La giustizia al tempo delle intercettazioni di Giovanni Verde Il Mattino, 19 febbraio 2016 In genere gli appartenenti all’ordine giudiziario, che hanno successo in politica o che sono cercati dai politici per incarichi delicati o di prestigio, sono i pubblici ministeri; non i giudici. C’ è una ragione. Oggi il processo, con una decisione che arriva dopo anni e dopo una vicenda contrassegnata da sconcertanti alterne vicende (in cui alle condanne si susseguono assoluzioni piene o dimidiate in completo disprezzo della presunzione di innocenza, che dovrebbe essere la stella polare del giudice penale) non interessa nessuno. Ancor meno interessa l’assoluzione. La gente comune è di regola giustizialista per gli altri. Un tempo si andava in massa nelle piazze dove era eretto il patibolo per godersi lo spettacolo dell’esecuzione per soddisfare l’istinto animalesco che alberga in ciascuno di noi. Oggi, in epoca di civiltà evoluta, ci godiamo lo spettacolo della gogna mediatica e non ci pare vero di conoscere i vizi segreti di chi riveste posizioni di prestigio nella società. Ma lo spettacolo deve essere contestuale. Bisogna viverlo e goderselo nel tempo presente. Se è stantio l’interesse scema e svanisce il compiacimento. Tutto ciò è ben risaputo dai pubblici ministeri e da coloro che fanno di mestiere comunicazione. E se per questi ultimi dare la notizia, fare lo "scoop" è il sale della professione, per i primi le motivazioni sono più complesse e non tutte edificanti. In genere, la fuga di notizie è tollerata (se non agevolata) perché questo è il modo per sanzionare le persone (soprattutto se si tratta di persone in vista) per comportamenti che si ritengono eticamente riprovevoli, anche se non è detto che debbano attingere alla rilevanza penale. Non manca, però, il calcolo. Si vuole l’appoggio della pubblica opinione a sostegno di operazioni di pulizia sociale tanto più discutibili quanto minore è la rilevanza penale dei fatti accertati. E per ottenerlo è necessario intrattenere buoni rapporti con i mezzi di informazione. Si crea, in questo modo, una catena di solidarietà, che è difficile rompere. Armando Spataro è un mio vecchio amico e non a caso volle che presentassi un suo libro presso l’istituto di Gerardo Marotta. E l’amicizia è rimasta ferma anche quando gli ho detto che, pure riconoscendo il fondamento della sua indagine su Abu Omar, ritenevo che questo fosse il caso emblematico per comprendere che il principio della obbligatorietà dell’ azione penale merita di essere rimeditato. Non l’ho convinto, ma a suo onore va detto che egli è consapevole che oggi il rapporto tra la magistratura, in particolare tra la magistratura requirente e le istituzioni è giunto al punto di rottura. Credo che la sua circolare in materia di intercettazioni sia il prodotto delle sue sensate preoccupazioni. Non entro nel merito delle sue determinazioni o di quelle analoghe del procuratore Colangelo o di altre ancora. Neppure so se la materia possa essere affidata alle determinazioni dei capi degli uffici giudiziari. È una materia incandescente che, anche se non fosse soggetta a riserva di legge, meriterebbe una disciplina uniforme nell’intero Paese. Quando si leggono sui giornali o su internet o si sentono alle radio o alle televisioni le notizie relative alle intercettazioni oggi diffuse circa le conversazioni del governatore De Luca e delle persone a lui vicine, bisogna farsi alcune domande. Gli atti di indagine sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, fino alla chiusura delle indagini preliminari (art. 329 c.p.p.). Se bene intendo si tratta di atti ancora coperti dal segreto e di cui era vietata la diffusione. Non basta. Le intercettazioni devono essere autorizzate dal giudice "quando vi siano gravi indizi di reato e l’intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini" (art. 267 c.p.p.). Le conversazioni e i flussi di informazioni informatiche irrilevanti o vietati sono stralciati (art. 268 c.p.p.). Pertanto, le frasi con cui De Luca definisce il suo partito come un partito di m... o Renzi come un figlio di p..., quelle dei suoi collaboratori che discutono del modo di alterare i risultati delle primarie; le congratulazioni del Prefetto (quasi a denotare una contiguità di un rappresentante delle istituzioni con il politico al potere) o ancora le valutazioni (si badi, non le notizie) della Guardia di Finanza circa l’esistenza di un comitato di affari non dovevano essere pubblicate, perché coperte da segreto, e non dovevano essere rese note, perché irrilevanti. Ma sono pubblicate e rese note, come in infiniti altri casi. E analoghe intercettazioni continueranno ad essere pubblicate e rese note. Di sicuro i nostri rappresentanti politici non ci fanno bella figura. In disparte il linguaggio da carrettieri, resta l’impressione di una mediocrità dilagante e di una disaffezione per il bene comune. Ma è questa impressione che, poi, determinare azioni a catena che sfociano nel qualunquismo e nella protesta fine a sé stessa. La democrazia di per sè debole si indebolisce ogni giorno di più. Mi sono, tuttavia, convinto che pensare alla legge come alla panacea per i nostri mali è un errore. Le leggi devono essere applicate e cambiano di contenuto in base all’interpretazione. Esemplifico: si devono stralciare le intercettazioni irrilevanti. Ma come si fa a stabilire se esse sono irrilevanti? L’irrilevanza presuppone un termine di riferimento e basta allontanarsi dal semplice accadimento storico e prendere in considerazione il contesto ambientale o la personalità dell’indagato perché tutto diventi rilevante (il suo linguaggio come il suo stile di vita o le sue frequentazioni) e tutto giustifichi lo strascico di intercettazioni. Un solo dato: leggo che le ultime intercettazioni di De Luca siano raccolte in dodicimila pagine. Invito a riflettere sulla enormità del numero: dodicimila. Così non possiamo andare avanti, come sa bene Armando Spataro e, credo, anche il procuratore Colangelo. Ma che si possa porre un freno al fenomeno con la legge è illusorio fino a quando la stessa magistratura, l’organo che esercita l’azione disciplinare e il Csm non affronteranno di petto la questione senza ammiccamenti o indulgenze, sanzionando in maniera adeguata gli atti istruttori compiuti in violazione della legge, da interpretare con rigore, e i magistrati che hanno elusole garanzie poste a presidio delle nostre libertà. Al centro di tutto, non dimentichiamolo, c’è sempre l’uomo, che nessuna legge può surrogare. Diffamazione: la (non) riforma è una vergogna di Ignazio Ingrao Panorama, 19 febbraio 2016 La legge che dovrebbe abolire il carcere per i giornalisti "balla" dal 2013. E in Parlamento è di nuovo bloccata. Persa nelle nebbie dei bicameralismo. È il destino della riforma della legge sulla diffamazione chiesta a più riprese e con urgenza dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce). L’iter è iniziato nel maggio 2013 dopo che il direttore di Panorama, Giorgio Mule, era stato condannato "per omesso controllo" a otto mesi di carcere senza condizionale dal Tribunale di Milano sulla diffamazione ai danni dell’allora procuratore di Palermo, Francesco Messineo, in relazione a un articolo del 2010. Un anno di carcere era stato inflitto al giornalista Andrea Marcenaro e altrettanto, ma con il beneficio della condizionale, al collega di Palermo Riccardo Arena. Immediatamente era intervenuta la responsabile per la libertà dei media dell’Osce, Dunia Mijatovic, chiedendo che l’Italia abolisse al più presto il carcere per i giornalisti. Il 17 ottobre 2013 la Camera aveva approvato il disegno di legge sull’abolizione del carcere per i giornalisti, la pubblicazione della rettifica come condizione dì non punibilità, la sanzione delle querele temerarie e un tetto alle richieste di risarcimento. Al Senato la legge dopo un faticoso iter è stata approvata il 29 ottobre 2014, ma con alcune modifiche, in particolare in tema di risarcimenti e querele temerarie. Così è dovuta tornare alla Camera per una nuova lettura e l’aula ha impiegato nove mesi per esaminare la norma che l’Europa (nel frattempo sono piovute altre multe contro l’Italia) chiede con urgenza. Il dibattito è stato influenzato dalle discussioni sulla pubblicazione delle intercettazioni e altri temi che poco avevano a che vedere con l’obiettivo centrale della legge richiesto dalle istituzioni di Strasburgo: l’abolizione del carcere per i giornalisti, come nel resto d’Europa. Alla Camera sono intervenute nuove modifiche e così il testo è dovuto tornare al Senato dove ora giace alla commissione Giustizia, a cui è stato assegnato il 3 luglio 2015. Il 9 settembre è stato nominato il relatore, Rosanna Filippin (Pd), ma è tutto fermo in attesa dei pareri obbligatori delle commissioni Affari costituzionali, Bilancio e Lavori pubblici. Per superare lo scoglio, con l’accordo di tutti i capigruppo, il disegno di legge potrebbe essere direttamente portato in aula, ma al momento nessuna delle forze politiche sembra interessata al problema. E non è finita: c’è da tener presente la depenalizzazione del reato di ingiuria decisa dal Consiglio dei ministri il 15 gennaio scorso all’interno di un pacchetto di misure per "alleggerire" il codice penale. Così anche il disegno di legge sulla diffamazione a mezzo stampa, che contiene misure relative all’ingiuria, rischia di dover essere modificato e tornare ancora a Montecitorio. Una tela di Penelope, insomma, che nasconde il desiderio di continuare a tenere i giornalisti sotto ricatto. Il partito della museruola alla stampa è davvero trasversale. Quella difesa è legittima ma anche confusa di Gaetano Pecorella (Docente emerito di Diritto penale all’Università di Milano) Panorama, 19 febbraio 2016 Ha causato grande sconcerto l’arresto (per tentato omicidio) dell’ex poliziotto che a Grosseto ha ferito chi gli stava rubando l’auto. Una legge del 2006 stabilisce il diritto reagire in casa propria, però solo se c’è il rischio di un’aggressione o se il ladro non desiste. Ma come fa a saperlo il cittadino? Andrebbe chiesto al legislatore. Difendere la propria vita, quella dei propri cari, e i propri beni, è un diritto naturale, prima ancora che sia lo Stato a riconoscerlo. Come accade, allora, che attorno a questo diritto ci sia tanta incertezza? Che il feritore di un ladro venga arrestato con l’accusa di tentato omicidio, com’è appena accaduto a Grosseto, per poi essere scarcerato? Che il pm incrimini, e l’opinione pubblica parteggi per chi ha ucciso? La risposta è che difendersi è un diritto, ma come tutti i diritti ha dei limiti. Il primo limite è che ci si debba difendere, e non reagire, o ancor meno vendicarsi uccidendo senza necessità. Se il ladro fugge, ormai l’aggressione si è conclusa, il "pericolo attuale di una offesa ingiusta", come dice il Codice penale, è terminato. Ma anche in questa situazione, che parrebbe del tutto chiara, non tutto è evidente. Il proprietario ha il diritto di difendere non solo la propria incolumità, ma anche le proprie cose. Se il ladro sta fuggendo portando con sé la refurtiva, la vittima può sparargli per salvare i propri beni? Il pericolo è ancora attuale, così come è attuale l’offesa al diritto di proprietà. Se ciò è vero, e lo è, perché i pubblici ministeri arrestano chi ha sparato e ucciso? Subentra qui il secondo limite al diritto di difendersi. La difesa deve essere proporzionale all’offesa. L’aggredito, perciò, deve usare il mezzo meno offensivo che ha a disposizione e deve produrre il minor danno possibile all’aggressore. Non si deve uccidere, se si può ferire. Non si deve uccidere, se la cosa sottratta è di poco valore o, ancor meno, se il ladro colto sul fatto è fuggito a mani vuote. Non sempre, naturalmente, è facile fare questo bilanciamento. L’aggredito non ha una bilancia in mano. Tuttavia, qualche regola si può stabilire. Chi uccide volontariamente potendo fermare il ladro in altro modo, per esempio sparandogli alle gambe, risponde di omicidio volontario, punito con non meno di 21 anni di carcere. Chi vorrebbe fermare il ladro, ma per imperizia (un errore nell’uso dell’arma) lo uccide, sarà giudicato per omicidio colposo, delitto assai meno grave. È facile scriverlo, assai meno agire in conseguenza. È certo che il senso d’insicurezza è forte e diffuso. Il legislatore ne ha tenuto conto e nel 2006 ha previsto una particolare ipotesi di legittima difesa: c’è sempre proporzione, secondo questa norma, se il ladro viene sorpreso nell’abitazione o in un negozio. Attenzione però che anche in questo caso la legge indica un limite, superato il quale non vi è più legittima difesa: deve sussistere un pericolo di aggressione e il ladro non deve avere desistito. Ciò significa che si presume che la reazione (anche l’uccidere) sia legittima, a condizione che il ladro, colto sul fatto, non fugga, desistendo, e che vi sia pericolo di aggressione. Come si possa stabilire, nel cuor della notte, se il ladro ha intenzione di aggredirci in casa nostra, è domanda che si dovrebbe rivolgere al legislatore. C’è chi dice no alla mazzette (ma non c’è mai il lieto fine) di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 19 febbraio 2016 Ostacolati dai colleghi, danneggiati nella carriera e negli affari: dall’unità d’Italia alla Prima Repubblica l’amara sorte di chi si è opposto alla corruzione in Italia. Giù le mani da Giovanna Ceribelli. Troppe volte, nel passato più recente e più remoto, chi ha denunciato uno scandalo come la commercialista di Caprino Bergamasco che ha fatto scoppiare l’ultimo bubbone della Sanità lombarda è stato abbandonato a se stesso, isolato, punito. Come fosse colpevole di non essersi fatto gli affari suoi. Lobbia e i tabacchi, storia dell’800 - Successe un secolo e mezzo fa a Cristiano Lobbia, il patriota garibaldino e deputato che per primo denunciò al Parlamento di Firenze la vergognosa cessione per quindici anni a faccendieri raccolti intorno al Credito Mobiliare, in cambio di un’anticipazione di cassa di 180 milioni (meno della metà di quelli offerti senza accordi-capestro da finanzieri parigini e londinesi) della Regia Tabacchi, il monopolio che rappresentava allora secondo il banchiere Rothschild "l’unica entrata sicura dello Stato". Fu fatto a pezzi, il Lobbia. Tentarono di ammazzarlo, gli scatenarono addosso un processo infame per procurato allarme dal quale troppo tardi sarebbe uscito vittorioso, allestirono una macchina del fango per demolire la sua immensa popolarità, tennero per mesi chiuso il Parlamento teorizzando che a camere chiuse non c’era l’immunità. Quando gli restituirono l’onore, dopo anni di strani suicidi e morti improvvise, era ormai un uomo finito. Destinato a morire, a 50 anni, di crepacuore. Gli affari ridotti a un quinto - E da allora purtroppo non è cambiato molto. Lasciando pure perdere Giacomo Matteotti, che secondo diversi storici potrebbe essere stato ucciso anche per avere scritto un articolo pubblicato dopo la sua morte da English Life sulla "condotta della Banca Commerciale" e sui rapporti del governo fascista con la Sinclair Oil Company, molti degli scandali più recenti hanno avuto epiloghi sconfortanti. Ricordate come deflagrò Tangentopoli nel 1992? Un giovane imprenditore lombardo, Luca Magni, alla guida di un’impresa di pulizie, si ribellò alle pretese di Mario Chiesa, il presidente del Pio Albergo Trivulzio che per una commessa voleva una tangente, e aiutò i carabinieri a incastrare l’estorsore. Da lì, venne giù tutto: l’arresto dell’esponente socialista, l’inchiesta sul sistema di finanziamenti ai partiti, il crollo di Bettino Craxi e gran parte dei partiti della Prima Repubblica… Fu additato come un eroe, Luca Magni. Vent’anni dopo avrebbe confidato a ilgiorno.it: "Rifarei tutto. Ma cercherei di tutelarmi di più. Ho denunciato il sistema delle tangenti che strozzava la mia azienda ma non potevo prevedere che in poco tempo avrei perso tutti gli appalti. Dopo la denuncia, gli enti pubblici non mi hanno più invitato alle gare. Nel 1992 l’azienda fatturava un miliardo di lire, nel ‘94 solo 200 milioni". Un quinto. "Non ho messo in conto le ritorsioni economiche e lavorative che avrei incontrato. L’azienda, così, è fallita". Ha ricominciato da zero con un’altra impresina e un dogma: mai più enti pubblici. Al confino in una stanza - E ricordate lo scandalo della Sanità lombarda del ‘99? Citiamo la cronaca di Paolo Biondani sul Corriere di allora: "Più di 300 medici milanesi imputati di corruzione. E un big della sanità privata, Giuseppe Poggi Longostrevi, accusato di aver gestito, con una "banda" di familiari e dipendenti, una truffa da 60 miliardi ai danni delle casse pubbliche, ossia di tutti i contribuenti". L’inchiesta era partita da un vigile urbano, Massimo Mola, che aveva rifiutato una tangente di 300 milioni "offertagli da Poggi nel tentativo di insabbiare un abuso edilizio". Quando andò a cercare quel piccolo grande uomo Francesco Battistini lo trovò relegato nel suo ufficetto, dove mai aveva ricevuto un encomio che non fosse una pacca sulle spalle dagli amici. Quanto all’altro protagonista della denuncia che aveva fatto crollare il sistema marcio, il manager sanitario Giuseppe Santagati, avrebbe raccontato una decina di anni dopo al Venerdì: "Fui cacciato. Sostituito al vertice della mia ex azienda (ironia della sorte o scelta calcolata?) da un mio omonimo: Santagati Giuseppe, stesso nome e stesso cognome". Lui tornò a fare l’avvocato. Rimossa dopo la denuncia - Maria Grazia Blefari, messa a dirigere la Stazione unica appaltante della Provincia di Reggio Calabria, area ad altissimo rischio, appena scoprì nel 2012 che la busta di uno dei concorrenti a un appalto era stata trovata sul divano e non nella cassaforte dove doveva stare, raccolse tutto il coraggio che aveva e si fiondò alla Finanza. Venne fuori che buona parte degli appalti era pilotata da dipendenti infedeli che aprivano le buste, controllavano le offerte e informavano la tal ditta che vinceva sempre. Finirono in manette una ventina di addetti, imprenditori, intermediari. I magistrati stessi, in un’ordinanza, resero omaggio alla signora: "L’inchiesta trae origine dall’ammirevole tenacia con la quale un funzionario fedele, la dr.ssa Blefari". Applausi e complimenti. Pochi mesi dopo la dirigente veniva rimossa. Grazie, vada pure. Dalla Padania a Salerno - Torniamo in Padania? Ecco il caso di Andrea Franzoso, il funzionario delle Ferrovie Nord Milano che denunciò l’allora presidente Norberto Achille, spinto a dimettersi per la scoperta delle incredibili spese pazze fatte con la carta di credito aziendale. Che fine ha fatto? Risponde un’interrogazione parlamentare del M5S e un ricorso al Tribunale del lavoro. Dove si legge che l’uomo, reo di aver fatto il proprio dovere, è "costretto a trascorrere la giornata lavorativa nella più completa inattività e con progressivo isolamento: i colleghi di lavoro erano restii a recarsi nel suo ufficio per timore di essergli associati e subire ritorsioni". E potremmo andare avanti per ore. Raccontando storie su storie. Una più amara dell’altra, come quella del sindacalista salernitano Giuseppe Cicalese, che per difendere i colleghi perbene denunciò l’anno scorso alcuni assenteisti dell’ospedale assolutamente indifendibili. Lo Stato di lui si è dimenticato, ma non i prepotenti del cartellino. Che sono arrivati addirittura a minacciarlo di morte. Prova provata, se mai ce ne fosse ancora bisogno, della necessità urgentissima di una legge che tuteli fino in fondo chi fa il proprio dovere denunciando andazzi intollerabili. Le chiacchiere e i battimani di un giorno hanno proprio stufato. Il mistero dei soldi per i morti sul viadotto di Claudia Arletti Venerdì di Repubblica, 19 febbraio 2016 Ognuno ha la sua piccola Spoon River, un luogo dello spazio o dello spirito eletto a muro del pianto: quello del signor Giuseppe Bruno è la casa che apparteneva ai genitori. "Non ho toccato niente. Qualche volta entro, apro gli armadi e sento l’odore dei vestiti". Ricorda con esattezza le ultime parole scambiate con la madre - una conversazione che il cellulare ha congelato alle 20:03 - e poi ogni dettaglio di quella notte nera: i corpi tutti in fila sul linoleum della palestra, gli occhiali ritorti poggiati sul petto di suo padre e i frammenti di vetro che ricoprivano la madre come un velo. Nessuno dei due aveva le scarpe ai piedi: perdute quando l’autobus granturismo ha sfondato in velocità la barriera autostradale, sbriciolandola come un biscotto secco, ed è volato per quasi trenta metri, giù nella scarpata del viadotto Acqualonga, comune di Monte-forte Irpino. Quaranta morti, compreso l’autista Lametta Ciro di anni 44. Erano le 20.30 del 28 luglio 2013 e a Pozzuoli - la cittadina dove abitavano quasi tutti i passeggeri -nessuno ancora si dà pace, né gli otto sopravvissuti, né certo le famiglie dei morti. Immaginate lo strazio della piccola Francesca, che aveva due anni e mezzo al tempo dell’incidente e da allora passa più giorni negli ospedali che a casa, tra Word e Sud. Oppure la signora Clorinda Iaccarino, che ha perso il marito e due figlie, Silvana di vent’anni e Simona di sedici, mentre lei è viva per miracolo e resiste "giusto per vedere come andrà a finire". Per vedere, cioè, se i colpevoli saranno puniti, i parenti tutti risarciti, l’ordine delle cose almeno in parte ristabilito. Con un po’ di fortuna, la causa civile potrebbe chiudersi fra tre, quattro anni; per il processo penale - che è alle prime battute - se ne prevedono almeno sei. Nel frattempo, altre battaglie si combattono e altre ancora si preparano. Un’aria pessima si respira dalle parti del Comune, che pure aveva fatto la sua parte, pagando i funerali (28mila euro) e dando subito una mano alle famiglie maggiormente in difficoltà dopo la disgrazia: però Oggi il signor Bruno, che è l’indomito presidente dell’"Associazione vittime della strada A16-Uniti per la Vita", accusa apertamente il sindaco di avere distribuito male e con due anni di ritardo i 32mila euro donati dai privati dopo l’incidente, privilegiando cioè i familiari residenti in città e tagliando fuori gli altri -sicché c’è chi sull’autobus ha perso tutti ma, abitando altrove, non ha ricevuto nulla di quel poco denaro. "Non che mi importi" dice Bruno, "c’era chi ne aveva bisogno mentre io avevo e ho un lavoro, ma è il metodo che non trovo corretto". I sospetti di favoritismi si mescolano alle notizie di cronaca: uno scandalo su appalti truccati e infiltrazioni della camorra ha appena investito l’apparato amministrativo del Comune. E comunque è soltanto l’inizio. Qualcuno, infatti, ora dovrà pur chiarire quest’altro mistero. Ovvero, come mai tutti a Pozzuoli -tutti tranne il sindaco e alcuni suoi stretti collaboratori - ignorino l’esistenza di un fondo di beneficenza messo a disposizione dall’Ania (Associazione nazionale delle imprese assicuratrici) appena dopo l’incidente: 500 mila euro da distribuire tra le famiglie e che però alle famiglie non sono mai arrivati. La voce "Fondo per le vittime di Monteforte Irpino" appare infatti nel bilancio Ania 2013, riappare in quello 2014 e di nuovo comparirà in quello 2015: cinquecentomila euro congelati senza una ragione e tolti, di fatto, a chi ne avrebbe bisogno o, comunque, diritto. Ora che la faccenda è venuta fuori, negli uffici romani dell’Ania raccontano al Venerdì una storia farsesca: "Sono tre anni che proviamo a farci dare dal Comune l’elenco delle famiglie più bisognose. Telefoniamo, sollecitiamo, c’è anche una corrispondenza, ma ci rispondono sempre in modo evasivo, che lo faranno, che non sono ancora pronti". I vertici dell’Ania sono cambiati da poco e preferiscono non aggiungere altro: "Ma questi sono i fatti e il denaro è sempre qui, a disposizione delle famiglie". Si conferma assai evasivo il sindaco Vincenzo Figliolia, del Pd, eletto nel 2012: "Ah, sì, l’Ania" prova a dire, "sono soldi che non ho mai accettato, andranno nel fondo di fine contenzioso". Contenzioso, sicuro? Guardi che è denaro regalato: "Ma veramente credo sia un massimale delle assicurazioni, sì, ecco, un massimale". Lascia capire infine di non volerci mettere mano, "lo sa a volte come sono le famiglie": l’hanno scottato, forse, le polemiche sui famosi 32 mila euro. Fra poco, il 22 febbraio, ad Avellino si terrà una nuova udienza del procedimento penale. L’"Associazione vittime della strada A16-Uniti per la Vita" - che si è costituita parte civile - sarà davanti al tribunale per manifestare. Chiedono leggi che garantiscano la sicurezza, invocano l’introduzione del reato di omicidio stradale. Però sono rimasti in pochi: "Ma non mi fermo" dice Bruno. "Mi hanno tolto l’aria, io la toglierò a loro". Loro sono gli indagati: dodici tra dipendenti e dirigenti di Autostrade per l’Italia, più il proprietario dell’autobus e due dipendenti della Motorizzazione civile - brava gente che, davanti a 40 morti, non si è fatta scrupolo di falsificare i documenti della revisione. Il disastro, come chiarisce la perizia della Procura, è stato causato da un mix di incompetenza, incuria e malafede. Due parole diciamole, su questo bus - immatricolato nel 1995, non proprio ieri - e sui suoi "elementi strutturali" corrosi dal tempo e dalla scarsa manutenzione"; sui quattro pneumatici dell’assale posteriore di tre marche diverse; sui copertoni sbrindellati e lisi come fazzoletti vecchi, per non dire dei freni funzionanti sì e no. "Un rottame" sintetizza l’avvocato Filippo Romano di Napoli, che rappresenta il signor Bruno e altri parenti delle vittime. Così, la sera di domenica 28 luglio, non è bastata la sosta al santuario di Padre Pio a evitare che il vecchio granturismo perdesse in corsa un giunto arrugginito e iniziasse a sbandare di qui e di là, urtando le auto incolonnate (13), per finire contro la barriera di new jersey, sfondandola, e poi cadere giù. L’autista Ciro, poveretto, ha tentato di tutto per evitare il peggio. Ma la perizia dice che c’era poco da fare, visto lo stato della barriera sul ponte: i pioli in ferro che dovevano tenerla insieme (tira-fondi) erano mangiati dalla ruggine e anche la ringhiera a cannocchiale - fatta di giunti a tubo, l’uno infilato nell’altro - non aveva il finecorsa, sicché urtata dal bus si è spalancata senza fare quasi resistenza. L’avvocato Romano è talmente indignato da avere scritto al governo chiedendo di revocare la concessione ad Autostrade per l’Italia: "Non garantendo la manutenzione, ha violato tutti i patti". Che ne dice la società? Preferisce non commentare; a Pozzuoli si dice che abbia chiuso l’80 per cento delle cause dando - per ogni vittima - 250 mila euro a ciascun figlio convivente (200 mila non convivente); ai fratelli sono andate somme più basse, tra 30 e 50 mila euro; in alcuni casi sono stati risarciti i nipoti. H sindaco racconta di essersi "prodigato" perché Autostrade per l’Italia assumesse sei orfani, cosa che qui tutti trovano giusta. Il signor Bruno però considera irrisorie le somme pagate alle famiglie e pochi anche i 15 indagati. Chissà cosa dirà quando saprà del fondo Ania. Per ora con lo sguardo febbrile racconta che, mesi dopo l’incidente, suo figlio di dieci anni chiese di vedere il posto dove era precipitato il pullman con i nonni. Le loro scarpe finite tra i cespugli le ritrovò il bambino. Audioteche dietro le sbarre: così i musicisti donano brani ed emozioni di Teresa Valiani Redattore Sociale, 19 febbraio 2016 Gara di solidarietà sul web per "CO2", il progetto lanciato in 4 istituti di pena dall’ex chitarrista della Pfm, Franco Mussida. Il messaggio di sostegno di Angelo Branduardi: "Sarà interessante per tutti scoprire la coincidenza dei sentimenti di chi vive nel mondo fuori con quelli di chi vive nel mondo dentro". "Prima di tutto andate sul sito www.co2musicaincarcere.it. Se siete musicisti, suonate uno strumento o semplicemente vi sentite amanti della musica, seguite le istruzioni che trovate sul sito e offrite un po’ della vostra sensibilità musicale, suggerendo i brani di musica strumentale che amate (non canzoni) associandoli a uno dei nove grandi stati d’animo che trovate indicati. Li inseriremo in speciali audioteche poste in alcune carceri italiane e, attraverso un particolare metodo di ascolto, la vostra musica risuonerà nel cuore dei detenuti che l’ascolteranno e confronteranno le loro emozioni con le vostre. È un modo per aiutare a rimettere in moto il mondo arcobaleno dei loro sentimenti, schiacciato, oppresso dal nero dell’odio e del risentimento che in quei luoghi si vive, per portare cultura ed educazione emotiva li dove c’è bisogno". Il post che in queste ore sta diventando virale sui social network è firmato Franco Mussida, ex chitarrista e membro fondatore della storica Premiata Forneria Marconi (Pfm). Lo stanno condividendo musicisti, cantautori, nomi noti come Angelo Branduardi e Dolcenera e semplici amanti della musica. Franco Mussida li aveva chiamati a raccolta tutti, anche dal palco del Festival di San Remo, per aggiungere nuovi brani alle quattro audioteche realizzate nelle carceri di Monza, Opera, Rebibbia e Secondigliano, destinate a diventare una ventina sul territorio nazionale. "Caro Franco - scrive Branduardi in un messaggio rivolto al collega -, è degna del musicista che sei l’idea di usare la musica per risvegliare l’emotività, come già si fa per riattivare i sensi di chi dorme nel sonno del coma. Sarà interessante per tutti scoprire la coincidenza dei sentimenti di chi vive nel mondo fuori con quelli di chi vive nel mondo dentro e, da musicista quale io sono, con entusiasmo mi associo a questa poetica idea". Il progetto sperimentale si chiama "CO2" e punta all’inserimento di 40 mila brani. "Per i musicisti e gli amanti del suono organizzato - spiega l’ex chitarrista della Pfm -, la musica è una gioia, un meraviglioso mezzo per vivere e far vivere le nostre più intime emozioni e sentimenti. Ma in carcere, per limitare il dolore di quella condizione, vengono soffocati uccidendo anche quelli che aiuterebbero ad alleviare quel dolore. Per la prima volta la Musica di tutti i generi e stili, attraverso un particolare metodo di ascolto, entra nelle carceri per rendere più salda la struttura affettiva individuale, per dare fiducia, incoraggiando a considerare emozioni e sentimenti come il vero cuore del nostro sistema di relazioni". Il cuore di Co2. Il cuore di CO2 è un’audioteca non più divisa per generi musicali, ma per grandi stati d’animo prevalenti: Stabile - Chiuso - Malinconico-Pensieroso - Aperto-Sereno - Dubbioso.Indeciso - Calmo - Gioioso - Nostalgico - Innamorato. "Controllare l’odio nasce da una metafora - dice Mussida: l’uomo emette di giorno, come le piante di notte, un suo invisibile veleno, un’anidride carbonica (CO2) fatta dei peggiori umori e sentimenti spesso repressi. Il senso del progetto è lavorare consapevolmente con le forze della Musica per limitare le emissioni di quell’invisibile veleno emozionale che è l’odio, il risentimento cieco". I brani sono "suggeriti" da musicisti che mettono a disposizione la loro sensibilità musicale. Una sensibilità che si confronta con quella dei detenuti, per consentire l’apertura di canali emotivi. Ciascun brano suggerito viene associato allo stato d’animo, al sentimento che chi suggerisce ha provato ascoltandolo. I numeri del progetto. Un’audioteca basata sugli stati d’animo. 9 stati d’animo prevalenti, 2 stati d’animo specifici ognuno, per un totale di 18 stati emozionali. Oltre 1.500 composizioni donate, brani strumentali donati dai musicisti. Un software progettato per Ipad. 40 Ipad in totale (10 per ogni istituto) e un server per ogni carcere. Trasferimento dati (musica, questionari di valutazione) mediante Server Client via Wi-Fi locale. Sistemi di sicurezza per limitare l’uso dei dispositivi al solo applicativo in dotazione. La fase sperimentale è durata tre anni. Hanno partecipato un’ottantina di detenuti, in 4 gruppi di lavoro nelle carceri in cui è presente l’audioteca (lezioni di musica, ascolto libero, brani settimanali). Musicisti che hanno svolto lezione in carcere. Roberto Baruffaldi, batterista, Stefano Brondi, direttore musicale Teatro Brancaccio e docente CPM, Stefania Cenciarelli, ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Antonietta Cerocchi, vice Direttore Conservatorio Santa Cecilia, Andrea Libero Cito, violinista, Sergio Cocchi, cantante e docente CPM, Giuseppe Colucci, Sassofonista. Il futuro. Da giugno 2016 le audioteche saranno aperte alla consultazione di tutta la comunità dei detenuti in un sistema che prevede di ampliare la rete ad altri istituti. I risultati del progetto saranno illustrati in un convegno promosso in collaborazione con Università di Pavia, ministero della Giustizia, Siae e Cpm Music Institute, dal titolo "Le chiavi nascoste della musica - la musica come sostegno al disagio affettivo", che si svolgerà il 13 e 14 giugno 2016 presso l’aula magna dell’Università di Pavia. Durante l’incontro verranno resi pubblici i dati del metodo di ascolto musicale sperimentale "CO2" e sarà fatto il punto sul ruolo delle Arti (musica, teatro, letteratura) nei luoghi di detenzione. Sostegno. Il progetto è sostenuto dal ministero della Giustizia col patronato della presidenza della Repubblica. Organizzato dal CPM Music Institute, è sovvenzionato dalla Nuova Siae. È concussione minacciare controlli fiscali di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 18 febbraio 2016 n. 6656. Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 18 febbraio 2016 n. 6659. Con due pronunce contestuali della stessa sezione (la Sesta, ma a collegi diversi) la Cassazione conferma la linea del rigore verso gli imputati di concussione. La severità nel circoscrivere il reato spacchettato dalla legge Severino (190.2012), con le sentenze 6656 e 6659 depositate ieri, si accompagna alla conferma del doppio regime delle sanzioni patrimoniali a carico dei funzionari infedeli; le statuizioni civili a favore della parte lesa costituita a processo non escludono l’iniziativa della magistratura contabile, almeno fino alla maturazione del titolo esecutivo. Diverse le figure di pubblico ufficiale colpite dalle sentenze di ieri - un dipendente delle Entrate di Varese, un curatore fallimentare incaricato dal Tribunale di Rimini - ma identiche le sintesi sulle fattispecie ribadite dalla Suprema corte. Nel primo caso il funzionario infedele aveva avvicinato con approcci insoliti oltreché irrituali un imprenditore, esponendogli con "modalità terroristiche" delle presunte irregolarità nella dichiarazione dei redditi e chiedendo - e ricevendo poi - 5mila euro per tacitare la vicenda. Ugualmente "dirette" le modalità estorsive, a giudizio della Corte, messe in campo dal curatore fallimentare romagnolo, che aveva "barattato" la disponibilità a tradire l’ufficio - restituendo una chiavetta Usb con la contabilità occulta della società indagata e impegnandosi a non esecutare i beni personali del fallito - con la promessa di ricevere 95mila euro. In entrambi i casi le difese avevano tentato di ricondurre i fatti nell’alveo della induzione indebita della legge Severino (articolo 319-quater del codice penale), sostenendo in sostanza la libertà di scelta delle vittime e adombrando una ragionevole convenienza nell’accordo illecito loro proposto. Confermando l’inquadramento delle corti di merito e i precedenti di legittimità - a cominciare dalle Sezioni Unite 12228.13 - la Cassazione ha però sottolineato come, nei casi analizzati, il rapporto tra le parti "non si svolgesse affatto su un piano di parità", scaturendo da un’iniziativa dell’esercente il potere pubblico, proseguendo con la prospettazione di una minaccia contra ius e culminando nella richiesta di denaro per chiudere le pendenze con l’erario, da un lato, e con i creditori e i giudici dall’altro. Il metus, torna a ripetere la Sesta, fa da discrimine tra l’ipotesi classica più grave e quella depotenziata, insieme al carattere ingiusto della minaccia, tali da limitare in concreto la libertà di autodeterminazione del destinatario. Quanto ai diversi profili di sanzionabilità patrimoniale della concussione, la Sesta riattualizza le Sezioni Unite 26852.13 sulla indipendenza del doppio canale, civile/penale da un lato e giurisdizione contabile dall’altro. I beni tutelati e le finalità sono diversi - si va dal risarcimento del danno privato al buon funzionamento e all’immagine della pubblica amministrazione - e vanno gestiti in autonomia, con la funzione riparatoria che si abbina a quella sanzionatoria. E, nel caso di sovrapposizione delle iniziative (per esempio per danno d’immagine alla Pa) il giudicato civile/penale preclude il processo erariale, "senza dar luogo a una questione di giurisdizione". È un abuso d’ufficio l’azione disciplinare fatta per ritorsione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 18 febbraio 2016 n. 6665. Abuso d’ufficio per i direttori dell’azienda pubblica che esercitano l’azione disciplinare per ritorsione. La Corte di cassazione, con la sentenza 6665, accoglie il ricorso del Pubblico ministero contro la decisione del Gip di dichiarare il non luogo a procedere nei confronti del direttore generale e di quello dell’area tecnica dell’Azienda territoriale per l’edilizia pubblica. L’accusa era di aver "preso di mira" un ingegnere, bersagliandola con rilievi e sanzioni disciplinari, arrivando poi alla soluzione finale del licenziamento, sulla base di presupposti inesistenti. Secondo il Gip l’abuso d’ufficio non poteva essere contestato perché i rapporti di lavoro con l’Agenzia territoriale sono regolati dal codice civile e dunque la contestata distorta o mancata applicazione delle norme che li disciplinano, non può essere considera una violazioni di legge o di regolamento idonea a far scattare il reato di abuso d’ufficio. Inoltre, per quanto riguardava il licenziamento senza preavviso, disposto come massima sanzione disciplinare, questo poteva essere attribuito al direttore generale, il solo che aveva messo la sua firma sul foglio di "espulsione", mentre nessuna responsabilità andava addebitata al direttore di area, solo in virtù del suo potere di iniziativa nell’applicazione delle sanzioni. La Cassazione accoglie il ricorso del Pm. La Suprema corte chiarisce che la condotta contestata di abuso d’ufficio, contrariamente a quanto rilevato dal Gip, non riguarda la violazione delle norme che disciplinano il rapporto di lavoro nell’ente pubblico, indubbiamente, di tipo privato, ma l’esercizio distorto della "funzione" disciplinare da parte di un pubblico ufficiale o dell’esercente un pubblico servizio. Un potere che certo rientra nell’area di gestione dei rapporti di lavoro sottoposto ai contratti collettivi e si esprime attraverso atti negoziali e non con provvedimenti amministrativi, ma che va comunque esercitato nel rispetto della legge, con eventuali integrazioni della contrattazione collettiva. I giudici precisano che è suscettibile di integrare l’abuso d’ufficio (articolo 323 del Codice penale) la violazione delle disposizioni di legge fissate in materia di procedimento disciplinare, quando il potere non è "figlio" dell’interesse pubblico, ma viene usato per motivi pretestuosi sorretti da un intento ritorsivo. E il Gip sbaglia anche quando proscioglie il direttore di area. Nel concorso di reato il contributo acquista rilevanza non solo quando ha efficacia causale e si pone come condizione dell’evento illecito ma anche quando agevola o rafforza un proposito criminoso già esistente. Almeno in linea ipotetica, conclude la corte, il giudice per le indagini preliminari non poteva escludere che il l’imputata, a prescindere dalla mancata firma, possa comunque aver assicurato il suo contributo, morale e materiale, al prodursi dell’evento. Questo senza arrivare ad ipotizzare una responsabilità oggettiva in virtù della posizione apicale ricoperta. La Cassazione annulla la sentenza del Gip e rinvia per una nuova valutazione. Stalking se si pubblicano su Facebook immagini "hard" dopo la fine della relazione di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2016 Corte d’Appello di Napoli - Sezione VII penale - Sentenza 15 luglio 2015 n. 4894. È configurabile il reato di stalking nel caso in cui, dopo la fine di una relazione sentimentale, chi viene lasciato decida di pubblicare sui social network immagini e video ritraenti scene sessuali della coppia al solo fine di screditare l’ex partner dinanzi ad amici e parenti, costringendo la vittima a ricorrere dallo psicologo. Questo è quanto emerge dalla sentenza 4894.2015 della Corte d’appello di Napoli. I fatti - Il protagonista della vicenda è un uomo che, a seguito della decisione della sua partner di porre fine alla loro relazione sentimentale, aveva cominciato ad assumere un comportamento diffamatorio nei confronti della donna, insultandola pesantemente e minacciando di divulgare, se non fossero tornati insieme, a parenti e conoscenti immagini e filmati relativi ai loro rapporti sessuali. In seguito, l’uomo pubblicava effettivamente su Facebook alcune fotografie che ritraevano situazioni intime della donna e creava dei falsi profili con il nome di lei inviando foto e video ai suoi familiari e persino al suo datore di lavoro, minacciando di far pervenire tale materiale anche ai figli minori della stessa donna. In seguito alla denuncia e al processo, il Tribunale aveva condannato l’uomo oltre che per minaccia e diffamazione anche per il reato di stalking, in quanto la donna dopo la divulgazione di quelle particolari immagini era caduta in un grave stato di ansia e di paura, al punto tale da modificare le proprie abitudini di vita e ricorrere al sostegno di un medico psicologo. La decisione - La questione arriva in appello dove la difesa dell’imputato cerca di rileggere la vicenda sminuendo il comportamento dell’uomo e riconducendo tutto l’accaduto ai rapporti turbolenti tra i due, ovvero ad un epilogo burrascoso di una relazione sentimentale. La Corte d’appello non è però dello stesso avviso e conferma pienamente la decisione del Tribunale. Per i giudici, infatti, è stato ampiamente dimostrato in sede processuale che l’uomo ha divulgato immagini che hanno screditato la sua ex dinanzi ad amici e parenti "rappresentandola come assetata di avventure sessuali". Ciò ha si è tradotto in una vera e propria "persecuzione psicologica" che ha costretto la donna a ricorrere ad uno psicologo perché turbata dalla possibilità che nuove divulgazioni di immagini potessero arrecare disturbi a lei e soprattutto ai suoi familiari di età avanzata. Condotte di questo tipo - affermano i giudici - sono "particolarmente invasive sotto il profilo psicologico" e tali da configurare il reato di stalking. Danno all’immagine della Pa per l’agente autore di reato complesso di Daniela Dattola Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2016 Sussiste la lesione all’immagine pubblica anche quando il reato contro la Pa rientra nella fattispecie del reato complesso. Lo ha stabilito la sezione giurisdizionale umbra della Corte dei conti, con la sentenza n. 11 del 4 febbraio 2016. Il caso - La Procura regionale, con atto di citazione, ha promosso l’azione di responsabilità presso la predetta sezione della Corte dei conti, chiedendo la condanna del convenuto al pagamento di una somma di 30mila euro o di una somma diversamente valutata in via equitativa dal Collegio, a titolo di risarcimento del danno all’immagine della pubblica amministrazione, causato dal medesimo. Il convenuto era già stato condannato, con sentenza passata in giudicato e quindi definitiva, per il reato di concorso in favoreggiamento e sfruttamento aggravato della prostituzione di una minore. Reato consumato durante il servizio di agente della Polizia municipale e proprio su tale circostanza la Procura ha basato la richiesta di accertamento della sussistenza del danno all’immagine dell’amministrazione e di risarcimento. La sentenza - Il giudice contabile ha accolto le richieste della Procura, ritenendo integrata la fattispecie del reato complesso "(…) perché nella circostanza uno degli elementi costitutivi del reato costituiva di per sé stesso un reato e, nel caso specifico, il reato di abuso di atti d’ufficio, ai sensi dell’articolo 323 codice penale, commesso nel momento in cui l’agente pubblico ha disatteso coscientemente l’obbligo giuridico di interrompere un’azione delittuosa in corso". Il reato complesso - Il reato in esame si configura quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale. Nel caso di specie il convenuto, durante la commissione del reato, rivestiva la qualità di agente di Polizia municipale. Non solo. Quando si verificarono i fatti, per cui il convenuto venne poi condannato in sede penale, lo stesso era in servizio quale pubblico ufficiale con la qualifica di agente di polizia giudiziaria. La condotta, quindi, tenuta dal medesimo risulta aggravata da tale circostanza, in quanto egli, ai sensi dell’articolo 40 c.p., aveva l’obbligo giuridico di attivarsi per interrompere l’azione delittuosa in corso. In altre parole, una volta accertata l’omissione dell’adempimento dell’obbligo giuridico di attivarsi sul convenuto, in quanto pubblico ufficiale e agente di polizia giudiziaria, tale condotta, già di per sé penalmente rilevante, è stata assorbita nel più grave reato contestato di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione minorile e, per effetto dell’articolo 40 del codice penale, alla medesima è stato attribuito l’effetto di compartecipazione causale all’evento criminoso che il convenuto, in quanto agente di polizia giudiziaria, avrebbe avuto invece l’obbligo giuridico di impedire. Violazione, peraltro, che sarebbe stata penalmente ed autonomamente sanzionabile ai sensi dell’articolo 323 c.p., se non avesse costituito altro più grave reato. Ci si trova, quindi, in presenza di un reato complesso che, ex articolo 84 c.p., si caratterizza per il fatto che taluni dei suoi elementi costitutivi o le sue circostanze aggravanti, costituirebbero, già di per sé stessi, reato e, nel caso specifico, uno dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Da ciò consegue che, se un agente della Polizia municipale con la qualifica di agente di polizia giudiziaria e retribuito dalla stessa PA, commette un grave reato comune che contiene anche la condotta incriminatrice di un reato contro la pubblica amministrazione, conseguentemente sarà anche condannato per il danno da lesione dell’immagine all’amministrazione che egli ha cagionato. Il suo comportamento, infatti, ha leso anche la correttezza, l’efficacia, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, nonché il rapporto tra questa ed il cittadino. La riconosciuta finalità risarcitoria della condanna in sede contabile - Occorre premettere che non vi è alcuna identità tra la condanna per danno all’immagine e la multa inflitta in sede penale al convenuto. Le due misure, infatti, pur partecipando entrambe della natura di misura a carattere patrimoniale, sono strutturalmente diverse. La multa prevista nel codice penale è una pena pecuniaria prevista per la commissione di delitti ed ha finalità sanzionatoria. Diversamente, la condanna in sede contabile per la lesione dell’immagine della PA ha finalità risarcitoria, dovendo essere correttamente intesa come ripristino del pregiudizio dell’immagine pubblica, deteriorata da comportamenti negativi e disdicevoli degli agenti pubblici. Si pensi, a titolo esemplificativo, al pregiudizio arrecato all’immagine della PA dall’amministratore di un ente locale che commette il reato di concussione o ancora al danno arrecato all’immagine della pubblica amministrazione, aggravato anche per la risonanza mediatica suscitata nel caso di specie dalla condotta del personale infermieristico in servizio presso la camera mortuaria di un ospedale che percepisce denaro non dovuto dai titolari delle imprese funebri, per potersi poi accaparrare la gestione delle esequie dei pazienti deceduti. Conclusioni - Sulla scorta di quanto detto, sempre di più tutti gli addetti alla funzione di Polizia municipale e, in particolare i loro comandanti o responsabili di servizio, dovranno aver cura di prestare il massimo impegno nell’adempimento dei loro doveri istituzionali con rigorosa osservanza delle leggi, dei regolamenti e di tutte le fonti giuridiche cui sono sottoposti. Tanto più, se si tratta di norme a carattere penale. In tal modo, infatti, oltre a non rischiare di essere sottoposti a procedimenti penali volti a verificare l’eventuale commissione di reati a essi ascrivibili, potranno anche andare indenni dalla contestazione di altri possibili illeciti quali quello contabile e, non da ultimo, quello disciplinare. Illecito, quest’ultimo, che, peraltro, sembra oggi rivestire la massima attenzione del Legislatore e che costituirà oggetto di un prossimo intervento di riforma in chiave "anti furbetti" e che non pare del tutto azzardato prevedere che, nel caso di condanna per mancanze così gravi quali quelle accertate dalla sentenza in rassegna, potrebbe anche comportare la massima sanzione del licenziamento per giusta causa del dipendente pubblico resosi gravemente inadempiente ai più elementari doveri d’ufficio. Abuso di difesa di Carlo Federico Grosso L’Espresso, 19 febbraio 2016 Un avvocato offende giornalisti e colleghi durante il processo. È un diritto tutelato dalla Costituzione. Ma esistono anche limiti da non oltrepassare. Le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti davanti a un giudice non sono punibili quando concernono l’oggetto del processo. Si tratta di un diritto che trova il suo fondamento nella Costituzione, quindi la Cassazione gli riconosce una massima capacità di espansione: sono considerate legittime non solo le offese necessarie alla difesa, ma anche quelle ad essa comunque funzionali, non solo quelle che hanno una base di verità, ma anche quelle strumentalmente forzate, non solo quelle che riguardano soggetti del processo, ma anche quelle rivolte contro terzi. Su di un punto non vi può essere, comunque, incertezza: che la scriminante concerne soltanto le "offese" e non può coinvolgere le "calunnie", cioè le false accuse di avere commesso un reato. Ma non solo. Secondo principi giuridici generalmente condivisi, ogni diritto presenta un suo limite naturale, segnato dalla ratio della norma che lo prevede. Per cui, chi abusa del diritto esorbita comunque dai limiti consentiti. Di recente un noto avvocato romano, difensore di imputati di mafia, in due vicende processuali importanti non ha esitato ad usare l’aggressione verbale nell’articolare la difesa dei suoi assistiti. Il caso ha avuto risonanza perché si è sviluppato nel tempo e perché ha coinvolto persone d’indiscutibile prestigio. Ricapitoliamo ciò che è accaduto. Il giornalista Lirio Abbate nel 2012, quando si era ancora lontani dal pensare che Roma fosse occupata da manipoli mafiosi, aveva pubblicato su "L’Espresso" un articolo sui "quattro re di Roma", Massimo Carminati, Carmine Fasciani, Michele Senese e G. Casamonica, che soltanto dopo, con l’arrivo a Roma del procuratore Pigliatone, sono stati perseguiti per criminalità organizzata. Nel corso del processo Mafia Capitale, quell’avvocato non ha perso occasione per attaccare l’autore dell’articolo del 2012, definendolo ironicamente più di una volta il giornalista "De-Lirio", e suscitando la reazione del Pm Cascini che lo ha invitato a non offendere. Nel processo d’appello nei confronti dei Fasciarti, lo stesso avvocato non ha esitato a sferrare un duplice attacco nei confronti di "De-Lirio" Abbate e del procuratore Pignatone. Quest’ultimo avrebbe usato prassi investigative da far west, utilizzando le intercettazioni come strumento di ricerca dei reati piuttosto che d’acquisizione delle prove; Abbate sarebbe "colpevole" di avere intravisto con due anni di anticipo ciò che i magistrati hanno poi scoperto sull’esistenza di mafia capitale: "Lirio Abbate - ha scandito il difensore di imputati di mafia - che casualmente è di Palermo, che casualmente ha lavorato a Palermo quando c’era Pignatone, che altrettanto casualmente pubblica un articolo nel quale richiama l’esistenza di un dominio criminale di Roma. Perché non hanno dato a "De-Lirio" Abbate il premio Pulitzer?". Ma non solo. Nell’assordante silenzio di pressoché tutti gli altri difensori, soltanto un paio di legali hanno espresso solidarietà al giornalista aggredito. E la reazione non si è fatta attendere. L’avvocato sì è rivolto questa volta con parole sibilline al collega che aveva solidarizzato: "mi dispiace che non ci sia il collega Petrucci, ci avrebbe dato l’ennesima lezione su come ci si contiene in queste occasioni. Io lo stimo molto, gli voglio bene, e voglio bene alla figlia, se ha una figlia, non lo so". Non conoscendo nei dettagli le dinamiche che coinvolgono i Fasciani ed i protagonisti di Mafia Capitale, non sono in grado di valutare se le accuse di sostanziale combutta adombrate nei confronti di Abbate e Pignatone concretino calunnia ovvero, al più, offesa scriminata dalle esigenze difensive. Ritengo per altro verso che il tentativo dì ridicolizzare un giornalista che non ha altre "colpe" se non di avere condotto indagini sul suo giornale abbia poco a che vedere con il diritto di difesa: esprime, soprattutto, insofferenza per la libertà di stampa, tanto più preoccupante ove si consideri che Abbate vive sotto scorta proprio a causa delle sue inchieste sulla mafia. Che dire, infine, della sibillina allusione alla figlia dell’Avv., Petrucci? Parole senza significato? Caduta di stile? Qualcosa di diverso? Una cosa, a mio avviso, è in ogni caso certa: che pur facendo salvo il sacrosanto principio secondo cui le offese funzionali alla difesa devono essere consentite, è forse giunto il momento di ripensare, de iure condendo, ne! suo complesso il tema del "diritto di offendere "come strumento del "diritto di difendere nel processo". Come accennavo poc’anzi, la tematica dell’abuso del diritto e la sua funzione di limite logico all’indiscriminato esercizio del diritto potrebbero offrirci la strada per una soluzione ragionevole. Lecce: detenuto di 58 anni muore in cella, colpito probabilmente da infarto quotidianodipuglia.it, 19 febbraio 2016 Un detenuto è stato trovato morto nella sua cella del carcere di Borgo San Nicola a Lecce, stanotte. Si tratta di Donato Cartelli, 58 anni di Uggiano La Chiesa. L’uomo è stato colpito probabilmente da infarto. Il pubblico ministero di turno, la dottoressa Francesca Miglietta, ha disposto il trasferimento della salma dal carcere di Borgo San Nicola alla camera mortuaria dell’ospedale Vito Fazzi. In corso indagini e accertamenti diagnostici per stabilire le esatte cause della morte. Napoli: report dei Radicali sulla visita ispettiva alla Casa circondariale di Poggioreale di Emilio Enzo Quintieri emilioquintieri.com, 19 febbraio 2016 Lunedì 8 febbraio, una delegazione dei Radicali Italiani e dell’Associazione Giovani Giuristi Vesuviani composta da Emilio Enzo Quintieri, esponente radicale calabrese ed ex membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani e dagli Avvocati Penalisti Salvatore Del Giudice, Alessandro Maresca, Michele Coppola e Domenico La Gatta, grazie all’autorizzazione concessa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia nella persona del Vice Capo Dott. Massimo De Pascalis, su richiesta dell’Onorevole Rita Bernardini, già Deputata e Segretaria Nazionale del Movimento dei Radicali Italiani, ha effettuato per tutta la mattinata una visita ispettiva alla Casa Circondariale di Napoli Poggioreale "Giuseppe Salvia". Lo scopo della visita era quello di accertare "de visu" le condizioni di vita dei detenuti, la conformità del trattamento penitenziario ad umanità ed al rispetto della dignità della persona così come prevede la Costituzione Repubblicana, la Legge Penitenziaria e le altre norme europee ed internazionali vigenti in materia penitenziaria e di salvaguardia dei diritti umani fondamentali. Secondo i più recenti dati diramati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, alla data del 31.01.2016, nel Carcere di Poggioreale, a fronte di una capienza regolamentare di 1.640 posti, vi erano ristretti 1.928 detenuti, 289 dei quali di nazionalità straniera. Dopo i controlli di rito all’ingresso della struttura, una delle più grandi d’Europa, la delegazione è stata accompagnata dal personale di Polizia Penitenziaria presso gli Uffici della Direzione ove, stante l’assenza del Direttore dell’Istituto Dott. Antonio Fullone, è stata accolta dai due Vice Direttori presenti e da un Funzionario della Polizia Penitenziaria, poiché il Comandante di Reparto, il Commissario Capo Gaetano Diglio, non era in Ufficio. Subito dopo una lunga chiacchierata la delegazione unitamente al personale dell’Amministrazione Penitenziaria, ha iniziato la visita agli spazi detentivi. Sono stati accuratamente ispezionati quasi tutti i Padiglioni detentivi che prendono il nome da Città italiane (Firenze, Roma, Avellino, Livorno, Milano, Salerno, Italia e Napoli) nonché il Padiglione "San Paolo" che ospita il Centro Diagnostico Terapeutico, i locali destinati all’area trattamentale (Scuole, Laboratori), i cortili passeggio e le altre aree di pertinenza dell’Istituto. E nell’ambito del giro ispettivo, in ogni reparto, ci si è intrattenuti a dialogare con numerosi detenuti, entrando anche direttamente nelle celle e negli attigui servizi igienici per verificare le condizioni delle stesse. In alcuni Padiglioni la doccia è in un vano attiguo alla cella mentre in altri ancora si trova in locali comuni posti fuori dalle celle in violazione di quanto prevede il Regolamento di Esecuzione Penitenziaria. Alcuni locali doccia sono stati trovati in condizioni inappropriate ed indecorose a causa dell’umidità e della muffa presente. Non ci sono state particolari lamentele o problematiche che sono state segnalate dai detenuti e, nei pochi casi rilevati, si è avuto l’immediato intervento risolutore o l’impegno della Direzione a risolvere le criticità evidenziate, in alcuni casi nemmeno di stretta competenza dell’Amministrazione Penitenziaria ma del Servizio Sanitario Regionale poiché la Medicina Penitenziaria non è più di competenza dello Stato ma delle Regioni e, nel caso in esame, della Regione Campania. In particolare, un detenuto recentemente operato di tumore, aveva segnalato di attendere da circa due mesi una visita in una struttura sanitaria esterna ed una volta recatici nella Direzione Sanitaria la delegazione ha potuto verificare che erano state esperite tutte le procedure previste e che, per la fine del mese, quel detenuto sarebbe stato tradotto presso un Ospedale di Napoli per essere sottoposto ad un accertamento diagnostico che non era possibile effettuare intramoenia. Nell’Istituto vi sono due servizi di Pronto Soccorso : uno solo per il Padiglione "San Paolo" e l’altro per tutta la restante popolazione detenuta. Tutti gli spazi detentivi sono apparsi puliti ed in buone condizioni (naturalmente vi sono celle e locali che avrebbero bisogno di manutenzione straordinaria) eccetto qualche Padiglione come il "Napoli" che è uno dei più vecchi della Casa Circondariale e che, a breve, sarà ristrutturato. Attualmente, è in fase di completamento, il rifacimento del Padiglione "Genova". Uno dei Padiglioni "attenzionati" è stato l’Avellino (lato destro) poiché erano giunte segnalazioni circa la presenza di detenuti, sofferenti psichici, in regime di isolamento ed in "celle lisce" cioè prive dell’arredo ministeriale. Al momento della visita non è stata accertata alcuna violazione delle norme penitenziarie afferenti la collocazione e la durata temporale dei detenuti in isolamento così come non è stata constatata la presenza di "celle lisce". Vi erano pochi detenuti per motivi giudiziari, disciplinari ed uno solo per motivi sanitari poiché affetto dalla scabbia ed in cura farmacologica. A Poggioreale non esiste un Reparto di Osservazione Psichiatrica o per detenuti affetti da disturbi mentali ma, comunque, nell’Istituto vi erano 5 detenuti con patologie psichiatriche. Dalla visita, è emerso che l’Istituto Penitenziario napoletano, costruito agli inizi del novecento, attualmente, tolte le celle inagibili, ha una capienza regolamentare di 1.500 posti ed i detenuti presenti erano 1.915, 268 dei quali stranieri. Negli anni passati, invece, i detenuti "ospitati" erano circa 3.000 (con la capienza regolamentare ancora inferiore a quella odierna). Nonostante il numero dei detenuti sia notevolmente diminuito, ancora oggi il problema del sovraffollamento non è stato risolto completamente (anche a causa dei Padiglioni chiusi e non utilizzati) poiché vi sono 415 detenuti oltre la capienza regolamentare. La delegazione visitante ha constatato che in ogni cella, al massimo, vi sono allocate 4 ed in alcuni casi 5 persone (in passato, diversamente, c’erano celle occupate dalle 8 alle 12 persone). Dei 1.915 detenuti presenti: 1.755 sono "comuni" cioè appartenenti al Circuito Penitenziario della Media Sicurezza mentre 161 appartengono al Circuito Penitenziario dell’Alta Sicurezza e, più precisamente, al Sotto Circuito dell’AS3 cioè per reati di criminalità organizzata. Questi ultimi, sono allocati soltanto nel Padiglione "Avellino". Relativamente alle posizioni giuridiche dei detenuti presenti, 547 di questi erano "definitivi" mentre 1.369 erano "giudicabili" e, nel dettaglio, 741 in attesa di primo giudizio, 391 appellanti e 237 ricorrenti. Per quanto riguarda, invece, le ulteriori "caratteristiche" della popolazione detenuta, è stato verificato che nella struttura penitenziaria vi erano ristretti 557 tossicodipendenti, 86 dei quali in terapia metadonica, 32 sieropositivi e 246 affetti da epatite C. Sia i tossicodipendenti, quelli in trattamento metadonico ed i sieropositivi, sono leggermente diminuiti rispetto al passato mentre i soggetti affetti da epatite C, sono notevolmente aumentati. Ed ancora : 66 sono i detenuti che risiedono fuori dalla Regione Campania : 57 appartenenti al circuito della Media Sicurezza e 9 a quello dell’Alta Sicurezza. Contrariamente a quanto avveniva in passato che i detenuti stavano rinchiusi per 22 ore al giorno su 24 in cella (avevano diritto a due ore d’aria al giorno, una al mattino e una al pomeriggio, nei cortili adibiti al passeggio), oggi il trattamento penitenziario è molto più "attenuato" ed infatti 500 detenuti godono del "regime aperto" con le celle aperte per 8 ore al giorno con possibilità di permanere nel corridoio del reparto e di fare socialità. A breve, inoltre, grazie all’impegno della Direzione che, in ogni singolo Reparto, tramite la conversione di alcune celle, ha creato una sala comune, saranno attive delle Palestre attrezzate con il materiale (panche, cyclette, etc.) donato gratuitamente dalla Chiesa Valdese di Napoli. Entro fine mese, saranno già funzionanti quelle dei Padiglioni Firenze e Livorno. All’esterno, invece, i detenuti possono usufruire del campo di calcetto mentre la permanenza all’aria aperta è assicurata nei 12 cortili passeggio, utilizzati anche per attività sportiva. Per quanto riguarda il lavoro, i detenuti lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria sono 254 (negli ultimi anni c’è stato un leggero incremento delle unità lavorative) con rotazione trimestrale. Vi sono dei laboratori di falegnameria, tipografia, sartoria ed un officina fabbri dove vengono impiegati i detenuti con rotazione mensile. Relativamente agli "eventi critici" nel 2015 c’è stato 1 suicidio di un detenuto (nel 2014 c’è ne furono invece 3), 4 i decessi per cause naturali (anche 4 nel 2014) e 205 atti di autolesionismo (207 nel 2014). Nessuna aggressione da parte dei detenuti sia nel 2014 che nel 2015 in danno degli Agenti di Polizia Penitenziaria e nessun caso di suicidio - in entrambi gli anni - da parte di questi ultimi. Nell’istituto vi sono 12 sale colloquio, recentemente ristrutturate e tutte a norma del Regolamento di Esecuzione Penitenziaria oltre ad un area verde per i colloqui. A tal proposito i detenuti che effettuano colloqui regolari con i familiari sono 1.600 : 1.470 detenuti sono "comuni" (Media Sicurezza) e 130 quelli del Circuito Alta Sicurezza. Per quanto riguarda il Reparto di Polizia Penitenziaria, a fronte di una pianta organica di 946 unità, 847 sono gli Agenti assegnati e 764 quelli realmente in servizio (155 sono quelli distaccati da Poggioreale in altre sedi e 78 sono quelli distaccati da altri Istituti Penitenziari a Poggioreale). Una delle criticità è costituita dalla scarsa presenza dei Funzionari della professionalità giuridico - pedagogica : infatti, sono presenti solo 19 Educatori mentre ve ne dovrebbero essere 28. Ogni Educatore, facendo riferimento alla pianta organica ed al numero dei detenuti presenti, dovrebbe seguire circa 70 detenuti ed invece ne deve seguire oltre 100. Ed infatti, per esempio, il numero dei detenuti "permessanti" cioè quelli che usufruiscono di permessi premio fuori dall’Istituto sono soltanto 33. L’Ufficio di Sorveglianza di Napoli tramite i propri Magistrati di Sorveglianza, secondo le informazioni riferite alla delegazione dalla Direzione dell’Istituto Penitenziario, si recherebbe frequentemente in Carcere anche per effettuare l’ispezione dei locali ove sono ristretti i detenuti : l’ultima visita effettuata dal Magistrato di Sorveglianza risalirebbe al 29.01.2016 e la frequenza delle visite sarebbe di 6 volte al mese. A tal riguardo, c’è da segnalare, che diversi detenuti hanno lamentato di non riuscire ad effettuare colloqui con i Magistrati di Sorveglianza e che questi ultimi spesso non rispondono alle loro istanze in tempo oppure non rispondono proprio. Anche l’Azienda Sanitaria Locale, stando a quanto riferito alla delegazione, svolgerebbe l’attività ispettiva (semestrale) prevista dall’Ordinamento Penitenziario; l’ultima ispezione igienico - sanitaria è stata effettuata il 13.12.2015. All’esito della visita ispettiva il giudizio espresso dall’esponente radicale Emilio Enzo Quintieri e condiviso da tutti i membri della Delegazione, per una serie di considerazioni, in parte richiamate nel resoconto, è stato abbastanza positivo, fermo restando che nella Casa Circondariale di Napoli Poggioreale, permangono criticità e problematiche di varia natura, molte delle quali - come quelle di tipo sanitario - non dipendono dalla Direzione Penitenziaria ma di altre Amministrazioni. Le condizioni di detenzione, stante la notevole diminuzione dei detenuti e la possibilità per gli stessi di intrattenersi per più ore ai passeggi all’aria aperta, ad attività ricreative, sportive e trattamentali in luoghi esterni alla cella, alla libera circolazione nel reparto per gran parte della giornata ed il fatto che le celle da "camere di detenzione" siano finalmente divenute (come prevede l’Ordinamento Penitenziario) "camere di pernottamento" destinate al riposo notturno, sono sensibilmente migliorate rispetto agli anni passati, tempi in cui nel Carcere di Poggioreale venivano sistematicamente violati i diritti umani fondamentali proprio per le condizioni detentive crudeli e degradanti, contrarie al principio di umanità della pena sancito dall’Art. 27 della Costituzione Repubblicana. Per completezza di informazione, si segnala che il giudizio positivo sul miglioramento delle condizioni della struttura penitenziaria, viene riconosciuto anche dallo storico radicale napoletano Luigi Mazzotta, Presidente dell’Associazione Radicale "Per La Grande Napoli" e membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani nonché da Pietro Ioia, Presidente dell’Associazione degli Ex Detenuti Organizzati di Napoli da anni impegnato concretamente per la tutela dei diritti dei cittadini detenuti. Bologna: documentario "Dustur", dialogo tra Islam e Costituzione all’interno del carcere di Ambra Notari Redattore Sociale, 19 febbraio 2016 Il nuovo lavoro del regista Marco Santarelli segue le lezioni di Costituzione italiana per i detenuti musulmani della Dozza di Bologna e la storia dell’ex detenuto Samad. Un dentro e un fuori destinati a incrociarsi in uno dei luoghi simbolo della Resistenza - e della Costituzione - italiane: il cimitero di Casaglia a Marzabotto. Un viaggio dentro e fuori il carcere seguendo due storie: quella dei detenuti musulmani della Dozza impegnati in un corso scolastico sulla Costituzione italiana e quella di Samad, giovane marocchino ex detenuto dell’istituto penitenziario bolognese. Su queste fondamenta poggia "Dustur" (costituzione in arabo) il nuovo documentario del regista romano Marco Santarelli. "Le riprese sono cominciate nel 2014, quando è partito il corso: ho filmato tutte e 24 le lezioni del frate dossettiano Ignazio, volontario religioso che ha studiato il diritto islamico e per molti anni ha vissuto in Medio Oriente", spiega. Il corso sulla Costituzione italiana alla Dozza a confronto con le regole e i valori del mondo arabo è iniziato nel novembre 2014: tra i partecipanti, tutti di religione musulmana, giovanissimi al primo reato e altri con alle spalle molti anni di carcere. Presente a ogni incontro un ospite esterno. A tenere le fila, oltre a Ignazio, Yassine Lafram, mediatore culturale musulmano e coordinatore della Comunità islamica di Bologna. Suo il compito di tradurre in italiano - e in un arabo comprensibile da tutti - i diversi dialetti parlati dai detenuti e mediare le posizioni più estreme. "Mission del corso, la stesura da parte dei partecipanti della loro costituzione ideale. È stata questa la molla che mi ha convinto a girare questo documentario". In Dustur, parallelamente alle lezioni, corre la storia di Samad, marocchino di 25 anni uscito dal carcere 2 anni fa dopo averne trascorsi 4 in Dozza per traffico internazionale di stupefacenti. Uscito dal carcere si è diplomato e si è iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, e per mantenersi lavora in un’officina meccanica alle porte di Bologna. "Lui è stato l’ultimo ospite del corso, rientrato per partecipare alla discussione e alla scrittura di un dustur ideale. Tra le mura della biblioteca del carcere ha ritrovato alcuni amici e qualche compagno di braccio. Anche un ragazzo con cui per un po’ divise la cella". "Il tema più discusso? Sicuramente la libertà religiosa. E si è parlato molto anche della libertà da dare a una persona che decide di cambiare religione, convertendosi dall’Islam al Cristianesimo. È stato il momento più acceso e caldo. Quanto ai valori di sintesi, tutti hanno sottolineato l’importanza dell’istruzione, della conoscenza e della libertà, bypassando i luoghi comuni". Ignazio, il religioso volontario del corso e tra i protagonisti di Dustur, è una vecchia conoscenza del regista: "L’ho incontrato ai tempi del mio primo documentario in Dozza, "Milleunanotte". È stato lui a presentarmi Samad". "Milleunanotte" è un film del 2012, focalizzato sulla domandina che i detenuti devono scrivere. Nel linguaggio carcerario, la "domandina" è il termine tecnico che indica la richiesta che il detenuto deve compilare per essere autorizzato a incontrare il suo avvocato, fare una telefonata, fare richiesta per lavorare, avere un colloquio con un familiare, chiedere di vedere il suo educatore o uno dei tanti volontari che quotidianamente operano nel penitenziario. Ed è seguendo il percorso delle "domandine" che Milleunanotte entra nelle storie personali dei detenuti e nei labirinti burocratici che regolano la vita in carcere. "Il ruolo fondamentale dei volontari negli istituti penitenziari è quello che ho voluto omaggiare nei miei due lavori. E sono molto felice, perché il corso sulla Costituzione è partito anche quest’anno". Nel documentario, il viaggio di Ignazio e Samad cominciato dietro alle sbarre si concluderà in Appennino, a Marzabotto, uno dei luoghi simbolo della Resistenza e della Costituzione italiana. "Ignazio, il cristiano, e Samad, il musulmano, entreranno insieme nel cimitero di Casaglia, e torneranno a confrontarsi sui temi affrontati sino a quel momento nel carcere". Dustur, prodotto da Zivago Media, Ottofilmaker e Istituto Luce (che anche lo distribuisce), dopo essere stato presentato alla Casa del cinema di Roma e in concorso al Torino Film Festival, venerdì 26 febbraio sarà proiettato in anteprima a Bologna, al Cinema Lumière in occasione di "Visioni italiane", il concorso nazionale per corto e mediometraggi nella sezione "Fare cinema a Bologna e in Emilia-Romagna" (venerdì 26 alle 20.30 alla presenza del regista; sabato 27 alle 18 e domenica 28 alle 16). A marzo sarà distribuito nei cinema e parteciperà a "Cinéma du réel. Festival International de films documentaires", a Parigi dal 18 al 27 marzo. Parma: "La manomissione delle parole", un laboratorio di dialogo fra studenti e detenuti parmadaily.it, 19 febbraio 2016 La parola "manomettere" indica alterazione, danneggiamento. Ma la manomissione, nell’antica Roma, era anche la cerimonia con cui uno schiavo veniva liberato. Una riflessione profonda intorno al significato delle parole: è questo l’obiettivo del laboratorio socio narrativo dal titolo "La manomissione delle parole" che la Coop. Sirio insieme agli studenti del corso di Politiche sociali, dei Licei Toschi e Sanvitale, dei ragazzi della redazione "Non ci sto più dentro", sta avviando tra studenti e detenuti del carcere di Parma, prendendo liberamente spunto dall’omonimo libro dello scrittore Gianrico Carofiglio. E sarà proprio l’autore Gianrico Carofiglio a inaugurare il laboratorio in un incontro pubblico che si terrà lunedì 22 febbraio, alle ore 17, nell’Aula dei Filosofi del Palazzo Centrale dell’Ateneo (via Università 12), incontro durante il quale verrà presentato il suo ultimo libro "Con parole precise. Breviario di scrittura civile". Si tratta infatti del primo appuntamento, aperto a tutti gli interessati, di "La manomissione delle parole", laboratorio socio-narrativo sul lavoro sociale in carcere, organizzato all’interno dell’insegnamento di Politiche sociali (corso di laurea in Servizio Sociale) della prof.ssa Vincenza Pellegrino nell’ambito di un progetto proposto e coordinato dalla Cooperativa sociale Sirio, che in carcere avrà il ruolo del tutoraggio con il responsabile della formazione, dott. Giuseppe La Pietra. Dopo i saluti del Rettore dell’Ateneo Loris Borghi, di Patrizia Bonardi, Presidente della Coop. Sirio, e di Carlo Berdini, Direttore degli Istituti Penitenziari di Parma, si terrà la presentazione del Laboratorio da parte di Vincenza Pellegrino e Giuseppe La Pietra, responsabile formazione della Coop. Sirio. A seguire Antonio Mascolo, Direttore de "la Repubblica Parma", dialogherà con Gianrico Carofiglio sul suo ultimo libro Con parole precise. Breviario di scrittura civile (Laterza, 2015) Le lezioni centrate sul tema del carcere rappresentano un laboratorio sperimentale per 15 studenti e studentesse che frequentano il corso di Politiche Sociali. In particolare, il Laboratorio è articolato in due fasi: la prima di 3 incontri-lezioni in Università, la seconda di seminari all’interno del carcere in cui gli studenti, con i loro testi, si confronteranno con i detenuti. Questo laboratorio si inscrive in una sperimentazione didattica più ampia, finanziata grazie a un bando di concorso della Fondazione Cariparma, finalizzata a coinvolgere nelle docenze universitarie alcuni "esperti dell’esperienza", vale a dire persone che hanno una elevata conoscenza delle questioni sociali poiché le hanno vissute in prima persona e hanno sviluppato conoscenze e linguaggi specifici. In questo caso, gli "esperti dell’esperienza" saranno persone che hanno vissuto l’esperienza del carcere, e che gli studenti incontreranno sia fuori dal carcere (lavoratori della Coop. Sirio impegnati nei percorsi di reinserimento lavorativo) che dentro il carcere (detenuti dell’area AS1, di alta sicurezza, coinvolti nei laboratori narrativi della Coop. Sirio). In questo modo l’Università si apre a una collaborazione formativa strutturata con i linguaggi e le esperienze presenti nel territorio, e valorizza i saperi endogeni ed esperienziali che in esso nascono e si sviluppano. Inoltre favorisce un rapporto diverso degli studenti con il futuro mondo delle professioni, un confronto più paritario e collaborativo e di ascolto rispetto ai futuri "utenti", ad esempio se si pensa ai futuri assistenti sociali. D’altro lato, le persone detenute possono confrontarsi con i giovani studenti, trasmettere loro sapere ma al tempo stesso concepire maggiormente le trasformazioni all’esterno del carcere, vivere momenti di apertura, sostenere la propria capacità di non ripiegarsi su se stessi e di aspirare al futuro. Questa collaborazione didattica può essere svolta grazie al coordinamento congiunto di Università di Parma (nella persona di Vincenza Pellegrino) e Coop. Sirio (nella persona di Giuseppe La Pietra), da moltissimi anni impegnata in questo ambito di lavoro socio-educativo. Il tema affrontato in entrambe le fasi del Laboratorio sarà quello delle "parole", vale a dire della specificità che il vocabolario assume nei contesti di reclusione, negli universi di senso propri dei "contesti concetrazionari". "Fiducia", "collaborazione", "futuro", "giustizia", "rivolta", solo per fare alcuni esempi, significano cose specificamente diverse per i carcerati e per gli operatori che con essi lavorano (basta pensare all’idea di "collaboratore" nella giustizia…). L’idea è quella di ripensare le parole in senso specifico e con attenzione, come strumenti di lavoro ma soprattutto come substrato che guida e indirizza il nostro pensiero. Il desiderio è quello di lavorare sul linguaggio, cosa molto importante per i futuri operatori sociali che si troveranno davanti a mondi molto differenziati del disagio sociale con immaginari differenziati, propri, specifici. Sia gli studenti che le persone detenute coinvolte nel progetto lavoreranno sulle parole grazie a un metodo di lavoro partecipato di tipo "narrativo" (produzione di testi autobiografici e dibattito), seguendo gli stimoli contenuti nel libro di Gianrico Carofiglio che si chiama appunto La manomissione delle parole e che contiene numerosi spunti di riflessione sul tema. Dopo l’incontro di lunedì 22 febbraio, il Laboratorio proseguirà con i seguenti appuntamenti: martedì 8 marzo, ore 14.30-17.30, Aula dei Filosofi del Palazzo Centrale, seminario aperto al pubblico La vita quotidiana dentro al carcere, con Alvise Braccia, Università di Bologna, Giuseppe La Pietra e un "esperto esperienziale" della Coop. Sirio di Parma martedì 15 marzo ore 14.30-17.30, Aula dei Filosofi del Palazzo Centrale, seminario rivolto agli studenti del corso di Politiche sociali Manomettere le parole. I vocabolari dell’esperienza - laboratorio narrativo a partire dal libro di Gianrico Carofiglio sulle parole "bellezza", "giustizia", "scelta" in carcere, con Giuseppe La Pietra, un "esperto esperienziale" della Coop Sirio di Parma e Maria Inglese, psichiatra dell’Azienda USL di Parma. Giovedì 7 aprile, ore 12-16.30, Laboratorio narrativo "Manomettere le parole" in carcere (15 studenti) - confronto tra studenti e carcerati, letture dei testi autobiografici sulle parole scelte e dibattito; giovedì 14 aprile, ore 12-16.30, Laboratorio narrativo "Manomettere le parole" in carcere (15 studenti) - letture dei testi autobiografici sulle parole scelte e dibattito; giovedì 21 aprile, ore 12-16.30, Laboratorio narrativo "Manomettere le parole" in carcere (15 studenti) - letture dei testi autobiografici sulle parole scelte e dibattito. Roma: a Regina Coeli detenuti contro studenti per una gara di retorica in carcere affaritaliani.it, 19 febbraio 2016 Il 5 marzo 2016, alle 10, si terrà a Roma, nel carcere di Regina Coeli in via della Lungara 29, un duello di retorica tra detenuti e studenti. L’iniziativa è organizzata da PerLaRe, Associazione Per La Retorica (fondata da Andrea Granelli e Flavia Trupia), insieme alla Crui, Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, alla Casa Circondariale di Roma Regina Coeli, all’Università di Tor Vergata. Il confronto dialettico ha l’obiettivo di premiare la squadra che è maggiormente in grado di difendere la propria tesi con argomentazioni credibili, senza perdere la calma, sbraitare o insultare. Un sofisticato esercizio di auto-controllo e di civiltà, che consiste nell’affermare le proprie ragioni solo con lo strumento pacifico della parola. Le due squadre sono chiamate a sostenere posizioni opposte che riguardano uno stesso argomento di attualità. La gara si svolgerà in due round di 20 minuti ciascuno. Allo scadere del round le posizioni da sostenere si invertono. Il tema del dibattito verterà sui confini della legittima difesa. Sia i detenuti che gli studenti verranno preparati allo "scontro" da PerLaRe, Associazione Per La Retorica, da Flavia Trupia, la presidente, e dall’attore Enrico Roccaforte. Le due squadre sceglieranno i loro portavoce, che li rappresenteranno nel dibattito del 5 marzo. Una giuria - composta da un linguista, un attore, due giornalisti, un avvocato - decreterà la squadra vincitrice. La giuria non premierà il talento innato, ma la capacità di impegnarsi. L’Associazione Per La Retorica è consapevole del fatto che pochissimi fortunati nascono oratori, ma è convinta che tutti possano migliorare, attraverso lo studio e la pratica dell’arte della retorica. L’iniziativa ha un precedente. Il Bard college di New York ha avviato un programma di riabilitazione nei penitenziari, che prevede la realizzazione di gare di retorica. Nel settembre 2015, i detenuti del carcere Eastern Correctional Facility di New York si sono confrontati con gli studenti di Harvard, sconfiggendoli in un duello basato solo sulla forza delle argomentazioni. Le gare di retorica hanno l’obiettivo di preparare i partecipanti ad affrontare la vita e il lavoro, contesti in cui è inevitabile confrontarsi con opinioni diverse. Volterra (Pi): si recupera la Torre del Maschio, al lavoro anche sei carcerati La Nazione, 19 febbraio 2016 La torre del maschio del carcere di Volterra sarà completamente ristrutturata. Nei giorni scorsi, infatti, la direzione della casa di reclusione di Volterra ha stipulato - con la ditta vincitrice dell’appalto, il contratto per il recupero strutturale della torre, luogo di straordinaria bellezza e suggestione. Una volta ultimati i lavori, quindi, il meraviglioso cortile del maschio verrà restituito alla città all’interno di percorsi condivisi. "Il recupero strutturale della torre del maschio - spiegano dalla direzione - si è reso possibile grazie all’impegno e alla volontà di tutti coloro i quali hanno creduto in questa possibilità che rappresenta un valore aggiunto per la fortezza e per chiunque voglia conoscere i luoghi magici di Volterra". Numerosi e importanti i partner del progetto. Il finanziamento principale (300mila euro) è stato stanziato dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Altri 80mila euro sono arrivati, invece, dall’amministrazione comunale. Quindi, ulteriori 50mila euro sono stati stanziati dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Volterra. La progettazione del restauro è stata affidata allo studio del professor Domenico Taddei di Firenze, già professore presso l’Università di Pisa cattedra di architettura e composizione architettonica presso la facoltà di ingegneria civile e presidente dell’istituto italiano dei castelli, uno dei maggiori esperti nazionali in architettura fortificata. La durata dei lavori è prevista in otto mesi e vedrà la presenza, tra gli operai della ditta che si è aggiudicata l’appalto, anche di sei ospiti della fortezza, regolarmente assunti. "Nel ringraziare il sindaco e il presidente della Fondazione della Cassa di Risparmio - conclude la direzione della casa di reclusione, rivolgiamo un commosso ricordo al dottor Edoardo Mangano che, in qualità di presidente della Fondazione, per primo ha fortemente creduto nella possibilità di restituire alla città una parte della sua storia". Torino: droga in carcere, arrestati in sei incluso un agente penitenziario droghe.aduc.it, 19 febbraio 2016 Sei arresti, tra cui un dipendente di Polizia penitenziaria in servizio nel carcere torinese delle Vallette, e tre denunce oltre al sequestro di 1,5 kg di hashish, 50 grammi di eroina e 10 telefoni cellulari sono il bilancio di un’operazione condotta dalla Squadra mobile di Torino in collaborazione con la polizia giudiziaria del Provveditorato regionale di polizia penitenziaria. Gli arrestati, tra cui due bosniaci e una donna, quest’ultima agli arresti domiciliari, sono ritenuti, a vario titolo, responsabili di diversi reati che vanno dalla corruzione all’induzione alla corruzione, alla detenzione e cessione di stupefacenti e medicinali. I tre denunciati, anch’essi dipendenti della Polizia penitenziaria in servizio alle Vallette, sono accusati anche di aver simulato lo stato di malattia per assentarsi dal lavoro. L’operazione, intrapresa a seguito della segnalazione della stessa Polizia penitenziaria torinese e condotta con l’utilizzo di strumenti tecnologici e pedinamenti, ha portato alla luce un consolidato commercio di droga, medicinali, telefoni ed altri beni, che si sviluppava tra alcuni detenuti ed i loro complici all’esterno della struttura penitenziaria, anche con la compiacenza di appartenenti alla Polizia penitenziaria. Talvolta, lo stupefacente, i telefoni cellulari ed altri oggetti proibiti dal regolamento carcerario, venivano ‘lanciatì con fionde oltre le mura del carcere, ove venivano quindi recuperati dai detenuti, altre volte, invece, venivano introdotti dagli agenti di Polizia penitenziaria. Nel corso delle indagini, durate oltre un anno, sono state arrestate altre tre persone, due detenuti ed un operaio, dipendente di una ditta esterna e sequestrati oltre alla droga e ai cellulari anche svariati carica batterie, medicinali e beni non permessi in strutture detentive. Sassari: Torres Calcio, triangolare con detenuti e guardie per inaugurare il campo di calciotto di Giampiero Marras L’Unione Sarda, 19 febbraio 2016 Recinzioni metalliche e mura di cemento sono solo linee laterali, l’erba del campo profuma di svago, il pallone annulla qualsiasi differenza di status: detenuti, guardie e giocatori della Torres hanno dato vita questa mattina ad un singolare torneo all’interno del nuovo carcere sassarese di Bancali. L’invito del cappellano Don Gaetano Galia è stato accolto volentieri dal club rossoblù, impegnato in una intensa attività sociale che l’ha visto fare visita a ospedali e scuole, pensionati e istituti per minori. Una delegazione composta da giocatori, dirigenti e dal tecnico Marco Sanna ha presenziato attivamente all’inaugurazione del nuovo campo di calciotto. Prima la cerimonia di apertura, con il tradizionale taglio del nastro affidato alla direttrice dell’istituto, Patrizia Incollu, e all’assessore comunale, Monica Spanedda, quindi la benedizione impartita dal vescovo Monsignor Paolo Atzei, che ha sottolineato l’importanza di momenti come questi per chi deve iniziare a costruire un nuovo percorso di vita. Al triangolare tra la squadra rossoblù, la formazione dei detenuti e la selezione delle guardie carcerarie ha assistito un folto pubblico rappresentato non solo da autorità, ma anche da diversi ospiti della struttura. Al termine del torneo la Torres ha regalato ai detenuti una muta di maglie, cuffie, sciarpe e gagliardetti rossoblù. Scontro Ue-Austria sulle quote rifugiati. Renzi: stop ai fondi di Alberto D’Argenio La Repubblica, 19 febbraio 2016 Accuse al blocco dell’Est. Vienna: 80 ingressi al giorno Accoglienza, enti locali in rivolta contro il Viminale. È scontro aperto tra Unione europea e Austria sulla decisione di Vienna di far entrare sul proprio territorio un massimo di ottanta richiedenti asilo al giorno. Ieri mattina il presidente della Commissione, Juncker, ha criticato la linea del Cancelliere Faymann e nel pomeriggio il commissario per la Migrazione, Avramopoulos, in una lettera al governo austriaco ha bocciato l’iniziativa definendo il tetto agli ingressi "chiaramente incompatibile" con il diritto comunitario: "L’Austria ha l’obbligo legale di accettare tutte le domande di asilo". Ma Faymann ha risposto affermando che "la nostra decisione non cambia". E ha sfidato la Commissione: "Ai pareri legali risponderanno i nostri giuristi". Pochi minuti dopo si è aperto il Consiglio europeo. A cena i leader, in una pausa nel negoziato sul Brexit, hanno parlato di migranti. L’Unione però è bloccata dai veti dei governi dell’Est Europa e da quelli restii ad abbracciare un sistema permanente di ripartizione dei rifugiati perché assediati dai populisti, come quello francese. Così l’Austria andrà avanti con le quote e la costruzione di una barriera al Brennero. Renzi arrivando al summit ha riconosciuto che "la posizione dell’Austria è comprensibilmente molto difficile, ma non possiamo immaginare di chiudere il Brennero, uno dei grandi elementi di unione in Europa". Il premier ha rilanciato la richiesta di trovare una soluzione europea. L’Italia - come Austria, Germania e Svezia vuole superare le regole di Dublino (per Renzi hanno "fallito") che scaricano sul Paese di primo ingresso la gestione dei richiedenti asilo. Ma a causa delle divergenze tra governi Juncker da dicembre tiene nel cassetto la proposta di realizzare un sistema di ripartizione dei migranti permanente ed efficace (la riallocazione emergenziale di 160mila è al palo). Ieri ha saggiato il clima per capire quanto potrà spingersi in là con il testo che finalmente proporrà a marzo. Clima non buono: Renzi ha minacciato di tagliare i fondi Ue ai paesi dell’Est contrari a prendere i rifugiati: "La solidarietà non può essere solo nel prendere, ora inizia la fase della programmazione dei fondi 2020, o siete solidali nel dare e nel prendere oppure smettiamo di essere solidali noi paesi contributori. E poi vediamo". Un intervento apprezzato da molti leader dei paesi pre-allargamento. Il tempo stringe, se a maggio la Grecia non avrà ripreso controllo delle sue frontiere (ma per Bruxelles ha fatto "progressi spettacolari") e non ci sarà una gestione Ue dei flussi ci sarà il rischio di una mini Schengen tra i paesi del centro e del Nord che isolerebbe Grecia e Italia. Ipotesi che Alfano ha definito "la fine dell’Europa". Il ministro ha quindi confermato il piano per aumentare la capacità di accoglienza nel caso gli sbarchi dovessero aumentare: "Ci stiamo preparando ad ogni scenario". Il Viminale ha spiegato che solo nel 2016 potrebbero essere reperiti 30mila posti in più rispetto ai 120mila attuali. Ma gli amministratori locali sono in rivolta, Fassino e Bonaccini in una lettera sottolineano che "un nuovo Piano che comporta un ampliamento così significativo degli arrivi non può essere adottato senza un pieno coinvolgimento di Regioni e Comuni". Il presidente dell’Anci e della Conferenza delle regioni chiedono una "cabina di regia" con il governo. Un simbolo di compassione contro i "muri" di Paolo Rumiz La Repubblica, 19 febbraio 2016 La foto dell’anno. Röszke, tra Serbia e Ungheria: un neonato viene "passato" attraverso il reticolato (Warren Richardson, primo premio "Spot news, singles"). CI trovi la notte, il frusciare dell’erba, il silenzio lunare e guardingo dell’animale che protegge il cucciolo, il simbolo potente del neonato, la vita che cerca la sua strada come il piccolo Mosè affidato alle acque del Nilo. Ma nella foto di Warren Richardson, scattata il 28 agosto sul confine serbo-ungherese, scopri molto altro. C’è che quel padre, colto in un atto di infinita intimità, è il simbolo di tutti i padri del mondo, così come il bimbo siriano morto in braccio al soldato turco sulla battigia era, con quelle scarpette nei piedini abbandonati, il bimbo di noi tutti. C’è l’individuo, con la sua storia, una storia che vuoi assolutamente sapere, e non il numero, la massa in movimento sui barconi o lungo le strade. Tu sei lui, diventi lui. Che tempesta di segnali. Quell’atto - aprirsi un varco - rappresenta l’esercizio di un diritto primordiale; riassume la storia dell’umanità, quella di chi si taglia i ponti alle spalle perché non ha niente da perdere; mostra la nemesi tremenda dell’Ungheria, il primo paese a rimettere i reticolati che era stato il primo ad abbattere. Ma tutto questo è riassunto dal modo con cui l’immagine è stata colta, con l’infinita pazienza del bird-watcher, e non con la violenza di chi sbatte il flash sulla faccia stralunata degli Ultimi, in cerca di sangue e pornografia. Istantanea presa senza flash, con esposizione lunga, per non allertare la polizia. Tecnica che diventa atto di "com-passione", tutto dalla parte degli Esiliati. Il problema è che, dopo la compassione, ci dimentichiamo di loro. Solo in pochi, incontrando oggi quel padre e quel bambino, penseranno che dietro a loro c’è una storia. Anche in buona fede. Nel film Grand Budapest Hotel, il maître Gustave si arrabbia col suo "boy" di origine araba e gli dice: "Cosa ti ha spinto a lasciare la patria e a percorrere lunghe distanze per diventare un povero immigrato in una società raffinata che sarebbe sopravvissuta benissimo anche senza di te?". E l’altro, a bruciapelo: "La guerra. Mio padre fu ucciso, la mia famiglia giustiziata da un plotone di esecuzione, il nostro villaggio bruciato e i sopravvissuti obbligati ad andarsene. Ho lasciato la patria per via della guerra". Il maître resta di sasso e dice: "Sono un idiota, egoista e bastardo". Ecco, per non arrivare alla stessa amara ammissione su noi stessi, dovremmo tenere a mente ogni minuto immagini come questa. Una carta dei valori con l’Islam, per combattere l’ integralismo di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 19 febbraio 2016 Un governo riformista non può non riprendere il lavoro iniziato da Giuliano Amato per arrivare al riconoscimento dei musulmani italiani in cambio dell’adesione ai principi della nostra Costituzione. L’Islam italiano diventa una sfida sempre più difficile da eludere per un governo riformista. L’azzardo di tenere un milione e seicentomila fedeli in gran parte confinati a pregare dentro garage e cantine, spesso guidati da imam fai-da-te con sermoni in arabo fuori controllo; il paradosso della seconda religione praticata nel Paese che tuttavia, a differenza di altri culti, non trova ancora un’intesa con lo Stato; la piaga (documentata dal Corriere) di migliaia di studentesse d’origine islamica che vivono accanto a noi e che - a differenza dei coetanei maschi - vengono ritirate dalla scuola alla soglia dell’adolescenza perché vittime di un pregiudizio di genere ancora molto pesante nelle loro famiglie; in generale la zona d’ombra che tuttora lambisce tanti nostri connazionali di fede musulmana: tutti questi sono elementi di un teorema che va affrontato e risolto non per astratto buonismo ma per una assai pragmatica volontà di garantire una migliore coesistenza tra cittadini di religioni e culture diverse, sterilizzando diffidenze che alla lunga trasformerebbero i nostri quartieri e le nostre periferie in laboratori di rancore non dissimili dalle banlieue francesi. Qui non va usata a casaccio la parola riformista. L’ultimo ad aver tentato di mettere attorno a un tavolo tutti i pianeti e i satelliti di quella variegata galassia che compone l’Islam italiano è stato Giuliano Amato, tra il 2006 e il 2008. Il giurista Carlo Cardia ha raccontato di recente come nacque e come andò quel tentativo da lui stesso coordinato su incarico dell’allora ministro dell’Interno del secondo governo Prodi. Scaturì per reazione a una sortita antisemita dell’Ucoii, la più forte organizzazione delle comunità islamiche italiane (allora ritenuta assai vicina alla Fratellanza musulmana), e condusse, dopo un anno intenso di incontri e scontri tra le parti in una stanza del Viminale, alla creazione di una Carta dei valori, una mappa di convivenza tra "noi" e "loro" che sottintendeva un accordo politico sostanziale: il riconoscimento dell’Islam italiano, il supporto (normativo e anche finanziario) all’emersione delle moschee, in cambio di una esplicita adesione a elementi costitutivi della nostra cultura e del nostro patrimonio identitario come libertà, tolleranza, uguaglianza uomo-donna. Il tentativo, reso impervio dalle molte anime dell’Islam e dalla loro riluttanza a federarsi lasciandosi ricondurre ad una sola voce, andò in crisi quando l’Ucoii non sottoscrisse la Carta. E si arenò quando, caduto il governo Prodi, Amato lasciò il Viminale: perché molto viveva della sua sapienza politica e del suo prestigio. Otto anni dopo ci sono nuovi elementi da considerare. Innanzitutto, l’urgenza. Allora non c’era una percezione nemmeno lontana dell’angoscia che il radicalismo islamico fomenta oggi nella nostra società: dunque stringe il tempo a disposizione per sottrarre nelle comunità islamiche forze e consenso a questo radicalismo. In secondo luogo, gli interlocutori. Perché se è vero che gli islamici italiani continuano a essere una galassia attraversata da un atomismo quasi irriducibile, è altrettanto vero che proprio la recente stagione del terrorismo ha indotto molti leader delle comunità a un riposizionamento più esplicito. E il cambiamento più visibile forse sta proprio nella leadership dell’Ucoii, oggi affidata al giovane Izzedin Elzir, che si è distanziato da derive fondamentaliste e manifesta attenzione alle storture derivate dalle discriminazioni di genere (sia pure attribuendole a sottocultura e non a tradizionalismo religioso). Matteo Renzi, distogliendosi da qualcuna delle schermaglie tattiche da cui è assediato, non dovrebbe sottovalutare l’opportunità strategica di riprendere il testimone lasciato da Amato, costi quel che costi nei sondaggi. Proprio la sua attenzione alle specificità italiane dovrebbe indurlo a capire che l’Italia può - e deve - trovare con i suoi cittadini musulmani una strada originale, diversa dal disastroso multiculturalismo inglese e dall’asfittico assimilazionismo francese. È la strada di un patto che comporti l’emersione dagli scantinati e (la Lega se ne faccia una ragione) la nascita (persino) di moschee di quartiere: dove però si predichi in italiano e gli imam seguano un percorso chiaro e verificabile. Dignità in cambio di regole, senza sconti. Lotta culturale all’integralismo in cambio di sostegno a chi vuole dialogare, spingendo sempre più le comunità a dotarsi di una voce sola. Non tocca ai riformisti e ai laici italiani chiedere ai cittadini musulmani una rilettura critica del Corano: un’autoriforma che, se mai verrà, dovrà avere tempi e modi che naturalmente sono nelle mani dei musulmani medesimi. Ma incentivare la lettura consapevole della nostra Costituzione, esigendo la sincera adesione ad ogni suo articolo, sì, questo si può fare già domani. Rifugiati, il Viminale punta a 30mila posti in più. Meno sbarchi, accoglienza non a rischio di Sara Menafra Il Messaggero, 19 febbraio 2016 Per il momento, il Viminale frena le preoccupazioni. Se l’Austria dovesse restare ferma nell’idea di limitare l’accesso alla frontiera, non è detto che i migranti provenienti dalla cosiddetta rotta balcanica decidano di sconfinare verso l’Italia passando dalla Slovenia. Anche perché, almeno in teoria, dovrebbe semmai essere appunto la Slovenia ad accogliere i migranti in arrivo, visto che l’ex paese balcanico è il primo in area Schengen che incontrano sul loro cammino. Più in generale, come lo stesso Renzi ha spiegato ieri, l’Italia punta a non alimentare il panico e a spingere ancora una volta per soluzioni condivise da tutta l’Europa. I numeri degli arrivi previsti per quest’anno, del resto, non sono ancora da allarme rosso. Il 2015 si è chiuso con 144mila sbarchi, il 13% in meno rispetto al 2014. E la prossima settimana si riunirà il Tavolo nazionale sull’immigrazione, al quale partecipano anche i Comuni e la Conferenza stato regioni, per fare un piano in vista degli arrivi di primavera ed estate. L’obiettivo è portare i posti per l’accoglienza dagli attuali 120mila a 150mila, anche se la riunione della prossima settimana servirà semplicemente a fissare le linee generali della programmazione e solo in seguito partiranno le direttive alle varie prefetture. Posto che tutti gli analisti smentiscono un ipotetico rischio invasione, se non altro perché il saldo demografico italiano è negativo (il paese si è complessivamente spopolato di 100mila unità) è vero però che attualmente, le strutture di accoglienza sono al massimo della capienza. Tanto più da quando l’Italia applica pedissequamente le direttive europee identificando tutti i migranti in arrivo, si registra il record di presenze nelle strutture di accoglienza (tra quelle temporanee, i centri governativi ed il sistema Sprar) e tenuto conto dei minori non accompagnati. Relocation e rimpatri, che avrebbero dovuto portare un po’ di sollievo, sono fermi al palo: l’Italia ha più di 300 domande di ricollocamento pendenti in attesa di risposta dai partner europei, mentre i "trasferiti" sono in tutto solo 279, mentre secondo gli accordi le partenze avrebbero dovuto essere di 1.600 persone al mese. Il Viminale sta lavorando su più fronti. Da una parte tornerà alla carica per fare in modo che ogni Regione abbia il suo "hub", un grande centro di accoglienza da individuare soprattutto nell’ ambito delle strutture dismesse della Difesa. Ci sarà poi un nuovo bando per le strutture Sprar. E si proseguirà con gli hotspot, i centri richiesti dall’Europa per identificare chi sbarca: il 28 febbraio - a quanto si apprende - aprirà quello di Taranto, che si aggiungerà alle analoghe strutture già attive a Lampedusa, Pozzallo e Trapani. Seguiranno gli altri due: Porto Empedocle ed Augusta, ma quest’ultimo potrebbe essere spostato. Ma anche il modello hotspot rischia di dare problemi. Il rapporto della commissione Diritti umani del Senato, presieduta da Luigi Manconi, ha evidenziato che il 18% dei migranti arrivati a Lampedusa ed identificati ha deciso di non chiedere asilo in Italia: 74 di questi sono stati trasferiti nei Cie ancora aperti in Italia, mentre 775 hanno avuto un provvedimento di respingimento differito, con l’obbligo di lasciare il paese entro sette giorni. Se identificate in altri paesi europei, queste persone saranno automaticamente rispedite in Italia, col rischio di riattivare il circuito di presenze clandestine che nel corso degli ultimi anni era stato fortemente ridimensionato. Baby scafisti arruolati in Libia, l’ultima frontiera dei trafficanti di Fabio Albanese La Stampa, 19 febbraio 2016 Due minorenni guidavano i gommoni recuperati mercoledì nel Canale di Sicilia. Nonostante fossero minorenni, gli agenti della polizia di Ragusa li hanno individuati subito tra i 367 migranti sbarcati mercoledì scorso a Pozzallo: scafisti di 16 anni, due, alla guida di altrettanti gommoni assieme a tre "colleghi" di poco più grandi, 18, 20 e 22 anni. Ieri la Squadra mobile li ha arrestati tutti e cinque per favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina. Non è la prima volta che vengono arrestati scafisti minorenni ma negli ultimi tempi il fenomeno si è fatto più allarmante: "Dall’inizio dell’anno ne abbiamo già individuati e arrestati sette, tutti di età sui 16-17 anni - spiega il dirigente della squadra mobile di Ragusa, Antonino Ciavola - e se si tiene conto che nello stesso periodo abbiamo arrestato in tutto 21 scafisti nel nostro territorio, i numeri fanno pensare". I due ragazzi sono uno del Gambia l’altro del Senegal, hanno detto di non conoscersi tra loro e hanno raccontato di avere fatto un lungo viaggio attraverso il Mali e l’Algeria, e il deserto del Sahara, prima di arrivare sulle coste della Libia dove hanno incontrato gli organizzatori dei viaggi per mare. Sono stati riconosciuti e indicati ai poliziotti anche molti dei migranti che erano con loro e che nave "Cigala Fulgosi" della Marina militare aveva salvato martedì mattina al largo della Libia, con tre interventi su altrettanti gommoni nello spazio di poche ore, dalle 5,30 alle 9,30 del mattino. Le tre imbarcazioni erano partite contemporaneamente dalla stessa spiaggia libica; per quel viaggio, ognuno dei migranti ha pagato mille dollari e, hanno calcolato gli investigatori, gli organizzatori se ne sono messi in tasca 350 mila. Tra i 367 migranti salvati c’erano quindici minori e dieci donne, tre delle quali finite in ospedale per accertamenti. I due baby scafisti sono stati trasferiti nel Centro di prima accoglienza per minori di Catania, in attesa del processo. Rischiano una condanna a due anni e però, essendo minorenni, avranno quasi certamente la pena sospesa e finiranno in una comunità: "Paradossalmente - spiega un investigatore - il loro percorso è più virtuoso di quello degli altri minori non accompagnati perché saranno seguiti da psicologi e educatori e avranno un posto sicuro dove stare". "Al loro arrivo in Libia si offrono loro stessi come scafisti agli organizzatori delle traversate - spiega il capo della squadra mobile ragusana Ciavola - e questo per avere un passaggio gratis sul gommone o per guadagnare al massimo due o trecento dollari. Hanno pochissima esperienza, ovviamente, ma qualcuno di loro faceva il pescatore e dunque sa come si sta su una barca". Difficile però dire se questo sia o meno un requisito richiesto dai ricchi trafficanti di uomini che oggi spadroneggiano in Libia. La privacy e il dilemma digitale di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 19 febbraio 2016 Meglio non tracciare linee nette per dividere buoni e cattivi nella crypto war tra la Apple (appoggiata dalle altre aziende digitali, a partire da Google) e il governo americano. Intanto perché questa guerra del criptaggio degli iPhone che covava da mesi sotto la cenere viene combattuta attorno a nodi complessi che gli incontri di gennaio del capo dell’Fbi e del ministro della Giustizia Usa con i big della Silicon Valley non sono bastati a sciogliere. E poi perché ogni persona che ha in tasca un iPhone o un cellulare che utilizza Android di Google (il 96% degli smartphone del mondo) vuole che i servizi di sicurezza dispongano di tutti gli strumenti necessari per combattere il terrorismo, ma è anche sensibile alle parole di Tim Cook: creare un sistema per infrangere le difese antihacker di un iPhone significa renderli vulnerabili tutti. Vero, ma è meglio diffidare dei sacerdoti della tecnologia che trasformano un’innovazione (dunque un business) in virtù morale. I campioni della Silicon Valley tendono da sempre a dare alle loro attività un valore etico sociale e di cittadinanza che va molto oltre quello economico, salvo tornare sui propri passi se le convenienze cambiano. È già successo con la privacy liquidata da Zuckerberg come un "valore ormai obsoleto" quando Facebook aveva interesse a infrangerla per motivi commerciali, salvo riscoprirne la centralità quando si è scoperto che i social network erano sorvegliati dai servizi segreti. O con gli occhiali di Google: molto meglio di telefonini giudicati dal cofondatore Sergey Brin strumenti ormai superati. Quando i Google Glasses sembravano ormai prossimi alla commercializzazione, Brin giudicò i cellulari intelligenti strumenti ormai antiquati: oggetti consultati a capo chino, perdendo di vista la realtà circostante e indebolendo le relazioni con gli altri. L’imprenditore parlò addirittura di isolamento sociale da smartphone al quale gli utenti sarebbero sfuggiti grazie agli occhiali digitali che avrebbero consentito loro di cercare dati rimanendo a testa alta. Poi Google ha rinunciato a lanciare i suoi "glasses". Siamo tornati ai cellulari e dell’"isolamento sociale" da cellulare non si è più parlato. La disputa appena esplosa durerà a lungo e diventerà centrale: gli esperti già considerano criptaggio e sicurezza delle informazioni archiviate nei cellulari la questione più importante fra tutte quelle emerse dall’inizio dell’era digitale: prima ancora che cercare una soluzione è importante, quindi, stabilire il percorso e definire ruoli e rapporti di forza tra gli attori. Qui è allarmante l’impreparazione e la debolezza della politica americana, paralizzata dalla guerra istituzionale scatenata dai repubblicani contro Obama e incapace di comprendere tempestivamente i cambiamenti di paradigma che derivano dall’introduzione di tecnologie digitali in continua evoluzione. Simbolo di questo ritardo è la stessa ordinanza della Corte federale di Los Angeles che è stata respinta dalla Apple. Per trovare un appiglio giuridico che gli consentisse di obbligare la società di Cupertino a collaborare con l’Fbi, il giudice, Sheri Pym, ha dovuto rispolverare l’All Writs Act del 1789: l’anno in cui iniziò la rivoluzione francese. Oltre a fare ricorso a una legge vecchia di 227 anni, il magistrato la sta usando in modo inedito: fin qui quelle norme erano servite a obbligare una compagnia a consegnare alle autorità informazioni sui clienti già in suo possesso, come nel caso delle società telefoniche che forniscono dati sulle chiamate di utenti sotto indagine. Stavolta, invece, viene chiesto alla Apple di costruire da zero un nuovo software: praticamente un sistema operativo parallelo per realizzare un hackeraggio legale dei sistemi di sicurezza inventati dalla società. Ha ragione Tim Cook quando sottolinea l’anomalia di una situazione nella quale agli stessi ingegneri che hanno creato un sistema di criptaggio che è praticamente una cassaforte a prova di bomba, viene ora chiesto di scassinarla. Vero, così come è vero che la legge americana più recente sulla collaborazione delle imprese con gli organi di polizia, quella del 1992, non prevede obblighi come quelli dell’ingiunzione del giudice Pym. Ma ciò dipende dall’inedita scelta fatta dalla stessa Apple nel 2014, dopo il caso Snowden, di produrre un sistema di criptaggio che non può essere decrittato nemmeno da chi l’ha creato. Una scelta estrema che andrebbe ridiscussa con le aziende digitali. Tutte allineate a difesa della Apple, ma non necessariamente così compatte. La presa di posizione di Alphabet-Google è arrivata dopo molte ore di silenzio che avevano suscitato una tempesta di interrogativi in rete. E contiene molti verbi al condizionale. Siria: civili sotto attacco, il 30-40% sono donne o bambini La Repubblica, 19 febbraio 2016 Nuovo rapporto di Medici Senza Frontiere: 63 ospedali attaccati 94 volte nel 2015. Nel complesso, sono 154.647 i feriti e 7.009 le vittime di guerra documentate in quelle strutture nel solo 2015. Nella guerra in Siria sono soprattutto i civili ad essere sotto un attacco incessante: 1,9 milioni di persone vivono assediate, le frontiere sono chiuse ai rifugiati e dilagano i bombardamenti contro strutture mediche e aree densamente abitate. È l’allarme lanciato oggi dall’organizzazione medico-umanitaria internazionale Medici Senza Frontiere (Msf), con un appello agli stati membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in particolare a Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti, che sono parte attiva del conflitto: "Devono rispettare le risoluzioni da loro stessi approvate - si legge in un documento ufficiale dell’organizzazione Premio Nobel per la Pace - per fermare il massacro e garantire che i loro alleati assicurino la dovuta protezione ai civili ed evitino i combattimenti in aree civili". Il Rapporto diffuso ieri. MSF presenta l’impatto del conflitto contro i civili attraverso i dati raccolti in 70 fra gli ospedali e strutture sanitarie supportate dall’organizzazione in Siria nordoccidentale, occidentale e centrale. Nel complesso, sono 154.647 i feriti e 7.009 le vittime di guerra documentate in quelle strutture nel solo 2015, di cui il 30-40% sono donne e bambini. I dati medici documentati da Msf dimostrano che in questo conflitto dagli accenti brutali i civili e le aree civili continuano a essere devastate, con attacchi mirati e indiscriminati. "I dati che abbiamo raccolto sono sconcertanti - ha detto la dottoressa Joanne Liu, presidente internazionale di Msf - ma sono solo una fotografia parziale di un bilancio molto più grave. Le persone morte o ferite al di fuori delle strutture supportate da Msf non rientrano nel conto. La situazione complessiva è verosimilmente molto, molto peggiore". Sotto assedio oltre 70 quartieri. Nella regione di Damasco sono sotto assedio più di 70 comunità e quartieri, per una popolazione stimata di 1.450.000 persone. Forniture mediche ed evacuazioni mediche non vengono quasi mai autorizzate in queste aree, dove le strutture supportate da MSF hanno trattato 93.162 pazienti feriti nel solo 2015. L’assedio di Madaya ha costretto la popolazione alla fame, causando la morte di 49 persone tra dicembre e gennaio. Si stima che quasi mezzo milione di persone vivano sotto assedio in altre aree della Siria, tra cui i governatorati di Homs e Deir ez-Zor. MSF ha chiesto ripetutamente di poter evacuare i pazienti gravemente malati dalle aree assediate e di consentire l’accesso di adeguati e regolari aiuti umanitari in queste aree. Il Consiglio di Sicurezza risponda del fallimento. Il documento diffuso da MSF denuncia che 63 ospedali e strutture sanitarie supportate da Medici Senza Frontiere sono state attaccate o bombardate in 94 diverse occasioni nel solo 2015. Dodici strutture sono state distrutte e 23 membri dello staff sono rimasti uccisi. "I membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, quattro dei quali sono attivamente coinvolti nella guerra in Siria, devono rispondere del loro fallimento nell’adempiere alle loro più banali responsabilità verso i civili", ha detto ancora Joanne Liu. "Le stesse risoluzioni del Consiglio proibiscono gli attacchi contro i civili, gli attacchi contro le strutture sanitarie, le tattiche di assedio che costringono le comunità alla fame, eppure è esattamente così che questa guerra viene condotta con la loro partecipazione." Dall’inizio dell’anno bombe su 17 presìdi sanitari. Nel 2016 sono già state bombardate almeno 17 strutture sanitarie in Siria, di cui sei supportate da MSF. Il 15 febbraio l’ospedale supportato da MSF a Màarat Al-Numan, nella provincia di Idlib, è stato distrutto da attacchi multipli che hanno ucciso 25 persone tra cui nove membri dello staff. Era un ospedale pienamente funzionante con 30 posti letto che ogni mese si prendeva cura di migliaia di persone. "Il bombardamento dell’ospedale di Màarat Al-Numan è una eclatante violazione delle leggi della guerra, ma è solo la punta dell’iceberg nel panorama degli attacchi contro le strutture sanitarie in Siria", ha aggiunto Liu. "Ora diciamo forte e chiaro: il medico del tuo nemico non è il tuo nemico". MSF chiede agli stati coinvolti nella guerra in Siria di attivare un’investigazione indipendente per chiarire i fatti del bombardamento dell’ospedale, attraverso la Commissione d’Inchiesta Umanitaria Internazionale (Ihffc) o qualunque altro meccanismo indipendente disponibile. I combattimenti a soli 8 km dai campi dei profughi. Nel distretto settentrionale di Azaz, solo a febbraio, circa 45.000 persone sono fuggite verso la frontiera con la Turchia, dove vivevano già circa 55.000 persone precedentemente sfollate. Le linee del fronte del conflitto si stanno avvicinando rapidamente e attualmente si trovano a soli 8 chilometri dai campi sfollati. I gruppi armati nell’area devono evitare operazioni militari nei pressi di persone intrappolate o sfollate e le operazioni militari in quest’area, come in ogni parte del paese, devono garantire la protezione dei civili ed evitare di colpire strutture sanitarie. "Le persone non sanno dove fuggire", prosegue Joanne Liu. "Siamo grati che i paesi confinanti con la Siria, come la Turchia, abbiano accolto così tanti rifugiati, e speriamo che continuino a portare avanti questo impegno umanitario ora che la situazione nel distretto Azaz sta peggiorando." Intanto in 5 città arriva almeno il cibo dal Wfp. Nel frattempo, il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (Wfp) ha consegnato cibo, di cui c’era disperato bisogno, ad oltre 80.000 persone intrappolate in cinque città siriane sotto assedio. I convogli di varie agenzie hanno completato le consegne questa mattina dopo aver lavorato alle operazioni di scarico tutta la notte. "Si tratta di un importante punto di svolta nell’assistenza umanitaria in Siria - ha spiegato Jakob Kern, Direttore Wfp in Siria - ma non dobbiamo dimenticare che singoli e sporadici convogli possono solo fornire soccorso temporaneo a chi ha fame ed è disperato. Le persone hanno bisogno di mangiare tutti i giorni. Speriamo di poter continuare queste consegne e fornire soccorsi ai più vulnerabili in tutto il paese". Bambini e persone dall’aspetto emaciato. Le squadre umanitarie sul campo hanno visto persone, a Moadamiyeh, dall’aspetto emaciato e bambini troppo piccoli per la loro età. Moadamiyeh è rimasta inaccessibile per oltre un anno e mezzo. I civili nelle aree sotto assedio si sono cibati di erba e di piccole quantità di riso, venduto a un prezzo fino a cinquanta volte superiore a quello della capitale Damasco, che dista solo pochi chilometri. "Facciamo appello a tutte le parti in conflitto affinché continuino a facilitare un accesso pieno e continuato alle persone che hanno bisogno in tutto il paese", ha aggiunto Kern. Portati medicinali, acqua e barrette energetiche. Oltre al cibo del Wfp, i convogli delle agenzie hanno consegnato attrezzature mediche e medicine, vaccini, acqua e altro equipaggiamento sanitario alle famiglie che stanno soffrendo le drammatiche conseguenze del conflitto. I convogli hanno raggiunto questa notte Moadamiyeh, Zabadani e Madaya nella Damasco Rurale, e Foah e Kefraya nell’Idlib Rurale. Ogni famiglia, nelle cinque cittadine, ha ricevuto due sacchi di farina dal Wfp e altri generi alimentari di base inclusi riso, farina di bulgur, lenticchie, cibo in scatola e olio da cucina, tutti generi che mancavano quasi del tutto da mesi, nelle cinque località. Il Wfp ha inviato anche barrette di datteri arricchite di vitamine e minerali, oltre a speciali cibi nutrienti per il trattamento e la prevenzione della malnutrizione infantile. In tutta la Siria, il Wfp continua a fornire cibo ad oltre 4 milioni di persone ogni mese ed è preoccupato per le sofferenze dei siriani che vivono in aree difficili da raggiungere in tutto il paese. Colombia: la prigione dell’orrore, trovati cento corpi smembrati di Annalisa Grandi Corriere della Sera, 19 febbraio 2016 Le autorità colombiane hanno annunciato l’apertura delle indagini sulla scomparsa di almeno un centinaio di persone nella prigione "La Modelo" a Bogotà. I resti smembrati ritrovati nel sistema fognario. La procura: "Non solo detenuti, uccisi anche visitatori". Si chiama "La Modelo", e a dispetto del nome è considerata una delle carceri più pericolose della Colombia. Nel suo sistema fognario, le autorità hanno trovato i resti di corpi smembrati di almeno 100 persone. Non solo detenuti, ma anche visitatori, entrati e mai più usciti. I corpi - La prigione di "La Modelo", a Bogotà, ha una popolazione carceraria di 11mila detenuti. Tristemente nota alle cronache locali e non solo: nelle celle sono rinchiusi militanti di estrema sinistra, ma anche paramilitari di estrema destra e spacciatori. Rinchiusi qui anche alcuni guerriglieri delle Farc. La forze dell’ordine colombiane hanno trovato, nei condotti fognari, i resti di corpi di almeno 100 persone. Uccise, e poi smembrate. Le sparizioni sarebbero avvenute fra il 1999 e il 2001, ma solo adesso sono state avviate delle indagini ufficiali, come ha annunciato il procuratore Caterina Heyck Puyana. I resti rinvenuti non sarebbero solo di carcerati, ma anche di parenti e semplici visitatori "I cadaveri smembrati sono stati gettati nei tubi di scarico del sistema fognario" ha spiegato Puyana. La giornalista - Delle misteriose scomparse di persone all’interno della prigione, e del traffico di armi all’interno delle mura carcerarie, aveva parlato per la prima volta proprio nel 2000 la giornalista colombiana Jineth Bedoya. Il 25 maggio di quell’anno era stata sequestrata mentre aspettava di entrare nel carcere, dove avrebbe dovuto incontrare Mario Jaimes Mejía, detto "El Panadero", ex paramilitare, considerato responsabile dell’assassinio di 7 persone e della scomparsa di altre 25 a Barrancabermeja. Caricata su un’auto, drogata, torturata e stuprata, era stata scaricata dopo 10 ore di violenze vicino a un cassonetto della spazzatura, in una strada a tre ore da Bogotà. Proprio Mejía è accusato di essere il responsabile di quel rapimento e delle violenze, insieme a un altro ex paramilitare, Alejandro Cardenas Orozco, detto "JJ" (che ha ammesso di essere stato a bordo dell’auto con cui era stata sequestrata la giornalista). Entrambi si trovano nel carcere di "La Modelo", dove beneficiano di alcuni sconti di pena stabiliti da una legge introdotta nel 2005 per i paramilitari che acconsentono a collaborare con le forze dell’ordine. Ed è indagando su quanto accaduto a Jineth Bedoya, e a partire dal suo lavoro di inchiesta, che gli investigatori hanno scoperto quei resti smembrati. L’ipotesi della procura è che i due siano coinvolti anche in quelle morti. "Sono felice che le indagini siano partite, ma questa cosa sarebbe dovuta accadere 15 anni fa. Scoprire la verità su quello che è successo a La Modelo - ha detto la giornalista - non è un dovere che lo Stato ha solo nei miei confronti, ma nei confronti di tutte le vittime".