Il ministro Orlando: non servono altre carceri, più attenzione alla giustizia riparativa Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2016 Emergenza carceri, allarme prescrizione e rilancio della giustizia riparativa al centro della relazione sugli Stati generali dell’esecuzione penale, presentata oggi dal Guardasigilli in audizione davanti alla commissione Giustizia della Camera. Nelle politiche detentive e carcerarie, ha ammesso il ministro, "il tradizionale approccio si è dimostrato alla prova dei fatti, molto costoso e poco efficace" perché "a fronte di ingenti oneri economici" si conferma un alto tasso di recidiva. Il nostro Paese - ha spiegato Olando - continua a spendere tre miliardi l’anno per l’esecuzione penale e questa credo continui ad essere una vera emergenza". No a nuovi carceri: "Utilizziamo meglio quelli che abbiamo" - Passando a spiegare la linea di via Arenula sull’emergenza carceri, Orlando ha escluso l’ipotesi che sia allo studio la costruzione di nuove strutture penitenziarie "perché prima dobbiamo utilizzare meglio quelle che abbiamo". L’aumento dei posti disponibili - una priorità imposta dalle condanne del Consiglio d’Europa all’Italia per le condizioni di carcerazione "inumane" di molti detenuti, vedi sovraffollamento delle celle - sarà presto possibile grazie alla consegna, ormai prossima, di alcune nuove strutture. "Ma non credo ne servano altre oltre a queste: con 60mila posti complessivi saremo in equilibrio", ha rassicurato Orlando. I 500 mln del Piano carceri "utilizzati per manutenzione" - Nessun mistero per quanto riguarda i 500 milioni stanziati a suo tempo per il piano carceri, e secondo la Lega spariti nel nulla. "Appena insediato per prima cosa ho fatto una denuncia alla Procura di Roma e ho fatto scattare un’attività ispettiva interna", ha replicato Orlando al Carroccio. Le risorse "sono state restituite ai ministeri di competenza, con i quali è stato rimodulato il piano. E abbiamo recuperato i soldi per la manutenzione delle strutture e circa 4mila posti prima non disponibili". Riforma prescrizione prioritaria, pressing sul Senato - Orlando è poi tornato sullo stallo, al Senato, della riforma della prescrizione, bloccata per contrasti interni alla maggioranza sula portata delle nuove misure. A Palazzo Madama lo scontro sulle Unioni civili "ha tenuto banco e rallentato fortemente l’attività legislativa, soprattutto sul fronte giustizia", ha spiegato Orlando, che ha rinnovato il pressing perché la II commissione "riprenda l’attività di carattere ordinario" facendo ripartire la riforma della prescrizione e del processo penale. Tra le altre "urgenze", Orlando ha segnalato il via libera alla riforma della magistratura onoraria. A maggio scadrà infatti la proroga dei giudici onorari "e il fatto di non avere una riforma compiuta che è già stata approvata dalla Camera rischia di creare molti problemi nell’esercizio della giurisdizione". Più attenzione a giustizia riparativa - Orlando ha poi posto l’accento sulla giustizia riparativa, i procedimenti in cui vittima e reo partecipano insieme attivamente nella ricerca di possibili soluzioni agli effetti di un illecito penale. Le "azioni riparative" che caratterizzano tale procedure, ha spiegato Orlando, "insegnano in termini di effettività ed efficacia molto di più della punizione". "Gli strumenti di giustizia riparativa, che si stanno sviluppando sempre più anche nell’ambito della giustizia penale, pongono al centro la negatività del reato e l’azione negativa posta in essere dall’autore, ma richiedono risposte positive pe sanare la lesione prodotta", ha evidenziato il ministro, convinto che "le azioni riparatorie non sono meno dure della sanzione meramente punitiva, ma certamente maggiormente dense di significato e di risvolti utili". Tempo di inaugurazioni: troppi giudici o troppo poco dialogo tra loro? di Renato Balduzzi Avvenire, 18 febbraio 2016 Tempo di inaugurazioni, nei palazzi di giustizia come nelle università e accademie. L’altro ieri è stata la volta della giustizia amministrativa, espressione con cui si vuole dare sostanza a un desiderio antico, quello di tutelare la giustizia nell’amministrazione (come si esprime, con felice espressione ottocentesca, l’articolo 100 della nostra Costituzione). In questo momento storico, nel quale domina l’esigenza di pubbliche amministrazioni amiche, "facili" e prossime al cittadino e all’utente dei servizi pubblici, anche la giustizia amministrativa si pone l’obiettivo di cambiare pelle o meglio, per dirla con le parole di Alessandro Pajno, neopresidente del Consiglio di Stato, di essere restituita "alla comprensione dei cittadini e al rapporto con le altre istituzioni", uscendo dalla "sua tendenziale autoreferenzialità" e dall’apparire "più preoccupata delle proprie questioni interne che di ciò che sta oltre la sua porta". Sono parole impegnative, anche perché pronunciate alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, le quali forse si attagliano non soltanto ai magistrati del Consiglio di Stato e dei Tar, ma, almeno in parte, alla magistratura nel suo insieme. Interessanti anche le proposte. Alcune realizzabili in via di autoriforma: più comunicazione e integrazione tra le "alte magistrature" (soprattutto nelle attività di formazione e di elaborazione dei precedenti giurisprudenziali, o nell’attivazione del processo telematico), maggior colloquio tra Consiglio di Stato e Corte di Cassazione per ridurre l’incertezza sul riparto della giurisdizione. Altre che richiedono modifiche normative, come quella che propone scambi istituzionali con temporanee assegnazioni di giudici dotati di particolare esperienza. In sostanza, più dialogo. Ma non quel "dialogo tra le Corti" che rischia, ove non ben calibrato, di coprire un eccesso di attivismo giudiziario e di impropria supplenza rispetto ad altri poteri, oltre che un’ingiustificata arrendevolezza rispetto a orientamenti di giudici sovranazionali o stranieri (e d’altra parte lo stesso presidente Pajno ha opportunamente messo in rilievo "l’uso sapiente", da parte del Consiglio di Stato, del "margine di apprezzamento" connesso alla specificità del nostro ordinamento). Ma il dialogo come necessità di maggiori raccordi tra buone pratiche e come minore autosufficienza della singola magistratura. La strada è aperta. Pronto il primo modello per i risarcimenti della Legge Pinto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2016 Pronto il modello per le richieste di risarcimento da eccessiva durata del processo. Lo ha messo a punto il ministero della Giustizia dando seguito a quanto previsto nell’ultima Legge di stabilità. Quest’ultima prevede che per ricevere il pagamento delle somme liquidate in base alla legge Pinto (la n. 89/2001), il creditore rilascia all’amministrazione debitrice una dichiarazione che attesti: la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo; l’esercizio di azioni giudiziarie per lo stesso titolo; l’ammontare degli importi che l’amministrazione è ancora tenuta a corrispondere; la modalità di riscossione prescelta. La dichiarazione, con la relativa documentazione, dovrà essere inviata alla Corte di appello che ha emesso il decreto di condanna e che provvede al pagamento dello stesso. In attesa dell’emanazione del decreto ministeriale con il quale i ministeri della Giustizia e dell’Economia dovranno predisporre la versione finale del modello può essere utilizzato lo schema reso disponibile sul sito della Giustizia. La dichiarazione ha validità semestrale e deve essere rinnovata a richiesta della pubblica amministrazione. Nel caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione, l’ordine di pagamento non può essere emesso. L’amministrazione, precisa la nuova versione della legge Pinto post Stabilità 2016, effettuerà il pagamento entro 6 mesi dalla data in cui sono integralmente assolti gli obblighi di trasmissione. Il termine però non inizia a decorrere in caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione. In ogni caso, gli importi che potranno essere riconosciuti, sono stati tagliati a partire da quest’anno: la somma dovrà essere compresa tra un minimo di 400 e un massimo di 800 euro per anno di ritardo o per frazione di anno comunque superiore a 6 mesi. La somma può poi essere diminuita fino al 20% quando le parti del processo presupposto sono più di 10 e fino al 40% quando le parti del processo sono più di cinquanta. Taglio poi fino a un terzo in caso di integrale rigetto delle richieste della parte ricorrente nel procedimento cui la domanda di equa riparazione si riferisce. La legge di Stabilità prevede però che il diritto all’equa riparazione è subordinato all’esercizio di rimedi preventivi all’irragionevole durata. Quali? Nei procedimenti civili rappresentano rimedi preventivi l’introduzione nelle forme del procedimento sommario di cognizione, la domanda di passaggio dal rito ordinario a quello sommario; per le cause che non prevedono il rito sommario, è rimedio preventivo l’istanza di decisione a seguito di trattazione orale. Intercettazioni. Tutte le insidie nell’autoriforma delle Procure di Carlo Nordio Il Messaggero, 18 febbraio 2016 Quindi basterà varcare il ruscello di confine tra una provincia e un’altra per avere discipline differenti su una materia così delicata. Esattamente come accadeva quando il pretore di una città balneare condannava le ragazze in topless per oltraggio al pudore, mentre nella spiaggia limitrofa un magistrato più benevolo neanche le inquisiva. Ovvero, caso ben più grave, quando una procura decideva di bloccare i beni di un rapito, mentre a pochi chilometri di distanza un diverso Pm trattava con i sequestratori (magari gli stessi) di un altro infelice. Tale incertezza del diritto confonderà ancor di più il povero cittadino, già convinto che la giustizia sia una sorta di aleatoria superstizione. Terzo. Tecnicamente, è irragionevole devolvere alla sola Polizia, o al solo procuratore, la decisione di quanto in una conversazione è rilevante o no. Educato dal salutare precetto di Richelieu - "datemi una lettera e una forbice e farò impiccare l’autore" - il legislatore dovrà pur consentire ai difensori l’ascolto delle conversazioni nella loro integralità. Perché se parlo di polvere bianca, e poi aggiungo che mi ha attenuato l’acidità gastrica, l’ambiguità della prima frase è eliminata dalla spiegazione della seconda, e quella che poteva sembrare cocaina si è rivelata bicarbonato. Ma così le persone che avranno accesso alle registrazioni resteranno numerose, come resteranno le possibilità di divulgazioni illecite e le difficoltà di individuarne l’autore. Esattamente come accade ora. Infine, e più grave, questa pur meritoria uscita dei procuratori è sintomatica dell’incapacità della politica di portare a buon fine le sue stesse iniziative, ogniqualvolta si deve riformare questa sgangheratissima giustizia. Da quando, vent’anni fa, l’allora ministro Flick lanciò l’allarme sull’invasività, i costi e le deviazioni delle intercettazioni, più o meno tutti i governi si sono impegnati a porvi rimedio. Principalmente quando, per usare una colorita espressione dell’On. D’Alema, ne sono stati "sputtanati" i loro principali esponenti. Eppure ogni buon proposito della politica si è mitigato, e alla fine si è spento come la candela di Macbeth, davanti alle critiche di una magistratura rigorosa. Magari la stessa che oggi, finalmente, si sostituisce alla sua inerzia colpevole. Intercettazioni. Il dilemma dei giudici "più realisti del re" di Antonio Ingroia Il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2016 Possibile che dove non è riuscita la politica riesca la magistratura con atti di autocensura? Dove non è riuscito il governo Berlusconi-Alfano, e neppure Mastella, a limare le unghie alla magistratura e a imbavagliare la stampa sulle intercettazioni, vero tallone d’Achille delle cricche politico- mafiose di ogni risma, potrà riuscire la magistratura, che, dopo anni di resistenza costituzionale, è diventata più conformista e omologata, tanto da togliere ogni imbarazzo al ministro Orlando che plaude al senso di prudenza istituzionale e capacità di autoregolamentazione della magistratura inquirente? A quanto si legge sulle colonne di Repubblica di martedì, dove qualche procuratore si dichiara addirittura nostalgico per il disegno di legge bavaglio Mastella, parrebbe di sì. Altro che partito delle procure! Sembrerebbe che il Partito della Nazione abbia occupato anche i vertici delle Procure di mezz’Italia. Come se la magistratura più irriducibile si fosse consegnata al "nemico". Ma se si legge il merito di alcune circolari, come quella del procuratore di Torino Armando Spataro, le cose si rivelano più complesse, perché sembra, a prima vista, trattarsi solo del l’applicazione della legislazione vigente. Ma ogni applicazione necessita di interpretazione e su questo terreno c’è un passaggio cruciale in quelle circolari che non può che lasciare perplessi. Sembra, cioè, che, pur con il lodevole intento di equilibrare tutti i diritti e interessi in gioco, tutela del segreto investigativo, diritto di difesa e diritto alla privacy compresi, alla fine si affidi al solo pm un compito fin troppo discrezionale. Ad esempio, nella circolare Spataro si rimette al pm titolare dell’indagine la delicata decisione se inserire in un binario parallelo, e più segretato, le telefonate da lui ritenute irrilevanti, magari perché relative a terze persone non indagate. Quando, cioè, secondo l’insindacabile giudizio del pm alcune telefonate dovessero essere ritenute irrilevanti rispetto ai fatti e agli indagati per cui si procede, la telefonata dovrebbe entrare in un "binario oscurato". Un binario non del tutto segreto, ma più impermeabile, perché la polizia giudiziaria non dovrà trascrivere quelle intercettazioni e non potrà neppure sommariamente indicarne il contenuto nei c.d. "brogliacci", ove normalmente si riportano le sintesi delle conversazioni telefoniche intercettate, e i difensori, da parte loro, avranno solo cinque giorni per ascoltare nelle cancellerie dei tribunali quelle telefonate senza poterne estrarre copia. Con la possibilità di chiedere al giudice di procedere alla trascrizione se dimostrassero quelle intercettazioni invece rilevanti, contrariamente al parere del pm, ma con l’effetto, in caso contrario, che quelle intercettazioni verrebbero subito dopo distrutte. Il che pone due problemi. Il primo lo ha già sollevato Marco Travaglio nel suo editoriale di ieri, e cioè il rischio che su quelle telefonate distrutte nascano poi "leggende metropolitane", versioni più o meno fantasiose frutto di indiscrezioni, mai più controllabili, provenienti da chi comunque quelle telefonate ha ascoltato. Il secondo effetto negativo sarebbe quello di mettere la difesa di indagati e persone offese in una posizione certamente deteriore e di difficile verifica dell’effettiva rilevanza delle intercettazioni, visto che, specie nei procedimenti di particolare complessità, è impossibile per il difensore rendersi conto, in virtù del solo ascolto entro cinque giorni dal deposito di tutti gli atti, della rilevanza di una data intercettazione telefonica senza avere la possibilità della lettura coordinata delle trascrizioni di tutte le altre intercettazioni ritenute invece rilevanti dal pm, che spesso contano centinaia e centinaia di pagine. Col rischio, insomma, che vadano distrutte telefonate ritenute dal pm irrilevanti o lesive della privacy di un terzo non indagato, ma che dalla difesa di un indagato o di una persona offesa potrebbero essere considerate rilevanti solo dopo un’attenta lettura complessiva di tutto il compendio probatorio acquisito dal pm, ovviamente impossibile in cinque giorni. Insomma, la domanda è: di fronte al rischio di compromettere i diritti di difesa di indagati e persone offese dal reato, non adeguatamente tutelati dalla lettura necessariamente parziale, in quanto unilaterale, degli atti da parte del pm, e il non meno importante diritto dell’opinione pubblica di essere pienamente informati, specie se si tratta di vicenda giudiziaria di pubblico interesse, perché tanti procuratori sentono la necessità di dimostrarsi più "rea - listi del re", col rischio -peraltro - che ciascun procuratore detti regole diverse? Non sarebbe meglio lasciare tutta e per intero alla politica la responsabilità di dettare regole uniformi per tutti, e poi confrontarsi sulle proposte di legge? A ciascun potere il proprio ruolo e le proprie responsabilità, please. I magistrati contro Salvini: "È un pericolo per la democrazia". E lui li insulta di nuovo di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 18 febbraio 2016 Sdegno per le parole del leader della Lega Nord, che aveva definito la magistratura italiana una "schifezza", è stato espresso dal primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, e dal pg Pasquale Ciccolo. Legnini (Csm): "No a nuovo scontro". Di colpo sembra tornato lo scontro politica-giustizia, come ai tempi di Berlusconi premier. Non a caso il "togato" del Consiglio superiore della magistratura Luca Palamara ha definito Matteo Salvini "un replicante", dopo le sue affermazioni dei giorni scorsi sulla magistratura "una schifezza", dopo il rinvio a giudizio del suo amico Edoardo Rixi, assessore piemontese e vicesegretario della Lega rinviato a giudizio nell’indagine su "Rimborsopoli". Il presidente Canzio - Ma dopo di lui al Csm hanno preso la parola il primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio e il procuratore generale Pasquale Ciccolo, cioè i massimi vertici della magistratura italiana, per stigmatizzare le affermazioni del leader leghista. "Delegittimare un potere dello Stato con parole offensive e denigratorie fa molto male alla nostra democrazia" ha detto Canzio. E Ciccolo, a ruota, ha messo in guardia dal "pericolo di attacchi indiscriminati e gratuiti che rischiano di incidere nella fiducia dei cittadini nella funzione giurisdizionale". La replica di Salvini - A stretto giro ha risposto il segretario della Lega, sulla sua pagina Facebook, con toni canzonatorio nei confronti dei vertici della cassazione: "Amici, scappate subito da questa pagina!!! Matteo Salvini è un pericolo per la democrazia. Sticazzi! Sono un pericolo per la democrazia…". Un modo per non fare alcun passo indietro, anzi. Ecco perché sembrano riaccendersi i fuochi di un tempo, che il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, nello stesso plenum, ha provato a scongiurare: "non abbiamo bisogno di una nuova stagione di scontro tra politica e magistratura". Sposando tuttavia le tesi di chi aveva parlato prima di lui: "La tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura costituisce un dovere costituzionale per il Csm. Per questo abbiamo il dovere di stigmatizzare quelle gravi e offensive espressioni". Quello che accadrà in seguito, anche alla luce della nuova inchiesta milanese sulla gestione della sanità nella Regione Lombardia a guida leghista, ci dirà se si tratta solo una polemica per qualche frase un po’ rude o se lo scontro dei tempi berlusconiani è destinato a riacutizzarsi. Insulti ai magistrati, Csm e Cassazione "censurano" Salvini di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2016 "Un pericolo per la democrazia", "frasi pesantemente offensive", "attacchi indiscriminati e gratuiti". I vertici della magistratura, Gianni Canzio e Pasquale Ciccolo, rispettivamente primo presidente e Procuratore generale della Cassazione, rispondono con fermezza al segretario della Lega Matteo Salvini che domenica scorsa, dal Congresso piemontese del Carroccio, aveva definito la magistratura "una schifezza" commentando il rinvio a giudizio dell’assessore leghista della Liguria Edoardo Rixi nell’ambito dell’inchiesta Rimborsopoli. Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini rivendica "il dovere del Consiglio di stigmatizzare e censurare" quelle parole "per tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura". E tutto il Csm (salvo Antonio Leone, laico di centrodestra, che minimizza) "rispediscono al mittente le accuse" del leader del Carroccio, che sembra "il replicante di un ex capo del governo", facendo "riaffiorare" una stagione" che "pareva alle spalle". Immediata la replica di Salvini, in perfetto stile leghista: "‘Sticazzi" scrive su Facebook, invitando ironicamente gli "amici" a "scappare" dalla sua pagina perché Canzio e Ciccolo lo hanno definito "un pericolo per la democrazia". Poi tenta una giustificazione: "Sarei un pericolo solo perché ritengo che la giustizia italiana faccia schifo?" si chiede, correggendo il tiro rispetto alle affermazioni di domenica (e cioè che i magistrati farebbero bene ad occuparsi, invece che degli scontrini di Rixi, "della mafia e della camorra, che sono arrivate fino al Nord"). Dopodiché "sfida" i "due signori" a un "confronto pubblico" e conclude con un post scriptum: "Forse i pericolosi sono altri, che dite, amici?". Contro Salvini, lunedì, il Procuratore di Torino Armando Spataro ha avviato un’indagine per vilipendio all’ordine giudiziario, ma per procedere avrà bisogno dell’autorizzazione del ministro della Giustizia. Ieri, però, a palazzo dei Marescialli c’è stata una vera e propria levata di scudi, che ha rievocato un’altra stagione politica, quando attacchi analoghi venivano dall’ex premier Silvio Berlusconi. A differenza di allora, stavolta la reazione delle toghe è stata immediata e diretta, prima con l’indagine per vilipendio e, ieri, con la "ribellione" del Csm, che ha incassato la solidarietà del Pd (Ermini e Ferranti) mentre la Lega parla di "atto di guerra a un leader politico, mai visto nella storia di una Repubblica". La prima "requisitoria" contro Salvini, in plenum, la pronuncia Palamara, chiedendo che il Csm esprima "vicinanza e solidarietà alla magistratura". L’affondo è di Canzio e Ciccolo. "Delegittimare un potere dello Stato con parole offensive e denigratorie fa molto male alla democrazia" dice il primo, esprimendo "amarezza per le frasi pesantemente offensive" di Salvini e rivendicando "reciproco rispetto tra le istituzioni". Ciccolo segnala il rischio di certe frasi sulla "fiducia" dei cittadini nella giustizia: "Il continuo discredito che si getta sulla magistratura è pericolosissimo". Per Legnini, il Csm "ha il preciso dovere di stigmatizzare e censurare" le parole del leader leghista e di "assumere tutte le posizioni necessarie per tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura" perché "non abbiamo bisogno di una nuova stagione di scontro tra poteri". La Lega, messa nell’angolo, rivendica la libertà di espressione e, proprio con Rixi, parla di "azione sistematica e concentrica contro Salvini". No all’informazione populista: il lettore merita chiarezza di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2016 Corte di cassazione, sentenza 17 febbraio 2016, n. 6463. Il lettore ha diritto di formare la sua opinione su un’informazione chiara e non populista. Partendo da questo presupposto la Corte di cassazione (sentenza 6463, depositata ieri) annulla, con rinvio, la sentenza con la quale la Corte d’appello aveva escluso la portata diffamatoria di un articolo pubblicato sul quotidiano Libero ritenendo che fosse stato semplicemente esercitato il diritto di critica. Il redattore, condannato dal Tribunale col direttore Alessandro Sallusti, aveva preso di mira un avvocato nominato consulente del consorzio Asi napoletano. Il professionista veniva additato come accumulatore di incarichi. Per il giornalista, la Giunta comunale "rossa", con sprechi da guinness, aveva attribuito al legale ben 130 consulenze. Il Tribunale aveva negato la "scriminante" del diritto di critica, perché la lettura si prestava all’equivoco che il consulente fosse stato pagato più volte per la stessa attività. Non era chiaro, insomma, che l’avvocato prestava la sua opera con continuità ed era a disposizione per ogni problema amministrativo. Alla Corte d’appello era bastato un passaggio dell’articolo che faceva riferimento ad attività di tipo amministrativo e singole cause davanti al Tar, Consiglio di Stato e Tribunali vari per cifre che "cominciavano a farsi davvero interessanti". Precisazione considerata sufficiente a diradare i dubbi sulla sostanziale rispondenza della notizia al vero, requisito, senza cui non è lecita la critica. Secondo i giudici pur trattandosi di incarichi di natura diversa avevano in comune il fatto di derivare dalla stessa amministrazione. Differenza che, anche se esplicitata, sarebbe comunque sfuggita al lettore medio a fronte del dato certo dei lauti compensi. Ma la conclusione alla Cassazione non piace. Soprattutto per il riferimento al lettore medio indicato - precisa la Suprema corte - come un target che non può essere destinatario di distinzioni troppo sottili, dovendo invece accontentarsi di un’informazione "all’ingrosso". Per i giudici della Quinta sezione penale, si tratta di una concezione sicuramente paternalistica nei confronti dei lettori, che ha l’effetto di giustificare a priori il giornalista. Idea sicuramente inaccettabile perché legittima una sorta di"populismo dell’informazione" "una informazione scandalistica- scrive la Cassazione - che accomuna persone e fatti". Al contrario il lettore ha il diritto di formare la sua opinione su informazioni chiare e distinte. Con l’occasione la Cassazione dà una lezione di giornalismo corretto e indica come avrebbe dovuto essere scritta la notizia. Maltrattamenti: non servono certificazioni se dichiarazioni delle vittime sono concordanti di Michele Viesti Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2016 Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 4 gennaio 2016 n. 9. Per la sussistenza del reato di maltrattamenti sono sufficienti le dichiarazioni concordanti delle persone offese, senza necessità di certificazioni mediche che attestino gli episodi di violenza. È quanto hanno stabilito i giudici della sesta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 9/2016, esaminando un caso di rigetto della richiesta di riesame avverso l’ordinanza dispositiva degli arresti domiciliari per il reato di cui all’articolo 572 del codice penale. Il fatto - A un soggetto, affetto da schizofrenia e consumatore abituale di sostanze alcoliche e stupefacenti, è comminata la misura cautelare degli arresti domiciliari, con controllo elettronico, per aver maltrattato i genitori e il fratello, minacciandoli e colpendoli ripetutamente, al fine di farsi consegnare somme di denaro. Il Gip non ritiene sufficiente a tutelare le esigenze cautelari alcuna altra misura meno affittiva, in considerazione del forte pericolo di reiterazione di altri gravi gesti di violenza desumibile dall’intensificarsi in breve tempo degli episodi di molestia e di violenza sulle cose che neppure le Forze dell’ordine hanno potuto frenare. Neanche il beneficio della sospensione condizionale della pena viene reputato concedibile all’indagato, sul cui futuro comportamento non è possibile formulare una prognosi positiva in mancanza di un percorso di trattamento e cura. L’indagato ricorre quindi per cassazione - Il ragionamento dei giudici - Muovendo dall’analisi di un eventuale difetto di motivazione sul quadro indiziario, la Corte non lo riscontra nell’ipotesi in esame, avendo il Tribunale ritenuto sussistente la gravità indiziaria del reato di cui all’articolo 572 c.p. sulla base delle concordanti dichiarazioni rese dalle persone offese, riscontrate dalle annotazioni delle Forze dell’ordine, chiamate a intervenire a causa delle aggressioni subite dai dichiaranti. E precisa che la mancanza di certificazioni mediche non priva di valenza indiziaria le dichiarazioni delle persone offese, considerato che sono state contestate all’indagato violenze consistite in percosse e che il contesto familiare in cui sono maturate le aggressioni rende plausibile che i familiari dell’indagato non siano ricorsi a cure ospedaliere, rivolgendosi alle Forze dell’ordine solo davanti all’impossibilità di fronteggiare direttamente la condotta violenta dell’indagato. I giudici di Palazzo Cavour ritengono invece fondata la censura riguardante il difetto di motivazione sulla personalità dell’indagato. Nel richiedere una misura più adeguata alla personalità dell’indagato, infatti, la difesa in sede di riesame ha prodotto una serie di documenti in ordine allo stato di salute dello stesso da cui si evince che egli è affetto da grave patologia psichiatrica che ha reso necessario in passato il frequente ricorso ai Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (di cui 12 in regime di trattamento sanitario obbligatorio). Su questo quadro clinico l’ordinanza impugnata non si è affatto pronunciata, per stabilire la misura più adeguata a fronteggiare la pericolosità dell’indagato. La Suprema corte riconosce pertanto che l’ordinanza impugnata debba essere annullata limitatamente alle esigenze cautelari perché si tenga conto in sede di rinvio delle precedenti osservazioni. La decisione - La Corte annulla l’ordinanza impugnata limitatamente alle esigenze cautelari e rinvia sul punto al Tribunale del riesame. È reato costringere un’auto a fermarsi Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2016 Corte Appello di Taranto, Sezione penale, sentenza 7 settembre 2015, n. 702. Commette il reato di violenza privata l’automobilista che con una manovra pericolosa esegue una brusca sterzata, affianca o sorpassa un’altra autovettura costringendo il conducente di quest’ultima a cambiare direzione di marcia o ad accostare per evitare la collisione. Nel caso di specie, è stato condannato un automobilista che con la sua vettura aveva affiancato e stretto lateralmente un altro mezzo costringendo il conducente a fermarsi in una piazzola di sosta per poi aggredirlo. Peculato per il direttore del Tg Rai che usa la carta di credito aziendale per fini privati di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2016 Corte di cassazione, sentenza 17 febbraio 2016, n. 6405. Il direttore di un telegiornale Rai è un incaricato di pubblico servizio. Partendo da questo presupposto, la Cassazione (sentenza 6405) conferma la condanna per peculato continuato nei confronti dell’ex direttore del Tg1, Augusto Minzolini, per l’uso indebito della carta di credito aziendale. La Cassazione respinge il ricorso del giornalista negandogli anche le attenuanti invocate per la particolare tenuità del danno economico causato alla Rai. Minzolini, accusato di essersi appropriato di denaro pubblico per 65 mila euro dal luglio 2009 al novembre 2010, era stato assolto dal Tribunale, che aveva ritenuto mancante l’elemento soggettivo del reato: per i giudici, l’ex direttore non era consapevole di spendere soldi pubblici, ma certo di poter utilizzare per spese di rappresentanza la carta, consegnata dalla Rai. Di parere diverso Corte d’appello e Cassazione. Secondo i giudici, il senatore di Forza Italia, all’epoca dei fatti direttore del Tg1, aveva sistematicamente violato le regole aziendali che gli erano state formalmente comunicate e che dunque dovevano essergli note. Al giornalista è stato contestato un utilizzo pressoché quotidiano, giorni festivi compresi, della carta aziendale per cene, spesso a due, in ristoranti di lusso. Non passa dunque la tesi della buona fede né la richiesta di applicazione delle attenuanti per aver risarcito un danno che il ricorrente riteneva di particolare tenuità (articolo 323 bis del Codice penale) in ragione del modestissimo valore delle singole appropriazioni (100- 150 euro a cena) e in relazione alla capacità economica della parte offesa. La Cassazione guarda invece al totale delle appropriazioni di denaro pubblico - oltre 65 mila euro - e alla gravità intrinseca dei fatti: la piena coscienza di abusi reiterati e commessi in un ruolo apicale. Non serve neppure l’argomento della riparazione del danno, perché non è stata, come prevede la norma, volontaria: la Rai aveva messo in mora il ricorrente e trattenuto parte degli importi dalle buste paga. Per quanto riguarda poi la natura pubblicistica del ruolo rivestito dal ricorrente, la Cassazione ricorda l’indubbia connotazione pubblicistica dell’attività di informazione radio-televisiva svolta dalla Rai. Un servizio caratterizzato dal preminente interesse generale ad un’informazione corretta e pluralista offerta ai cittadini. Inoltre, nonostante la veste di società per azioni, peraltro partecipata totalmente da enti pubblici, la Rai è designata dalla legge come concessionaria di un servizio essenziale e sottoposta alla vigilanza di una commissione parlamentare. Per finire, la Radio Televisione Italiana è destinataria di un canone da utilizzare, soprattutto, per coprire i costi dell’attività che gli è propria: informare il pubblico. Confisca del denaro in possesso dell’imputato. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2016 Sostanze stupefacenti - Reato previsto dall’articolo 73, comma quinto, d.P.R. n. 309/1990 - Fatto di lieve entità - Confisca del danaro in possesso dell’imputato - Condizioni. In relazione al reato previsto dall’articolo 73, comma quinto, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, può procedersi alla confisca del danaro, trovato in possesso dell’imputato, solo quando ricorrono le condizioni generali previste dall’articolo 240 cod. pen. e non ai sensi dell’articolo 12 sexies del D.L. n. 306 del 1992, convertito nella legge n. 356 del 1992. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 16 ottobre 2015 n. 41778. Sostanze stupefacenti - Reato previsto dall’articolo 73 d.P.R. n. 309/1990 - Confisca del denaro in possesso dell’ imputato -Articolo 240 cod. pen. comma 1 - Presupposti - D.L. 306/1992 articolo 12 sexies - Lucro - Vantaggio economico. Ove venga ravvisata l’ipotesi di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 5, è possibile procedere alla confisca del danaro trovato in possesso dell’imputato solo in presenza dei presupposti di cui all’articolo 240 c.p., comma 1 e non ai sensi del Decreto Legge n. 306 del 1992, articolo 12 sexies. L’articolo 240 c.p., prevede la confisca delle cose che costituiscono profitto del reato. Il profitto è costituito dal lucro e cioè dal vantaggio economico che si ricava, direttamente o indirettamente, dalla commissione del reato. È pertanto certamente ammessa la confisca del danaro che costituisca provento del reato di vendita di sostanze stupefacenti. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 19 giugno 2015 n. 25955. Sostanze stupefacenti - Cessione di stupefacenti - Ipotesi di fatto di lieve entità - Possibilità di confisca del denaro in possesso dell’imputato - Ricorrenza delle condizioni ex articolo 240 c.p. - Confisca del profitto del reato. In relazione al reato di cessione di sostanze stupefacenti, quando venga ravvisata l’ipotesi del fatto di lieve entità, può procedersi alla confisca del danaro trovato in possesso dell’imputato solo quando ricorrono le condizioni generali previste dall’articolo 240 cod. pen. per la confisca del profitto del reato e non ai sensi del Decreto Legge n. 306 del 1992, articolo 12 sexies, convertito nella Legge n. 356 del 1992. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 2 ottobre 2014 n. 40812. Sostanze stupefacenti - Confisca del denaro ricavato dalla vendita di stupefacente - Fatto lieve ex articolo 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 - Divieto di cui all’articolo 12 sexies D.L.306/92 - Irrilevanza - Norma speciale. Può costituire oggetto di confisca ex articolo 240 cod. pen. la somma di denaro che il giudice accerti essere stata ricavata dalla cessione della sostanza stupefacente anche nel caso di condanna per il reato di cui all’articolo 73, comma quinto, legge stupef., non ostandovi il divieto posto in relazione a tale fattispecie dall’articolo 12 sexies del d.l. n. 306/92 conv. nella legge n. 356/92, che, quale disposizione speciale, trova applicazione solo nell’ipotesi particolare dalla medesima regolata di condannato che non sia in grado di giustificare la provenienza del denaro di cui ha la disponibilità. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 5 aprile 2000 n. 4214. Successione nel tempo di legge penale processuale. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2016 Leggi penale processuale - Successione nel tempo - Principio della retroattività della norma favorevole - Operatività del principio per le misure cautelari - Esclusione. In tema di successione di leggi processuali nel tempo, non opera il principio della retroattività della disposizione più favorevole, nemmeno nell’ambito delle misure cautelari, poiché non esistono principi di diritto intertemporale propri della legalità penale che possano essere pedissequamente trasferiti nell’ordinamento processuale. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 14 ottobre 2015 n. 41322. Leggi penale processuale - Principio della retroattività della norma favorevole - Applicabilità alla disciplina processuale - Esclusione - Principio "tempus regit actum". Il principio di necessaria retroattività della disposizione più favorevole, affermato dalla sentenza Cedu del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola contro Italia, non è applicabile in relazione alla disciplina dettata da norme processuali, che è regolata dal principio "tempus regit actum". • Corte cassazione, sezioni Unite, sentenza 28 ottobre 2014 n. 44895. Leggi penale processuale - Successione di leggi processuali - Disciplina - Retroattività delle leggi più favorevoli - Limiti - (Cod. pen. articolo 2). In tema di successione di leggi processuali nel tempo, il principio secondo il quale, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato, non costituisce un principio dell’ordinamento processuale, nemmeno nell’ambito delle misure cautelari. Tale principio è piuttosto applicabile solo alla norma cautelare che, al di là della sua collocazione formale, produce effetti afflittivi per l’indagato/imputato, qualora la modifica successiva, incidendo sulle condizioni di applicabilità, possa determinare il venir meno di tali effetti. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 18 luglio 2014 n. 31839. Leggi penale processuale - Successione nel tempo - Retroattività della norma favorevole - Esclusione. In tema di successione di leggi processuali nel tempo, il principio secondo il quale, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronunzia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato, non costituisce un principio dell’ordinamento processuale, nemmeno nell’ambito delle misure cautelari, poiché non esistono principi di diritto intertemporale propri della legalità penale che possano essere pedissequamente trasferiti nell’ordinamento processuale. • Corte cassazione, sezioni Unite, sentenza 14 luglio 2011 n. 27919. Giuristi e magistrati sono d’accordo: perché l’innocente deve pagarsi l’avvocato? di Maurizio Tortorella Tempi, 18 febbraio 2016 Nel febbraio 2012 ci provò un deputato di Forza Italia, Daniele Galli: presentò una proposta di legge per obbligare lo Stato a rifondere le spese legali del cittadino che viene imputato in un processo penale e ne esce assolto con formula piena. Non venne mai nemmeno discussa. Eppure affrontava una delle peggiori ingiustizie italiane. Ogni anno in questo paese si aprono 1,2 milioni di procedimenti penali, più alcune centinaia di migliaia di processi tributari. Gli assolti, alla fine, sono la maggioranza: secondo alcune stime sono quasi i due terzi del totale. Moltissimi sono quelli che escono dalle aule di giustizia assolti con una "formula piena", come si dice, e cioè perché il fatto non sussiste o per non avere commesso il fatto. Costoro, però, devono comunque pagare di tasca propria l’avvocato e i professionisti di parte: periti, tecnici, consulenti. Si tratta di cifre a volte importanti. La famiglia di Raffaele Sollecito, processato per otto anni come imputato per l’omicidio di Meredith Kercher a Perugia, ha dovuto pagare 1,3 milioni di euro. Elvo Zornitta, accusato ingiustamente di essere "Unabomber", il terrorista del Nord-Est, dovrebbe pagarne 150mila al suo avvocato. Giuseppe Gulotta, vittima del peggiore errore giudiziario nella storia d’Italia (22 anni di carcere da innocente) dovrebbe affrontare una spesa da 600mila euro. Ci sono poi tantissimi casi nei quali anche parcelle da alcune decine di migliaia di euro rappresentano la rovina economica. Per tutto questo l’"ingiusta imputazione" è anche un’ingiustizia intollerabile per uno Stato di diritto. Ma lo è anche per l’esempio che viene dall’estero: in Gran Bretagna e in altri 31 paesi europei, dall’Albania all’Ungheria, l’ordinamento giudiziario prevede che sia riconosciuta la compensazione delle spese legali per l’imputato assolto con formula piena. Il settimanale "Panorama" ha dedicato al tema una storia di copertina, che ha suscitato interesse in Parlamento, avviando numerose proposte di legge trasversali, da destra a sinistra, e sia alla Camera sia al Senato. Le (povere) casse dello Stato - Del resto, anche importanti giuristi e magistrati concordano con l’idea. Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, si dice convinto che sia "una fondamentale questione di giustizia: con il discutibile principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, lo Stato stabilisce il dovere d’indagare dei pubblici ministeri; ma ha anche l’obbligo di risarcire l’avvocato all’innocente che senza alcun motivo ha dovuto affrontare spese legali, spesso elevate". Giorgio Spangher, docente di procedura penale alla Sapienza di Roma, ipotizza un fondo "che provveda almeno in parte a indennizzare le spese sostenute", come già avviene per l’ingiusta detenzione. Certo, il problema (come sempre in questi casi) sono le casse dello Stato: con la Legge di stabilità per il 2016 il governo ha appena dimezzato e reso praticamente inaccessibili le disponibilità previste per la legge Pinto, la norma che dal 2001 indennizzava gli imputati vittime della lunghezza dei processi a un ritmo di circa 500 milioni l’anno. Sarà forse difficile, pertanto, che si possa mettere in atto qualcosa di valido sul rimborso delle spese legali. Ma non può essere questa la scusa per distogliere lo sguardo da una vera ingiustizia. Se sei stato accusato di un reato ma sei innocente, non è giusto che sia tu a pagare l’avvocato: deve farlo lo Stato. Lazio: il Consiglio regionale si difende "l’Ufficio del Garante dei detenuti funziona" online-news.it, 18 febbraio 2016 La struttura del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale "è pienamente funzionante in tutto il suo organico e continuano le attività nelle carceri maschili e femminili con alcune unità di personale dedicate ai contatti con le direzioni degli istituti di pena, con i detenuti e in particolare prosegue l’opera di mediazione tra i detenuti stessi e gli atenei nell’ambito del progetto attivato di Teleuniversità". Lo precisa in una nota l’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. "L’organico dell’ufficio è composto per metà da personale regionale e per metà di Lazio Service - prosegue il comunicato - pertanto i costi relativi non costituiscono ulteriore aggravio per le casse regionali. Nel frattempo, in attesa del rinnovo della carica, proseguono le attività all’interno dell’ufficio del Garante relative ai contatti con le università, a quelli con le Asl, all’archivio e al lavoro amministrativo. Gli impegni di spesa, per effetto della spending review, sono sensibilmente diminuiti già a partire dall’annualità 2013. Nell’ottica di razionalizzazione dei costi, inoltre, alla fine di dicembre 2015 è stata stabilita la rescissione, a partire dal 1 luglio prossimo, del contratto di locazione dell’immobile che ospita l’ufficio del Garante, che verrà spostato in una sede di proprietà della Regione e per questo produrrà un risparmio di oltre 91 mila euro annui. Il Consiglio regionale del Lazio è pienamente cosciente dell’importanza del Garante dei detenuti del Lazio - si legge ancora nella nota - tanto che è stata completata l’istruttoria relativa all’ultimo bando per la nomina della nuova figura e dei suoi due coadiutori. Le carte sono al vaglio della Commissione regionale competente e non appena tale Commissione avrà completato l’iter istruttorio, le nomine in questione saranno sottoposte al voto del Consiglio". Lombardia: la zarina delle dentiere tra clientele, mazzette e l’amico delle cosche di Piero Colaprico La Repubblica, 18 febbraio 2016 L’imprenditrice Canegrati era il capo indiscusso dell’intero sistema di tangenti nella sanità pubblica lombarda. Con Maria Paola Canegrati irrompe sulla scena nazionale della corruzione un nuovo tipo di tangentista: "Come dico sempre io "de Paola ghe n’è vuna, tutte le altre son nessuna". Nella richiesta d’arresto del sostituto procuratore di Monza Manuela Massenz si legge che "il capo indiscusso dell’intero sistema è lei": è il perno delle mazzette dentro la sanità pubblica lombarda per favorire negli appalti le sue imprese di dentisti a prezzi modici, e con protesi non sempre perfette. Un capo però "al femminile". Come testimonia un dialogo che ha fatto molto riflettere gli inquirenti: "Hai un bellissimo ragazzo", dice "il capo" alla piangente direttrice amministrativa di un’azienda ospedaliera. "Oh, Paola, tu non sai… Era felicissimo, "Mamma, finalmente qualcosa di positivo…". È stato appena assunto dalla ditta del "capo", che spiega: "Venerdì viene, firma il contratto, e lunedì comincia. Per me, gli ho detto, non ci sono figli e figliastri. Tu fai il tuo mestiere…". "Esatto, Paola. Riprendilo, sgridalo! Deve capire nel mondo del lavoro quanto si fa fatica…". Altra mamma funzionario Asl, altra assunzione facile: "Mi hai reso la donna più felice della terra, ti giuro… potessi ti… ti farei un monumento, giuro". "Tranquilla", è la risposta, in uno stile secco e pragmatico che ai più anziani potrà ricordare Franca Valeri nell’interpretazione della ricca lombarda nel film di Dino Risi "Il vedovo", con Alberto Sordi romano sfaticato. Se c’è da faticare, Paola è in effetti raggiante: "Benissimo, abbiam preso ‘na valangata di lavoro". Le intercettazioni dimostrano che nulla la spaventa: "Problemi zero. Il tecnico ce l’ho io, se voi non avete il medico meglio, sono più contenta. Gli metto il mio, finita la festa". Il dettaglio? Curato in prima persona: "Mi vada a fare il sopralluogo a Bollate per l’installazione dell’ortopantomografo". La parte fondamentale del suo lavoro, quella dell’appoggio politico sin dentro il cuore della neonata riforma sanitaria leghista, si svolge sottobanco: quando raggiunge sotto il palazzo della Regione il suo interlocutore, in un bar dal nome evocativo ("Colonna d’oro"), la signora Paola esce e comincia a girare. Come farebbe una spia? Certo, lei però usa altre parole: "Micio micio bau bau". Chiama "tesorino" un faccendiere, che la chiama "cucciola". Seduttiva con gli uomini, sorella con le donne, il "capo" marca la differenza con i politici. Loro prendono "utanta mila euro per non fare un cazzo". Viceversa, "nessuno mi ha regalato niente, ho cagato duro, mi fate venire anche le emorroidi". Da dove arriva questo soggetto padanamente esplicito, oggi al centro di una galassia di società, con decine di ambulatori dentistici che hanno fatturato in dieci anni 400 milioni di euro e che lavorano con decine di ospedali lombardi, sbaragliando la concorrenza alle catene private dei dentisti a basso costo? Monza: il "capo" ci nasce 55 anni fa e nel 1985, a 24 anni, combina un piccolissimo guaio. Viene incaricata dal Comune di scrivere un libro su "Carnate". Due mesi dopo la stampa, si scopre che ha copiato i capitoli da un mensile locale. Dopo la modesta truffa letteraria, s’impiega nel mondo meno glamour delle dentiere. Nel ‘95 è alla "Wisil latoor", cinque anni dopo ne è titolare e cominciano a fioccare appalti su appalti. Come mai? Ha un amico importante: Pietrogino Pezzano, tredici anni più anziano, numero uno della Asl brianzola, in ascesa. Roberto Formigoni, ex presidente pdl della Lombardia, lo vuole a capo dell’ancor più ricca Asl di Milano. Una scelta molto sbadata da parte del politico che non trova ancora le ricevute dei suoi viaggi sulla barca a vela del faccendiere della sanità Piero Daccò, già condannato in via definitiva? Siamo nel 2010 e mentre Pezzano approda a Milano, arrivano anche alcune sue foto con pezzi grossi della ‘ndrangheta. La sua carriera pubblica viene sbarrata, ma la signora Canegrati l’accoglie nel settore privato: e versa uno stipendio cospicuo, ben 260mila euro (definizione contenuta in atti giudiziari) all’ex amante. E per fare esattamente che cosa? Domanda ancora priva di risposta. L’idea delle "dentiere sociali" e del "sorriso sicuro" a prezzo basso era un’idea giusta, da "eccellenza in Lombardia", come diceva Formigoni. Declinata però nel solito modo: finché, come l’altro ieri, non arrivano i carabinieri del nucleo investigativo, qui vincono gli amici del potere. Come Daccò, Antonio Simone, Mario Mantovani: e come Paola Canegrati, nostra signora delle dentiere. Milano: casi di legionella nel carcere di San Vittore, impianti sanitari da ristrutturare di Claudia Zanella La Repubblica, 18 febbraio 2016 Nuovi casi di legionella al quinto reparto del carcere di San Vittore. Non sono tanti i contagiati, ma ciclicamente il problema ritorna. Sempre e solo lì. "Non conosciamo la causa dei casi che si sono verificati solo nel quinto reparto, aperto da neanche dieci anni", dice Gloria Manzelli, direttrice del penitenziario, durante la seduta della sottocommissione Carceri, ieri a Palazzo Marino. "Ogni volta attiviamo la procedura prevista di manutenzione degli impianti. Ma questi accorgimenti non sono stati sufficienti per impedire il ripetersi della cosa". Un solo caso negli ultimi anni a Bollate. Nessuno a Opera e al penitenziario minorile Beccaria. La legionella è uno degli elementi emersi dall’ultima relazione semestrale della Ats Città Metropolitana (ex Asl di Milano) sulle condizioni igienico sanitarie nelle carceri. Il batterio, che non può essere trasmesso da persona a persona, si diffonde nell’acqua e si contrae per via aerea, cioè inalando gocce infette, in luoghi come le docce. E sono proprio le docce il problema principale delle carceri milanesi. Vecchi impianti che hanno bisogno di essere sistemati. Aspiratori che non funzionano, formazione di muffe. Ma anche infiltrazioni nelle pareti, più gravi a Opera e al Beccaria. Problemi anche con topi e insetti, che non si riescono a eliminare. Ma nel complesso, "le condizioni igienico sanitarie dei detenuti sono sufficienti. Anche se risentono del ritardo negli interventi di manutenzione e ristrutturazione del carcere di Opera e del Beccaria", ha detto Marco Bosio, direttore generale di Ats Città Metropolitana Milano. San Vittore ha anche trovato il modo di chiudere le cucine del terzo e quinto reparto, che sono nei sotterranei e che hanno problemi di umidità e malfunzionamento degli impianti di aspirazione. Verranno rimpiazzate da quella centrale del sesto reparto. In questi ambienti si creeranno, invece, degli spazi a disposizione dei detenuti, per favorire momenti di socialità dentro le mura del penitenziario. Misura per rendere più vivibile il carcere che affianca quelle di creare aree verdi nei cortili di Bollate e Opera (dove verrà fatto anche un murale). Questo dovrebbe invogliare i detenuti a utilizzare questi spazi, ora più simili a colate di cemento, e "convincere i detenuti a uscire dalle proprie celle", spiega Giacinto Siciliano, direttore del carcere di Opera. Siciliano, tra i problemi legati all’utilizzo delle aree comuni, lamenta la difficoltà del fare rispettare il divieto antifumo nel penitenziario. "Se anche abbiamo cercato di mettere i fumatori e i non fumatori in celle separate, non riusciamo a convincere chi fuma a farlo solo nella sua". Per questo, secondo Siciliano, potrebbe essere utile un "piano di formazione antifumo", in collaborazione con la ex Asl. Bari: suicidi in cella, i legali protestano. A Trani evitata una nuova tragedia di Luca Guerra La Repubblica, 18 febbraio 2016 Un "grave stato di sofferenza e afflittività del regime carcerario". È quanto denunciato dalla Camera penale di Bari dopo il suicidio di un 48enne, nel bagno della cella che condivideva con altri detenuti. Gli avvocati sposano la causa del sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Sappe, che aveva definito il penitenziario barese "inadeguato e con notevoli carenze e insufficienze dal punto di vista del trattamento sanitario dei detenuti". A oggi sono 3.300 i detenuti reclusi nelle carceri pugliesi: numeri a causa dei quali "appare difficile attuare il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena e assicurare a ogni persona detenuta il trattamento individualizzato previsto. La commissione carcere ed esecuzione penale della Camera penale di Bari - conclude la nota - avvierà tutte le iniziative". A poche ore dal suicidio verificatosi nel carcere di Bari, è stata sfiorata una tragedia anche nella casa circondariale di Trani: nella serata di ieri un detenuto di 37 anni ha provato a togliersi la vita all’interno della sua cella, avvolgendo il cavo-antenna e quello di alimentazione della tv intorno al suo collo e issandosi su uno sgabello per impiccarsi. Solo l’intervento di un agente di polizia penitenziaria ha evitato il peggio. Non sono note le cause del gesto dell’uomo, ora fuori pericolo di vita e piantonato nell’infermeria del penitenziario con l’assistenza di due psicologi. "La perizia dell’agente ha evitato il peggio - la denuncia del segretario generale del Cosp, Domenico Mastrullli - ma l’emergenza resta, a dispetto dei dati diffusi dal ministero: a Trani abbiamo una carenza di organico pari a 40 unità, e nel solo mese di dicembre sono state utilizzate 3.200 ore di straordinario. Urgono soluzioni concrete". Rimini: Garante regionale "Magistrato Sorveglianza assente a incontri da circa un anno" Ristretti Orizzonti, 18 febbraio 2016 La figura di garanzia dell’Assemblea legislativa riferisce anche come "risulta ampiamente sotto-utilizzata la sezione Andromeda a custodia attenuata, con soli 7 detenuti a fronte di 16 posti, in cui vengono collocati i ristretti tossicodipendenti o alcoldipendenti". Presenze sotto controllo e condizioni igienico-sanitarie "decisamente migliorate", ma perdura il "disagio particolarmente significativo" per la "la mancanza di risposte (e i ritardi) alle istanze presentate da parte della popolazione detenuta, che riferisce di non avere più visto il magistrato di sorveglianza in carcere, per gli incontri con coloro che ne hanno fatto richiesta, da circa un anno". Desi Bruno, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, ha visitato venerdì scorso, 12 febbraio, i Casetti, la casa circondariale di Rimini. Le principali criticità, a quanto è stato riportato alla figura di garanzia dell’Assemblea legislativa, risiedono non tanto nella "mancanza di una direzione stabile, dal momento che il ruolo direttivo a cui è attualmente attribuita già riveste la titolarità della funzione in un altro istituto" - infatti "bisogna riconoscere che proprio sotto questa direzione sono sensibilmente migliorate le condizioni detentive" - quanto nei "rapporti con il magistrato di sorveglianza territorialmente competente", specialmente per i detenuti condannati in via definitiva, che hanno anche inviato una lettera alle autorità competenti. Un problema avvertito anche dall’area trattamentale, "in particolare sofferenza per la difficoltà a trovare sollecite risposte a percorsi che potrebbero sfociare nella concessione di permessi premio e misure alternative", riferisce Bruno, che non manca di far notare come "i detenuti definitivi presenti nel carcere di Rimini hanno pene contenute e il numero di educatori presenti, cinque, è idoneo ad assicurare la massima celerità nelle istruttorie previste". Nota positiva sono, raccontano i ristretti, "i rapporti corretti e positivi con il personale di polizia penitenziaria, che spesso risolve con tempestività molti dei quotidiani problemi della vita delle persone recluse". Per quanto riguarda invece la situazione della struttura, "le condizioni igienico-sanitarie, come anche certificato dell’Ausl di Rimini, sono decisamente migliorate rispetto al passato": la prima sezione, che era stata la più problematica sotto l’aspetto igienico-sanitario, è attualmente chiusa per lavori che, con l’apporto della manodopera dei detenuti, saranno terminati verosimilmente nel breve periodo, riporta la Garante. Nel corso del sopralluogo, personale penitenziario ha però segnalato che "in tre celle di una sezione, in ragione di finestre che hanno una evidente ampiezza sotto-dimensionata, durante la stagione estiva si raggiungono temperature molto elevate". La Garante segnalerà il problema all’Ausl per le necessarie verifiche e prescrizioni. Come emerso durante la visita, risulta ampiamente sotto-utilizzata la sezione Andromeda a custodia attenuata, con soli 7 detenuti a fronte di 16 posti, in cui vengono collocati i detenuti tossicodipendenti o alcoldipendenti, selezionati dall’area trattamentale e dell’Ausl, in attesa dell’accesso a misure alternative alla detenzione con finalità terapeutiche. Proprio in ragione di questa ormai perdurante sotto-utilizzazione potrebbe essere opportuno, "aprire una riflessione su una diversa destinazione degli ambienti detentivi relativi, anche in parte, e con particolare riguardo alla necessità e all’utilità di avere una sezione dimittendi, volta a favorire il rientro delle persone con pena inferiore ad una anno nel contesto sociale- suggerisce Bruno, nulla togliendo alla possibilità di favorire comunque l’accesso ad ipotesi trattamentali di persone detenute con problemi di dipendenza, ma prendendo atto della attuale e diversa tipologia di sostanze e sui mutamenti intervenuti in materia". Il dato relativo alle presenze, infine, è risultato sotto controllo, secondo il trend dell’ultimo anno: erano 96 le persone (di cui 47 stranieri), a fronte di una capienza regolamentare di 130. La vocazione dell’istituto, nell’ambito della piena realizzazione del circuito penitenziario regionale, è di ospitare in via principale detenuti in custodia cautelare: sono infatti 59 gli imputati e 37 i condannati in via definitiva. Una sezione è adibita a ospitare i cinque detenuti transessuali, mentre sei detenuti sono ammessi al regime di semilibertà e quattro al lavoro all’esterno. Nelle sezioni detentive è operativo il regime "a celle aperte": i detenuti possono restare all’esterno della camera di pernottamento fino a 9 ore al giorno circa, con una tendenziale separazione fra imputati e condannati in via definitiva. Savona: chiusura del carcere, oggi al Dap le sorti del personale di Polizia penitenziaria savonanews.it, 18 febbraio 2016 "Finalmente oggi 18 febbraio 2016 si decideranno le sorti del personale di Polizia Penitenziaria che espleta servizio al S. Agostino di Savona, circa 50 Poliziotti che con encomiabile senso del dovere fino ad oggi si sono prestati a innumerevoli servizi e non come dice purtroppo un sindacato "a vigilare le mura" o pensare ad "un carcere bed and breakfast" - di fatto sono impegnati in traduzioni, piantonanti sul territorio ligure e soprattutto stanno ultimando i lavori di dismissione istituto così come voluto dallo stesso Ministro Orlando" - ne da notizia Fabio Pagani, Segretario Regionale della Uil-Pa Penitenziari. Aggiunge: "Confermiamo che la Chiusura del S. Agostino risulta una decisione azzardata, le sorti del personale di Polizia Penitenziaria domani troveranno sicura definizione - invece il nostro monito è rivolto alla politica savonese e ligure - ci auguriamo infatti che insieme all’Amministrazione Penitenziaria identificano in fretta l’area per un Nuovo Carcere a Savona - speriamo possa essere accolta la nostra proposta ovvero, di vedere il Nuovo penitenziario all’interno della Scuola di Polizia Penitenziaria di Cairo Montenotte" "È vero, ci piacerebbe immaginare una società senza carcere, senza violenze, senza reati, è il sogno di tutti, ma aimè - confessa il Segretario Regionale - la realtà purtroppo è un’altra e la criminalità italiana non può certo essere paragonata a quella norvegese - l’emergenza carceri non è affatto finita - possiamo dire che senza Savona si implementa l’emergenza in Liguria e, di conseguenza, l’auspicio resta quello che il Ministro della Giustizia possa presto intercedere presso il Governo affinché venga posto davvero all’Odg la questione carcere". "È ovvio - conclude Pagani - servono mezzi, uomini e donne, strumenti per efficientare un sistema che presenta tante, troppe crepe... nel frattempo ci auguriamo che si trovi immediata soluzione per Nuovo Penitenziario a Savona". Campobasso: "omicidio colposo", cambia il reato per la morte in carcere di Ianno di Assunta Domeneghetti primonumero.it, 18 febbraio 2016 Non è più omissione di soccorso l’accusa per il medico e i tre infermieri che il 19 marzo di un anno fa hanno soccorso Alessandro Ianno, 34enne campobassano deceduto in carcere a seguito di un infarto. Per loro l’accusa oggi è omicidio colposo: secondo i difensori dei familiari del ragazzo i sintomi inequivocabili dell’arresto cardiocircolatorio in arrivo sarebbero stati sottovalutati, per questo hanno aggiunto una perizia di parte che ha rafforzato i loro dubbi sul corretto operato dei sanitari. Il giudice si è riservato: potrebbe archiviare o ordinare nuove indagini. Per i legali dei quattro indagati, invece, non c’è alcuna responsabilità da parte del personale del carcere. Omicidio colposo: è questa l’accusa per i tre infermieri e il medico del carcere di Campobasso che il 19 marzo del 2015 hanno soccorso il giovane detenuto Alessandro Ianno, deceduto dietro le sbarre a seguito di un infarto. Il capo d’imputazione, inizialmente omissione di soccorso, è cambiato solo recentemente: ora i quattro che quel giorno erano in servizio nella casa circondariale di via Cavour, sono sotto inchiesta per un nuovo (e più grave) reato. L’inchiesta era partita subito dopo la morte e affidata al sostituto procuratore Rossana Venditti la quale, dopo qualche mese di indagini e dopo la lettura della perizia del medico incaricato dalla Procura, aveva chiesto l’archiviazione. Oggi non è più lei titolare di quel fascicolo passato nelle mani del pm Vincenzo Gallucci. Alla sua richiesta di archiviazione i legali della famiglia Ianno avevano fatto opposizione anche perché in mano hanno una nuova perizia, questa volta di parte, che è stata messa agli atti nell’udienza in Camera di Consiglio che si è celebrata ieri, 16 febbraio, alla presenza della giudice Teresina Pepe la quale si è riservata sulla decisione. Pepe potrebbe decidere per l’archiviazione o la prosecuzione delle indagini tenendo conto di questo ulteriore parere medico legale presentata dai legali Silvio Tolesino e Antonello Veneziano. In questa relazione crescono e si alimentano i dubbi già sollevati in passato dagli avvocati che non avevano ritenuto soddisfacenti le conclusioni a cui era giunto il medico legale che ha svolto l’autopsia sul corpo di Alessandro Ianno. Per il dottore Vecchioni il decesso del detenuto 34enne era stato "asintomatico e silente", sebbene molti carcerati (che saranno ascoltati in aula solo se ci sarà un processo) durante le indagini avevano detto agli investigatori che Alessandro si lamentava da ore di dolori al petto, alla spalla e allo stomaco. Per ben tre volte quel giorno Ianno è andato in infermeria: chi lo ha visitato - e questo lo dicono i medici di parte (uno è un medico legale, l’altro uno specialista in medicina interna e d’urgenza) non avrebbe seguito il protocollo. E così, anziché fargli un elettrocardiogramma per escludere l’infarto (dal carcere non si è ancora capito se il macchinario c’è oppure no nell’infermeria), gli hanno dato un antiacido per lo stomaco. La prima volta il Malox, la seconda il Gaviscon. La terza volta Alessandro non è mai arrivato dentro l’infermeria, l’arresto cardiocircolatorio lo ha bloccato nel corridoio. Ma invece di praticargli un massaggio cardiaco sul posto, la perizia di parte è chiara, si è perso ulteriore tempo mettendolo su una barella per accompagnarcelo. I difensori dei quattro indagati, gli avvocati Bruno e Brienza, hanno sostenuto, al contrario, che medico e infermieri avrebbero agito correttamente e che l’evento che ha portato Ianno alla morte era "imprevedibile e inevitabile" perché, secondo la loro tesi, il ragazzo avrebbe avuto nella stessa giornata un semplice mal di stomaco (era stato giusto, pertanto, dargli il Malox) seguito, solo poi, da un infarto. Un altro aspetto non ancora chiarito del caso riguarda l’orario della morte: per il 118 Ianno è deceduto alle 17, mentre, sul registro dell’infermeria c’è scritto che allo stesso sarebbe stata praticata una terapia insulinica dopo le 17, praticamente dopo la sua morte. Tolesino e Veneziano hanno chiesto alla giudice di fare luce su questa incongruenza. Mentre Brienza e Bruno hanno sostenuto la tesi secondo la quale l’insulina è stata sì iniettata dopo le 17 ma non a Ianno bensì a qualche altro detenuto di cui non è stato annotato il nome sul registro. Si tratterebbe, insomma, di una mera distrazione. Roma: catturato anche il secondo detenuto evaso domenica da Rebibbia di Manuela Pelati Corriere della Sera, 18 febbraio 2016 Mihai Florin Diaconescu è stato trovato a bordo di un furgone nella zona di Tivoli: ha tentato ancora di fuggire a piedi. Ciobanu si è costituito mercoledì notte ai carabinieri. È finita la fuga dei due detenuti evasi domenica pomeriggio dal carcere di Rebibbia a Roma. Il primo, Catalin Ciobanu, si è presentato ai carabinieri di Tivoli nella serata di mercoledì. L’altro, Mihai Florin Diaconescu, è stato bloccato nella notte sempre dai militari durante un posto di blocco in provincia della Capitale. Il 33enne è stato catturato a bordo di un furgone nella zona di Tivoli Terme ed ha tentato una breve fuga a piedi. Catalin Ciobanu,28enne, due giorni fa sarebbe dovuto comparire come imputato in un processo per sequestro di persona e morte come conseguenza di altro reato in relazione al decesso di un commerciante egiziano prelevato da casa e stroncato da un infarto. L’avvocato: "Ha fatto una sciocchezza" - "Il mio assistito ha deciso di consegnarsi ai carabinieri perché si è reso conto di aver fatto una sciocchezza ed era mortificato per quanto avvenuto". L’avvocato Andrea Palmiero, difensore di Catalin Ciobanu ha commentato così la decisione del cittadino evaso da Rebibbia di consegnarsi ai carabinieri di Tivoli. L’uomo avrebbe deciso di recarsi dalle forze dell’ordine perché si sentiva braccato dai continui controlli che hanno riguardato anche un campo nomadi dove Ciobanu avrebbe trascorso la sua latitanza. La fuga - I due romeni sono evasi approfittando della loro permanenza in un magazzino del reparto G11 del carcere, poi hanno segato le sbarre di una finestra e si sono allontanati scavalcando sia una recinzione sia un muro di cinta che costeggia via Tiburtina. Il sindacati di categoria Sappe ha chiesto di verificare come mai ci fossero domenica solo due agenti per controllare 150 reclusi, visto che a Rebibbia non si tratta della prima evasione o tentativo di evasione.Due giorni dopo la fuga, era circolata la notizia dell’arresto dei due giovani in un appartamento a Tivoli: una notizia prima confermata e poi smentita. Il precedente - La casa circondariale romana di Rebibbia è già stata teatro di eclatanti evasioni secondo il più classico schema: sbarre tagliate e lenzuola usate come corde per calarsi dalle finestre. Era l’11 febbraio 2014 quando poco prima di mezzanotte sono fuggiti due detenuti, romani Giampiero Cattini e Sergio Di Palo, residenti rispettivamente a Primavalle e Tor Bella Monaca. I due. che stavano scontando pene fino a quattro anni, sono fuggiti dal terzo piano dopo aver segato le sbarre ed essersi calati con i lenzuolo nel cortile. La fuga di Cattini è durata meno di un giorno: viene trovato a casa di sua madre, a San Basilio, quartiere vicino al penitenziario, perché voleva vedere suo figlio. Una settimana dopo viene catturato anche De Palo in provincia di Ascoli Piceno, si stava nascondendo nell’ospedale di San Benedetto del Trono perché durante la fuga si è fratturato un ginocchio. Reggio Emilia: sventata evasione dal carcere, detenuto si cala nelle fogne per scappare di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 18 febbraio 2016 Un detenuto cerca anche di scavalcare il cancello, ma viene bloccato. La fuga dal carcere? Un sogno che, in base agli ultimi episodi avvenuti nel nostro Paese, appare tutt’altro che irrealizzabile e che alcuni detenuti cercano di realizzare nei modi più classici, da cinema. Dopo il caso dei due rumeni evasi da Rebibbia, che hanno segato le sbarre e si sono calati nel cortile con le lenzuola, ora ci hanno provato alla Pulce. Qui, nel carcere di via Settembrini, un magrebino che era stato arrestato per reati legati alla droga, ha cercato di fuggire ricorrendo a sua volta a una tecnica che sembra vagamente ispirata al film ‘Le ali della libertà’: Tim Robbins, nei panni di un carcerato, per vent’anni si era scavato con il martelletto un buco nel muro della cella, coperto da un poster con avvenenti attrici, e poi un cunicolo che lo portava sottoterra e lo aveva condotto fuori dal carcere. In via Settembrini il detenuto sperava invece di trovare canali già pronti che gli potessero far rivedere la luce fuori dal perimetro della struttura penitenziaria. Venerdì pomeriggio, di rientro dal passeggio, il magrebino ha infatti sollevato i tombini di spazio e ha provato a calarsi sotto, sperando di trovare il suo spazio verso la libertà percorrendo le condutture degli impianti fognari. Ma qualcosa nel suo piano è andato storto: probabilmente non è riuscito ad avanzare più di tanto e si è ritrovato a risalire sempre all’interno del carcere. Il carcerato ha allora provato, secondo un’altra tecnica da film, a scavalcare il cancello per poi cercare di varcare il muro perimetrale. Ma le sue mosse non sono passate inosservate agli agenti della polizia penitenziaria. Accorgendosi di essere stato sorpreso, l’uomo ha anche cercato di mescolarsi agli altri ospiti della struttura penitenziaria, ma il suo tentativo è andato a vuoto. I poliziotti lo hanno fermato e inchiodato alle sue responsabilità: ha dovuto dire addio al sogno di tornare libero con i tipici escamotage rocamboleschi da film ed è tornato dietro le sbarre con l’aggravante della tentata evasione che non gli giova certo nel poter ottenere alleggerimenti nel suo percorso di detenzione. Milano: la musica entra in carcere e aiuta i detenuti a vivere preparandoli alla libertà di Manuela Marziani Il Giorno, 18 febbraio 2016 Il musicista Franco Mussida, 68 anni Il musicista Franco Mussida, 68 anni. Riattivare un arcobaleno di sentimenti attraverso la musica strumentale. È l’obiettivo che si pone il progetto "Co2 Musica nelle carceri" ideato da Franco Mussida (chitarrista e cantante che è stato tra i fondatori della Premiata Forneria Marconi) con la collaborazione di psicologi, sociologi, del Cpm Music Institute e di decine di musicisti. Finanziato dalla Siae e promosso dal ministero di Giustizia, "Co2" vuole creare un’audioteca divisa non per generi musicali, ma per stati d’animo. "Attualmente abbiamo caricato 1.200 brani scelti da musicisti come Paolo Fresu e Stefano Bollani - dice Franco Mussida - ma vorremmo arrivare a 20mila pezzi e ampliare la rete delle audioteche passando dalle quattro attuali (Opera, Monza, Rebibbia femminile e Secondigliano) a 25. Sarà un modo di vivere insieme quello che la musica può offrire. Lo scopo è promuovere nei detenuti un risveglio della loro sensibilità emotiva che spesso in quei luoghi di reclusione viene mortificata. Lo si vuol fare mettendo a disposizione speciali audioteche con brani di sola musica strumentale. La sensibilità dei musicisti si confronta con quella dei detenuti, per consentire l’apertura di canali emotivi in quei luoghi intasati dal dolore". Ogni brano viene catalogato con: nome di chi suggerisce, titolo, autore, formazione che lo esegue, area di genere a cui appartiene e stato d’animo prevalente. Nove gli stati d’animo principali in cui è divisa l’audioteca e 18 relativi per un totale di 27. La sperimentazione del progetto è già partita e ha coinvolto un centinaio di persone. "I detenuti sono guidati da un team che osserva cambiamenti, elabora e analizza i dati raccolti con strumenti informatici e digitali - sottolinea il musicista. Si dimostra così come il tempo dedicato all’ascolto della musica sia un tempo che rende più consapevoli dei valori della nostra natura interiore, favorendo una maggiore stabilità emotiva individuale, dote importante perché consentirà una maggiore possibilità di reinserimento per chi tornerà libero". I risultati raccolti nelle prime fasi di avvio del progetto saranno presentati il 13 e il 14 giugno in un dibattito internazionale che si terrà nelle aule dell’università di Pavia, partner di "Co2 Musica nelle carceri". "Le chiavi nascoste della musica" si intitolerà il convegno che, stando alle anticipazioni di Mussida presenterà dati molto interessanti. "L’individuo si rafforza ascoltando musica - conferma l’artista. I dati lo confermeranno". Trieste: i bimbi italiani e tunisini parlano tra loro grazie ai detenuti-traduttori Il Piccolo, 18 febbraio 2016 I carcerati magrebini traducono i messaggi degli alunni della Morpurgo a quelli di Venezia e Tunisi. Trieste, Venezia e Tunisi. Detenuti magrebini del carcere di Santa Maria Maggiore abbattono muri culturali e religiosi e uniscono le due sponde del Mediterraneo. In questi giorni stanno traducendo i messaggi dei bambini triestini, veneziani e tunisini in arabo, francese, italiano. A portarli l’associazione "Venezia: Pesce di Pace". La volontaria Nadia De Lazzari spiega: "Il prezioso aiuto dei detenuti fa superare barriere linguistiche e permette un dialogo tra i piccoli alunni. All’iniziativa partecipano anche gli scolari della scuola Morpurgo di Trieste". Tra i pensieri giunti agli alunni veneziani quello di Nour, 8 anni, che scrive: "Da Tunisi a Venezia: benvenuti! Vi aspettiamo" o quello di Ahamed, 10 anni: "Mi fa piacere conoscere gli amici di altri Paesi e di religioni differenti" o ancora della piccola Nada, 9 anni: "Siamo musulmani, diamo il benvenuto a tutto il mondo. Vi vogliamo bene, siamo fratelli e amici". La singolare notizia si è già diffusa in Tunisia. A commentarla il deputato Osama al Saghir, studi universitari a Padova e un master a Roma: "Il progetto è grandioso. Gli essere umani nel percorso di vita fanno degli errori che li portano in posti dove non dovrebbero esserci ma non rappresentano la loro vita. Quando sentiamo la disponibilità, si scopre che hanno solo deviato e che nelle carceri non c’è quello che superficialmente immaginiamo, cioè persone criminali che meritano di stare lì. I bambini fanno scoprire loro la strada giusta in un ritorno verso la correttezza. È incredibile: il progetto che ha l’obiettivo dell’amicizia e della fratellanza incontra invece nel suo percorso casi come questi. Dobbiamo sostenerlo". A Tunisi il salesiano don Domenico Paternò spiega: "Nadia ci ha coinvolti in un circuito di fraternità e solidarietà tra bambini di scuole di Paesi diversi, religioni diverse, ambienti sociali e umani molto differenti. I messaggi meritano di essere presi in considerazione molto seria perché espressione di uno sguardo sulla vita non ancora condizionato da fattori esterni e pregiudizi. Siamo contenti che detenuti nordafricani abbiano un po’ di "casa" anche per loro". La direttrice del carcere Immacolata Mannarella sottolinea: "L’iniziativa è dentro l’idea di un carcere come palestra di vita e di accoglienza tra popoli". "Venezia: Pesce di Pace" nasce nel 1992. Tra le iniziative ideate e realizzate che hanno ricevuto il plauso di tre Presidenti della Repubblica italiana e le benedizioni di tre Papi il "Trialogo, l’incontro dei tre fratelli in Abramo: un imam, un sacerdote cattolico, un rabbino" e "Disegni quattromani": nello stesso foglio, distribuito da Nadia De Lazzari, disegnano i bambini di Venezia, Sarajevo, Kinshasa, Gerusalemme, Ulan Bator, Beirut, Istanbul, New York, Rodi, Yerevan, Berlino, Mosca. Migranti: la Germania messa all’angolo dai partner sulle politiche per i rifugiati di Roberta Miraglia Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2016 Alla fine la storia le darà ragione, come dice il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ma oggi la cancelliera Angela Merkel è messa all’angolo dai partner sulle politiche per i rifugiati. Al vertice dell’Unione di oggi e domani la Germania arriva isolata. La politica delle porte aperte è stata sonoramente smentita dall’Est Europa. E anche Austria, Svezia e Francia hanno cambiato atteggiamento. È solo un ricordo la simpatia globale suscitata nei partner quando a settembre 2015 la cancelliera accolse decine di migliaia di profughi arrivati in Germania dopo una marcia iniziata a piedi nelle strade di Budapest. Il flusso enorme sta spaventando tutti i Paesi dell’Unione e mettendo a rischio lo spazio Schengen. L’anno scorso sono entrati in Germania oltre un milione di rifugiati, Merkel è in difficoltà all’interno del partito e non trova sponde in Europa. Nel solo mese di gennaio sarebbero entrate nell’Ue 60mila persone, per lo più in Grecia. La frontiera Sud del blocco preoccupa gli Stati ribelli dell’Est, pronti a costruire muri per arginare gli arrivi dalla rotta balcanica. "Si tratta in primo luogo di avere una politica comune su come vogliamo proteggere le nostre frontiere esterne", ha detto Merkel prima di partire per Bruxelles. "In Europa certe cose hanno bisogno di tempo, ma vale la pena mobilitarsi e questo è quello che ho intenzione di fare". L’Est abbandona Berlino - I Paesi del gruppo di Visegrad - Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia - hanno di nuovo voltato le spalle alle richieste tedesche. La strategia messa a punto dalla cancelliera punta su un accordo con la Turchia per fermare i trafficanti e limitare l’afflusso e sull’accettazione di un numero di profughi annuo da dividere tra i Paesi Ue. "L’Europa è debole e senza difese", ha invece incalzato il premier ungherese Viktor Orban, ipotizzando la costruzione di nuove barriere per impedire l’ingresso dei rifugiati in Bulgaria e in Macedonia (che non è membro Ue) dalla Grecia se Atene e Ankara non riusciranno ad attuare il piano voluto dalla Germania. "La cultura tedesca del "benvenuti" ha incoraggiato il terrorismo e diffuso la paura", ha aggiunto Orban. Ma anche il Nord mette le quote - Critico con la Germania anche il premier francese Manuel Valls. All’incontro di sabato 13 a Monaco, durante la conferenza sulla sicurezza in cui si è parlato di Siria, Valls ha chiarito che la Francia non parteciperà ad alcuna distribuzione di profughi. La disponibilità mostrata lo scorso ottobre pare definitivamente spazzata via dalle stragi dell’Isis del 13 novembre. L’Austria prima ha ripristinato i controlli ai confini con Italia, Slovenia, Ungheria, poi ha anche deciso di mettere un tetto all’accoglimento giornaliero di rifugiati. Ne verranno accettati ottanta e 3.200 potranno passare per andare in altri Paesi dell’Unione. "Mi auguro che la Germania cambi presto la sua politica seguendo il modello austriaco", ha auspicato il cancelliere Werner Faymann. Porte chiuse anche nel rifugio per eccellenza in Europa, la Svezia, che a fine novembre ha annunciato una serie di restrizioni e controlli per limitare il numero di richiedenti asilo fino a ripristinare i controlli alle frontiere e annunciare, a fine gennaio, l’espulsione di 80mila profughi la cui richiesta è stata respinta. Finlandia e Olanda hanno a loro volta annunciato espulsioni di massa di aspiranti allo status di rifugiato. La coalizione dei volenterosi - Se le risposte europee non hanno funzionato - solo 500 dei 160mila profughi sono stati redistribuiti in seguito al piano varato a ottobre - la cancelliera ha cercato tenacemente altre strade, basate sul volontariato. "Non si tratta di un meccanismo permanente di redistribuzione", ha spiegato in una conferenza stampa qualche giorno fa ma "piuttosto di un gruppo di Paesi disponibili a considerare l’accoglienza di profughi una volta che il traffico di esseri umani nell’Egeo sia stato fermato". Secondo Der Spiegel la cancelleria starebbe pensando a un numero annuo di 200-300mila persone che dovrebbero essere suddivise tra i "volenterosi". Berlino cerca di mettere insieme questa coalizione ma a dicembre erano soltanto sette le capitali disponibili. Non ha voluto fare nomi la Germania ma incontri separati a margine del summit con Recep Tayyp Erdogan si sono svolti con Austria, Belgio, Finlandia, Grecia, Lussemburgo, Olanda, Svezia. Oggi e domani si capirà se la coalizione esiste davvero. Migranti e diritti umani, i buchi neri degli hotspot di Valentina Brinis e Liana Vita Il Manifesto, 18 febbraio 2016 Presentato ieri al Senato il rapporto sui centri di identificazione ed espulsione. È l’approccio hotspot, introdotto dall’Agenda europea sulle migrazioni, al centro del Rapporto sui centri di identificazione ed espulsione della Commissione diritti umani del Senato, presentato ieri dai senatori Manconi e Mazzoni e dal Vice Ministro dell’interno Bubbico. Sono passati cinque mesi dall’apertura dell’hotspot di Lampedusa - ora sono attivi anche quelli di Pozzallo e Trapani - e sono proprio le nuove procedure di registrazione e identificazione delle persone sbarcate, verificate dalla Commissione nel corso di una visita a Lampedusa, a destare preoccupazione. Subito dopo lo sbarco, infatti, i migranti vengono sottoposti a una pre-identificazione: chi non presenta richiesta di protezione internazionale, viene considerato "migrante economico" e va rimpatriato. Questo passaggio delicatissimo, così come avviene oggi, in molti casi non è altro che un esame superficiale, che si svolge quando i profughi sono ancora sotto shock per il viaggio. Il rischio è che si proceda a una cernita sommaria di chi può o non può fare ingresso in Europa, basata su automatismi più che su attente valutazioni delle singole storie, limitando di fatto il diritto all’asilo. Altro punto sollevato: cosa succede a chi rifiuta di farsi identificare? Si prevede che chi non è stato identificato non possa allontanarsi dall’hotspot, né possa fare richiesta d’asilo in Italia o accedere al ricollocamento. Come già accaduto, si viene trattenuti nel centro per giorni e settimane, senza la necessaria convalida del giudice. Formalmente questi centri sono dunque centri di prima accoglienza impropriamente "chiusi" o di fatto Cie, unica struttura dove si può essere trattenuti e comunque sempre in seguito a convalida del giudice? Anche l’analisi dei dati presentati nel Rapporto pone in luce una serie di limiti del piano europeo. In cinque mesi a Lampedusa sono arrivati 4.597 stranieri e ne sono stati identificati 3.234. Al ricollocamento hanno avuto accesso 563 persone, che corrispondono a circa il 12%. Si tratta di eritrei soprattutto, insieme a siriani e iracheni. Altre 502 persone, circa il 10%, hanno manifestato la volontà di chiedere asilo e sono entrati nel circuito dell’accoglienza. Tra quelli considerati migranti economici, 74 sono stati trasferiti nei Cie in tutta Italia, mentre 775 hanno ricevuto un provvedimento di respingimento differito, con l’ordine di lasciare l’Italia entro sette giorni, e sono complessivamente più del 18% del totale. Di fatto, sono persone destinate a rimanere irregolarmente nel territorio italiano. Come confermato anche dai dati sui rimpatri: nel 2015 sono transitati complessivamente nei Cie 5.242 persone di cui 2.746 effettivamente rimpatriate (52%) e su 34.107 stranieri sottoposti a un provvedimento di espulsione, ne sono stati effettivamente allontanati 15.979. Quindi, si è sì riusciti a identificare quasi l’80% delle persone sbarcate, come chiedeva minacciosa l’Ue, ma non sono altrettanto positivi i numeri delle persone ricollocate e di quelle rimpatriate. Inoltre, il flusso verso l’Italia è ormai cambiato: non ci sono più siriani, sono sempre meno gli eritrei e arrivano ormai quasi esclusivamente "migranti economici" dall’Africa sub-sahariana che di fatto si fermano qui senza avere la possibilità di regolarizzarsi. Migranti e carcerati, il "pueblo" del Papa di Carlo Marroni Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2016 Carcerati dimenticati, campesinos discriminati, giovani che crescono in mezzo a città insanguinate, preti di frontiera, migranti disperati. Parla (soprattutto) a loro Francesco, "Papa del nuestro pueblo". Il viaggio in Messico ha confermato quanto era stato a Bangui, Manila, La Paz, Rio de Janeiro: c’è un mondo, la maggioranza del mondo, che ha in Bergoglio il volto, la voce, i gesti e le azioni in cui riconoscersi. Ieri il viaggio - iniziato a Cuba per l’incontro storico con Kirill - si è concluso a Ciudad Juarez, frontiera nord est davanti alla texana El Paso. Gli Stati Uniti, Los Estados Unidos, sono lì davanti, a una ventina di metri, forse meno. Nel mezzo c’è il rigagnolo del Rio Grande, e una rete metallica. Il Papa sale su una pedana in muratura costruita da pochi giorni, con una grande croce nera. E lì, guardando quella barriera che milioni di disperati del grande continente americano sognano di oltrepassare, prega. Qui, nella città fino a poco tempo considerata la più pericolosa al mondo per l’enorme numero di omicidi e femminicidi per mano dei cartelli del narcotraffico ("una metastasi che distrugge") e dei mercati di essere umani, c’è il fermo immagine di un papato che non indulge allo spettacolo, ma che deve fare i conti con il carico di speranza che porta con sé, della leadership planetaria che esercita senza bombardieri. "Mai più morte e sfruttamento!" ha detto nella grande celebrazione a 200 mila persone in terra messicana e 50mila che lo seguivano da El Paso. Una messa transfrontaliera, senza passaporti né carte verdi: "Sono fratelli e sorelle che partono spinti dalla povertà e dalla violenza, dal narcotraffico e dal crimine organizzato - dice il Papa parlando dei migranti. A fronte di tanti vuoti legali, si tende una rete che cattura e distrugge sempre i più poveri. Schiavizzati, sequestrati, soggetti ad estorsione, sono oggetto di commercio del transito umano". Anche in Usa le parole arrivano forti, specie in questo scorcio di elezioni, dove la barriera anti-migranti è come sempre oggetto di propaganda. "Non possiamo negare - ha detto Bergoglio -la crisi umanitaria che negli ultimi anni ha significato la migrazione di migliaia di persone, sia in treno, sia in autostrada, sia anche a piedi attraversando centinaia di chilometri per montagne, deserti, strade inospitali. Questa tragedia umana che la migrazione forzata rappresenta, al giorno d’oggi è un fenomeno globale". Non c’è filtro politico nella pastorale bergogliana, quando è in mezzo alla gente. E così eccolo dentro il carcere Cereso n.3, uno dei più grandi: abbraccia i detenuti e spende parole anche per i carcerieri. E il messaggio (per il tutto il mondo, ma forse l’indirizzo più rapido è di là dal confine): "Già abbiamo perso diversi decenni pensando e credendo che tutto si risolve isolando, separando, incarcerando, togliendosi i problemi di torno, credendo che questi mezzi risolvano veramente i problemi". Insomma, pensare che il carcere sia sinonimo di sicurezza "è un inganno sociale", dice il Papa, "dobbiamo intraprendere un cammino urgente per rompere i giri viziosi della violenza e della delinquenza". Incontra anche il mondo del lavoro, imprenditori e sindacati: l’invito è a collaborare e a dialogare, sempre. "Tutto quello che possiamo fare per dialogare, per incontrarci, per trovare migliori alternative e opportunità è già una conquista che merita stima e risalto" dice Bergoglio. Parlando delle "diverse organizzazioni di lavoratori e rappresentanti di camere e associazioni imprenditoriali. A prima vista potrebbero essere considerati come antagonisti, ma condividono una stessa responsabilità: cercare di creare opportunità di lavoro dignitoso e veramente utile alla società e soprattutto ai giovani di questa terra". E poi la condanna dura di ogni sfruttamento: "La mentalità dominante propugna la maggior quantità possibile di profitti, a qualunque costo e in modo immediato", dice, ma "Dio chiederà conto agli schiavisti dei nostri giorni. Il flusso di capitale non può determinare il flusso e la vita delle persone". Migranti, il grido del Papa: "mai più morte e sfruttamento!" di Andrea Tornielli La Stampa, 18 febbraio 2016 Messico, Ciudad Juarez, il Papa ha pregato per i migranti, guardando, da un’altana sormontata da una croce nera, la rete metallica che segna il confine con gli Usa, come gesto di pace e solidarietà. Prima ha pregato in silenzio guardando, dall’alto di un’altana sormontata da una croce nera, la rete metallica che segna il confine tra Messico e Stati Uniti, con tanti che cercavano di vederlo dalla parte di El Paso, la faccia texana di Ciudad Juarez, dall’altra parte del Rio Grande. Poi ha celebrato messa nell’area fieristica, con l’altare che dista meno di 90 metri dal confine, davanti a 230 mila persone. La celebrazione viene seguita anche da cinquantamila persone riunite nello stadio "Sun Bowl" a El Paso. +La visita in Messico di Papa Francesco si conclude in uno dei luoghi simbolo dell’emigrazione, davanti a quella barriera che tanti sognano di attraversare alla ricerca di un futuro migliore per sé e per la propria famiglia. La popolazione in Usa di origine messicana supera i 30 milioni (due milioni quelli di origine cubana). Le rimesse dei lavoratori messicani all’estero rappresentano il 3% circa del Pil. Ricordando il racconto biblico di Giona, che aiutò il popolo a prendere coscienza del suo peccato trovando, dopo la sua chiamata uomini e donne capaci di pentirsi e capaci di piangere, il Papa - che ha usato il pastorale ricevuto in dono dai detenuti del carcere di Ciudad Juárez - nell’omelia dice: "Piangere per l’ingiustizia, piangere per il degrado, piangere per l’oppressione. Sono le lacrime che possono aprire la strada alla trasformazione; sono le lacrime che possono purificare lo sguardo e aiutare a vedere la spirale di peccato in cui molte volte si sta immersi. Sono le lacrime che riescono a sensibilizzare lo sguardo e l’atteggiamento indurito e specialmente addormentato davanti alla sofferenza degli altri. Sono le lacrime che possono generare una rottura capace di aprirci alla conversione". "Questa parola - ha aggiunto - risuoni con forza oggi in mezzo a noi; questa parola è la voce che grida nel deserto e ci invita alla conversione. In questo anno della misericordia, voglio con voi, in questo luogo implorare la misericordia divina, voglio chiedere con voi il dono delle lacrime, il dono della conversione". "Qui a Ciudad Juárez come in altre zone di frontiera - ha ricordato Francesco - si concentrano migliaia di migranti dell’America Centrale e di altri Paesi, senza dimenticare tanti messicani che pure cercano di passare "dall’altra parte". Un passaggio, un cammino carico di terribili ingiustizie: schiavizzati, sequestrati, soggetti a estorsione, molti nostri fratelli sono oggetto di commercio del transito umano". Una situazione che non può essere ignorata, che non si può far finta di non vedere. "Non possiamo negare - ha detto Bergoglio - la crisi umanitaria che negli ultimi anni ha significato la migrazione di migliaia di persone, sia in treno, sia in autostrada, sia anche a piedi attraversando centinaia di chilometri per montagne, deserti, strade inospitali. Questa tragedia umana che la migrazione forzata rappresenta, al giorno d’oggi è un fenomeno globale". Una crisi che siamo soliti a misurare in cifre, ma che "noi vogliamo misurare - ha proseguito Francesco - con nomi, storie, famiglie. Sono fratelli e sorelle che partono spinti dalla povertà e dalla violenza, dal narcotraffico e dal crimine organizzato. A fronte di tanti vuoti legali, si tende una rete che cattura e distrugge sempre i più poveri. Non solo soffrono la povertà bensì soprattutto queste forme di violenza". Un’ingiustizia che "si radicalizza nei giovani", spiega il Papa: "Loro, come carne da macello, sono perseguitati e minacciati quando tentano di uscire dalla spirale della violenza e dall’inferno delle droghe. E che dire delle tante donne alle quali con la violenza è stata ingiustamente tolta la vita!". "Chiediamo al nostro Dio - ha detto il Pontefice - il dono della conversione, il dono delle lacrime; chiediamogli che possiamo avere il cuore aperto. Mai più morte e sfruttamento! C’è sempre tempo per cambiare, c’è sempre una via d’uscita e un’opportunità, c’è sempre tempo per implorare la misericordia del Padre". Il Papa ha invitato a guardare i segni postivi: "Scommettiamo sulla conversione, ci sono segni che diventano luce nel cammino e annuncio di salvezza. So del lavoro di tante organizzazioni della società civile in favore dei diritti dei migranti. So anche del lavoro impegnato di tante sorelle religiose, di religiosi e sacerdoti, di laici che si spendono nell’accompagnamento e nella difesa della vita. Danno aiuto in prima linea rischiando molte volte la propria. Con la loro vita sono profeti di misericordia, sono il cuore comprensivo e i piedi accompagnatori della Chiesa che apre le sue braccia e sostiene". Il Pontefice ha poi voluto "approfittare di questo momento per salutare da qui tutti i nostri amati fratelli e sorelle che ci accompagnano simultaneamente "dall’altra parte" della frontiera, soprattutto quelli che si sono riuniti nello stadio dell’Università di El Paso, noto come il Sun Bowl, sotto la guida del loro vescovo, monsignor Mark Seitz. Grazie all’aiuto della tecnologia, possiamo cantare, pregare e celebrare insieme questo amore misericordioso che il Signore ci dona, e il quale nessuna frontiera potrà impedirci di condividere. Grazie, fratelli e sorelle di El Paso, per farci sentire una sola famiglia e una stessa comunità cristiana". Il caso Daoud e l’orizzonte basso della nostra società di Susanna Tamaro Corriere della Sera, 18 febbraio 2016 La decisione dello scrittore algerino Kamel Daoud di lasciare il giornalismo dopo essere stato accusato di islamofobia dimostra che non si può tollerare il linciaggio riservato a chi non si accoda al pensiero dominante. Sono rimasta molto colpita dalla lettera dello scrittore algerino Kamel Daoud in cui spiega le ragioni del suo ritiro dal mondo giornalistico. "Viviamo nell’epoca dell’ingiunzione. O stai da una parte o dall’altra. Ogni volta che scrivo qualcosa, scateno reazioni eccessive, ricevo tonnellate di insulti e minacce e, per fortuna, anche manifestazioni di sostegno. Ma non mi trovo a mio agio, perché non sono un provocatore. Sono solo un uomo libero che vuole esprimere la sua opinione. Questo non è più possibile". Una dichiarazione così netta in un mondo che avesse ancora caro l’uso del pensiero, dovrebbe suscitare un grande allarme, e forse anche qualcosa più di un allarme. Un pensatore stimato, una persona ragionevole, intellettualmente onesta, che ha semplicemente osato fare un discorso critico e appassionato sul mondo a cui appartiene - e che sicuramente conosce meglio di noi - è stato pubblicamente dileggiato al punto tale da costringerlo a scegliere il silenzio. Il caso in questione è legato a un’accusa di islamofobia da parte dalla crème degli intellettuali francesi legati a Le Monde, ma non ci vuole molto sforzo per capire che questo scenario si ripete con le stesse modalità sull’orbe terracqueo dominato ormai dalla dittatura della comunicazione digitale immediata. Stai con me o contro di me? Questa è l’ampiezza di pensiero che viene concessa nei nostri iper-democratici tempi, ed è un’ampiezza che un solo sbocco: se non stai con me, non hai il diritto di esistere. Quello che una volta era l’eliminazione fisica dell’avversario - la gogna, la prova dell’ordalia - ora diventa il linciaggio virulento sui media che, con pochi battiti di tastiera, riescono a spargere il loro veleno anche nei luoghi più sperduti. Prima di tacciare di viltà chi decide di sottrarsi a questo gioco al massacro, come ha fatto lo scrittore algerino, bisogna sapere che cosa si prova ad essere un bersaglio di questo tipo. Per circa dieci anni, a partire dal 1995, sono stata oggetto di una campagna di calunnie che ha minato fortemente la mia vita e la mia salute. Non esistevano ancora, per mia fortuna, i social media, ma non c’era giorno che io non aprissi innocentemente la radio, sfogliassi un giornale, rispondessi una telefonata senza trovare il mio nome accostato a ogni tipo di infamia. Ero una fascista, naturalmente, una reazionaria, una bigotta, una creatura berlusconiana, l’idiota e furba prestanome di un’operazione di marketing ideato da altri, e chi più ne ha più ne metta. Ricordo, ad esempio - tanto per evidenziare il livello del discorso - che secondo un settimanale cattolico l’esistenza di persone come me e l’incolpevole Rosanna Lambertucci erano tra le cause del degrado morale del paese. Con il senno di poi, se devo contare le persone che, nel mondo culturale e dei media, non hanno parlato male di me in quegli anni, penso che bastino le dita di una mano. Chi sceglie la carriera politica, in linea di massima, ha una personalità che gli permette di affrontare cose che uno scrittore o un poeta non sarebbe mai in grado di sopportare. L’abitudine all’insulto, alla calunnia, alla derisione fanno parte, ahimè, del nostro orizzonte politico. In questo gioco al massacro, i nostri politici sembrano quei pupazzetti che non cadono mai: oscillano, si piegano ma poi si rialzano con la stessa espressione ridente che avevano prima di cadere. Ma un artista, uno scrittore a queste campagne può anche soccombere perché vive in un’altra dimensione, più privata, più complessa, più fragile, lontana dalle frenesie del potere e dell’apparenza. Come Kamel Daoud, neppure io sono mai stata una provocatrice, eppure i miei libri e le interviste che ho rilasciato hanno fatto divampare incendi di devastante ferocia nei miei confronti. Le parole dette e scritte hanno un peso, si depositano nella mente e nel cuore delle persone e lì continuano a lavorare, moltiplicando il loro potenziale veleno. Così può capitare negli anni, come è successo a me, di essere insultati per strada, di ricevere minacce di morte, di vedere sconosciuti uscire da librerie o dallo scompartimento di un treno, manifestando verbalmente l’obbrobrio della mia vicinanza. In nome di che cosa persone che amano leggere, studiare, ragionare con pacatezza dovrebbero continuare a sottoporsi a una simile linciaggio che viene riservato d’ufficio a chi non si accoda al coro delle "magnifiche sorti e progressive" del pensiero dominante? Pensiero che si regge su un’unica - fallacissima - idea: l’uomo è naturalmente buono e, lasciato finalmente libero dai vari gioghi religiosi o di consuetudine sociale, non potrà far altro che ricreare intorno a sé il mondo ideale e pieno di amore che da sempre cova nel suo cuore. Avrei avuto molte cose da dire sulle questioni apparentemente fondamentali che agitano l’universo dei media in queste settimane, ma ho scelto di non farlo perché non ho nessuna intenzione di sottopormi a un nuovo linciaggio. Non sono una pasionaria come la Fallaci, la pacatezza è stata sempre la cifra del mio ragionamento, ma so ormai che per questa dimensione non c’è più alcuno spazio. Il non pensiero e il trionfo del sentimentalismo individualista dominano ormai ogni dibattito, pubblico e privato che sia. La nostra è una società che sta diventando sempre più afasica. Il crollo verticale della padronanza della lingua, il drastico impoverimento lessicale delle nuove generazioni contribuiscono in maniera determinante a questa impossibilità di ragionare. Se non si conoscono le parole per esprimere ciò che si prova, si diventa rapidamente estranei a sé stessi e al proprio destino, si diventa "poveri" perché non si è in grado di comprendere e di esprimere ciò che si ha dentro e dunque, per trovare sicurezza, non si può far altro che rivolgersi al branco e conformarsi alle sue leggi. Che società è, mi chiedo, una società che non più in grado di elaborare ragionamenti complessi, che deride e distrugge tutto ciò che ha una lontana parentela con quelli che, fino ad adesso, sono stati i fondamenti della vita umana? La risposta è abbastanza facile. È una società che si tribalizza. Ho il fondato sospetto che questo trionfo della libertà individuale, anziché condurci nell’agognato Parnaso dell’uomo senza più gioghi, rischi di riportarci direttamente al primate che sonnecchia in noi. Primate che strilla se vede un serpente e che, con il suo strillo, mette in allarme i suoi simili, facendo strillare tutto il branco che il serpente non lo vede. Primati teneramente dolci, ma capaci di provare anche la gioia e la ferocia dell’assassinio fine a sé stesso, come annota in splendide pagine di doloroso stupore Jane Goodall, nella sua autobiografia. Una società in cui i comportamenti atavici hanno il sopravvento su qualche migliaio di anni di cultura e di civiltà è una società dall’orizzonte sempre più basso. E gli orizzonti bassi, di solito, generano realtà in cui la vita non è particolarmente piacevole. Messico: il Papa "la detenzione rischia di far commettere più reati" Corriere Quotidiano, 18 febbraio 2016 Bergoglio entra nel carcere che accoglie 3.000 detenuti: "il problema della sicurezza non si risolve solamente incarcerando, ma intervenendo per affrontare le cause strutturali e culturali dell’insicurezza che colpiscono l’intero tessuto sociale". Papa Francesco entra in un carcere messicano, e condanna con parole molto dure l’idea di carcerazione deprivante, così come comunemente è intesa. Dopo una festosa accoglienza all’aeroporto internazionale "Abraham González", il Papa ha raggiunto in papamobile il "Centro de Readaptaciòn Social Estatal n. 3", penitenziario che si trova nei pressi del confine Usa, all’altezza della città texana di El Paso. L’incontro con i carcerati inizia con alcuni canti e lo scambio di doni, il Papa ha portato dal Vaticano un grande Crocifisso di Cristallo. La delinquenza è sintomo di un problema più vasto: il disadattamento sociale. "Già abbiamo perso diversi decenni pensando e credendo che tutto si risolve isolando, separando, incarcerando, togliendosi i problemi di torno, credendo che questi mezzi risolvano veramente i problemi". Sono parole di Papa Francesco nella visita al penitenziario di Ciudad Juarez. Secondo il Papa, "dobbiamo intraprendere un cammino urgente per rompere i giri viziosi della violenza e della delinquenza". Francesco ha utilizzato espressioni molto forti per spiegare il suo punto di vista sul sistema carcerario. "A volte - ha detto - potrebbe sembrare che le carceri si propongano di mettere le persone in condizione di continuare a commettere delitti, più che a promuovere processi di riabilitazione che permettano di far fronte ai problemi sociali, psicologici e familiari che hanno portato una persona ad un determinato atteggiamento". Secondo il Papa, "il problema della sicurezza non si risolve solamente incarcerando, ma è un appello a intervenire per affrontare le cause strutturali e culturali dell’insicurezza che colpiscono l’intero tessuto sociale". La paura diffusa di essere colpiti da azioni criminali così come le difficili condizioni delle carceri, elementi entrambi comuni, in realtà, a molti i paesi, pur con ovvie differenze, "sono un sintomo - ha detto il Papa - di una cultura che ha smesso di scommettere sulla vita; di una società che è andata abbandonando i suoi figli". "Sto concludendo la mia visita in Messico e non potevo partire senza venire a salutarvi, senza celebrare il Giubileo della Misericordia con voi". Con queste parole Papa Francesco ha salutato i 3 mila detenuti del penitenziario. Francesco ha preso la parola dopo le testimonianze di reclusi e operatori, che ha ringraziato "di cuore per aver manifestato tanta speranza e tante aspirazioni, come anche tanti dolori, timori e interrogativi". "Oggi insieme a voi e con voi desidero riaffermare una volta di più la fiducia alla quale Gesù ci incoraggia: la misericordia che abbraccia tutti e in tutti gli angoli della terra. Non c’è luogo dove la sua misericordia non possa giungere, non c’è spazio né persona che non essa non possa toccare". "Voi - ha continuato il Pontefice rivolto ai 3000 carcerati - soffrite il dolore della caduta, sentite il pentimento per i vostri atti e so che in tanti casi, in mezzo a grandi limitazioni, cercate di ricostruire la vostra vita a partire dalla solitudine". "Avete conosciuto - ha poi concluso - la forza del dolore e del peccato; non dimenticatevi che avete a disposizione anche la forza della risurrezione, la forza della misericordia divina che fa nuove tutte le cose". Egitto: gli investigatori italiani "se al-Sisi non collabora, ce ne andiamo dall’Egitto" di Giuseppe Acconcia Il Manifesto Egitto. Resa dei conti per il team investigativo italiano, ostruito dal regime. Chiuso il Centro per la riabilitazione delle Vittime delle violenze. Dopo i dipendenti pubblici anche i ricercatori egiziani sono scesi in piazza. Oggi è la giornata decisiva per le indagini sulla tortura e morte del dottorando italiano, Giulio Regeni. Il team di investigatori italiani (Ros, Sco e Interpol), volati al Cairo subito dopo il ritrovamento del cadavere lo scorso 3 febbraio, aspetta ancora che le autorità egiziane consegnino tabulati telefonici, tutti i numeri agganciati dall’ultima cella dal cellulare di Giulio e i filmati delle telecamere a circuito chiuso nella zona di Doqqi. Sarebbe utile chiedere anche i video intorno alla metro Mohamed Naguib, non lontano da piazza Tahrir e dove Giulio era atteso, poiché ancora non è sicuro dove Giulio sia stato prelevato. Se ancora una volta la collaborazione egiziana sarà solo a parole o si limiterà a fornire false prove, come è avvenuto con il supertestimone che ha parlato di due agenti in borghese che avrebbero prelevato il giovane sotto casa, contraddetto dalle deposizioni dei coinquilini di Giulio, è possibile che il team italiano ritorni a Roma o esprima apertamente il suo disappunto. Fin qui le autorità egiziane hanno voluto insabbiare il caso. Non solo, sembra che ormai si estenda a macchia d’olio la repressione dei centri di ricerca e dei think tank critici verso il regime. Il ministro della Salute ha disposto per il prossimo lunedì la chiusura del Centro per la riabilitazione delle Vittime delle violenze (El Nadeem). La questione delle torture è davvero centrale per smascherare le malefatte del regime di al-Sisi e i metodi arbitrari della polizia egiziana contro cui giovani e migranti erano scesi in piazza nel 2011. Per questo, nello show televisivo di Ontv, Youssef al-Hussein si è presentato con una maglietta con la scritta una "Nazione senza torture". L’iniziativa è in solidarietà con Mahmoud Mohammed, un giovane imprigionato per oltre due anni perché indossava quella stessa maglietta. Mahmoud potrebbe essere accusato di terrorismo e finire nelle mani sanguinarie della Sicurezza di Stato (Amn el-Dawla). La rilevanza dell’impunità degli atti di tortura è tornata evidente proprio nel caso Regeni. Il capo della polizia investigativa che sta indagando sul caso, Khaled Shalaby, era stato condannato in primo grado per tortura. Vari ufficiali in prigione per aver praticato torture sono stati prosciolti tra di loro il luogotenente, Yassin Salah Eddin, l’ufficiale responsabile di aver sparato all’attivista socialista, Shaimaa el-Sabbagh. La Corte di Alessandria ha poi prosciolto, l’ufficiale, Hossam El-Shennawy, detenuto con l’accusa di aver torturato a morte, Sayed Bilal nel gennaio del 2011. Questo muro contro muro delle autorità egiziane che in nessun modo sembrano interessate ad arginare lo stato di polizia in cui vive il paese arriva mentre l’allerta sicurezza, innalzata sin dal 25 gennaio, quando Giulio Regeni è scomparso in occasione del quinto anniversario dalle rivolte del 2011, non si è affatto placata in Egitto. La seconda conferenza economica di Sharm el-Sheikh, prevista per maggio, è in via di cancellazione. La stessa cosa era accaduta la scorsa settimana con il World Economic Forum (Wef). In questa fase, il Cairo è in contatto con il Fondo monetario internazionale (Fmi) per stabilire le condizioni per il nuovo prestito. Non solo sarebbero dovuti essere siglati contratti miliardari con l’italiana Eni in merito alla gestione del prospetto esplorativo Zohr IX, il maxi giacimento di gas che cambierà gli assetti economici nel Mediterraneo orientale. Ma sono tutti gli egiziani a sembrare davvero poco soddisfatti della presidenza al-Sisi dopo la bassissima partecipazione elettorale alle ultime elezioni presidenziali e parlamentari. Non sono solo i medici a protestare per le violenze che sono costretti a subire da parte della polizia per falsificare i loro report sulle torture. Si sono uniti a loro anche gli studenti universitari. Le elezioni studentesche sono state annullate dalle autorità egiziane. Secondo molti studenti della coalizione Voce dell’Egitto, i risultati del voto annullato non avrebbero garantito le intenzioni del governo di mettere le mani sugli atenei. Dopo il golpe militare, le università sono state veri centri di opposizione. I movimenti studenteschi più intransigenti si sono concentrati negli atenei di Ayn Shamps e al-Azhar, università tradizionalmente vicine ai Fratelli musulmani. Secondo gli attivisti universitari, le autorità non permettono agli studenti detenuti di sostenere gli esami. Alcuni membri delle associazioni legate al gruppo Egitto Forte nelle università hanno anche accusato le amministrazioni accademiche di impedire ai membri dei gruppi giovanili della Fratellanza musulmana e di 6 aprile di prendere parte alle elezioni studentesche. Infine, anche i ricercatori egiziani, dopo i dipendenti pubblici, sono scesi in piazza per protestare contro disoccupazione e precarietà per lavoratori qualificati. Siria: terra bruciata, raid aerei e artiglieria. Così Putin ha sfondato le linee ribelli di Guido Olimpio Corriere della Sera, 18 febbraio 2016 Le forze russe e del regime di Assad hanno sfiancato gli insorti costringendoli a continui cambiamenti di fronte. Le milizie sciite usate come "carne da cannone". I russi in Siria si sono comportati da russi. Hanno picchiato come fabbri per quattro mesi sui ribelli siriani e meno sull’Isis. Hanno svuotato - come in Cecenia - le aree abitate, senza fare alcuna distinzione tra civili e guerriglieri. Hanno assistito il regime suggerendo nuove tattiche. Hanno messo a disposizione un potenziale di fuoco devastante. Hanno rischiato pochi uomini perché avevano la carne da cannone: gli Hezbollah, i pasdaran iraniani, i miliziani sciiti reclutati in Iraq e Afghanistan. C’è voluto del tempo, ma alla fine hanno sfondato in numerose regioni. Latakia, il territorio tra Aleppo e il confine turco, zone del settore sud. La demolizione - Come previsto, Mosca ha spianato. I russi hanno consigliato i siriani sull’uso dell’artiglieria, hanno portato i loro "pezzi" da lunga gittata, hanno impiegato in modo devastante i missili Buratino. Questo era il martello. Poi l’incudine. Le centinaia di raid aerei con ogni tipo di bomba. Intelligenti, a caduta libera, i missili da crociera sparati da navi in Mediterraneo e nel Caspio, i barili bomba tanto cari al regime. Ordigni che hanno devastato rifugi, bunker, linee di comunicazione, siti civili. Impossibile per gli insorti tenere sotto quella pioggia esplosiva. I tiri hanno anche reso precarie le vie di rifornimento lasciando molte "brigate" con pochi rifornimenti. Il dispositivo aero-terrestre ha di fatto creato un no fly zone nei pressi della frontiera turca, ha impedito ad Ankara di mandare i suoi caccia. A fine gennaio, il Cremlino ha reso difficile il passaggio di armi-aiuti dalla zona meridionale, via Giordania, paese che ha frenato di molto il suo sostegno all’insurrezione. Ed ha inciso sul corridoio di Azaz, usato dai turchi per appoggiare gli insorti. La strategia - I generali russi hanno moltiplicato le operazioni su più fronti per confondere l’avversario, per costringerlo a muovere, a spostare le scarse riserve per poi lanciare puntate in altri settori. Progressivamente le forze dell’asse Siria-Iran-Russia hanno isolato villaggi, ne hanno compromesso le difese. Lo sforzo maggiore è stato dedicato alla regione di Latakia in quanto è il cuore del regime e poi si sono allargati. Gli ufficiali di Putin hanno accompagnato da vicino le manovre, erano inseriti non solo nel centro comando ma neppure lontano dal fronte. Hanno spiegato agli alleati come usare in modo più efficace l’artiglieria, i droni e i blindati. In alcune occasioni i militari sono venuti a patti con i ribelli: li hanno lasciati andare via, ottenendo così il controllo degli obiettivi senza dover sacrificare un solo fante. Nel nord ovest si sono serviti dei curdi, pronti a collaborare con Mosca e, nel contempo, alleati di Washington. In altre situazioni hanno condotto azioni mirate per decapitare formazioni di insorti, missioni favorite dalle divisioni che da sempre accompagnano la storia della rivolta. I mezzi - Attualmente Assad potrebbe contare fino 200 mila uomini - dato non scientifico - e non meno di 2 mila tanks. Il fulcro restano la Guardia Repubblicana e le unità scelte, come la Forza Tigre. Poi ci sono le migliaia di "volontari" sciiti, alcuni spendibili, altri ben addestrati. Quindi i 4-5 mila russi così divisi: ufficiali per lo Stato Maggiore, soldati per le batterie, reparti di difesa, commandos della Marina e Spetznaz. Senza questa legione straniera il raìs sarebbe solo il sindaco di Damasco e magari neppure quello. L’influsso di combattenti "esterni" è stato seguito dall’uso di mezzi più agili per ridurre l’impatto dei missili forniti da sauditi e Qatar agli insorti. È cresciuto il ricorso a pick up - spesso blindati - armati con bocche da fuoco di vario tipo. I corazzati sono stati impiegati con maggiore accortezza e affiancati dalla fanteria, le mitragliere sono stati spostate dai carri ai fuoristrada in modo da incrementare i numeri per i reparti mobili, frequente anche l’installazione di torrette su camioncini protetti da piastre d’acciaio. La milizia assadiana continua a essere statica, ma è compensata dalla maggiore agilità di nuclei d’elite. Gli insorti - I ribelli hanno inflitto perdite pesanti, hanno provato ad ostacolare le mosse del nemico. Fino ad ottobre il lancio dei Tow e simili è stato sostenuto, agevolato da buone scorte e dagli errori dei lealisti che, con condotte scriteriate, hanno "esposto" i tank ai missili-filoguidati. Poi c’è stato un calo, dovuto alle contromisure adottate dai governativi e probabilmente ad uno stop nelle forniture. In gennaio il numero è tornato a salire, con una differenza importante: i bersagli - a giudicare dai video - sono mutati. Gli insorti hanno colpito target leggeri, come bus, vetture, camion, qualche postazione. Pochi gli obiettivi pesanti. Gli oppositori hanno anche accusato i paesi amici di aver ridotto gli aiuti, situazione che ha alimentato sospetti e sospetti di tradimento. A fine gennaio, quando il regime ha lanciato l’operazione a nord di Aleppo e verso Azaz il numero di lanci è cresciuto, così come sono arrivati nuovi razzi Grad e qualche cannone. Probabile che i "fornitori" cerchino di tamponare l’emorragia per poi rilanciare la guerriglia. I commentatori pro-Assad sono sicuri che la loro progressione durerà fino all’estate, quelli che simpatizzano per l’insurrezione si attendono risposte. La guerra è destinata a continuare e magari si allargherà. Turchia: autobomba contro convoglio militare, il kamikaze era un rifugiato siriano di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 18 febbraio 2016 Almeno 28 morti vicino al Parlamento e al quartier generale dell’Aeronautica. Erdogan: colpiremo i mandanti. Fermati due complici del kamikaze, identificato come Saleh Nejar, 24 anni: era entrato in Turchia come rifugiato dalla Siria. L’attentatore suicida che ieri si è fatto esplodere con un’autobomba al passaggio di un convoglio militare nel centro di Ankara, uccidendo almeno 28 persone e ferendone altre 61, è stato identificato come un cittadino siriano di nome Saleh Nejar. Lo rivela il quotidiano Sabah, citando fonti della sicurezza turca. Il quotidiano Sozcu rivela altri particolari su Saleh: 24 anni, il presunto kamikaze era un membro delle milizie curdo-siriane dell’Ypg entrato in Turchia a luglio come rifugiato dalla Siria. In quell’occasione sarebbero state registrate le sue impronte digitali che ne hanno permesso l’identificazione dopo l’attacco. Non avrebbe agito da solo: due persone sono state fermate con l’accusa di complicità a Nejar. La dinamica - Le testimonianze dalla capitale parlano di un’autobomba estremamente potente lanciata contro un convoglio composto da vari mezzi militari mentre transitava nel traffico dell’ora di punta vicino al Parlamento e al quartier generale dell’aeronautica. La deflagrazione è avvenuta quando i mezzi erano fermi ad un semaforo. È da ritenere dunque che larga parte delle vittime siano soldati. Vetri infranti, rottami, calcinacci, cadaveri carbonizzati, i lamenti dei feriti e auto in fiamme sono la scena che ha accolto le dozzine di ambulanze accorse subito sul posto. Una densa nuvola di fumo nero ha dominato a lungo sul cuore della città. L’esplosione a Stoccolma - Intanto mercoledì in tarda serata un’esplosione ha gravemente danneggiato parte di un edificio che ospita un’associazione culturale turca in un sobborgo di Stoccolma, ma nessuno è rimasto ferito. Lo rende noto la polizia, citata dai media locali. Ad essere colpito è stato un centro situato nel seminterrato di un edificio a Fittja, nel sudovest della capitale svedese. Non si sa se l’episodio possa essere legato all’autobomba ad Ankara. Tra Isis e questione curda - Sono momenti difficili per la Turchia nell’era lunga e controversa del presidente padre-padrone Recep Tayyip Erdogan. Il conflitto siriano si riverbera pesante sui fragili equilibri interni. Il radicalismo islamico cresce nella regione: Isis è alle porte. La crisi con la Russia continua a peggiorare, tanto da preoccupare i comandi Nato. Soprattutto, brucia più cruento che mai il braccio di ferro con la minoranza curda concentrata nelle regioni di Sud-est. Dal giugno 2015 Erdogan ha voluto rompere le tregua con il Pkk, il Partito dei Lavoratori curdo autonomista, che lui torna ad accusare di "terrorismo". La scelta del dialogo pacifico quattro anni fa aveva messo fine ad un cruento conflitto costato oltre 40 mila vittime dal 1980. Ma il collasso dei negoziati ha già causato la morte di circa 2 mila curdi e di centinaia di soldati turchi. Intere province sono dominate dal coprifuoco e dalla legge marziale. E la situazione si è incancrenita negli ultimi cinque giorni con lo scontro a colpi di cannonate e mortai tra esercito turco schierato sulla frontiera e curdi siriani, stretti alleati del Pkk. Ankara teme possa nascere un’enclave autonoma curda nelle regioni siriane lungo i mille chilometri di confine, che possa diventare fonte di ispirazione per i "fratelli" turchi. Ad aggiungere benzina sul fuoco e complessità al problema stanno le intricate alleanze locali e internazionali. I curdi siriani nella regione di Aleppo sono infatti ora legati a Mosca, mentre quelli nella zona più orientale, che fa capo alle cittadine di Kobane e Qamishli, restano più vicini a Washington. Scia di sangue - Negli ultimi tempi il terrorismo ha colpito senza pietà in Turchia. Erdogan parla apertamente di "emergenza nazionale". "Useremo il nostro diritto di autodifesa in ogni luogo, in ogni tempo, in ogni occasione", ha tuonato in serata. Tra gli attentati più gravi, il 20 luglio dell’anno scorso una bomba aveva causato 22 morti nella cittadina di Suruc. Ma lo choc più forte sono state il 10 ottobre le due deflagrazioni alla stazione ferroviaria della capitale costate 102 morti e 400 feriti. Più di recente, il 12 gennaio un kamikaze ha causato la morte di 12 persone (tra cui 11 turisti tedeschi) nel centro di Istanbul. Ankara fa capire che esercito e polizia privilegiano a pista del terrorismo curdo. Eppure, anche il fondamentalismo islamico resta tra i sospetti. Negli ultimi mesi Isis è rimasto fortemente penalizzato dalla chiusura del confine con la Siria voluta con decisione da Erdogan.