto antincendio che, grazie ad una variante dei lavori di ristrutturazione nell’ala orientale della III sezione, prima di quella mattina dell’aprile 2012 in cui fui svegliata di soprassalto dal comandante e corsi in fretta e furia in treno a Montelupo, fu realizzata, che cosa sarebbe successo? È una domanda retorica che rivolgo a me stessa quale più che soddisfacente ristoro morale della frustrazione per un lavoro che non è né cool, né smart, né trendy, che non ho scelto con piena consapevolezza, superando per caso e per voglia di indipendenza economica e di autonomia, un concorso pubblico, il penultimo mi pare, nel lontano 1993, distante anni luce dai luoghi che, per estrazione sociale, anche questa casuale ed indipendente dalla mia volontà, ero abituata a frequentare. E ancora, che cosa sarebbe successo se, aderendo alla proposta del servizio sanitario di standardizzare la contenzione in analogia a quanto continua ad accadere in tanti SPDC e continua ad accadere nelle REMS, non l’avessi vietata? Questo è uno scarno resoconto di quattro anni di vita professionale di un direttore di carcere molto simile a quello che potrebbero fare colleghi che dirigono carceri ben più importanti di Montelupo e con la responsabilità dell’integrità psicofisica di un numero di persone ben più alto di quelle che sono state e sono tuttora ristrette nell’OPG fiorentino. Ed è anche il perché, per quanto sommario, i direttori di carcere servono. Non quali capri espiatori o parafulmini che il Ministro della Giustizia di turno possa dichiarare di avere rimosso se l’istituto che dirigono cola a picco ma per rimuovere "gli ostacoli …, che impediscono il pieno sviluppo" delle persone private della libertà personale. E per essere all’altezza di questo compito delicato ed importante devono essere competenti, meritevoli e motivati, devono poter lavorare serenamente con risorse umane e finanziarie adeguate alla complessità dell’istituto di cui sono responsabili, con una retribuzione commisurata alla qualità e quantità del lavoro svolto. E, questo sì, lo chiede anche l’Europa con le sue raccomandazioni. Se tale "perché" non verrà condiviso da chi ha l’alta responsabilità delle scelte a presidio di un sistema, quello dell’esecuzione della pena, che è una delle cifre più significative del grado di civiltà di uno Stato, credo che abbia ragione il collega di uno degli istituti più importanti di Italia il cui pensiero, non facendogli torto spero, sovrappongo a quello che il Ministro dimissionario della Giustizia francese ha consegnato ad un tweet: "A volte resistere significa restare, a volte significa andare via. Per fedeltà verso se stessi, verso di noi. Per dare l’ultima parola all’etica ed al diritto". Giustizia: dietro le cifre c’è il fattore umano di Claudio Castelli Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2016 Facciamo il bilancio. Con l’inaugurazione dell’anno giudiziario, anticipata dalla relazione del ministro Andrea Orlando al Parlamento, e proseguita con l’apertura in Cassazione e le cerimonie negli altri uffici giudiziari del Paese, si è fatto il punto sullo stato della giustizia italiana. Il civile registra dati positivi, cala l’arretrato e la mediazione fa sentire i suoi effetti. Stabile il penale, grazie alle recenti riforme. Ottimo recupero nel settore carcerario. Nelle strutture si attende il potenziamento del personale in grado di tenere testa alle sfide del processo telematico. Per la Cassazione è allarme sugli affari e i ricorsi pendenti. Andiamo con ordine. Il bilancio - La comunicazione al Parlamento del Ministro Andrea Orlando sull’amministrazione della giustizia 2015 suona come un bollettino di vittoria, con dati che confermano una linea di tendenza positiva del tutto mutata rispetto al passato. L’aumento di risorse economiche aggiuntive (un miliardo di euro in più rispetto al 2014), la riduzione strutturale dell’arretrato civile (ormai avviato a scendere sotto i 4 milioni di cause), la diminuzione dei tempi processuali (nel civile -6,9% in secondo grado, -12,5 % nel civile ordinario in tribunale e -7,6 % nel contenzioso commerciale), il successo del Pct con il costante aumento degli atti telematici, la riduzione del numero di detenuti, in particolare in attesa di giudizio (con un indice di sovraffollamento sceso dal 131 al 105%), la progettata assunzione di 4.000 nuovi addetti amministrativi con l’inizio di un’attività di ricollocamento e riqualificazione, sono tutti elementi positivi che si basano su dati reali. E va dato atto al discorso del Ministro di avere un respiro strategico attento al quadro internazionale a partire dalla minaccia terroristica e un atteggiamento di ricerca del confronto con tutti i soggetti che operano nel modo della giustizia. Si tratta di dati sicuramente positivi, al di là di ogni tratto inevitabilmente propagandistico, che danno un messaggio di ottimismo che però allo stato è lontano dallo stato d’animo denso di preoccupazione, rassegnazione, delusione che larga parte del personale, dell’avvocatura e della magistratura tuttora vivono. E questa distanza è uno dei primi problemi che occorrerà affrontare se si vuole che l’inversione di rotta decolli definitivamente. Dati positivi, che comunque sono in parte parziali e in parte nascondono o pongono problemi più profondi. Le risorse finanziarie - Va preso atto innanzitutto con soddisfazione che è finita l’epoca dei tagli, che il Ministero ha ampie risorse aggiuntive, che per l’informatica addirittura sono previsti 147 milioni di euro, il quadruplo del 2011 e il doppio di quanto inizialmente stanziato per il 2015. Questa ingente somma è nel contempo una grande occasione e una sfida per la progettualità di un Ministero carente di personale tecnico e che risente di tempi lunghi nell’attuazione. Questa cautela non nasce da sfiducia aprioristica, ma dalla semplice constatazione che un forte incremento degli investimenti informatici si è già avuto nel 2015, senza peraltro che gli operatori se ne siano accorti, sempre vittime di blocchi temporanei, di un sistema poco intuitivo e di un’assistenza fuori dal tempo. Programmate 4.000 assunzioni per i prossimi due anni Anche quanto al personale va dato atto che le 4.000 assunzioni programmate per il prossimo biennio sono un fatto positivo che non si presentava da tempo, con però evidenti limiti. Per valutare l’impatto di questo intervento ormai inevitabile (siamo arrivati alla scopertura di 9.000 addetti, circa il 20%) occorrerebbe sapere il saldo positivo che si avrà tra entrate e uscite nel prossimo biennio: i 593 ausiliari che hanno già preso possesso nel 2015 non hanno neppure sostituito il turn over fisiologico dell’ultimo anno derivante da pensionamenti e cessazioni. Non solo, ma occorrerà vedere come verranno distribuiti, alla luce della evidente irrazionalità avutasi nella distribuzione dei primi mille (con la permanenza di una situazione nazionale divaricata con uffici sopra organico e altri con scoperture oltre il 30%). Infine si tratta non di nuove assunzioni di giovani per concorso, ma di mobilità da altre amministrazioni. Vi è assoluta necessità (e per ora manca) di un piano straordinario di formazione che renda persone provenienti da esperienze in larga parte del tutto diverse buoni assistenti, cancellieri, funzionari, attività qualificate che non si improvvisano. Incoraggianti i dati sull’arretrato civile I dati sulla riduzione dell’arretrato civile e sulla diminuzione dei tempi della giustizia sono estremamente incoraggianti e testimoniamo la laboriosità della magistratura e lo sforzo compiuto da tutti gli operatori, oltre che del successo di alcuni interventi organizzativi e normativi, in primis l’ufficio per il processo. Dati che traggono linfa in particolare dal calo della domanda, calo in corso da tempo che occorrerebbe capire da cosa è causato, se dagli effetti della crisi economica che ha disincentivato le cause civili, dalla mediazione e negoziazione assistita, da una maggiore stabilità giurisprudenziale. Se il primo fattore, come ampiamente possibile, risulterà determinante, c’è da attendersi che sia pur lentamente questo trend positivo di riduzione della domanda cesserà e dovremo al riguardo tenerci pronti, anche perché il dato fornito dal Ministero è particolarmente interessante con un numero di pendenze civili allineato alla capacità di definizione annuale (3.800.000). Ciò sarebbe davvero un punto di svolta, che però impone di affrontare le enormi differenze esistenti come pendenze e tempi tra ufficio e ufficio. Il dato nazionale è davvero sotto questo profilo traditore, quando dallo stesso Censimento sulla giustizia civile del Ministero (i cui dati sono però del 2013) emerge che il problema delle giacenze e della lentezza della giustizia non è nazionale, ma di alcune zone del Paese dove i tempi sono tra le 3 e le 5 volte la media europea. È su questi uffici che occorrerà concentrare un intervento straordinario per eliminare l’arretrato se si vuole fare un salto di qualità definitivo. La giusta direzione in materia carceraria I dati sul carcere sono davvero incoraggianti. È stata intrapresa una strada "costituzionale" in cui si vuole che la pena sia davvero rieducativa e questo in primo luogo in omaggio alla sicurezza dei cittadini, evitando nuove recidive. È la direzione della riduzione del sovraffollamento, pur tuttora esistente. È la direzione di un orientamento legislativo che ha aperto alle misure alternative al carcere (raddoppiate in breve tempo) e alla giustizia riparativa con istituti quali la messa alla prova. Anche se il quadro complessivo della normativa penale è ancora del tutto schizofrenico con depenalizzazioni da un lato e torsioni e concessioni al populismo penale che esige inasprimenti di pena dall’altro. Mentre il sistema penale è tuttora pesantemente condizionato dal convitato di pietra della prescrizione che ancora domina (e giusta è la preoccupazione per il numero di prescrizioni dichiarate). La direzione che viene proposta di incanalarsi parallelamente verso un sistema penitenziario pienamente rieducativo e contemporaneamente di tutela e attenzione per le vittime del reato è l’unica vincente che può contemperare esigenze spesso contrapposte. Ma per far sì che questo si realizzi occorre potenziare adeguatamente quelli che saranno attori fondamentali del sistema quali gli Uffici di esecuzione penale esterna, oggi del tutto carenti. Un quadro nel complesso sicuramente positivo, ma con lati oscuri e nuove problematiche che non si possono ignorare, se vogliamo che possa affermarsi anche nella quotidianità. Meno arretrato e cause in ingresso Un 2015 con il segno meno. Meno iscrizioni e meno pendenze al 30 giugno. E questo nonostante il segno "meno" sia davanti anche alle definizioni, tanto nel civile che nel penale. Una riduzione della produttività espressamente spiegata nella "Relazione del Ministero sull’amministrazione della giustizia anno 2015" come conseguenza della "persistente riduzione del personale amministrativo". Per quanto dai numeri importanti, la riduzione delle pendenze va allora definita come "moderata" per quell’ambito di "possibilità" nello smaltimento dell’arretrato non esplorato per via di un calo di produttività del sistema rispetto agli anni precedenti il 2013. Produttività che, a onor di cronaca, resta altissima nel confronto internazionale. Resta il dato. Se nel dicembre 2013 le pendenze nel civile si aggiravano sui 5,2 milioni di affari, due anni dopo - dicembre 2015 - la platea si è sfoltita di un milione di procedimenti, a conferma di un calo costante a partire dal 2009, quando si era toccata la quota massima di 6 milioni, e con l’auspicio che possa verificarsi la previsione di chiudere il 2016 con quota 4 milioni di pendenze. A fine giugno - secondo l’analisi dei dati forniti dagli Uffici, raccolti ed elaborati dalla Direzione generale di statistica del ministero della Giustizia - il totale nazionale dei fascicoli pendenti risulta, al netto dell’attività del giudice tutelare, pari a 4.221.949 procedimenti. Più nel dettaglio, sono le iscrizioni a calare: i nuovi fascicoli risultano pari a 3.499.199 (rispetto ai 4.009.109 del 2014) e le definizioni pari a 3.809.596 (-315.373 rispetto all’anno precedente), dato significativo considerato che la produttività dei magistrati è superiore al numero delle iscrizioni annuali. Appare fin da subito evidente che la diminuzione delle pendenze è dovuta alla significativa riduzione delle cause in ingresso (pari a circa 3,5 milioni nello stesso periodo). Flessione nei vari uffici, mediazione con il segno più La riduzione si registra per ogni singola tipologia di ufficio, Corti d’appello, tribunali ordinari e dei minori e giudici di pace, mentre mostra un lieve incremento la pendenza della Cassazione, che cresce di 3.585 unità rispetto all’anno precedente. Il taglio più netto si osserva nelle Corti d’appello (-10,2%), mentre per i tribunali la riduzione è del -5,5%, stima che sale al -6,8% in materia commerciale. Elemento di interesse è lo "spostamento" all’esterno, con l’introduzione del nuovo sistema di rilevamento statistico datawarehouse, dei procedimenti presso il giudice tutelare: tutele, curatele e amministrazioni di sostegno hanno modalità di gestione che le rendono inadatte a essere qualificate come pendenze o arretrato - visto che restano aperte per tutta la vita del soggetto tutelato - e sono quindi indicate a parte, in una voce ininfluente per il calcolo delle pendenze. Si tratta di oltre 300mila affari in lavorazione, con un incremento di 29.820 unità rispetto al 2014. Lo smaltimento dell’arretrato riflette anche una restrizione dei tempi per arrivare a sentenza: nel tribunale si scende del 12,5%, in appello del 6,9%, del 7,6% nel contenzioso commerciale in tribunale. "L’incidenza sulla diminuzione della tempistica di trattazione delle cause è dato particolarmente significativo - si legge nella Relazione - dal momento che rappresenta l’elemento qualitativo nella risposta della giustizia per il cittadino, nonché l’indicatore chiave di valutazione per gli organismi internazionali", grazie al quale l’Italia è salita di 36 posizioni nel ranking mondiale del rapporto Doing Business 2016 della World (dalla 147a posizione alla 111a)". Alcune considerazioni specifiche - La deflazione su alcune specifiche categorie di procedimento conseguente a nuove disposizioni di legge è evidentissima nel caso dei nuovi fascicoli per separazione e divorzio consensuale. Il Dl 12 settembre 2014 n. 132, convertito dalla legge 162/2014, all’articolo 12 semplifica i procedimenti ammettendo che i coniugi - in determinate condizioni - possono concludere l’accordo presso gli uffici del Comune di residenza: una misura che ha "ristretto" di oltre ottomila unità il numero dei procedimenti iscritti rispetto al 2014 per le separazioni e di quattromila unità nel caso dei divorzi. E questo benché non accennino a calare gli "addii", come dimostra la sostanziale stabilità del numero di separazioni e divorzi giudiziali nel cambio d’anno. Il dato positivo è l’incremento della definizione per le questioni più "spinose": se sono 1.597 in meno le separazioni consensuali arrivate a chiudersi nel 2015 rispetto al 2014, si contano 1740 in più quelle giudiziali definite; un’altalena che si ripropone anche sul fronte divorzio, con un 2015 da 1517 procedimenti giudiziali definiti in aggiunta rispetto al 2014 e 1.057 consensuali definiti in meno sullo scorso anno. Un focus specifico merita la questione dei procedimenti inerenti il lavoro pubblico: salgono di 2.639 unità le iscrizioni rispetto al 2014, anche se in secondo grado il giudizio ha una seria battuta d’arresto già nell’accesso. Un trend contrario per le materie di lavoro in ambito privato che subiscono un drastico calo delle iscrizioni in primo grado ma rientrano nel trend "comune" in Corte d’Appello. Spazio alla mediazione - Aumento significativo nel 2014 dell’avvio di nuove procedure: un totale di circa 180mila mediazioni civili, molte delle quali obbligatorie ai sensi del cosiddetto "decreto del fare" (decreto legge 69/2013). Aumento che si conferma nel confronto tra le iscrizioni del II trimestre 2014 con lo stesso periodo 2015, pari al 21%. Costante anche il tasso di successo delle mediazioni con aderente comparso, pari al 24,4% nel 2014 e stabile sul 22,2% nel 1° semestre dell’anno appena concluso. Oltre all’obbligatorietà di esperire la mediazione, la legge 98/2013 ha introdotto la necessaria presenza degli avvocati per la controversia sulle materie obbligatorie, che già da prima era consistente. Nei procedimenti sulle materie volontarie, invece, il 2014 ha fatto registrare la presenza dell’avvocato nel 73% dei casi; nei primi sei mesi del 2015, il 78% delle mediazioni scritte registra la presenza dell’avvocato. A definire il maggior numero di mediazioni è la Lombardia, seguita da Lazio e Campania. Valle d’Aosta, Basilicata e Molise le regioni in coda nell’ideale classifica delle mediazioni riuscite. Il settore penale resta in equilibrio Come lo scorso anno, il numero complessivo dei procedimenti penali pendenti presso gli uffici giudiziari è rimasto sostanzialmente invariato, con un decremento del - 0,5%: aumentano le pendenze al dibattimento del 3,7%, diminuiscono del 5,9% presso l’ufficio Gip/Gup; le pendenze presso gli uffici di Procura della Repubblica hanno registrato un lieve aumento (+0,4%). Tutti gli uffici giudiziari giudicanti e requirenti di primo e secondo grado evidenziano una diminuzione delle iscrizioni (si veda per il dettaglio la tabella a pagina 17) ma, come spiega la Relazione stessa, in parte questo è dovuto al rallentamento fisiologico causato dal passaggio al nuovo sistema di registri Sicp. Se si prendono sotto esame i procedimenti definiti nell’anno giudiziario 2014/2015 dai pubblici ministeri, si evidenzia che l’azione penale è iniziata nel 40% dei casi, di cui circa il 35% trasmessi con citazione diretta a giudizio del tribunale monocratico, il 42% con richiesta di applicazione di riti alternativi e l’11% con trasmissione al Gup con richiesta di rinvio a giudizio. I tribunali, quindi, nello scorso anno hanno definito l’88% degli affari con sentenza di rito ordinario o alternativo. Mafie e corruzione dilaganti l’allarme dei giudici "prescrizione troppo breve" di Liana Milella La Repubblica, 1 febbraio 2016 C’è chi lo considera un rito frusto, ma le inaugurazioni dell’anno giudiziario rivelano il malessere criminale dell’Italia. La mafia sempre potente in Sicilia e Calabria, ma pure a Roma, la corruzione dilagante ovunque, i tanti morti sul lavoro (33 in Puglia), le troppe prescrizioni, l’endemica mancanza di personale, e quest’anno il boom delle indagini sulle banche e gli scandali delle "toghe sporche" tra Napoli e Palermo che spingono il Guardasigilli Orlando e il vicepresidente del Csm Legnini ad andare proprio a Palermo e a Caltanissetta per le cerimonie. Un bilancio diverso dal passato perché non c’è più la contrapposizione tra magistratura e politica. Restano le divergenze sulle singole norme, come sul reato di clandestinità che il procuratore di Palermo Lo Voi chiede di abolire. O sulla prescrizione che le toghe, come il Pg di Palermo Scarpinato, chiedono di bloccare o raddoppiare almeno per la corruzione. Ma le polemiche lasciano il campo ai "fatti", e non ce n’è uno che sia positivo. A cominciare dalle indagini sulle banche, 57 a Milano, boom di reati fallimentari a Siena, lo scandalo Banca Marche ad Ancora - "il più grave dopo i casi Sindona e Calvi" dice il pg Macrì - l’inchiesta per Banca Etruria ad Arezzo, per la rischiosità dei prodotti offerti alla clientela. Per l’evasione fiscale inchieste archiviate dopo la legge che aumenta la soglia da 50 a 150mila euro. Dice Lo Voi:, "Sono perplesso, era davvero necessaria?". Le toghe battono sulla corruzione. "In Germania 8mila detenuti per reati economici, in Italia solo 200" lamenta il pg Scarpinato che critica la prescrizione troppo corta e ne chiede il raddoppio. Orlando dice di sì, nonostante la rissa al Senato tra Pd e Ncd sul punto. Boom di prescrizioni ovunque, 30% in più a Roma (lo dice il pg Salvi), ma anche a Napoli e a Venezia (+49%). Gli avvocati a Roma accusano i magistrati, per i giudici invece è colpa loro e della prescrizione berlusconiana troppo breve. L’allarme mafia è pesante. A Roma "punta al controllo dei locali storici" (Salvi) e Mafia Capitale dimostra che "gli anticorpi non hanno funzionato". È sempre forte a Palermo e "pervade l’economia" (il pg Natoli), a Caltanissetta domina ancora "la vecchia Cosa nostra" (il pg Lari). A Milano la ‘ndrangheta "è definitiva" (il pg Alfonso). Le toghe si compromettono, come dimostra il caso Saguto. Legnini parla di una "brutta pagina", ma anche di "un’indagine coraggiosa". Orlando di una "politica timida e di leggi lacunose". Giustizia in affanno, troppo pochi i cancellieri che a Napoli si mettono di spalle quando parla il neo sottosegretario Migliore e levano pure un cartellino rosso. Giustizia "disarmata" per il pg di Venezia Condorelli. "Organico inaccettabile" a Milano. La coperta è corta, nonostante gli uomini in più dati da Orlando. Truffe degli statali tra sanità e appalti, in 10 mesi un buco da 4 miliardi di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 1 febbraio 2016 Appalti truccati, assenteismo e consulenze inutili: i dipendenti pubblici infedeli finiscono nel dossier della Guardia di Finanza per il 2015. Ormai si sfiorano i quattro miliardi di euro, cifra record di "buco" nei conti dello Stato. È la voragine creata dall’attività illecita di circa 7.000 dipendenti pubblici infedeli. Funzionari corrotti oppure impiegati che non hanno rispettato la legge nello svolgimento delle proprie mansioni e dunque hanno compiuto illeciti che vanno dalle omissioni agli abusi. Ci sono le truffe nel settore sanitario, i mancati controlli nell’erogazione di pensioni, indennità ed esenzioni, le procedure truccate per la concessione degli appalti. Ci sono gli appalti gonfiati e i medici assenteisti, le consulenze inutili e i doppi incarichi tra i casi più eclatanti scoperti dagli investigatori della Guardia di finanza. Sono gli ultimi dati relativi alle verifiche compiute nel 2015 a raccontare l’Italia dell’illegalità e degli sprechi che provoca danni alla collettività. Mostrando un andamento che inquieta: in soli quattro mesi, da giugno a ottobre dello scorso anno, la cifra contestata è salita di oltre 500 milioni di euro. Vuol dire oltre 100 milioni ogni trenta giorni a dimostrazione che molto ancora c’è da fare - soprattutto negli uffici pubblici più periferici - per stroncare il malaffare. Basti pensare che sono ben 3.590 le persone denunciate per aver compiuto reati nel settore delle gare pubbliche. La sanità "assente" - A Modena è stato denunciato un medico che - pur risultando in servizio - rimaneva in ospedale appena un paio d’ore. Da almeno cinque anni "la regolare presenza veniva garantita solo una volta a settimana" e per cercare di giustificarsi "ha portato i tabulati del marcatempo di un’altra struttura ospedaliera dove svolgeva attività libero professionale intramoenia". Gli sono già stati sequestrati 40 mila euro, ma i controlli sono tuttora in corso. A Imperia i dottori del dipartimento di Medicina legale "certificavano la morte delle persone pur non avendo effettuato alcuna analisi perché erano altrove". Sono decine i documenti falsi trovati nel corso delle perquisizioni. I farmaci inutili - La truffa scoperta a Milano nel giugno scorso era ben più articolata e ha provocato un danno immenso. In una struttura sanitaria convenzionata con il servizio nazionale "sono stati eseguiti oltre 4.000 interventi chirurgici in violazione delle norme di accreditamento relative alla presenza minima di operatori e anestetisti, nonché di impiego di medici specializzandi". L’azienda ha comunque "autocertificato il mantenimento dei requisiti richiesti per l’accesso al rimborso della prestazione sanitaria offerta, ottenendo indebiti rimborsi per oltre 28 milioni di euro". A Brindisi si è scoperto che la prescrizione di 15.541 farmaci per l’ipertensione era stata compiuta in maniera illecita. Sono 482 i medici denunciati per un danno alla Asl pari a 194 milioni di euro. Falsi moduli per l’Inps - Quello dei benefit percepiti grazie a certificazioni false è ormai un vero e proprio affare che coinvolge migliaia di persone in grado di contare sui dipendenti pubblici amici o parenti. A Potenza si è scoperto che molti anziani prendevano l’assegno sociale previsto per i residenti, pur avendo deciso di trasferirsi all’estero, grazie agli impiegati che avevano contraffatto i documenti. Soldi rubati: 259 milioni di euro. Addirittura 500 milioni di euro sono stati sottratti alle casse dell’Inps a Viterbo dove venivano "modificati i moduli per il riscatto della laurea o la ricongiunzione di periodi contributivi per ottenere indebitamente un notevole "sconto" sull’effettiva somma da versare all’Istituto previdenziale, per il riconoscimento di ulteriori periodi contributivi utili ai fini pensionistici". I doppi guadagni - A Potenza un dipendente del Comune svolgeva attività privata negli orari in cui avrebbe dovuto essere in servizio. Faceva il geometra. Compensi rubati: 70 mila euro. A Milano un dirigente della Regione truccava gli appalti e in cambio riceveva favori personali. L’ultimo, la ristrutturazione da favola del suo appartamento. Valore accertato: 150 mila euro. L’ex pg di Torino Marcello Maddalena "svuotare le carceri? è una scelta del legislatore" di Alessandro Mantovani Il Fatto Quotidiano, 1 febbraio 2016 Marcello Maddalena è stato procuratore capo e procuratore generale a Torino, dove un anno fa fece l’ultima relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario prima di andare in pensione. Più reati e meno arresti. La cosiddetta insicurezza percepita non dipende dai guasti del sistema giustizia? "Le possibilità di arresto e di misure cautelari detentive sono diminuite per effetto delle nuove normative, una scelta volta a ridurre la popolazione carceraria. Il sistema giudiziario ha fatto quello che gli ha consentito la legge". I detenuti dal 2010 a oggi sono diminuiti da 67 a 52 mila, andrebbe bene se funzionassero le misure alternative ma invece neanche il braccialetto elettronico... "Il carcere è l’extrema ratio per chi ha fatto una scelta di vita di carattere delinquenziale. La recidiva conta poco mentre dovrebbe contare parecchio. I reati predatori, più di quelli legati agli stupefacenti, sono tipici di chi ha fatto una scelta di questo tipo, in parte necessitata ma anche legata a un certo modo di vivere. Non può essere addebitato al sistema giudiziario, è stata una scelta del legislatore quella di restringere la custodia cautelare senza garantire maggiore celerità dei processi ed estendere misure alternative che non hanno la stessa efficacia dissuasiva e impeditiva". Quasi nessuno va in carcere per furto, non è così da sempre? "Molti furti sono a carico di ignoti, che poi sono recidivi non scoperti; la condanna definitiva arriva tardi, la misura cautelare si estingue presto. Qualche caso di pena mite rientra nella fisiologia del sistema ma certo non dipende dai magistrati". La prescrizione ne cancella migliaia. Che legge servirebbe? "La prescrizione ha due fondamenti: il primo è il venir meno dell’interesse punitivo dello Stato una volta esercitata l’azione penale (con la richiesta di rinvio a giudizio, ndr); l’altro è non mantenere l’indagato o l’imputato sulla graticola per dieci anni. Quindi non si può abolire la prescrizione. Ho una posizione intermedia. Sarebbe giusto interromperla alla sentenza di primo grado, ma anche farla decorrere non dalla commissione del reato, come oggi, ma dall’iscrizione nel registro degli indagati o dall’informazione rivolta all’interessato. Molti reati, specie di criminalità economica, vengono scoperti a distanza di anni. È ingiusto interromperla dopo l’esercizio dell’azione penale: un innocente accusato, poniamo, di abusi sui figli non può essere costretto ad attendere al l’infinito solo perché rinviato a giudizio". La convince l’idea di raddoppiare i termini di prescrizione per la corruzione e la concussione? "Quando ci sono di mezzo i soldi e atti contrari ai doveri d’ufficio, come nella corruzione e nella concussione, bisogna essere implacabili e si possono anche aumentare i termini di prescrizione". Immigrazione clandestina, perché la penalizzazione non basta di Cesare Mirabelli Il Mattino, 1 febbraio 2016 Considerare reato l’immigrazione clandestina costituisce uno strumento adeguato ed efficace per contenere e sanzionare il massiccio e caotico afflusso di stranieri e di verificare effettivamente se si tratta di rifugiati che hanno diritto di accoglienza e di asilo? Una risposta chiara a questo interrogativo è stata data dal presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio nella tradizionale relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario. Per sanzionare penalmente l’immigrazione clandestina, configurata come reato, "la risposta sul terreno del procedimento penale si è rivelata inutile, inefficace e per alcuni profili dannosa, mentre la sostituzione del reato con un illecito e con sanzioni di tipo amministrativo, fino al più rigoroso provvedimento di espulsione, darebbe risultati concreti". Le considerazioni non dissimili espresse da Carlo Nordio trovano autorevole conferma in una sede istituzionale. Non si tratta di una risposta "politica", ma piuttosto di una valutazione ancorata alla esperienza giudiziaria ed ai problemi che la configurazione di questa condotta come reato determina con e nel processo penale. Come imputato l’immigrato clandestino ha diritto ad esercitare fino in fondo il suo diritto fondamentale di difesa in giudizio, e per questo ha diritto a rimanere o rientrare nel Paese sino alla sentenza definitiva. Non solo, la veste di imputato, che anche egli assume, rende più difficile accertare e provare le responsabilità di chi ha organizzato ed eseguito il trasporto. Le dimensioni del fenomeno rendono del tutto inefficace l’obbligo di esercitare l’azione penale, pur intasando l’attività degli uffici giudiziari di frontiera. Non configurare la immigrazione clandestina come reato, come tale suscettibile di sanzione penale, non significa automaticamente "arretrare" nel contrasto alla illegalità ed alla tratta di esseri umani alla quale stiamo assistendo. Il timore di aprire le porte ad una massiccia e incontrollata invasione può, invece, avere effetti non voluti e perversi. E la minaccia della sanzione penale, prevista ma di fatto impossibile da comminare vale solo a dare una falsa soddisfazione a chi avverte questa paura. Al contrario: depenalizzare questo reato non farebbe venire meno la illiceità della condotta, e le sanzioni amministrative possono essere immediate, organizzativamente meno complesse e costose, in definitiva più efficaci della sanzione penale, tanto più se ne discende un provvedimento di espulsione. Lo strumento più complesso del processo penale, liberato dal peso eccessivo della miriade di processi avviati o da avviare nei confronti delle persone dirette, soccorse e sbarcate nel nostro territorio, potrebbe consentire di concentrare le forze per un più efficace contrasto nei confronti delle imprese criminali che gestiscono questo traffico. Del resto risponde al principio di adeguatezza ed efficacia della sanzione l’ampia depenalizzazione disposta nei giorni scorsi in altre materie. La stessa misura potrebbe riguardare il reato di immigrazione clandestina. Non solo. La depenalizzazione potrebbe essere accompagnata da altre misure dirette a fronteggiare un fenomeno non più individuale, quale si prefigurava con il reato di immigrazione clandestina, ma di grandi numeri, se non addirittura di massa. È l’esperienza che si va tentando anche in altri Paesi europei, e che dovrebbe portare alla convinzione che la immigrazione non è più un problema di singoli Paesi, quanto piuttosto una questione da affrontare in tutti i suoi aspetti con una azione comune a livello comunitario. Sardegna: Caligaris (Sdr); settimana "speciale"… con tre direttori per 10 istituti di pena Ristretti Orizzonti, 1 febbraio 2016 "Settimana speciale per il sistema detentivo dell’isola. Da oggi e per una settimana opereranno nei dieci Istituti penitenziari tre dei cinque Direttori in servizio. È l’effetto di qualche giorno di ferie di cui usufruiranno i responsabili delle Case Circondariali di Cagliari e di Alghero che saranno sostituiti rispettivamente dai colleghi di Isili e Sassari, questi ultimi però già con doppi incarichi. Una situazione inaccettabile anche perché la Sardegna è l’unica regione italiana a non avere neppure un vice direttore per ciascun Istituto". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, evidenziando che "il Dipartimento non può far ricadere su tre persone il lavoro di dieci, fermo restando il diritto alle ferie di chi è operativo, ma anche l’indispensabile presenza in sede di vice direttori che condividendo e conoscendo il programma dell’Istituto e i detenuti possano svolgere a pieno titolo un ruolo di supplenza". "Il tratto più sconcertante emerge osservando la bozza di decreto ministeriale relativo alla riorganizzazione degli Istituti e ai dirigenti. Guardando i dati - sottolinea Caligaris - emerge che in Sardegna, oltre all’accorpamento dell’Istituto "San Daniele" di Lanusei con quello di Badu ‘ Carros di Nuoro, sono previsti 13 vice Direttori, tre dei quali destinati alla Casa Circondariale di Cagliari-Uta. A quanto risulta però il primo progetto è già realtà, mentre di coloro che dovrebbero affiancare i colleghi titolari non vi è traccia. Si ha quindi quasi l’impressione che proprio dalla nostra isola sia partita la sperimentazione sui tagli all’organico dirigenziale in nome della spending review". "La prima settimana di febbraio vedrà per la prima volta in Sardegna in veste di Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Maurizio Veneziano. Una buona notizia per quanti, a partire dal Vice Pierluigi Farci, hanno dovuto per sei mesi gestire una situazione particolarmente gravosa. L’auspicio è che si trovino sempre le energie migliori per garantire ai lavoratori, ai detenuti e ai loro familiari - conclude la presidente di Sdr - strumenti per risolvere le questioni problematiche nell’ottica di un sistema finalizzato al recupero di chi ha sbagliato". Puglia: Osapp; carceri invivibili e pericolose, il ministro della giustizia Orlando ci ascolti corrieresalentino.it, 1 febbraio 2016 Da Foggia a Lecce i sindacati di polizia penitenziaria continuano a denunciare le falle del sistema carcerario pugliese, "ma chi decide sembra non prestare ascolto". "Le gravissime condizioni per la Polizia Penitenziaria della Regione Puglia, dopo gli eventi dell’evasione Perrone e della manifestazione regionale del 19 Dicembre 2015, non sono cambiate: a Lecce nulla e stato fatto e nessuna risposta e stata data sulle denunce fatte pervenire al premier Renzi, al ministro Orlando e a tutti i gruppi politici del Paese con una nota datata 14 Dicembre 2015" - spiega il segretario generale Osapp, Pasquale Montesano. Intanto, continuano in tutta la Puglia le aggressioni: proprio ieri mattina, ancora a Foggia un episodio di violenza nei confronti della polizia penitenziaria. "Un detenuto di origini tarantine mentre usciva dalla cella con inaudita violenza si e scagliato contro il poliziotto di servizio con calci e pugni tanto da far finire il collega al pronto soccorso per le cure del caso - afferma Montesano - Una situazione ormai drammatica e apparentemente senza via d’uscita: lavorare nelle carceri in condizioni così difficili non è possibile, a fronte di un sovraffollamento delle infrastrutture penitenziarie che, solo numericamente attenuato, ma non in Puglia, rispetto agli anni scorsi. Le carenze sono tante: oltre agli immobili ormai vetusti, il numero del personale è sempre più carente in quasi tutte le strutture e servizi. Tali condizioni, mai così rilevanti e gravi, benché generali e diffuse, assumono tinte ancora più fosche in regioni quali la Puglia in cui, alla pressoché completa assenza di prospettive e di risultati nell’Amministrazione penitenziaria si uniscono i rischi per la sicurezza interna ed esterna agli istituti connessi alla particolare tipologia della popolazione detenuta. Gli eventi critici di foggia i fatti di Bari (rissa tra Clan Rivali) del 16 gennaio u.s., e per quanto ci e dato conoscere il rinvenimento di un coltello di notevoli dimensioni presso la struttura barese, desta segnali preoccupanti per la lotta interna alla criminalità organizzata pugliese per la supremazia del territorio destabilizzando con grave rischio operatori amministrazione penitenziaria già in gravissima carenza organica. In tale prospettiva, stante anche l’assoluto "stallo" dal punto di vista politico e soprattutto amministrativo, nelle scelte essenziali e per la stessa sopravvivenza istituzionale del Corpo e dell’intera Istituzione, la Polizia Penitenziaria ha l’impellente esigenza di rompere il muro del pressapochismo e del silenzio che, rendendone vana l’azione quotidiana, ne opprime e svaluta la professionalità ed il ruolo di salvaguardia della legalità all’interno degli istituti penitenziari e nei servizi traduzioni e piantonamenti, in favore della sicurezza della Collettività nazionale che nella regione Puglia, ha raggiunto soglie di non tollerabilità". "Le conclusioni rispetto al disagio e ai rischi dei Poliziotti Penitenziari in servizio nelle carceri sul territorio nazionale - conclude Montesano - le lasciamo all’opinione pubblica ed ai politici realmente interessati a togliere la Polizia Penitenziaria dal gorgo incompetenza ed indifferenza che sta stravolgendo e la sta conducendo al completo disfacimento, tenuto conto che i più diretti responsabili quali il Capo dell’Amministrazione Consolo e il Guardasigilli Orlando continuano a chiedere maggiori sacrifici ai Poliziotti Penitenziari non concedendo in cambio né considerazione e né le maggiori risorse e la completa riorganizzazione di cui il Corpo abbisogna". L’Osapp promette manifestazioni di protesta e il coinvolgimento degli organi europei per i diritti e maggiore organizzazione della polizia penitenziaria. Firenze: la Presidente della Corte di appello Cassano "la pena serva a ritrovare se stessi" di Franca Selvatici La Repubblica, 1 febbraio 2016 "Rifuggire dalla pigrizia morale, uno dei morbi peggiori che possono affliggere un magistrato". La neo-presidente della corte di appello di Firenze Margherita Cassano ha esordito citando Piero Calamandrei. Il suo discorso alla inaugurazione dell’anno giudiziario è ruotato intorno al tema dei doveri dei magistrati e di tutti coloro che si occupano di giustizia. Con l’indicazione di alcune linee guida. Fare in modo che le pene per chi ha commesso reati siano "il tempo per ritrovare sé stessi e fare liberamente le proprie scelte per il futuro", perché tutti hanno "diritto alla speranza". Sperimentare "alcuni correttivi, a livello di auto-organizzazione, per ridurre i tempi dei processi, in attesa degli irrinunciabili interventi normativi". Ricordare che - come ha spiegato il Consiglio d’Europa - "l’efficacia dei sistemi giudiziari sta nell’emettere decisioni di qualità entro un termine ragionevole e sulla base di un apprezzamento equo delle circostanze" e che "la celebrazione del dibattimento a distanza di molto tempo può favorire… la celebrazione di pseudo processi mediatici… che calpestano la presunzione costituzionale di non colpevolezza, creando dei veri e propri "mostri mediatici"… con annullamento di ogni forma di pietas, che pure è uno dei pilastri della convivenza civile". Margherita Cassano si è insediata alla guida della corte d’appello il 26 gennaio, tornando dopo 18 anni nella città in cui ha studiato e in cui ha lavorato suo padre, il giudice Pietro Cassano, per lei "modello di riferimento morale e professionale" con altri magistrati, fra cui Gabriele Chelazzi, di cui è stata collega alla procura di Firenze prima di approdare al Csm e poi alla Corte di Cassazione. A Firenze ha lavorato sui primi grandi traffici di droga con due colleghi che ieri erano ad ascoltarla nell’aula grande del Palagiustizia: Silvia Della Monica, oggi presidente della Commissione per le adozioni internazionali, e Giuseppe Nicolosi, procuratore di Prato. Margherita Cassano è la prima donna a coprire il più alto incarico della magistratura toscana. Di fronte a lei erano sedute la prima donna presidente del tribunale di Firenze, Marilena Rizzo, la prima donna alla guida del tribunale dei minori, Laura Laera, e la prima donna alla guida del tribunale di sorveglianza, Antonietta Fiorillo. Tutte ben decise - a quanto pare - a tenersi lontane dalla "pigrizia morale" che - ha detto Margherita Cassano - "preferisce alla soluzione giusta quella accomodante, fa sfuggire al duro lavoro di scavo che deve affrontare chi vuole scoprire la verità, porta all’intorpidimento della curiosità critica e alla sclerosi della sensibilità umana, sostituisce la comoda indifferenza del burocratese alla pungente pietà che obbliga lo spirito a vegliare in permanenza". La "pungente pietà" è il sentimento che le ha ispirato il ragionamento sul carcere. "Occorre contrastare - ha detto - la tendenza a ritenere il carcere come unico presidio di sicurezza". È necessario, a suo giudizio, un serio impegno dei mezzi di informazione affinché la società possa conoscere la condizione carceraria: sarebbe "un forte antidoto ai populismi". "L’espiazione della pena nei nostri istituti - le ha fatto eco il procuratore generale facente funzioni Francesco D’Andrea - è ancora improntata ad un livello di sofferenza e di afflizione che - nonostante il lodevole prodigarsi della Polizia penitenziaria - va al di là del grado di patimento che è naturalmente connesso all’idea stessa di punizione. Sofferenza e afflizione drammaticamente denunciate dalle crude statistiche registrate nell’ultimo anno: 1.021 atti di autolesionismo, 137 tentativi di suicidio, 5 suicidi". Il sovraffollamento nelle carceri toscane si è ridotto. Il 30 giugno 2014 i detenuti erano 3.413, il 30 giugno 2015 erano 3.070, al di sotto della capienza regolamentare (3.140). Ma Sollicciano fa eccezione (capienza 494, presenze 693). E i tagli di bilancio sono pesanti, arrivando al 63,2% in meno per il mantenimento, l’assistenza e la rieducazione dei detenuti. "In uno Stato democratico e di diritto - ha ricordato D’Andrea - la cura e l’incolumità di chi è stato privato della libertà personale sono rimesse alla responsabile attività di quello stesso Stato che pure, legittimamente, quel sacrificio ha imposto". Napoli: D’Amato (Csm); toghe e questione etica, pronti a sfida anche al nostro interno La Repubblica, 1 febbraio 2016 "Il distretto di Napoli esce mortificato da questo 2015. Ci sono stati casi che hanno calato ombre e messo macchie sulla credibilità della magistratura. Ma per fortuna abbiamo al nostro interno gli anticorpi per intervenire". Antonio D’Amato, procuratore aggiunto a Santa Maria Capua Vetere e presidente della giunta dell’Anm non si nasconde, quando i cronisti gli chiedono delle vicende che hanno riguardato il giudice Anna Scognamiglio (indagata per le presunte manovre poste in essere dal marito per ottenere una nomina nella sanità campana sfruttando il ruolo della moglie, relatrice in due procedure sull’applicazione della legge Severino al governatore Vincenzo De Luca) Donato Ceglie (sotto inchiesta per i suoi rapporti con l’imprenditore dei rifiuti Sergio Orsi) e Ivana Fulco, trasferita d’ufficio per presunte ingerenze su una collega. "L’Anm è pronta a rilanciare la sfida etica. E in queste vicende il Csm è intervenuto tempestivamente", sottolinea D’Amato, che guida il "parlamentino" di giudici e pm composto da Monica Amirante, Giuliano Caputo, Francesco Chiaromonte, Pierpaolo Filippelli e Silvana Sica. Il pm Fabrizio Vanorio, che fa parte del comitato direttivo centrale dell’Anm, ricorda però che sul piano disciplinare "la Procura generale presso la Cassazione sembra agire a due velocità: è inesorabile con i ritardi, molto più lenta in altre circostanze". Nel suo intervento, anche il consigliere del Csm Francesco Cananzi, che ha preso la parola in rappresentanza dell’organo di autogoverno, ha ribadito "l’impegno del Consiglio, peraltro già dimostrato, nel verificare prontamente, anche in casi recenti, tutte le cause di opacità comportamentale e di incompatibilità che, in qualsivoglia modo, possano gettare ombre sull’indipendenza dei magistrati". Le toghe dunque sono pronte all’autocritica. Ma non rinunciano a puntare l’indice contro le criticità del sistema. C’è preoccupazione per il tribunale di Napoli Nord, il più giovane ufficio giudiziario d’Italia alle prese con gravi carenze soprattutto nell’organico del personale amministrativo. Gli sforzi dei magistrati, che ad esempio nel settore penale, come ha ricordato il presidente Elisabetta Garzo, sono riusciti a definire il cento per cento dei procedimenti collegiali, rischiano di essere vanificati dalla carenza di risorse. "Purtroppo eravamo stati facili profeti quando avevano lanciato l’allarme su Napoli Nord - commenta D’Amato - i colleghi sono costretti a lavorare in condizioni assurde. E presto cominceranno i maxi processi di camorra". Chiaromonte cita il paradosso della Procura di Napoli Nord: "Ha 25 magistrati su trenta. Tra poco arriveranno altri pm eppure il procuratore non può essere contento perché non ha personale amministrativo da affiancargli". Il presidente della sezione di Napoli Nord dell’Anm, Giuseppe Cioffi, invita a "prendere visione di questa realtà". Anche perché di questo passo, evidenzia Giuliano Caputo, "tra poco saremo al collasso". Alla politica, i magistrati chiedono di "scegliere, una volta per tutte, che cosa vuole davvero dalla giustizia", come afferma Monica Amirante, che aggiunge: "Il punto centrale deve essere la credibilità della giurisdizione. Invece siamo ancora fermi agli slogan e ai sacrifici umani, sia degli utenti della giustizia, sia di chi ci lavora. Dalla politica continuano ad arrivare messaggi schizofrenici". Il giudice Michele Ciambellini cita il caso della legge che sull’applicazione del braccialetto elettronico per i detenuti ai domiciliari: "La norma lo impone, ma il braccialetto non c’è". Il pm anticamorra Stefania Castaldi si dice "delusa da questa depenalizzazione. È un nulla di tutto. Siamo stanchi di annunci che partoriscono topolini, quando poi si sa che in campagna elettorale pagano solo sicurezza e immigrazione. Non è il carcere duro che rende sicura una città. Servono servizi e periferie più vivibile". Roma: il carcere di Santo Stefano, rudere di un sacrario, tornerà a vivere di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 1 febbraio 2016 Un luogo carico di memorie, simbolo della resistenza antifascista e degli ideali europeisti di Altiero Spinelli, che rischia di andare in malora. Il governo intende recuperarlo per farne un museo e se possibile un centro per stage universitari. Renzi promette 80milioni. Era tempo di fascismo e confino politico. Il povero secondino si ritrova su questo scoglio trasformato in carcere. E sbotta: "Ma dove mi hanno mandato? C’agg’ fatt’ ‘i male?". Guardie o ladri, assassini o perseguitati dal regime: nessuna colpa merita l’abbraccio soffocante di una cella a Santo Stefano, isolotto poco lontano di Ventotene. È tutto chiaro anche settant’anni dopo, di fronte a un rudere che toglie il fiato. La notizia è che il penitenziario uscirà dall’abbandono. Così almeno si spera, visti gli ottanta milioni di euro promessi da Matteo Renzi durante la visita. Ottanta milioni per ridare vita a muri e travi sfregiati dalla salsedine. Il ministero dei Beni culturali intende recuperare questo sacrario della resistenza antifascista, farne un museo della memoria e un altare del sogno europeista di Altiero Spinelli, che qui ha voluto essere sepolto. Se le risorse lo permetteranno, anche un centro per stage universitari in grado di formare la classe dirigente degli Stati Uniti d’Europa. Le erbacce del cortile hanno perso la battaglia con la targa di marmo che ricorda un prigioniero politico con un destino straordinario: "Fra queste mura - si legge - dove nell’Ottocento avevano sofferto i padri del Risorgimento, il regime fascista incarcerò Sandro Pertini, Presidente della Repubblica". Per paradosso, la struttura borbonica eretta nel 1797 regge meglio delle aggiunte architettoniche mussoliniane. Regge, ma rischia comunque di cadere a pezzi. Il corridoio che conduce alle celle è sporco e pieno di graffiti sulle pareti. Una porticina, poi si apre l’inferno di Santo Stefano: tre piani, tre gironi circolari fatti solo di angusti buchi di detenzione. Il modello è il teatro San Carlo di Napoli. Solo che il palcoscenico è affidato alle guardie carcerarie, mentre chi è detenuto non ha vista: l’intera struttura è come un’immensa catena dove il prigioniero può solo incrociare con lo sguardo una chiesetta al centro del cortile. Prima i nemici del Regno e gli assassini, poi i liberali e gli ergastolani, infine anarchici, comunisti, socialisti: per tutti c’era solo la messa del cappellano a scandire il tempo della pena. Il girone più alto è quello dei condannati politici e soffre sotto il peso di una tettoia costruita distrattamente durante il Ventennio. Dalla cella numero 32 è transitato proprio Sandro Pertini. Le porte delle celle sono sfregiate dalla ruggine. Una è addirittura storta, cadente. Come è possibile che la culla dell’Europa dei popoli, la terra di un manifesto tanto profetico sia ridotta così? Possibile, ma forse si volta pagina. Ristruttureranno le celle, il cortile, la struttura esterna. Combatteranno l’erosione del mare e del sole. Trasformeranno il casermone in una foresteria. "Ospiteremo studenti universitari per gli stage - promette Matteo Renzi, assieme al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini - e formeremo la classe dirigente dell’Unione europea dei prossimi decenni". Una scuola di alti pensieri, riprendendo la lapide a due passi dalla tomba dell’anarchico Gaetano Bresci. Il signor Fabrizio, che da vent’anni guida chiunque si avventuri fin qui, ci spera. Lui è memoria storica, custode autoproclamato delle rovine. Mostra un vecchio provvedimento di un giudice di sorveglianza contro Spinelli. I capi d’imputazione? "Possesso di carta e matita. Giochi non consentiti. Osservazioni sconvenienti. Possesso di fiammiferi bruciati per eseguire scritti non autorizzati. Tentativi di comunicazione con il compagno". Non possono restare solo macerie. Il popolo senza età del Paese vuoto di Ilvo Diamanti La Repubblica, 1 febbraio 2016 È il tempo della demografia. Argomento importante e discusso almeno quanto la democrazia. È sufficiente, a questo proposito, osservare le manifestazioni e gli avvenimenti che hanno mobilitato il Paese, in questa fase. In nome della famiglia e delle unioni civili. Delle adozioni e della maternità surrogata. Questioni di grande rilievo etico e politico. Ma, indubbiamente, anche "demografico". Come, a maggior ragione, le migrazioni che, da mesi, proseguono, dall’Africa e dal Medio Oriente. E premono alle nostre frontiere. È il tempo della demografia. Un tempo inquieto, pervaso di paure e tensioni. E grandi discussioni. In ambito politico, mediatico. E sociale. Perché la demografia è importante quanto la democrazia. I due piani: si incrociano e si condizionano reciprocamente. Basti pensare a come democrazie considerate all’avanguardia dei diritti reagiscano alle sfide demografiche. Ai movimenti migratori che "risalgono" da Sud verso il Nord. La Svezia: ha deciso di espellere 80mila immigrati. Di rimpatriarli, con voli speciali. Mentre la Finlandia intende seguirne l’esempio. Promette di rimandarne a casa almeno 20mila. In Danimarca, invece, il governo liberale, con il sostegno dell’opposizione socialdemocratica, ha deciso effettuare prelievi forzosi sui beni personali dei richiedenti asilo, per sostenere le spese di accoglienza. In Italia non sono state ancora prese decisioni di questo genere. Ma le tensioni e le discussioni politiche sono accese. Da anni. D’altronde, Lampedusa è stata, fino a poco tempo fa, la prima "porta verso l’Europa" dell’immigrazione in fuga dalla Libia. Prima che i flussi si spostassero verso la Grecia e la Turchia. Spinti dai conflitti con l’Is nell’area fra Siria e Iraq. Ma la "questione migratoria" ha continuato a essere agitata dagli "imprenditori della paura". Che alimentano la minaccia dell’invasione. Gli stranieri alle porte, che minacciano il nostro benessere. Il nostro futuro. Un argomento inquietante - e dunque attraente - in questi tempi inquieti. Noi, d’altronde, siamo un Paese in "transizione", sotto il profilo democratico (anche se la transizione, suggerisce Stefano Ceccanti, in un saggio in uscita per Giappichelli, sarebbe "quasi finita"). Ma in via di "estinzione" sotto il profilo demografico (come suggerisce il dossier del Foglio di lunedì scorso). I dati, al proposito, sono noti da tempo. Ma, di recente, appaiono perfino drammatizzati. Per la prima volta, dopo il biennio 1917-18, cioè dall’epoca della Grande Guerra, la popolazione residente in Italia, nel 2015, è diminuita. Di circa 150 mila unità, segnala il demografo Gian Carlo Blangiardo (sul portale neodemos.info). Perché sono aumentati i decessi, mentre le nascite hanno continuato a calare. E il contributo demografico degli immigrati si è molto ridimensionato, rispetto ad alcuni anni prima. La paura dell’invasione, dunque, contrasta con la realtà dei fatti. Ma anche con la posizione (e la percezione) dell’Italia, presso gli stranieri. Il nostro Paese, infatti, agli immigrati che arrivano appare prevalentemente un "luogo di passaggio". Una stazione provvisoria. Verso altre destinazioni, più ambite. D’altronde, i flussi migratori sono strettamente legati agli indici di crescita economica e dell’occupazione. Ma anche all’estensione del welfare. Condizioni favorevoli all’accoglienza, che, tuttavia, si stanno deteriorando ovunque, in Europa. E da noi in modo particolare. La nostra "demografia", dunque, soffre. Come la nostra economia e la nostra occupazione, che difficilmente avrebbero potuto svilupparsi, negli ultimi vent’anni, senza il "soccorso" degli immigrati. Noi, tuttavia, non ce ne accorgiamo. E soffriamo l’arrivo degli "altri". Il nostro declino demografico riflette, inoltre, l’invecchiamento. La popolazione anziana (da convenzione: oltre 65 anni), in Italia, costituisce, infatti, il 21,4% della popolazione. Il dato più alto in Europa, dove la media è del 18,5%. Accanto a noi, solo la Germania. Per avere un’idea della crescita, si pensi che, nel 1983, la quota di popolazione anziana, da noi, era intorno al 13%. Sul piano globale, l’Italia è già oggi il terzo paese per livello di invecchiamento, anche perché appena il 14% dei residenti è al di sotto dei 15 anni. D’altronde, noi invecchiamo in misura maggiore che altrove non solo per la caduta dei tassi di natalità e per l’aumento della mortalità, ma perché l’emigrazione colpisce anche noi. Sono partiti dall’Italia quasi 95mila italiani nel 2013 (secondo il Rapporto della Fondazione Migrantes), poco meno di 80mila nell’anno precedente. Molti più degli stranieri arrivati in questi anni. Si tratta, soprattutto, di giovani (fra 18 e 34 anni). In possesso di titolo di studio elevato. I nostri giovani, i nostri figli. Soprattutto se dispongono di un grado di istruzione elevato. E ambiscono a occupazioni adeguate. Se ne vanno. Praticamente tutti. Perché l’Italia non riesce a trattenerli. A offrire loro opportunità qualificanti. Così invecchiamo sempre di più. E ci sentiamo sempre più soli. Anche se ci illudiamo di restare giovani sempre più a lungo. Per sempre giovani. Basti pensare che (secondo un sondaggio dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos-Oss. Pavia e Fondazione Unipolis, di prossima pubblicazione) il 19% degli italiani pensa che la giovinezza possa durare anche oltre i 60 anni. Il 45% che finisca tra 50 e 60 anni. Io, che, a 63 anni compiuti, mi considero (almeno) anziano, senza rimpianti e, anzi, con una certa soddisfazione, per aver conquistato il "privilegio" di una maturità avanzata, mi devo rassegnare. Alla condanna di non invecchiare. O meglio (peggio...), di non diventare adulto. Una minaccia che, come hanno rammentato di recente Ezio Mauro (su Repubblica) e Gustavo Zagrebelsky (in un saggio pubblicato da Einaudi), incombe su di noi. In particolare, sugli italiani. Abitanti di un Paese che non c’è. In un tempo che non c’è. Per questo dovremmo fare appello alla demografia. Leggerne le indicazioni e gli ammonimenti. Ma per non estinguerci, per non finire ai margini, dovremmo davvero chiudere le frontiere. Verso Nord. Per impedire agli immigrati - come ai nostri giovani - di andarsene altrove. E di lasciarci "a casa nostra". Sempre più vecchi. Sempre più soli. Sempre più incazzati. Con gli altri. Ma, in realtà: con noi stessi. Migranti: Calais, viaggio al termine dell’Europa di Anais Ginori La Repubblica, 1 febbraio 2016 Curdi, iracheni, siriani ammassati in una landa desolata a quaranta chilometri dal porto, in attesa di raggiungere la terra promessa, il Regno Unito: "Non importa quanto sia pericoloso, i rifugiati sono pronti a tutto". Il nostro racconto da la "Jungle", il nuovo inferno dei vivi. A meno di due ore da Parigi si nasconde una vergogna per l’Europa. L’accampamento di migranti a Grande-Synthe è un’immensa cloaca in cui galleggiano tende e rifiuti. Il cartello all’ingresso annuncia la costruzione di un nuovo "eco quartiere". Immagini di villini a due piani, con viali alberati e parco giochi per bambini, un numero di telefono per comprare le nuove abitazioni. È l’unica traccia di una civiltà che sembra scomparsa, inghiottita nel fango. All’esterno i gendarmi controllano le borse dei profughi curdi, iracheni, siriani ammassati in questa landa desolata a una quarantina di chilometri da Calais. Qualche giorno fa c’è stata una sparatoria nella notte. Soffia un vento gelido misto a pioggia, l’aria è tesa. "Cosa siete venuti a vedere? Non siamo animali in uno zoo" dice un migrante che chiede di spegnere la telecamera. La presenza di giornalisti infastidisce, anche le Ong chiedono discrezione. Nell’accampamento entrano solo due organizzazioni internazionali, Médecins du Monde e Médecins Sans Frontières. "Di solito ci occupiamo di missioni in zone di guerra o paesi dove non c’è più uno Stato. Non avremmo mai pensato di dover intervenire in Francia, nel 2016". Angélique Muller, sguardo limpido e un viso pieno di lentiggini, è infermiera. Fino a qualche mese fa era in Centrafrica con Msf per organizzare una campagna di vaccinazioni. Ha lavorato in Etiopia, Congo, Liberia, Iraq, ma non ha mai visto niente di simile. Nei cinque ettari di terreno paludoso, a ridosso del mare, cercano di sopravvivere quasi duemila persone. La clinica mobile di Msf propone visite mediche tre volte a settimana dando la priorità ai bambini, che sono circa duecento. "Ci sono stati casi di rosolia, di scabbia. Le patologie più diffuse sono respiratorie e vivendo in queste condizioni è difficile guarire. La notte la temperatura scende anche a meno sei gradi". Una nuova giungla. Calais è diventata famosa per la "Jungle", così è stata ribattezzata la bidonville di migranti che sognano di andare nel Regno Unito. Con l’esodo di quest’estate e le misure di sicurezza volute dalle autorità inglesi, l’emergenza si è spostata un po’ più a nord sulla costa. Grande-Synthe è vicina a Dunkerque, dove i passeurs, i trafficanti, dicono sia ora più facile attraversare la Manica. Nell’ultimo anno venti migranti sono morti cercando di fare gli ultimi chilometri di un lungo viaggio iniziato nel Sud del mondo. Fino a qualche mese fa il tragitto clandestino avveniva soprattutto con i camion. Adesso i tir devono superare una barriera con sonde per rintracciare Co2 e battito cardiaco. Intorno alla zona portuale gli inglesi hanno sovvenzionato la costruzione di una recinzione di filo spinato alta cinque metri. La frontiera è sigillata. Le ultime morti sono avvenute dentro l’Eurotunnel: uomini che hanno tentato di agganciarsi ai convogli dei treni per Londra. L’accesso al traforo è stato circondato da un fossato pieno d’acqua, come nelle antiche cittadelle fortificate. "Non importa quanto sia pericoloso, molti migranti sono pronti a tutto" racconta Barbara Jurkiewicz, volontaria di Vie Active, associazione che distribuisce quattromila pasti a la Jungle e si occupa di assegnare i nuovi millecinquecento posti dentro ai container appena sistemati all’ingresso del campo. "È un rifugio che offriamo da cui si può entrare e uscire liberamente. Per i profughi è indispensabile sapere che se ne possono andare di notte, quando avvengono i passaggi clandestini nel Regno Unito" dice Jurkiewicz, grandi occhi azzurri e cascata di riccioli biondi. Nata a Calais ventotto anni fa, è cresciuta osservando dalle finestre i migranti accampati nei giardinetti sotto casa. Venivano dall’ex Jugoslavia, erano gli anni Novanta. La città del nord ha imparato allora a convivere con profughi di guerre lontane. A lungo i giovani di Calais continuavano a chiamare gli stranieri "kossovari", anche se poi sono diventati etiopi, afgani, iracheni, sudanesi, ceceni, eritrei, curdi. All’inizio degli anni Duemila la Croce Rossa aveva costruito un centro di accoglienza che è durato poco. L’allora ministro dell’Interno, Nicolas Sarkozy, aveva ordinato di smantellarlo perché "incitava gli immigrati a venire". I profughi si erano spostati in città, occupando vari palazzi, prima di essere di nuovo evacuati. Dieci anni fa è sorta l’immensa bidonville tra mare e boscaglia nella zona industriale. La "Jungle" è stata inutilmente distrutta più volte dalle autorità. Con l’emergenza di quest’estate, quando l’Europa ha scoperto il nuovo esodo alle porte, anche il governo socialista si è dovuto rassegnare a occuparsi di questo non luogo della disperazione. La popolazione della giungla è aumentata fino a cinquemila persone. La zona di container inaugurata nella bidonville due settimane fa è una prima concessione dello Stato. I funzionari dell’Office français de l’Immigration et de l’Intégration (Ofii) girano tra le baracche per convincere i profughi a spostarsi in centri di accoglienza per i richiedenti asilo. "Ma la maggior parte non vuole restare in Francia, spera ancora di poter andare nel Regno Unito. Cerchiamo di spiegare loro che si trovano in un’impasse" spiega Didier Leschi, direttore dell’Ofii. Angélique porta cibo, vestiti e coperte ai profughi della Jungle. È una delle tante volontarie di Calais che testimonia ancora solidarietà. "C’è questa leggenda degli immigrati violenti, ma sono una donna e vengo da anni nella giungla senza aver mai avuto problemi". La gente del Nord ha sempre avuto un cuore grande. I famosi "ch’tis", i terroni della Francia, hanno una tradizione prima comunista e poi socialista. Qualcosa però sta cambiando, e molto velocemente. Marine Le Pen ha rischiato di vincere la presidenza della regione un mese fa. In alcune città, come Grande-Synthe, il Front National ha superato il quaranta per cento. Sono anche nate alcune associazioni anti-immigrati, come "Calaisiens en colère" e "Sauvons Calais" con militanti xenofobi che si fronteggiano con i No Borders, movimento di anarchici soprattutto tedeschi e olandesi insediati nella Jungle che portano aiuto ai profughi e organizzano blitz di rivendicazione spesso violenti. Il sindaco Natacha Bouchart ha chiesto di mobilitare l’esercito dopo che una manifestazione di migranti è sfociata nell’assalto ai traghetti. Calais è il capolinea dell’Europa. È anche un viaggio nel futuro di un continente che pensa di risolvere il problema dell’immigrazione alzando nuove barriere. Se e quando finirà Schengen, altre giungle nasceranno alle frontiere. "Per noi il lavoro è molto frustrante" confessa Angélique Muller di Msf. "Sappiamo che la soluzione può arrivare solo dai governi". A fine febbraio sarà inaugurata una tendopoli a un chilometro dalla cloaca di Grande-Synthe. L’organizzazione fondata durante la guerra in Biafra da un gruppo di medici tra cui Bernard Kouchner ha deciso di investire oltre due milioni di euro per dare rifugio a millecinquecento persone. Sarà un campo profughi come quelli che si vedono accanto alle zone di guerra. In quarant’anni di attività, Msf non ha mai dovuto fare niente di simile in Francia. "L’abbiamo concepito come un intervento temporaneo, ma potrebbe durare più a lungo" ammette Muller, capo del progetto. È un crudele gioco dell’ipocrisia: "Continuando a costruire muri in Europa aumenteranno soltanto le vittime". In primavera, Angélique prenderà qualche settimana di riposo. Di solito, quando finisce una missione deve fare un lungo volo. Questa volta, per tornare a casa a Nancy, le basterà prendere un treno. Diecimila profughi minorenni scomparsi dopo l’arrivo in Europa di Vittorio Sabadin La Stampa, 1 febbraio 2016 L’Europol: potrebbero essere in mano ai trafficanti. In cinquemila spariti dall’Italia. Le agenzie europee frenano: moltissimi si dileguano e scappano poi verso Nord. Almeno 10.000 bambini emigrati in Europa da soli sono scomparsi nel nulla. La metà di questi minori, 5.000, sono spariti mentre si trovavano in Italia e di un altro migliaio non si hanno più tracce in Svezia. Lo ha detto il capo dello staff di Europol, Brian Donald, all’"Observer" di Londra, aggiungendo di temere che i bambini scomparsi siano stati sequestrati da una struttura criminale per avviarli alla prostituzione o alla schiavitù. Donald ha aggiunto che in Germania e Ungheria sono stati arrestati molti criminali legati al traffico di esseri umani, che ora si sarebbe concentrato sulle centinaia di migliaia di disperati giunti in Europa. Secondo l’organizzazione umanitaria "Save the Children", nel 2015 sono arrivati nel continente 26.000 bambini non accompagnati. Dopo la loro identificazione nel paese d’arrivo, molti di loro sono scomparsi. "Non tutti - ha detto Donald - sono finiti nelle mani di criminali. Alcuni sono stati affidati a membri della loro famiglia. Ma non sappiamo dove sono, che cosa stanno facendo e con chi stanno". La sorte dei rifugiati minorenni non accompagnati sta diventando uno degli aspetti più problematici della crisi dell’immigrazione. "Save the Children" ha valutato che il 27% del milione di rifugiati dello scorso anno aveva meno di 18 anni: complessivamente si tratta di 270.000 bambini e ragazzi di cui non è sempre possibile seguire gli spostamenti. Ma fonti delle agenzie europee che indagano sui traffici dell’immigrazione hanno precisato a "La Stampa" che la situazione potrebbe non essere così drammatica come Europol e "Save the Children" la dipingono. Ormai, si fa osservare, quando arrivano alle frontiere molti rifugiati dichiarano di essere siriani e minorenni per ottenere una corsia preferenziale nella richiesta di asilo. Europol, che non dispone di un vero e proprio rapporto sulla scomparsa dei bambini, elabora in parte le sue valutazioni su informazioni che riceve da Frontex, che registra i nuovi arrivati sulla base di quanto loro stessi affermano, senza alcuna possibilità di verifica. Il numero dei minori immigrati potrebbe essere dunque largamente inferiore, e la maggior parte dei "bambini" di cui si parla hanno 15 o 16 anni, un’età in cui, crescendo a Damasco o a Raqqa, si è già adulti. Quelli più piccoli spesso sono accolti da lontani parenti e "spariscono" dunque in una nuova famiglia. Resta il fatto, osservano le fonti, che l’Italia è il Paese che controlla di meno i movimenti degli immigrati, anche perché molti dei rifugiati hanno interesse a fare perdere le proprie tracce. Il loro obiettivo è andare a Nord in luoghi come la Svezia, che concede asilo ai minori subito dopo averli identificati o in Gran Bretagna, che ha appena deciso di accogliere più minori dalle zone di guerra. Europol ha poi molti dirigenti che provengono dai servizi britannici, ha un buon rapporto con i giornali di Londra e appoggia la nuova National Crime Agency, incaricata di combattere la criminalità organizzata e di proteggere i confini del Regno Unito. E i soldi che costa al governo vanno giustificati. Germania: la leader della destra tedesca "la polizia spari ai profughi" di Danilo Taino Corriere della Sera, 1 febbraio 2016 Petry guida gli anti immigrati, ormai terzo partito. Il vicecancelliere Spd: vanno sorvegliati, come i neonazisti. Profughi, profughi, profughi. Sembra non esserci altro, da mesi, in Germania. Ieri, l’indignazione ha raggiunto livelli elevati per ciò che ha sostenuto Frauke Petry. In un’intervista per radio, la leader del partito anti immigrati Alternative für Deutschland (AfD) aveva detto che le guardie di confine "devono prevenire l’attraversamento illegale delle frontiere e se necessario anche usare armi da fuoco". Questa la sua idea per "prevenire" che gli illegali e i non aventi diritto di asilo entrino in Germania. In Europa, la sua proposta non manca di sostenitori: ritengono che la minaccia delle armi sarebbe un disincentivo a entrare nel continente. In Germania ha però provocato soprattutto reazioni forti. Il vicecancelliere e leader dei socialdemocratici Sigmar Gabriel ha detto al quotidiano Bild che i dirigenti dell’AfD non dovrebbero essere ammessi a parlare nelle radio pubbliche: piuttosto, di loro dovrebbero occuparsi "i servizi di sicurezza". Cioè andrebbero trattati come la Germania fa con i neonazisti: sorvegliati continuamente dall’intelligence. Il divieto di parlare sui media pubblici non vale - ha chiarito Gabriel - "per richieste bizzarre, come l’invito di Petry a tutte le donne di avere almeno tre figli. È che la signora vuole che si spari a rifugiati disarmati". Molti altri politici e i capi della polizia hanno condannato le affermazioni. Anche perché non vengono da una militante isolata: nei sondaggi più recenti, l’AfD è data come terzo partito, tra il 10 e il 12%, enormemente cresciuta proprio grazie alle sue posizioni anti immigrati. Molti pensano che si tratti di una bolla destinata a sgonfiarsi quando la crisi dei rifugiati sarà meno acuta: lo ha per esempio sostenuto Peter Altmaier, capo della cancelleria, l’uomo forse più vicino a Angela Merkel. Il punto interrogativo è che non si sa quando la crisi recederà. Interessante che l’AfD tenda ad avere più seguaci negli Stati ex socialisti della Germania Est (Ddr) che nell’Ovest. La stessa Petry è nata a Dresda in piena Guerra Fredda. "Le sue proposte ricordano gli ordini di sparare nella Ddr", ha detto il capo dei parlamentari socialdemocratici, Thomas Oppermann: l’ultimo leader che ordinò di sparare su persone disarmate fu Erich Honecker, appunto il capo della Germania Est. Sul tema rifugiati, in effetti, la sensibilità dei cittadini dei Paesi ex socialisti dell’Europa dell’Est sembra in generale diversa, decisamente più chiusa, di quella dei cittadini dell’Ovest: il minore benessere probabilmente conta ma anche la cultura diffusa e la narrazione accomodante del proprio passato nazionale hanno un peso. Frau Merkel continua a cercare di abbassare il livello di preoccupazione dei tedeschi. Sabato ha sostenuto che la maggior parte dei rifugiati lascerà la Germania una volta che la situazione in Siria sarà pacificata. Così successe per i profughi dalla Jugoslavia negli anni Novanta: il 70% tornò a casa. La situazione siriana però è diversa: la crisi andrà avanti anche dopo la sconfitta dell’Isis, tra l’altro in un Paese distrutto anche dal punto di vista fisico. Inoltre, la rassicurazione della cancelliera ha il rischio serio di togliere l’attenzione dalla necessità di integrare i profughi, in attesa che se ne vadano. È la Germania alle prese con la più grande sfida dal dopoguerra. Siria: l’attentato al santuario sciita di Zeinab è una minaccia per gli anti-Assad di Guido Olimpio Corriere della Sera, 1 febbraio 2016 Agli inizi del conflitto siriano, gli iraniani hanno giustificato il loro intervento al fianco del regime con uno slogan religioso: siamo qui per difendere il santuario sciita di Zeinab. Un pretesto, una scusa, una schermo, ma che simboleggia l’importanza del luogo sacro vicino a Damasco. Un valore che va ben oltre i confini della Siria. Per questo l’Isis ha deciso di colpirlo in modo devastante con un’azione articolata. Prima l’autobomba, quindi la coppia di kamikaze per essere sicuri di provocare un alto numero di vittime. L’attentato, nell’orrore quotidiano di questa guerra infinita, ha molti messaggi. Il primo concerne il momento: lo Stato Islamico agisce mentre a Ginevra la diplomazia internazionale cerca di lanciare - con poche speranze - una trattativa. Per i jihadisti in nero è il modo per ribadire la lotta ad oltranza in un confronto più ampio. E questo porta al secondo elemento, la rivalità regionale che oppone i sunniti agli sciiti, battaglia che ha nella crisi siriana uno dei suoi campi. Il Califfo vuole spargere settarismo, intende cancellare fisicamente gli avversari, cerca di negare loro spazi e diritto di culto. Una risposta anche alla presenza massiccia di miliziani legati all’Iran: iracheni, afghani, libanesi diventati la carne da cannone agli ordini di Damasco. Il loro sacrificio - non senza ipocrisia - è dedicato a Zeinab. Il terzo aspetto è militare. Lo Stato Islamico, secondo fonti americane, ha perso in Siria il 5% di territorio e in Iraq il 40, è sotto pressione su molti fronti, anche se è ben lontano dalla sconfitta. Al Baghdadi ha bisogno comunque di sorprendere, di dimostrare la sua abilità nel muovere e in profondità. Il massacro deve incutere paura tra i civili, sottolineare che il regime - nonostante il massiccio appoggio della Russia - non sarà mai al sicuro, incapace persino di proteggere siti di grande valore. Assad incassa il colpo, rapido nell’usare la strage per accusare anche gli altri oppositori di collusione con il terrorismo. E tutto questo in una fase critica. L’ennesima prova di come l’Isis, oltre ad essere una macchina di morte, sia una minaccia per quanti si sono ribellati al potere oppressivo del clan assadiano. Siria: sul tavolo il nodo del destino di Assad all’ombra della sfida tra Teheran e Riad di Bernardo Valli la Repubblica, 1 febbraio 2016 La rivalità tra sciiti e sunniti si è riaccesa nel Medio Oriente che sta ridisegnando i confini tracciati dalle potenze coloniali. È cominciata male la conferenza sulla pace in Siria. Alla seduta inaugurale di venerdì scorso, al Palazzo delle nazioni di Ginevra, il diplomatico italo-svedese Staffan de Mistura si è trovato davanti soltanto i governativi di Damasco. I ribelli raccolti nell’Alto comitato per i negoziati (Hcn) erano rimasti a Riad, in Arabia Saudita. Dove dichiaravano che per sedersi allo stesso tavolo con gli avversari esigevano come condizione preliminare la cessazione dei bombardamenti sulle popolazioni civili e l’invio di aiuti nei centri isolati e assediati dai governativi. Poi si sono affidati alla risoluzione sulle misure umanitarie adottata in dicembre del Consiglio di Sicurezza, e hanno raggiunto Ginevra. Ma si sono ben guardati dal raggiungere il Palazzo delle nazioni, dove li attendevano gli uomini di Damasco. Sono rimasti nei loro alberghi. Con Staffan de Mistura che faceva la spola tra gli uni e gli altri, scandendo puntualmente annunci ottimistici. I quali suonavano come esortazioni. Se la situazione dovesse protrarsi a lungo la conferenza inaugurata e mai cominciata potrebbe risultare una bolla di sapone. È quello che pensa uno dei protagonisti, assente dai negoziati, ma ben presente tra le quinte. Il presidente iraniano Hassan Rouhani è scettico. In Siria ci sono tanti gruppi in guerra con il governo, ma anche tra di loro. Sparano sugli uomini di Bashar Al Assad, il nemico comune, ma si uccidono anche tra di loro. Le ingerenze internazionali non si contano. E i mercanti d’armi, spesso appartenenti a paesi professori di morale, fanno ottimi affari. Al di là delle esitazioni fra uomini che si uccidono da cinque anni (circa trecentomila morti) e che devono compiere un comprensibile sforzo per trovarsi faccia a faccia con gli assassini, esiste un problema essenziale e personale: quello di Bashar Al Assad. Il raìs di Damasco e prima di lui il padre Hafez, un generale d’aviazione che prese il potere nel 1970, hanno ucciso decine di migliaia di avversari. L’ordine e un certo successo economico sono costati sangue e prigione. Ma l’insurrezione iniziale contro la dittatura, sulla scia delle "primavere arabe", ha provocato l’arrivo in Siria di gruppi salafiti, jihadisti, o ex soldati dell’iracheno Saddam Hussein, appena sconfitto dagli americani, che hanno dato vita a un mosaico di movimenti spesso rivali. Si è formato un Al Qaeda siriano (Al Nusra) e lo Stato islamico ha esteso le sue zone di controllo in punti della valle del Tigri e dell’Eufrate, diventando un "califfato" sunnita fanatico sul piano religioso e intransigente verso l’"eresia" degli sciiti. Al Qaeda e lo Stato Islamico, e altri gruppi minori giudicati terroristi sono esclusi dall’Alto comitato per i negoziati ammesso alla conferenza di Ginevra. Ma le altre formazioni sono influenzate più o meno direttamente dalle potenze della regione. Alle spalle dei partecipanti alla riunione vi sono le due grandi coalizioni. L’Iran di Rouhani, insieme alla Russia di Putin e al fragile governo dell’Iraq (con l’importante appendice degli Hezbollah libanesi) sono apertamente in favore di Bashar Al Assad. E i loro soldati combattono insieme all’esercito di Damasco. È l’alleanza sciita, alla quale partecipa la Russia, tradizionale alleata della Siria, con la quale confina il Caucaso abitato da musulmani. Inoltre il porto siriano di Tartus, sul Mediterraneo, è da tempo un attracco ospitale per la flotta russa ansiosa di raggiungere i mari caldi. Putin ha esteso la sua presenza a tutta la zona di Latakia, dove sulle alture vicine, abitano gli alawiti, nucleo forte del regime di Damasco. La fine di Assad provocherebbe lo smarrimento tra i suoi seguaci, in particolare nella setta minoritaria degli alawiti, diventata potente negli ultimi decenni. La conferenza di Ginevra ha come tema principale quello della transizione. Come rimuovere Bashar Al Assad dal potere? La coalizione dominata da iraniani e russi ritiene che con il recente intervento militare di Putin il raìs di Damasco si sia rafforzato. Ed è quel che pensano anche molte capitali occidentali un tempo decise nel condannare il "boia Assad", ritenuto adesso un elemento capace di portare la stabilità e arginare, in quanto "laico", il fanatismo religioso. L’accordo sul nucleare iraniano, che ha ridato forza e prestigio a Teheran, ha rafforzato questa tesi. Gli ayatollah giudicano essenziale che un loro alleato (alawita, quindi appartenente a una religione alleata degli sciiti) governi a Damasco. La capitale siriana dà una continuità geografica a un asse sciita che va da Teheran a Beirut, dove gli Hezbollah sono alleati sicuri, passando da Bagdad e appunto da Damasco. Non rivale, ma concorrente, è l’altra grande coalizione guidata dagli Stati Uniti, con la Francia, la Gran Bretagna e altri paesi occidentali. E tra quelli mediorientali l’Arabia Saudita, principale rivale dell’Iran e campione del campo sunnita. La tenzone tra le due massime comunità dell’Islam (gli sciiti sono valutati il 20 per cento del mondo musulmano contro l’80 per cento dei sunniti, ma sono concentrati in Medio Oriente) non ha sempre un carattere strettamente religioso. Riguarda piuttosto il potere. L’influenza nella regione. La rivalità si è riaccesa in un Medio Oriente che sta ridisegnando i confini tracciati dalle potenze coloniali (Inghilterra e Francia) alla fine dell’Impero ottomano dominante. Il micidiale gioco siriano è intricato. L’aviazione russa colpisce in particolare alcuni ribelli, ma non quelli che alimentano la lotta intestina tra i gruppi dell’opposizione. Risparmierebbe lo Stato islamico, ad esempio, che frena l’azione delle altre formazioni anti-Assad. Mentre la coalizione guidata dagli americani picchia sullo Stato islamico. È una complicata politica attuata con le bombe. Un’azione altrettanto ambigua risulterebbe quella saudita. Alcune comunità del regno non lesinerebbero gli aiuti allo Stato Islamico al quale le forze reali non concedono tregua. In sostanza una coalizione, quella russo-iraniana, è fedele a Bashar Al Assad. Se transizione ci deve essere, va realizzata attraverso una procedura che possa salvare il regime di Damasco. Il suo crollo lascerebbe il paese in preda a gruppi fanatici. L’Arabia saudita, e con essa i ribelli dell’Alto comitato per i negoziati, vogliono invece una rapida fine di Assad. Esigono una procedura che non gli sia favorevole. Quella di Ginevra, non ancora veramente cominciata, è una conferenza indispensabile della quale, però, non si riesce a immaginare la conclusione. Francia: grazia per Jacqueline, uccise il marito violento e diventò un simbolo di Anais Ginori La Repubblica, 1 febbraio 2016 Le associazioni femministe la chiamavano solo per nome, comando lo slogan "Je suis Jacqueline". Non era più una delle tante storie di cronaca di violenza domestica, ma un simbolo. Jacqueline Sauvage, 66 anni, ha ricevuto ieri la grazia presidenziale dopo che era stata condannata a 10 anni di reclusione per aver ucciso il marito: un uomo che la maltrattava, abusando sessualmente di lei e dei figli. Un inferno nel quale Sauvage ha vissuto per 47 anni fino a una sera del 2012 quando ha ucciso il marito con un fucile da caccia. I colpi erano stati sparati alle spalle. I giudici non avevano riconosciuto la legittima difesa. Per Sauvage si è mobilitato il mondo politico e della cultura e la petizione per chiedere la sua liberazione ha raccolto oltre 400mila firme. Alla fine Francois Hollande ha ricevuto le figlie della donna tré giorni fa, promettendo di prendersi "il tempo della riflessione". Da quando è stato eletto, nel 2012, ha usato la grazia solo una volta, per la liberazione di uno dei più vecchi detenuti del paese. La decisione dell’Eliseo è stata annunciata a sorpresa ieri sera con un comunicato: "Situazione umana eccezionale". Il comitato che ha sostenuto la domanda della grazia ora chiede una riforma della legge sulla legittima difesa con maggiori attenuanti per le vittime di abusi. Arabia Saudita: arrestati 33 presunti terroristi, ci sono anche nove americani di Maurizio Stefanini Libero, 1 febbraio 2016 Ci sono anche nove cittadini americani tra i 33 che in Arabia Saudita sono stati fermati con l’accusa di terrorismo. Quattro tra di loro sono finiti in manette lunedì, e gli altri cinque negli ultimi quattro giorni. Tra gli altri ci sono 14 sauditi, tre yemeniti, due siriani, un indonesiano, un filippino, un kazako, un palestinese e un cittadino degli Emirati Arabi Uniti. Le generalità non si conoscono ancora: l’informazione viene dal sito Saudi Ga-zette, che cita una fonte anonima. Non è neanche chiaro se gli accusati siano connessi con lo Stato Islamico, che dall’anno scorso ha iniziato a prendere di mira il Paese con un’ondata di attentati sanguinosi, che hanno provocato una cinquantina di morti. Dal 2014 l’Isis è stato dunque dichiarato organizzazione terrorista, e centinaia di suoi sostenitori sono stati arrestati. L’Arabia Saudita è però un Paese autoritario, su 27 milioni di abitanti ha 9 milioni di residenti stranieri e due milioni di migranti illegali, le locali leggi sul terrorismo hanno definizioni piuttosto ampie, e dunque gli arrestati potrebbero essere molte cose. Adepti di Isis o al-Qaida, ma anche attivisti per i diritti umani o la democrazia, o lavoratori stranieri che hanno provato a protestare. La Saudi Gazette ha riferito in compenso che è stato identificato il kamikaze che venerdì nell’Est ha attaccato la moschea sciita Al-Ahsa, provocando 4 morti e 36 feriti. Si tratterebbe di un saudita di 22 anni di nome Abdulrahman al-Tuwaijri, mentre un altro aggressore rimasto ferito è stato arrestato. Aveva addosso a sua volta un giubbotto caricato di esplosivo e bombe a mano, e sono stati i fedeli sciiti della moschea sotto attacco ad immobilizzarlo dopo che aveva iniziato a sparare loro addosso. In precedenza l’Isis in Arabia Saudita aveva colpito altre moschee sciite, con due attentati esplosivi e due attacchi all’arma da fuoco. Ma se l’era presa anche con una moschea sunnita, notoriamente utilizzata da membri dei servizi di sicurezza. Piuttosto che chiarire il quadro, però, l’ulteriore notizia lo complica. Vuol dire che anche i 33 arrestati sono coinvolti in una trama simile a quella del kamikaze? Oppure il fatto che le due informazioni siano date per separato indica appunto che i 33 sono cosa diversa rispetto all’attività dell’Isis? L’ambasciata degli Stati Uniti è stata ovviamente subito interpellata dai media, ma nell’immediato non ha dato alcuna risposta. Il clero saudita bolla a sua volta i terroristi sauditi come "kharigiti": un’etichetta spregiativa che in realtà indica però la terza componente dell’Islam, distinta sia da sunniti che da sciiti, e che dunque contribuisce solo a fare ulteriore confusione. Si sa tuttavia che negli ultimi tre mesi altri quattro cittadini statunitensi era stati arrestati in Arabia, e in questo caso l’accusa è stata chiaramente di essere in contatto con l’Isis. Egitto: arrestato il vignettista anti-Al Sisi con 1,6 milioni di amici su Facebook di giordano stabile La Stampa, 1 febbraio 2016 Blitz della polizia nelle sede del giornale: il giovane era un punto di riferimento per l’opposizione laica. Le sue vignette corrosive circolavano su Facebook e Islam Gawish, con i suoi 1,6 milioni di amici era un punto di riferimento per l’opposizione laica in Egitto. Il suo arresto, con un raid della polizia nella sede del giornale online dove lavorava, è stato quello che ha fatto più clamore nell’ondata repressiva cominciata nei giorni precedenti il 25 gennaio, anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir che portò alla caduta del presidente Hosni Mubarak. Il presidente Al Sisi ha cercato così di evitare che l’anniversario si trasformasse in una protesta di massa contro di lui ma ha preso di mira proprio uno dei canali, in social network che durante la Primavera araba erano stati la punta di lancia della ritrovata libertà di espressione. Islam Gawish ha 1,6 milioni di followers su Facebook ma non è il primo a essere preso di mira. Lo scorso ottobre un tribunale militare ha condannato a tre anni di carcere Amr Nohan, un 22enne laureato in giurisprudenza che aveva inviato alla sua pagina di Facebook un’immagine che raffigurava Sisi con le orecchie da Topolino. Nelle ultime settimane, le autorità hanno arrestato cinque persone accusate di gestire centinaia di pagine Facebook vicine ai Fratelli musulmani e che volevano organizzare proteste il 25 gennaio. Gawish aveva ultimamente preso di mira il parlamentare Mortada Mansour, per il linguaggio scurrile e scoppi d’ira. E aveva mostrato Mansour, che è a capo commissione parlamentare per i diritti umani, in una vignetta, in piedi accanto a un torturatore mentre gli consigliava di scatenarsi la sua vittima "gentilmente". Romania: 30 giorni di carcere in meno a chi pubblica un libro, ma il governo dice stop eastjournal.net, 1 febbraio 2016 Il governo di Dacian Ciolos ha deciso, come dichiarato dal ministro della Giustizia Pruna, di presentare un’ordinanza per abrogare la legge che consente a chi ha subìto una condanna di pubblicare libri e di ottenere con questi una riduzione della pena detentiva. La scelta, resa pubblica mercoledì 13 gennaio, sembra voler porre rimedio ad una situazione complessa ed in netto contrasto con il proposito di estirpare la corruzione dalla società romena. La norma. Risalente all’epoca comunista, la legge consente a chi ha subìto una condanna di ridurre ditrenta giorni la pena detentiva per ogni libro (scritto durante il periodo trascorso in carcere) pubblicato da riviste scientifiche o da un research body. Secondo quanto affermato da fonti governative, sarebbero trecentoquaranta i lavori pubblicati nel 2015 mentre circa novanta negli anni precedenti; cifre rilevanti che hanno portato il governo a prendere una posizione sull’argomento. I casi. Tra i casi emblematici sembra soprattutto opportuno citare George Becali: ex imprenditore, proprietario di una squadra di calcio, politico e membro del parlamento europeo. Giudicato colpevole per tangenti ha visto la sua condanna a quarantadue mesi ridotta di cinque (è stato scarcerato lo scorso aprile) per aver pubblicato cinque libri tra i quali "Monte Athos, terra natìa della Chiesa Ortodossa". Non solo, anche Dan Voicolescu, ex leader del partito conservatore romeno ed alleato dell’ex premier Victor Ponta, rientra tra coloro che hanno visto la loro condanna ridotta grazie alla pubblicazione di libri. Condannato a dieci anni di carcere ed arrestato nel 2014 per riciclaggio, ha visto pubblicati ben dieci suoi lavori in diciotto mesi, cifra che gli ridurrebbe di trecento giorni la pena detentiva. Anche l’ex primo ministro Adrian Nastase, condannato a due anni per aver ricevuto fondi illegali durante la campagna elettorale, è tra coloro che hanno beneficiato di una riduzione della pena detentiva per aver scritto numerosi libri sulle tematiche economiche durante i mesi passati in carcere. Le dichiarazioni del ministro Pruna e l’iter parlamentare. Vista la situazione ormai fuori controllo, il ministro della Giustizia ha deciso di intervenire per abrogare la norma con un’ordinanza di emergenza il cui iter parlamentare dovrebbe concludersi in febbraio. Secondo quanto dichiarato dallo stesso ministro non si procederà immediatamente con la cancellazione della norma poiché sarà prima necessaria una consultazione; procedimento da seguire per ogni atto normativo. Non solo, il ministro della Giustizia ha inoltre parlato della rimozione del capo della Amministrazione Nazionale dei Penitenziari (ANP), sottolineando come la questione sia prematura ma sia comunque necessario avviare un’ indagine amministrativa da parte dell’organismo di controllo del premier dal momento che "I fatti parlano chiaro relativamente alla competenza manageriale del direttore generale dell’ANP". Stando a quanto affermato dalle fonti locali e dallo stesso ministro della Giustizia, la norma che prevede la riduzione della pena detentiva per ogni libro pubblicato verrà rimossa il prossimo febbraio. Un passaggio chiave, necessario ma non sufficiente, verso l’eliminazione della corruzione chiesta dalla stessa società romena con proteste seguite all’incendio al Colectiv Club.