Parola vietata: il passato che non passa di Stefano Anastasia Il Manifesto, 17 febbraio 2016 È così abusato il luogo comune dei "cattivi maestri" che torna utile anche quando i protagonisti non abbiano il pedigree intellettuale per cui l’etichetta fu coniata, né abbiano intenzione di insegnare alcunché a nessuno: vale sempre a impedire la presa di parola di chi abbia alle spalle una condanna, tanto più se il reato era motivato politicamente. Cattivi maestri, quindi, anche Franco Bonisoli e Adriana Faranda, invitati insieme a Manlio Milani, Agnese Moro e Sabina Rossa - parenti di vittime di alcuni tra i più efferati delitti politici degli anni Settanta e Ottanta - a testimoniare la loro esperienza nella iniziativa promossa da Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzuccato. Chi vuole può leggerla nel Libro dell’incontro (Il Saggiatore). Riemerge così una ferita mai sanata nella storia italiana recente e porta con sé almeno altre due questioni: il ruolo della formazione nell’autonomia della magistratura e quello delle parti offese nel giudizio, nell’esecuzione penale e nella vita libera di chi abbia pagato il proprio debito nei confronti della società. Lo scandalo suscitato dalla proposta formativa offerta dalla Scuola della magistratura ci ricorda quanto sia ancora viva quella vicenda storico-politica nell’Italia di oggi e dunque dà ragione ai promotori dell’incontro tra autori di reato e familiari delle vittime di quegli anni. D’altro canto, la stessa dedizione degli uni e degli altri a quel faticoso percorso di discussione e di rielaborazione dei loro vissuti non si può altrimenti motivare se non attraverso un bisogno di giustizia e di comprensione che migliaia di condanne inflitte ed eseguite in anni passati non sono riuscite a soddisfare. Forse quella storia resterà come un buco nero nella memoria nazionale e un castigo incessante nei protagonisti e nei loro prossimi congiunti, ma non sarebbe male se vi fosse nella società civile così come nella stessa magistratura una maggiore consapevolezza dei limiti della giurisdizione penale nella composizione dei conflitti e nella riparazione delle offese, siano esse pubbliche, private o le due cose insieme. Nella soluzione del caso un peso non irrilevante l’ha avuto il Csm e il suo ufficio di presidenza. Come sul Corriere della sera del 12 febbraio scorso ha spiegato Valerio Onida, che fino a qualche settimana fa è stato presidente della Scuola della magistratura, non da oggi corre un conflitto latente sull’autonomia della Scuola nella programmazione della formazione e dell’aggiornamento dei magistrati. Certo è che se il maggior ruolo rivendicato dal Csm si dovesse risolvere in una occhiuta verifica di compatibilità politica della offerta formativa della Scuola, ne verrebbero a perdere tanto la Scuola quanto la magistratura, inevitabilmente indirizzate verso quella "formazione solo tecnico-giuridica, o solo autoreferenziale, "di categoria". Infine, anche in questa circostanza - nonostante il ruolo essenziale svolto nel percorso dell’Incontro dalle parti offese (tranquillamente ignorato dai loro presunti difensori) - il paradigma vittimario ha giocato un ruolo censorio nei confronti di alcune persone e di una domanda di conoscenza che pure interessa la collettività. L’innocenza della vittima viene contrapposta all’autore del reato in una sorta di giudizio permanente, ossificando l’una e l’altro in un passato che non passa. In questo modo, se da una parte qualsiasi condanna diventa una condanna a vita, una sorta di capitis deminutio che si risolve solo con la morte del reo, non bisognerebbe sottovalutare gli effetti che quella ossificazione ha sulle parti offese e sulla collettività nel suo insieme: vittime che restano per sempre vittime e comunità interdette da un libero confronto sulla propria storia. Un gioco a somma negativa, in cui tutti perdono qualcosa. Quell’evasione "figlia" di una progettualità smarrita di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2016 A guardarlo, il carcere rimanda a un obiettivo preciso: il detenuto non deve fuggire. Muro di cinta, filo spinato, torrette con sentinelle armate, chiavi, cancelli d’acciaio, porte blindate, perquisizioni, conta, fino ai più moderni sistemi di controllo sono i simboli della sicurezza. Il "bravo direttore" è quello che non subisce evasioni; il "bravo poliziotto" è quello che impedisce la fuga. E il carcere che funziona è quello che custodisce e butta la chiave... La paura è sconfitta, la sicurezza è garantita... Ma è davvero così? E soprattutto, le strategie e la cultura che ruotano attorno a quest’idea sono coerenti con le strategie e la cultura del reinserimento sociale dei detenuti, che è il vero mandato del carcere imposto dalla Costituzione, l’unico - dati statistici alla mano - che garantisca un livello più basso di recidiva e, quindi, una maggiore sicurezza collettiva? Interrogativi scomodi, impopolari - e però obbligati - all’indomani di un’evasione e dell’allarmismo somministrato anche mediaticamente. L’Associazione Antigone ricorda che nel triennio 2012-2014 le evasioni sono diminuite (14, 10, 4). Eppure la fuga dei due detenuti del carcere di Rebibbia rischia di azzerare quella "rivoluzione normale" avviata proprio nel 2012 (complice l’emergenza sovraffollamento e la minaccia di una condanna europea), quando l’allora capo del Dap Giovanni Tamburino ruppe l’immobilismo, applicando la legge: celle aperte, tranne la notte; aumento delle ore d’aria negli spazi comuni, da trasformare in luoghi operosi; e, soprattutto, un sistema di "vigilanza dinamica", in cui al marcamento a uomo poliziotto/ detenuto si sarebbe dovuta sostituire una sorta di "controllo sociale", attuato anche da educatori, psicologi, insegnanti, datori di lavoro. Un modello diverso di sicurezza (che fra l’altro consente di ovviare al deficit di poliziotti: 45mila in organico ma 37mila nelle carceri) che però non è stato riempito di contenuto né tanto meno affinato, nell’ambito di una riorganizzazione generale del sistema. Dunque, il problema non è (tanto) l’assenza di risorse ma di progettualità. Che, finita l’emergenza sovraffollamento, sembra esaurita e che un’evasione rischia di cancellare. La scelta è ancora una volta politica: la ricerca del consenso a tutti i costi o la capacità di dire, e di fare, cose scomode ma coerenti. Intercettazioni, magistrati più veloci della politica di Gigi Di Fiore Il Mattino, 17 febbraio 2016 Legge al palo, in tutta Italia gli uffici puntano all’autoregolamentazione. Il nuovo corso delle Procure venne tracciato a fine novembre scorso da Giuseppe Pignatone. Fu proprio lui, procuratore capo a Roma, a firmare e distribuire ai suoi sostituti e alla polizia giudiziaria la prima circolare che regolava uso e limiti delle intercettazioni telefoniche e ambientali nelle indagini. Un atto a sorpresa, due mesi dopo l’approvazione alla Camera della legge delega al governo sulla stessa materia. Legge delega ferma da allora in Senato. Scriveva Pignatone: "La polizia giudiziaria e il pubblico ministero eviteranno di inserire nelle note informative, nelle richieste e nei provvedimenti, il contenuto di conversazioni manifestamente irrilevanti e manifestamente non pertinenti rispetto ai fatti di indagine". Un richiamo d’attenzione, per evitare di inserire negli atti notizie tutelate dalle leggi sulla privacy come opinioni politiche e religiose, tendenze sessuali e informazioni sulla salute. Insomma, alla Procura di Roma i magistrati selezionano le intercettazioni "pertinenti e utili" alle indagini. Gli avvocati possono leggere le intercettazioni escluse, ma averne copia solo in dibattimento, dopo una richiesta motivata. Un gioco d’anticipo, quando i tempi dell’intesa tra le forze politiche sulla legge delega sembrano lunghi. La circolare di Pignatone, valutata con favore dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, arrivò subito negli uffici di via Arenula, Due giorni fa, dopo un’assemblea con i suoi sostituti, anche il procuratore capo di Torino, Armando Spataro, ha firmato una circolare sulle intercettazioni. Anche in questo caso viene vietato l’inserimento di intercettazioni "non pertinenti" negli atti, compresi i brogliacci della polizia giudiziaria. Gli avvocati potranno leggere le intercettazioni escluse dalle indagini, ma non farne copia. Viene prevista la distruzione delle registrazioni non utilizzabili nelle inchieste, ma a deciderlo deve essere un giudice. Non può farlo da solo il pm. Commenta Domenico Ciruzzi, vice presidente napoletano dell’Unione nazionale delle Camere penali: "Mi sembra che, ancora una volta, i procuratori occupino spazi che dovrebbero essere riservati al legislatore. Nel dettare circolari organizzative sul lavoro degli uffici, di fatto impongono regole procedurali che dovrebbero essere riservate ad un intervento parlamentare". Gli avvocati aspettavano la rapida approvazione di una legge, in una materia così delicata. Un tema caldo, che investe diritti costituzionali, diritto alla riservatezza e esigenze delle indagini penali. Aggiunge ancora l’avvocato Ciruzzi: "Credo che le Procure dovrebbero impegnarsi di più a impedire, nella raccolta di intercettazioni, violazioni di norme procedurali come quella dell’articolo 103. Mi riferisco alle diffuse intercettazioni tra avvocato e assistito, che dovrebbero essere vietate e interrotte subito. Sul resto, auspico rapidi interventi legislativi". Le Procure al gioco d’anticipo. Dopo Roma e Torino, in queste ore arriva anche la circolare del procuratore capo di Napoli, Giovanni Colangelo. E poi si annuncia un analogo provvedimento a Firenze. Un modo anche per sottolineare che le leggi attuali bastano e che le eventuali violazioni possono essere contenute da semplici circolari d’ufficio, con un’auto regolamentazione indolore. Iniziativa applaudita dal garante della privacy, Antonello Soro, che sostiene: "Si va nella direzione giusta, equilibrando esigenze investigative a tutela della riservatezza e pieno esercizio del diritto alla difesa". Di certo, è la politica a non uscirne bene. La politica che si divide in particolare sulla necessità di sanzioni ai giornalisti, che pubblicano il testo di intercettazioni considerate "non collegate alle indagini". Commenta l’avvocato penalista Bruno Von Arx: "L’iniziativa dei procuratori della Repubblica mi appare lodevole, ma sicuramente frammentaria per la diversità delle circolari e questo non contribuisce certo a fornire certezze procedurali tra i diversi territori. Non può sicuramente diventare iniziativa sostitutiva ad una legge che comunque occorre, per dare organicità ad una materia così delicata nel processo e nelle indagini". Il ministro Orlando guarda con attenzione alle circolari dei procuratori capo, che possono diventare anche un faro sui pareri dei magistrati in materia. E, dopo aver valutato le circolari trasmesse da Roma e Torino, al ministero della Giustizia giudicano con favore le iniziative, che "rientrano nel disegno organizzativo che spetta ai vertici degli uffici". Naturalmente, resta sempre indispensabile approvare la legge in discussione al Senato. Ma i tecnici del ministero ritengono un passo in avanti la dimostrata "nuova sensibilità nelle Procure". E commenta Antonio Maretta, capogruppo di Area popolare (Ncd-Udc) in commissione Giustizia: "La circolare del procuratore Spataro è un segnale importante. Alla luce di questa direttiva è possibile trovare una larga intesa, riprendendo la discussione sul ddl delega in Senato". Intercettazioni, oltre la legge serve un’etica di Antonello Soro (Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali) Il Messaggero, 17 febbraio 2016 Le linee guida sulla gestione delle intercettazioni, adottate dal Procuratore della Repubblica di Torino, intervengono sul terreno del rapporto tra diritti alla riservatezza e alla difesa, esigenze investigative e pubblicità dell’azione penale, con le implicazioni che ne derivano in tema di diritto di (e all)’informazione. L’equilibrio tra gli interessi in gioco dipende, anzitutto, dalla responsabilità con cui ciascuno degli attori coinvolti (magistrati, avvocati, giornalisti) interpreti il ruolo assegnatogli dalla legge. Queste linee guida ne sono un esempio, fornendo Una lettura "costituzionalmente orientata" della disciplina vigente. Esse valorizzano l’udienza-stralcio e minimizzano l’impatto sulla privacy (delle parti e dei terzi), determinato da uno strumento prezioso ma anche assai invasivo, come quello delle intercettazioni, senza minimamente indebolirne l’efficacia. Positiva, in particolare, è la richiesta, rivolta ai Pm, di adeguata selezione degli atti da inviare al gip a sostegno della richiesta di misura cautelare, eliminandole intercettazioni inutilizzabili, irrilevanti o comunque inerenti terzi estranei alle indagini e contenenti dati sensibili (purché non emergano elementi favorevoli all’indagato). Ne emerge anche un condivisibile auspicio, ove non vi ostino ragioni investigative, per l’attivazione della procedura di stralcio di tali intercettazioni, già prima dell’avviso di chiusura delle indagini preliminari, anticipando così il momento di selezione del materiale probatorio per garantire maggiore riservatezza alle parti e, soprattutto, ai terzi. Importante è anche l’indicazione, rivolta alla polizia giudiziaria, di non trascrivere nei brogliacci intercettazioni irrilevanti o inutilizzabili e contenenti dati sensibili, riportandone solo data e ora, per consentire alla parte che vi abbia interesse di richiederne eventualmente l’accesso (non la copia), nel pieno rispetto del diritto di difesa. Tali indicazioni consentono di limitare in misura considerevole l’ingresso, nel fascicolo procedimentale, di dati personali non strettamente pertinenti al reato contestato, relativi a terzi o, comunque, dei quali si possa fare ameno senza per questo nuocere alle indagini. E si tratta di una soluzione che, pur coprendo tutte le fasi procedimentali in cui assumono rilievo le intercettazioni, dal brogliaccio all’acquisizione, rimette doverosamente la decisione definitiva al giudice, nel contraddittorio delle parti. Le indicazioni di questa direttiva (come anche di quelle di Roma e Palermo) sono, peraltro, in linea con il criterio di delega per la riforma della disciplina delle intercettazioni (all’esame del Senato), volto al rafforzamento delle garanzie di riservatezza, anche con la previsione di una "precisa scansione procedimentale per la selezione del materiale intercettativo nel rispetto del contraddittorio tra le parti e fatte salve le esigenze di indagine, avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento (…) e delle comunicazioni comunque non rilevanti a fini di giustizia penale". Ovviamente molto potrebbe fare la legge per garantire la più puntuale selezione del materiale investigativo, assicurando, nel rispetto del diritto di difesa, che negli atti processuali non siano riportati interi spaccati di vita privata (delle parti ma soprattutto dei terzi), estranei al tema di prova. E tuttavia nessuna norma, di per sé sola, potrà mai garantire il migliore equilibrio tra i vari diritti in gioco, in assenza di un’etica e deontologia professionali capaci di tracciare il limite (non scolpito nella legge ma da ricercare di volta in volta, in concreto) oltre il quale il doveroso esercizio di una funzione essenziale quale quella informativa, magistratuale o difensiva, non può spingersi. Su questo terreno si gioca una delle partite più importanti per la nostra democrazia: è necessario che ciascuno, per parte sua, vi fornisca il proprio contributo. Stretta intercettazioni, si muove anche Napoli di Silvia Barocci Il Messaggero, 17 febbraio 2016 In ordine sparso, o quasi. L’autoriforma delle principali procure d’Italia sulle intercettazioni - o meglio, sulle registrazioni da inserire nelle carte giudiziarie che diventano di pubblico dominio - si allarga ma non all’unisono nei contenuti. Dopo Roma e Torino, ieri è stata la volta di Napoli. Anche il procuratore capo Giovanni Colangelo, con una circolare più stringata (cinque pagine contro le sedici del collega Armando Spataro), ha fissato una serie di paletti per rafforzare la tutela della privacy. E così facendo, anche lui ha giocato d’anticipo rispetto al disegno di legge di riforma del processo che delega il governo a rivedere le norme sugli ascolto. Un testo varato dalla Camera in prima lettura lo scorso autunno e che langue da mesi al Senato, pur avendo il Guardasigilli Orlando annunciato in più occasioni che avrebbe presto istituito un tavolo tecnico di confronto tra giuristi e giornalisti per tentare di abbozzare da subito alcuni contenuti della delega. A non convincere è la vaghezza della delega, in più occasioni rilevata anche dal vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Certo, le circolari delle principali procure italiane, alle quali presto si aggiungerà anche Firenze, può apparire ad alcuni come una fuga in avanti o un modo per far sapere alla politica che di nuove norme non c’è bisogno perché è sufficiente una corretta interpretazione di quelle che già cui sono. Il rischio, tuttavia, è che nelle diverse città possa esserci disomogeneità sul metodo utilizzato per raggiungere un comune obiettivo: contemperare diritto alla riservatezza delle conversazioni con la tutela di uno strumento insostituibile per le indagini. Un aspetto, quello di interventi a "macchia di leopardo", che presto potrebbe finire all’attenzione del Csm, impegnato nella stesura della nuova circolare sui poteri organizzativi dei capi delle procure. Come Pignatone a Roma e Spataro a Torino, anche il procuratore di Napoli dedica ampio spazio all’esigenza di "evitare l’ingiustificata diffusione delle conversazioni estranee e irrilevanti per le indagini" e agli adempimenti che gravano sui pm nella fase della distruzione di questo genere di captazioni. La linea è comune a tutti e tre i procuratori: le intercettazioni irrilevanti "non devono essere riportate per esteso o per estratto nei brogliacci e nelle informative della polizia giudiziaria, che dovrà limitarsi a scrivere "intercettazione irrilevante ai fini dell’indagine". Se, poi, la polizia giudiziaria dovesse avere dubbi sulla rilevanza della conversazione, investirà della questione il pm. Forse memore delle imbarazzanti intercettazioni tra Matteo Renzi e il generale della Gdf Michele Adinolfi, destinate alla distruzione perché penalmente irrilevanti ma finite sui giornali, Colangelo ha adottato un’ulteriore precauzione. Il pm che riterrà irrilevanti o inutilizzabili le conversazioni, dovrà infatti trasmettere la nota con il "visto" dell’aggiunto alla segreteria del Procuratore. Sarà il capo dell’ufficio a disporre la conservazione degli ascolti con protocollo riservato. La sorte finale - decisione che però potrà prendere solo il giudice e non l’ufficio inquirente - delle captazioni irrilevanti è comunque la distruzione. Destino che, ricordano sia Spataro che Colangelo, la legge riserva anche alle intercettazioni inutilizzabili perché relative alle conversazioni con i difensori o che riguardano i parlamentari. Vietata anche ogni forma di documentazione. Al pm non resterà che chiederne l’eliminazione. L’udienza filtro dopo l’avviso di conclusione delle indagini per la distruzione degli ascolti irrilevanti o contenenti dati sensibili è un punto di forza della circolare di Spataro. Di fatto il codice di procedura penale già oggi la prevede (art.268), ma per prassi in pochi vi ricorrono. L’innovazione della direttiva del procuratore di Torino sta nell’aver regolamentato anche l’aspetto relativo alla "conoscibilità" delle intercettazioni da parte dei legali degli indagati. Con la precisazione che tutti gli atti inoltrati al gip a sostengo della richiesta di misura cautelare dovranno essere depositati: e quindi saranno esaminabili nella versione cartacea e in quella audio. Le conversazioni potranno essere ascoltate "senza però diritto di ottenerne copia". Infine Palermo. Da tempo circolari disciplinano la custodia e la conservazione delle conversazioni. E sui singoli procedimenti il procuratore Francesco Lo Voi ha dato indicazioni su come evitare inserimenti di dialoghi non rilevanti o inutilizzabili. A una direttiva sta già lavorando da tempo, ma non arriverà a stretto giro. O, perlomeno, non prima di un nuovo intervento del legislatore. Il vero abuso da limitare è l’ascolto "a strascico" di Luigi Labruna Il Mattino, 17 febbraio 2016 Che le intercettazioni debbano essere utilizzate dai magistrati nei casi previsti tassativamente dalla legge con correttezza, cautela e prudenza giacché incidono pesantemente sulle libertà personali dei cittadini è principio a parole da quasi tutti riconosciuto. Tale principio è affermato anche in importanti sentenze (ad es. Cass. 12722/2009) che mettono l’accento sulla necessità di "non svilire e vanificare la garanzia di inviolabilità che la Costituzione ha apprestato" con le sempre più sofisticate e invasive "aggressioni alla sfera della riservatezza della persona" che gli sviluppi tecnologi consentono. E ricordano che le intercettazioni sono consentite solo quando sussistano "gravi indizi di reato" e siano "assolutamente indispensabili" per la prosecuzione delle indagini. Precisando che "tale requisito di legittimità" deve essere chiaramente motivato dagli inquirenti che sono inoltre tenuti a indicare esplicitamente il "collegamento esistente tra l’indagine in corso e l’intercettando". Sicché non è legittimo violare la sfera privata dei cittadini anche attraverso il "proliferare" di intercettazioni "a catena", o "a strascico". Moniti più o meno inutili come, ad esempio, hanno clamorosamente dimostrato le intercettazioni "indirette" di cui è stato oggetto il presidente Napolitano da parte della Procura di Palermo che, pur affermando di ritenerle penalmente irrilevanti, si rifiutò, per di più, di distruggerle fino a che non fu costretta a farlo dalla Corte costituzionale che intervenne a censurare anche per altri profili la patente violazione delle prerogative e dei diritti alla riservatezza del Capo dello Stato. Al fine di "porre un argine" al le "gravi distorsioni applicative" delle norme vigenti, è più volte intervenuto il Csm e così ripetutamente governanti e parlamentari si sono pubblicamente (e vanamente) impegnati a provvedere "rapidamente" a livello normativo per far cessare quelli che nel 2012, ad esempio, il presidente Monti (spalleggiato dal ministro Severino) qualificò "abusi". Non se ne è fatto nulla per le ragioni che è facile comprendere se si pensa ad eventi anche politico-istituzionali verificatisi nel nostro Paese, ma soprattutto, occorre dirlo, perle decise azioni di freno compiute da esponenti della magistratura, preoccupati degli effetti che una più incisiva tutela della riservatezza dei cittadini potrebbe avere nella lotta al crimine. Giace ora Senato una proposta di modifica dei codici penale e di procedura penale, presentata dal ministro Orlando e faticosamente varata da tempo alla Camera, che all’art 30 prevede la delega al governo perché effettui quella riforma delle intercettazioni che - ricorrendo, come spesso gli capita, ad un calendario diverso da quello gregoriano - il presidente Renzi assicurò sarebbe stata approvata indefettibilmente nel 2015 mentre, in parallelo, e destando non poca confusione, incaricò una commissione presieduta da Gratteri di preparare sullo stesso tema un progetto, ora abbandonato, che di fatto ampliava notevolmente le possibilità di ricorrere a tale strumento. Cosa questa che, seppur in misura meno eclatante, è resa possibile anche dal citato art. 30 della legge Orlando che, con espressione vaga, delega il governo a "prevedere la semplificazione delle condizioni per l’impiego delle intercettazioni nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione" e, in generale, a "prevedere disposizioni dirette a garantire la riservatezza" delle comunicazioni in conformità dell’art. 15 della Costituzione e stabilire ancora una (indefinita) "scansione procedimentale per la selezione di materiale intercettativo nel rispetto del contraddittorio tra le parti e fatte salve le esigenze delle indagini". Diventerà punibile, inoltre, con la reclusione sino a quattro anni, la diffusione di registrazioni, riprese audiovisive eccetera "effettuate fraudolentemente al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui" a meno che esse "siano utilizzate nell’ambito di un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o di cronaca". Perché questa mini riforma produca effetti occorre attendere che la legge-delega sia approvata dai due rami del Parlamento e poi sia redatta ed entri in vigore (dopo il parere consultivo della commissioni parlamentari e la proclamazione del presidente della Repubblica) la legge delegata. Campa cavallo. Ha perciò destato clamore la circolare con la quale il procuratore della Repubblica di Torino Spataro, muovendosi naturalmente nell’ambito della legge vigente, ha vietato alla polizia di trascrivere, sia pure in sintesi, nei brogliacci le intercettazioni "inutilizzabili" e quelle "irrilevanti" non necessarie a motivare i provvedimenti dei pm, limitandosi a indicare data e ora in cui sono state effettuate senza far menzione delle persone intercettate. Naturalmente al termine delle indagini preliminari imputati e difensori avranno diritto a conoscere integralmente "il fascicolo del pm", ivi comprese le intercettazioni utilizzate per motivare l’arresto, mentre potranno solo "ascoltare" le altre senza poterne ottenere copia. Sarà il pm a decidere quali intercettazioni servono a dimostrare la colpevolezza dell’imputato e la novità è se e quali delle inutili o irrilevanti possano essere, invece, col consenso del giudice, distrutte (non conservate riservatamente come da altri proposto). Una decisione abile, questa di Spataro, che affrontando intrecci ormai chiaramente insostenibili della prassi investigativa e giudiziaria ha sorvolato su altri, delicatissimi, che restano irrisolti e di fatto ancora utilizzabili (si pensi alle investigazioni a strascico, per dime uno). Altri procuratori, tra cui quello di Napoli Colangelo, hanno in cantiere circolari del genere. La speranza è che tutti questi provvedimenti rappresentino un tappa di un cammino vólto a recuperare principi costituzionali e di civiltà giuridica in vario modo e a lungo smarriti. Se solo ora i pm si pentono della gogna-intercettazioni di Annalisa Chirico Il Giornale, 17 febbraio 2016 Di colpo le procure d’Italia scoprono lo scandalo intercettazioni, e lo fanno in nome di un’ autoregolamentazione che ha i tratti dell’autodenuncia. In gergo tribunalizio sarebbe una "confessione tardiva". L’apripista è Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, che lo scorso novembre impartisce a polizia giudiziaria e pm istruzioni dettagliate per "evitare" di inserire nei provvedimenti il "contenuto di conversazioni manifestamente irrilevanti e manifestamente non pertinenti rispetto ai fatti oggetto di indagine". Adesso la stretta arriva dall’omologo di Torino, Armando Spataro, che con una circolare interna raccomanda di non trascrivere nei brogliacci "eventuali intercettazioni e dati inutilizzabili perché riguardano conversazioni dell’imputato con il suo difensore, perché attengono agli 007, perché ricadono in quelle proibite dal codice del Garante della privacy". E va bene il riferimento ai servizi segreti (Spataro era pm nel processo Abu Omar, quello in cui conversazioni e utenze telefoniche di decine di agenti italiani e statunitensi furono squadernate sui giornali, caso unico al mondo). E passi pure il silenzio dei Travaglio e delle Guzzanti, neanche un tweet contro la circolare "ammazza intercettazioni". Come si cambia per non morire. Ma quel che colpisce al punto da lasciare increduli è che da Roma a Torino, da Firenze a Napoli, i capi delle procure si prendano la briga di ribadire quanto già oggi è espressamente vietato dalla legge. Che cos’è questa se non l’implicita ammissione delle violazioni di legge regolarmente coperte? Si riconosce così l’esistenza di una zona franca, coincidente con il perimetro di certi uffici giudiziali, dove la legge è di fatto sospesa m nome di superiori e improrogabili esigenze giurisdizionali. Mentre la politica si azzuffa attorno alla legge Orlando che verrà, forse si forse no, chissà come, le procure si autoregolano, come fanno da sempre, e nessuno solleva una seppur lieve critica. Viene da chiedersi se i procuratori capi che oggi mettono m riga polizia e pm abbiano mai denunciato in passato presunti abusi e irregolarità. Viene da chiedersi quanti siano i procedimenti avviati a seguito delle fuoriuscite giornalistiche di notizie riservate. Non si ha memoria di magistrati condannati per violazione del segreto istruttorio. Reato per il quale invece è stato condannato Silvio Berlusconi. A proposito di paradossi, sentite le parole di Edmondo Bruti Liberati, procuratore capo di Milano all’epoca del processo Ruby: "Sin dal 2010 abbiamo definito due punti: la polizia doveva impedire che già nei brogliacci si desse conto di intercettazioni private, poi invitai esplicitamente i pm a evitare riferimenti a conversazioni private irrilevanti". Vi ricordate le paginate sui giornaloni nazionali dense di dettagli anatomici e voluttà sensoriali? C’è da pensare che siano stati gli avvocati del Cav a trasmettere i contenuti a luci rosse alla stampa. Citofonare Ghedini. Intervista a Nicola Gratteri: "non stiamo affatto vincendo la guerra alla ‘ndrangheta" di Lidia Baratta linkiesta.it, 17 febbraio 2016 Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria spiega: "Non misuro la presenza delle mafie dal numero dei morti a terra o dalle macchine bruciate. La ‘ndrangheta che conosco io è quella che muove tonnellate di cocaina e poi con quei soldi condiziona l’economia". È meta febbraio, ma il termometro a Reggio Calabria segna già 22 gradi. Non fa solo molto caldo in riva allo stretto. In meno di dieci giorni, in città si sono consumati quattro agguati, tutti con modalità che sembrano di stampo mafioso: tre tentati omicidi; e un omicidio, in pieno giorno, il 15 febbraio, nel quartiere Gallina. Lo studio del procuratore aggiunto Nicola Gratteri, da trent’anni in prima linea contro la ‘ndrangheta, si trova in linea d’aria a circa sei chilometri da lì. Sono i suoi ultimi mesi nel palazzone della procura di Reggio: presto andrà a combattere i mafiosi come procuratore alla Dda di Catanzaro. Da quest’ufficio si vede l’ultimo tratto della Salerno-Reggio Calabria: è da qui che, tra i viaggi, le lezioni di Economia della criminalità all’Università Mediterranea e le domeniche nell’orto di Gerace, studia l’escalation di agguati e intimidazioni a negozi, sindaci e sindacalisti che dall’inizio dell’anno ha colpito la Calabria da Nord a Sud. Dal cosentino allo stretto. L’11 febbraio a Reggio Calabria è "sceso" pure il ministro dell’Interno Angelino Alfano, che ha dato la sua spiegazione dei fatti. "È la reazione della ‘ndrangheta alla pressione dello Stato", ha detto, "segno della debolezza delle cosche". Una spiegazione che però non convince Gratteri. "Non bisogna fare un’insalata di tutto quello che sta succedendo", dice. "È improbabile che i boss di ‘ndrangheta, visto che negli ultimi anni abbiamo arrestato 2mila di loro, si siano riuniti e abbiano deciso di bruciare un po’ di pullman lì, mettere bombe carta qui, gambizzare e uccidere da un’altra parte". Anche perché, dice Gratteri, che è uno che le parole le misura, "non tutto è ‘ndrangheta e i fatti vanno analizzati uno a uno, con le cause e le concause. Molte volte sono fatti singoli, in altri casi cinque o sei eventi hanno un unico disegno". Come gli agguati e l’omicidio a Reggio Calabria? "Sì, questi sono eventi collegati tra loro, che ricordano le guerre di ‘ndrangheta. Una ‘ndrangheta che uccide solo quando è necessario". Cosa significa? "Al di là dei singoli episodi, sui quali ci sono indagini in corso, la ‘ndrangheta che conosco io non ha alcun interesse a fare rumore e ad avere uno scontro con le istituzioni". Quindi non siamo di fronte a un’emergenza? "L’emergenza c’è, ma c’era anche un anno fa quando c’erano meno episodi criminosi. Per me l’emergenza c’è sempre. Non misuro la presenza o la pervasività delle mafie dal numero delle macchine bruciate o dai morti a terra. Non è quella l’emergenza. La ‘ndrangheta che conosco io discute, parla, dà consigli, formalmente non minaccia ma intimidisce. La ‘ndrangheta che conosco io è quella che muove tonnellate di cocaina e poi con i soldi guadagnati condiziona l’economia e quindi la libertà della gente. È quella che controlla il voto, gli appalti, che dice non solo chi vince l’appalto, ma anche dove deve essere costruita un’opera pubblica e se deve essere costruita. Per me l’emergenza dura da trent’anni, da quando faccio il magistrato". Gli amministratori locali, però, negli ultimi mesi sembrano nel mirino della criminalità. "In questo caso la situazione è più delicata". Cioè? "Bisogna fare una premessa: la ‘ndrangheta vota e fa votare. Tutti i candidati dicono sempre che i voti della mafia non li vogliono, lo dicono pubblicamente, anzi lo urlano. Ma spesso nelle ultime 48 ore al candidato viene il panico di non essere eletto e quindi è nelle ultime 48 ore che fa i patti col diavolo. Ovviamente nel momento in cui una famiglia di ‘ndrangheta ti consegna un pacchetto di voti che è il 20% dell’elettorato attivo, determina chi sarà il sindaco. Il capomafia quindi vorrà quantomeno cogestire il comune. Come minimo indicando chi sarà il tecnico comunale o intervenendo sul piano regolatore. Può darsi anche però che la ‘ndrangheta sbagli il cavallo vincente, ma il capomafia non starà alla finestra a guardare, farà di tutto per entrare nella spartizione della torta". E questo cosa significa? "Significa che non tutti gli attentati ai pubblici amministratori sono fatti dalla mafia perché l’amministrazione si è opposta alla mafia. Molti attentati vengono fatti perché l’amministratore non è stato al gioco e al giogo della ‘ndrangheta. Alcuni attentati vengono fatti perché l’amministratore o il politico non è stato ai patti precedenti con ‘la ndrangheta. Altri attentati ancora possono non riguardare la ‘ndrangheta, ma essere problemi anche interni ai rapporti tra pubblici amministratori". Angelino Alfano a Reggio ha detto che la nuova serie di attentati è segno della debolezza delle cosche. Chi sta vincendo, voi o loro? "Penso che stiamo pareggiando la partita. Per vincere davvero bisogna cambiare le regole del gioco e le regole di ingaggio: il codice penale, il codice di procedura penale, l’ordinamento penitenziario, sempre nel rispetto della Costituzione. È necessario fare tante di quelle modifiche finché delinquere diventerà non conveniente. Sono tutte proposte che abbiamo messo nero su bianco nella Commissione voluta dal governo, che ho presieduto a titolo gratuito chiamando i migliori esperti sul campo (Commissione Gratteri, ndr)". Mi fa un esempio di quello che avete proposto? "In Italia ci sono 44mila uomini della polizia penitenziaria. Ogni giorno diecimila di questi vengono impegnati per trasferire i detenuti. Se a Reggio Calabria si tiene un processo con 40 imputati detenuti che devono rispondere di concorso in associazione di stampo mafioso, bisogna impiegare gli uomini che scortino fino a Reggio i detenuti di massima sicurezza, che in genere stanno da Roma in su. Nel tribunale di Reggio questi detenuti stanno insieme sette-otto ore. Qui hanno il tempo per incontrarsi, fare affari, trasmettere attraverso gli avvocati messaggi di morte o richieste di mazzette, minacciare i testimoni. Per otto-nove mesi vengono tenuti nelle carceri tra Reggio, Palmi e Vibo Valentia. Poi torneranno a Reggio magari dopo sette-otto mesi per l’appello. Questo giochino in tutta Italia ogni giorno costa 70 milioni di euro. Quello che abbiamo proposto noi è che tutti i detenuti di alta sicurezza sentiti a qualsiasi titolo, come indagati, testimoni, o anche se si devono separare, non vengano trasferiti, ma restino dove sono sfruttando le videoconferenze. Con una sola modifica si eviterebbe che i detenuti possano continuare a nuocere e minacciare e si risparmierebbero 70 milioni di euro l’anno. Immaginiamo quanti uomini della polizia penitenziaria potremmo assumere con questi soldi". La Commissione ha concluso i lavori nel dicembre 2014. Che fine hanno fatto queste proposte? "Io immaginavo, fantasticavo, sognavo che un blocco di queste cose ovvie passassero velocemente con un decreto legge, il resto con dei disegni di legge. Purtroppo forse non c’è una maggioranza forte tale da portare avanti queste piccole rivoluzioni. Alcune di queste proposte si stanno discutendo ora in Parlamento". Ma le procure calabresi hanno i mezzi per combattere le cosche? "Esclusa Reggio, nelle altre quattro province calabresi la presenza della ‘ndrangheta è stata ed è sottovalutata da magistrati, istituzioni e studiosi. Tranne alcuni. Come Giovanni Bombardieri (procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro, ndr), che urla e grida dicendo che con questi organici non ce la fanno più e non sono in grado di tenere testa alle ondate di mafiosi. Ma non lo sta ascoltando nessuno. Tutti a dargli pacche sulle spalle, a dirgli che ha ragione, ma nessuno concretamente gli ha dato una mano nel corso degli anni". Ma bastano modifiche normative e più mezzi per sconfiggere la ‘ndrangheta? "No, bisogna anche investire in istruzione e in cultura. Basta risparmiare i soldi spesi in convegni antimafia e assumere gli insegnanti calabresi che stanno andando in Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana. Avremmo bisogno di in una scuola a tempo pieno. I giovani in Calabria sono sempre più ignoranti, così vengono affascinati dall’onnipotenza che può dar loro l’affiliazione alla ‘ndrangheta: è su di loro che bisogna lavorare. Certo, con le modifiche normative vedi i risultati già dopo quattro o cinque anni. Se investi in istruzione e cultura hai bisogno di molto più tempo per vedere i risultati. E il politico purtroppo non fa progettazione di lungo periodo: il politico fa progetti i cui risultati devono vedersi al massimo tra un anno e mezzo. Sarà molto dura". La principale fonte di finanziamento per la ‘ndrangheta resta il traffico cocaina, come lei ha raccontato in Oro Bianco (scritto con Antonio Nicaso). Ha in mente una soluzione anche per fermare il narcotraffico? "Noi sequestriamo solo il 10% della cocaina che passa. Vuol dire che le regole di ingaggio non vanno bene, vuol dire che bisogna modificarle. Io ho un’utopia: se avessimo un’Onu diversa da quella che c’è oggi, potremmo risolvere il problema della cocaina. Purtroppo l’Onu è un organismo debole. Io lo vedo come il posto degli sfigati. Ma se fosse un organismo di peso, si dovrebbe andare in Colombia, Bolivia e Perù - i tre Paesi produttori di cocaina al mondo - e dire che siccome i governi locali non sono stati in grado di risolvere il problema della coca, lo faranno le Nazioni Unite". Come? "I caschi blu scendono sulla terra rossa della foresta amazzonica e parlano con i cocaleros. Se coltivando la coca guadagnano 100 e coltivando granturco guadagnano 40, l’Onu si impegna a dare il 60% del mancato guadagno. Con i caschi blu che restano là e controllano se effettivamente si sta coltivando granturco. In questo mondo risolveremmo il problema del traffico di cocaina con un terzo della spesa che il mondo occidentale spende per contrastare le narcomafie. Ma risolveremmo anche il problema del riciclaggio e di un’economia drogata dove alcuni giocano con regole del libero mercato mentre altri con le carte truccate perché per comprare un albergo non devono farsi prestare soldi in banca visto che ce li hanno già. Il problema delle élite della ‘ndrangheta oggi non è quello di arricchirsi, ma di giustificare le ricchezze. La fatica per loro ora è far uscire alla luce del sole i milioni accumulati". L’antiriciclaggio prova la strada della depenalizzazione di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2016 I recenti interventi legislativi in materia di depenalizzazione hanno interessato anche la normativa antiriciclaggio: nella sostanza dal 6 febbraio 2016 tutte le ipotesi che prevedevano la sanzione penale della ammenda e della multa sono state trasformate in illecito ammnistrativo. In particolare, l’omessa identificazione della clientela e l’omessa registrazione di documenti ed informazioni acquisite per assolvere gli obblighi di adeguata verifica, cosi come previsti dal Dlgs n. 231/ 2007, saranno punite con la sola sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro che va da un minimo di 5mila a un massimo di 30mila euro. La platea dei soggetti interessati dalla normativa è molto ampia: professionisti, intermediari finanziari, creditizi ed assicurativi, nonché soggetti che svolgono attività finanziarie per conto terzi. Occorre sottolineare che, a breve, con il recepimento della VI Direttiva Ue antiriciclaggio verranno ampliati gli obblighi antiriciclaggio: tra i reati presupposto rientreranno esplicitamente i reati fiscali, sarà rivisitato il sistema sanzionatorio e saranno individuati nuovi soggetti obbligati (ad esempio i prestatori di servizi di giochi d’azzardo e i privati che negoziano beni tra loro). Nel passato l’iter di accertamento di questi illeciti passava per un intervento affidato alla Guardia di finanza o alla Banca d’Italia e l’irrogazione delle sanzioni spettava alle procure della Repubblica che instauravano un vero e proprio procedimento penale. Oggi, invece, il procedimento di accertamento per le fattispecie di reato depenalizzate seguirà l’ordinario procedimento previsto dalla legge 689/81 sulle depenalizzazioni con le specifiche previste per le sanzioni ammnistrative valutarie. L’accertamento e la contestazione degli illeciti di natura amministrativa in materia di antiriciclaggio sono affidati all’Unità di informazione finanziaria, alla Guardia di finanza e alla Direzione investigativa antimafia, a seconda delle loro specifiche competenze. L’irrogazione delle sanzioni amministrative è invece di competenza del ministero dell’Economia e delle finanze (Mef), che provvede con decreto. Solo per alcuni soggetti (ad esempio banche e intermediari finanziari autorizzati) e per particolari violazioni, la competenza è riservata alla Banca d’Italia, alla Consob o al ministero delle Attività produttive, oltre che all’Autorità garante per la protezione dei dati personali. La normativa sulle sanzioni ammnistrative prevede che la violazione debba essere contestata immediatamente sia al trasgressore sia alla persona coobbligata in solido al pagamento della somma dovuta per la violazione stessa. Qualora non sia possibile eseguire una contestazione immediata, la contestazione della violazione deve essere notificata agli obbligati entro 90 giorni dall’accertamento, se residenti nel territorio italiano, entro 360 giorni se all’estero. Qualora non vengano rispettati questi termini, il Giudice può dichiarare estinta l’obbligazione e l’autorità preposta che ha accertato la violazione dovrà inviare il relativo verbale al Mef. All’autore della violazione è riservato un diritto di difesa, da esercitare entro 30 giorni dalla contestazione se residente in Italia (60 se all’estero): potrà quindi presentare delle memorie difensive nonché chiedere di essere sentito personalmente. Il Mef, dopo aver esaminato le memorie difensive e proceduto all’audizione personale dell’interessato che ne abbia fatto specifica istanza nonché analizzato eventuali documenti depositati, potrà, se ritiene fondate le argomentazioni dell’interessato, procedere all’emissione di un’ordinanza motivata di archiviazione; se invece ritiene fondato l’accertamento dovrà emette un decreto con il quale irroga la sanzione pecuniaria ingiungendone il pagamento. Il Mef, in ogni caso, comunicherà l’esito del procedimento all’organo accertatore. Qualora il soggetto interessato non ritenga di dover procedere al pagamento della sanzione potrà, secondo l’ormai consolidato orientamento della Cassazione, impugnare il decreto presentando al Tribunale civile competente un atto di opposizione all’ingiunzione di pagamento, trattandosi di norme di tipo sanzionatorio ammnistrativo valutario. Rito sommario esteso a tutte le cause del giudice unico di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2016 Davanti al giudice unico, processo sempre in forma semplificata. Con le regole dell’attuale procedimento sommario di cognizione. Spazio poi al giudice unico anche in appello. Introduzione del tribunale della famiglia. Incentivi agli uffici giudiziari che riescono a smaltire l’arretrato più datato. E nel diritto del lavoro, cancellazione del rito Fornero e previsione della negoziazione assistita. Sono questi gli elementi chiave del disegno di legge delega messo a punto dalla Commissione Giustizia della Camera. L’esame degli emendamenti, annuncia la presidente Donatella Ferranti (Pd), si è ormai concluso e, dopo i pareri delle commissioni interessate, tra cui la Bilancio, potrà approdare in Aula. Ferranti sottolinea anche che il provvedimento è stato assai arricchito rispetto alla versione elaborata dalla commissione Berruti e poi approvata dal Consiglio dei ministri. L’obiettivo, spiega la presidente, è di avere un sistema processuale più efficiente senza comprimere il principio del contraddittorio. Nel dettaglio, si prevede l’allargamento obbligatorio del procedimento sommario (ribattezzato rito semplificato di cognizione) a tutte le cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, con esclusione delle controversie attualmente assoggettate al rito del lavoro. Al giudice viene affidata, nel rispetto del principio del contraddittorio, la facoltà di fissare termini perentori per la precisazione o modificazione delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni, per l’indicazione dei mezzi di prova diretta e contraria e per le produzioni documentali, escludendo il potere del giudice di disporre il passaggio al rito ordinario. Per quanto riguarda l’appello, il disegno di legge prevede l’individuazione delle materie nelle quali la decisione è affidata al giudice unico, tenuto conto della ridotta complessità giuridica e della limitata rilevanza economico sociale della causa. Il filtro in appello dovrà poi riguardare anche i casi in cui il giudizio di secondo grado è proposto contro un provvedimento che definisce un procedimento sommario di cognizione. Si punta poi a valorizzare l’istituto della proposta di conciliazione da parte del giudice, prevedendo che la mancata presenza delle parti e il rifiuto, senza un motivo giustificato, della proposta di transazione da parte dell’autorità giudiziaria rappresentano un comportamento da valutare al momento di decidere la controversia e a titolo di responsabilità aggravata. Su quest’ultima forma di responsabilità, poi, la delega prevede che, nella determinazione della somma cui va condannata la parte soccombente che ha agito o resistito in giudizio con malafede, l’importo della somma da liquidare alla controparte deve essere determinato tra il doppio e il quintuplo delle spese legali. Al di fuori della responsabilità aggravata, è stabilita poi una sanzione al pagamento alla cassa delle ammende di una somma tra il doppio e il quintuplo del contributo unificato dovuto quando il giudice si pronuncia sulle spese. Per dare più sprint al programma di smaltimento dell’arretrato civile più risalente nel tempo, si stabilisce che gli incentivi stabiliti dal decreto legge con la manovra 2011 (decreto legge n. 98) per gli uffici giudiziari virtuosi dovranno essere ripartiti in questo modo: 40% agli uffici in cui non sono più pendenti procedimenti civili ultradecennali alla data del 31 dicembre dell’anno precedente; 35% agli uffici in cui i procedimenti ultra-triennali per il primo grado o ultra-biennali per il grado d’appello sono inferiori al 20% di tutti quelli pendenti alla data del 31 dicembre dell’anno precedente; 25% agli uffici che hanno ottenuto la riduzione del 10% della pendenza nell’ultimo anno solare. Dai calcoli sono esclusi gli affari sulle tutele, le curatele e le amministrazioni di sostegno i cui soggetti interessati sono ancora in vita. Le guardie ci sono, ma nelle galere sbagliate di Alessia Pedrielli Libero, 17 febbraio 2016 A Salerno e Savona carceri chiuse con agenti in servizio, esuberi anche a Reggio e Gorizia. Carceri sovraffollate, pochi agenti, turni massacranti e la sicurezza degli istituti non è garantita. Tutto noto da tempo, tutto inutilmente segnalato dai sindacati di polizia penitenziaria. A dimostrarlo, adesso, c’è anche il caso di Rebibbia, dove due criminali sono evasi segando la grata di un magazzino, oltrepassando un muro alto sette metri, poi un altro di sei e infine scavalcando una rete, senza che mai nessuno li vedesse. Sempre in Italia, però, e questa è una realtà molto meno nota, ci sono carceri da cui nemmeno un granello di polvere riuscirebbe ad evadere senza che gli agenti lancino l’allarme. Peccato soltanto che si tratti di carceri vuote - o in via di dismissione - dove il personale è rimasto a sorvegliare i muri. Succede per esempio a Sala Consuma, nel salernitano: la struttura ha formalmente chiuso lo scorso novembre perché ospitava un numero troppo basso di detenuti (la legge impone la chiusura con meno di 51 carcerati) ma, invece di essere trasferiti dove l’organico è carente, gli agenti sono rimasti in servizio. Tutti al loro posto, 24 ore al giorno, con turni di otto ore ciascuno, pronti a qualsiasi evenienza, in un carcere completamente vuoto. Stessa cosa accade a Savona: anche qui carcere chiuso da più di un mese, ma gli agenti sono ancora al lavoro e sono in tutto più di sessanta, con un bello spreco di soldi pubblici e mentre gli istituti vicini, magari, piangono miseria. Ma se due casi, è vero, non fanno una prova ecco il terzo: è l’Ipm di Lecce, un vero e proprio carcere fantasma dal costo spropositato di un milione di euro l’anno. L’ipm era un carcere minorile e fu chiuso con ordinanza ministeriale nel 2007 per fantomatici interventi di manutenzione. In servizio nella struttura sono rimasti, però, una ventina di agenti di polizia penitenziaria e una decina di addetti ad altre mansioni. Lo rivela Donato Capece, segretario generale del Sappe, il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che raccoglie più del 30% degli agenti. "Da anni denunciamo questa stortura spiega - ma la situazione resta irrisolta con incomprensibile spreco di risorse, mentre sono tante le realtà dove sarebbe urgentissimo rinforzare il personale". Invece nulla, i lavori di manutenzione sono andati per le lunghe, le burocrazie pure e a distanza di quasi dieci anni la situazione è sempre la stessa: gli agenti sono ancora lì. E poi c’è il Centro prima accoglienza di Taranto. Anche qui gli agenti in servizio sono nove mentre "di detenuti ne passerà sì e no uno all’anno", aggiunge Capece. E non è un caso che si tratti di un altro carcere minorile. A questo settore detentivo, infatti, dipendente dal ministero della Giustizia ma guidato da una diversa amministrazione rispetto al carcere per adulti, sono assegnati agenti in quantità nettamente superiore rispetto a quelli assegnati alla custodia dei maggiorenni, con una sproporzione fotografata dai dati nazionali: i minori detenuti ogni anno sono circa 350, con 950 agenti addetti al servizio sorveglianza e 1200 figure di supporto. Per gli adulti invece si parla di circa 53mila detenuti con appena 38mila agenti penitenziari, coadiuvati da poche migliaia di operatori (fonte Sappe). Nel novero delle strutture che avrebbero dovuto chiudere secondo i parametri di legge, e che invece sono ancora aperte, c’è anche Gorizia coi suoi 17 detenuti, sorvegliati da 22 agenti e tre commissari. Ma non è solo colpa della mancata applicazione delle regole, a volte si tratta semplicemente di errori. Ne è un esempio il carcere di Arghillà, a Reggio Calabria: l’amministrazione penitenziaria continua a inviare più agenti di quanto stabilito dalla pianta organica. A denunciare l’anomalia è Uil-Pa (sindacato polizia penitenziaria della Uil) che a inizio mese scriveva all’amministrazione per segnalare che "vengono assegnati temporaneamente agenti a supporto del personale già in forte esubero, a fronte di altre realtà le cui gravi carenze non destano la dovuta attenzione". Sicilia: sovraffollate la metà delle carceri di Angela Ganci Quotidiano di Sicilia, 17 febbraio 2016 Compensano gli istituti più "vuoti": così il totale generale non sfora la capienza. Ministero Giustizia: record a Siracusa con +116 detenuti. È lontana dal potersi considerare definitivamente superata l’emergenza sovraffollamento nelle carceri italiane: gli istituti della Penisola, infatti, eccedono ancora di circa 300 unità (2.995) la capienza regolamentare, per un totale di 52.475 detenuti. Per quanto riguarda gli istituti siciliani, seppure dal totale generale l’emergenza sovraffollamento sembra superata (5.666 detenuti presenti contro una capienza massima di 5.833), in realtà ben il 52% (12 su 23) risulta in stato di sovraffollamento al 31 gennaio 2016. è quanto si legge nel periodico report del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, da cui si evince il primato di Siracusa (+116 detenuti). Al secondo posto troviamo il penitenziario di Augusta (+93), quindi Agrigento (+77) e Catania Bicocca (+72), mentre alle ultime due posizioni si collocano Termini Imerese (+11) e Giarre (+6). Una specifica categoria di detenuti verso cui la giurisprudenza ha mostrato particolare riguardo è costituita dalle donne madri con figli al seguito. Secondo quanto previsto dalla legge n. 62 del 21 aprile 2011 esiste, infatti, per le detenute madri prive di dimora e con profilo di bassa pericolosità, con la finalità ultima di valorizzare il rapporto con i figli minori, la possibilità di carcerazione attenuata nelle cosiddette Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri), attualmente presenti a Torino "Lorusso e Cutugno", Milano "San Vittore", Venezia "Giudecca" e Cagliari. Alla data del 31 gennaio 2016 il totale delle detenute madri (sia negli Icam che nelle carceri ordinarie) è di 42 con 46 figli, con un numero di italiane pari al 68% delle straniere (17 contro 25) e con una differenza di 12 unità rispetto al numero dei figli (17 italiani contro 29 minori stranieri). I numeri più alti di detenute con figli, a prescindere dalla nazionalità, si registrano a Venezia "Giudecca" (10 madri per 12 figli), Torino "Lorusso e Cutugno" (7 madri per 8 bambini) e Roma "Rebibbia femminile" (7 madri per 7 figli al seguito). Al contrario, gli istituti che ospitano in assoluto meno donne si trovano tutti al Centro-Sud: Abruzzo (Teramo) e Puglia (Foggia), con una detenuta italiana con un figlio, e Sicilia (Agrigento) dove l’unica donna detenuta con figlio al seguito è di nazionalità straniera. Seppur nelle lodevoli intenzioni del legislatore, è doveroso sottolineare come la permanenza in carcere di bambini di fascia di età 0-10, almeno per come gli Icam sono attualmente strutturati (ampia variabilità dell’utenza, che va dalle donne incinte alle donne con bambini, ovvero l’ampia differenza di età dei bambini), possa pregiudicare lo sviluppo psicofisico e sociale dei minori, e come l’alternativa delle Case famiglia protette appaia una soluzione auspicabile. Secondo quanto riportato da Terre des Hommes, fondazione che da oltre un ventennio si occupa della protezione dei minori, infatti, tali strutture sarebbero maggiormente rispondenti alle reali necessità dei minori, poiché in grado di fornire una risposta personalizzata alle specifiche esigenze di ciascuna fascia di età, costituendo inoltre un efficace sostegno alla genitorialità e all’inserimento sociale delle madri e godendo di un minor costo di gestione rispetto agli Icam. L’arcipelago della giustizia italiana si arricchisce con i dati sui detenuti ammessi alle misure alternative che, al 31 Gennaio scorso, toccano le 22.209 unità con poco meno di 12.000 (11.943) destinatari della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale (corrispondenti al 53% del totale). All’interno di questa categoria, più della metà (6.066) proviene da un precedente stato di libertà, al contrario dei semiliberi che provengono per l’89% (636 su 710) da un precedente stato di detenzione. I soggetti in detenzione domiciliare provengono infine in egual proporzione (poco più di un terzo) dalla libertà (3.615) e dalla detenzione (3.560), per un totale complessivo di 9.556 beneficiari della misura. Lazio: Costantino (Cisl) "nelle carceri della Regione mancano 908 poliziotti penitenziari" tusciaweb.eu, 17 febbraio 2016 Un aumento del personale in organico nelle carceri di Roma e del Lazio che consenta di svolgere un servizio in sicurezza migliorando le condizioni di lavoro degli agenti di Polizia Penitenziaria è quanto sollecita la Fns Cisl del Lazio al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) dopo l’ultimo caso di evasione da parte di due rumeni detenuti presso il reparto G11 dell’istituto di Rebibbia NC di Roma. Attualmente l’istituto romano NC Rebibbia risulta avere un sovraffollamento di 157 persone in più rispetto ai 1.235 posti previsti. Un problema che va affrontato con urgenza insieme all’adeguamento del numero di agenti di Polizia Penitenziaria. Al momento il personale in servizio di polizia penitenziaria nei 14 istituti penitenziari del Lazio è sottodimensionato e non più rispondente alle esigenze funzionali degli istituti, dove si continua a registrare un esubero di detenuti rispetto alla capienza detentiva prevista. Effettivamente nel Lazio mancano 908 unità di Polizia Penitenziaria, previsti in pianta organica con Provvedimento Capo Dipartimento del 27/06/2014 n. 4.052 rispetto agli attuali presenti nei 14 istituti del Lazio n. 3.144 di cui 360 impiegati nei nuclei traduzioni e piantonamenti (2.784 operanti quindi esclusivamente interno istituti). Oggi il dato parla di circa 468 detenuti in più, nelle carceri laziali, rispetto alla capienza effettiva: ossia su 5.279 posti previsti in tutti gli istituti del Lazio, risultano invece recluse 5.747 persone (di cui 5.389 uomini e 358 donne). Anche il dato nazionale conferma il sovraffollamento: 52.230 detenuti rispetto ai 49.582 previsti con un surplus di 2.648 detenuti rispetto alla capienza prevista. Non solo. Possiamo anche affermare che le strutture dove vi sono i detenuti sono nella maggior parte dei casi fatiscenti e il più delle volte mancano anche le risorse per la manutenzione. Per la Fns Cisl esiste, infine, la necessità di investire in risorse del personale e nella modernizzazione dei sistemi di sorveglianza. Il problema carcere deve essere posto, quindi, in capo alle priorità del Ministro della Giustizia e del Governo. Umbria: appunti dall’Assemblea con i candidati Garante delle persone detenute da Associazione Radicali Perugia radicali.it, 17 febbraio 2016 "L’Associazione "Radicaliperugia.org - Giovanni Nuvoli" per molti anni è stata impegnata per l’applicazione delle leggi regionali istitutive del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale detto brevemente Garante dei Detenuti. Per noi, l’attuazione degli strumenti normativi previsti da queste leggi è stata innanzitutto una battaglia di civiltà giuridica per l’affermazione dello stato di Diritto che assicura la salvaguardia ed il rispetto dei diritti e delle libertà dell’Uomo. È anche una battaglia politica per il rispetto della stessa dignità dell’Assemblea legislativa che emana leggi che a volte rimangono inattuate o vengono applicate in ritardo. Presa d’atto che finalmente giovedì scorso si è avviata una discussione nella commissione regionale competente sui nominativi da proporre all’approvazione dell’Assemblea. Il ritardo nell’approvazione della nomina del nuovo Garante sta creando un vuoto di attività nella continuità delle iniziative avviate dal professor Fiorio che inevitabilmente si sono interrotte a settembre. In passato, come gruppo politico avevamo cercato di supplire con una serie di iniziative pubbliche tra cui quella di un incontro pubblico con i candidati dopo che la legge rimase inattuata per circa otto anni. Pensiamo che anche questa volta possa essere utile e necessaria un’assemblea di confronto pubblico di conoscenza del mondo carcerario con i candidati Garante dei Detenuti della Regione Umbria. Brevemente vorrei citare alcune attività del Garante dei detenuti che danno il senso dell’importanza sull’istituzione di questa figura così come tratti dalla relazione del professor Fiorio. Da un lato l’attività si è svolta con i colloqui con i detenuti presso i quattro istituti penitenziari umbri, la corrispondenza epistolare con i medesimi e i rapporti con le istituzioni territoriali, dall’altro la raccolta, sistematizzazione e segnalazione dei dati ricevuti. Importante è stato il rapporto con lo "sportello Diritti" operativo presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Perugia e con il terzo settore rappresentato dal volontariato individuale ed associato, dalle cooperative che - a vario titolo - operano in ambito penitenziario. I volontari garantiscono sostegno materiale e morale, con l’organizzazione di attività ricreative, colloqui e centri di ascolto. Interessante notare che la corrispondenza epistolare rappresenta fonte di informazione privilegiata per l’attività del Garante. In un anno all’ufficio del Garante sono pervenute 283 missive ed istanze debitamente protocollate, in gran parte da Spoleto. Corrispondenza in uscita che è servita a meglio indirizzare le istanze dei detenuti. Il Garante può visitare senza necessità di autorizzazione gli istituti penitenziari. Nel corso del suo primo anno di attività il Garante si è avvalso di quattro collaboratori. Ha effettuato 31 visite presso gli istituti umbri e sono stati effettuati 222 colloqui. I colloqui sono stati essenziali per l’espletamento della attività del Garante perché attraverso di essi si sono avute le principali richieste o segnalazioni riguardo la condizione di vita all’interno degli istituti e l’accesso ai benefici penitenziari. Le conversazioni costituiscono quasi il fulcro dell’attività del Garante. Sui colloqui con i detenuti c’è stata una grossa polemica anche pubblica che si è risolta con la nota ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Perugia che fa chiarezza sulle norme da applicare in merito alla regolamentazione dei colloqui. La questione è molto importante e vorrei spendere alcune parole. In poche parole la questione era nata in merito alla gestione dei colloqui presso la casa circondariale di Spoleto con un detenuto. Fino al 5 gennaio 2015 i colloqui si svolgevano presso la sala Biblioteca ed avevano luogo con la dovuta riservatezza e il rispetto della privacy sull’argomento trattato. Da quella data in poi ci fu una ristrettezza, per cui il Garante doveva essere itinerante all’interno della sezione e non più in biblioteca. Al colloquio erano sempre presente il vicecomandante e l’ispettore di sezione. Al garante non era consentito prendere appunti. Infine erano del tutto venute a mancare privacy e riservatezza inizialmente sussistenti. Il detenuto chiese al magistrato di sorveglianza di disapplicare la circolare che aveva cambiato lo svolgimento dei colloqui con il garante. L’ordinanza del Tribunale di sorveglianza riafferma il principio secondo il quale il Garante non può essere considerato come un visitatore esterno qualsiasi e chiarisce, in base alla normativa vigente come si devono svolgere i colloqui riaffermando il principio che la conversazione deve vertere sulle condizioni di vita del detenuto, sulla conformità del trattamento ad umanità, sul rispetto della dignità della persona, senza alcun riferimento al processo o ai processi in corso. Il Tribunale di sorveglianza quindi annullando l’ordinanza del magistrato di sorveglianza di Spoleto, disapplica la circolare n. 3651/6101 del 7 novembre 2013, disapplica l’ordine di servizio n. 7 del 16 giugno 2014 della direzione della Casa di reclusione di Spoleto e infine prevede che i colloqui tra il detenuto ricorrente e il Garante siano disciplinati dall’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario con richiesta alla Autorità Giudiziaria competente di autorizzare se del caso il controllo auditivo e la registrazione. I colloqui e la corrispondenza, quindi, come nucleo dell’attività del Garante. Va detto che nella sua relazione, il Garante riporta che i detenuti lamentano generalmente lo stato delle camere di pernottamento (ridotte dimensioni e bassa temperatura), la scarsa qualità del cibo, la mancanza di attività trattamentale e viene denunciato l’uso eccessivo del potere disciplinare. Tutta questa attività ci fa venire in mente quanto sia stato ridicolo il dibattito svolto da alcuni consiglieri regionali nella passata legislatura che sostenevano l’inutilità della figura del Garante, pensando addirittura che loro stessi potevano sostituirlo semplicemente facendo riferimento alla possibilità che la legge assegna ai consiglieri regionali e ai parlamentari nazionali ed europei di visita ispettiva. Sempre di più si parla di un superamento dell’emergenza sovraffollamento che sarebbe "del tutto superata". Anche l’Ansa il 10 febbraio scorso ha rilanciato questa notizia a proposito di recenti dichiarazioni del Dap. Secondo una elaborazione effettuata da Rita Bernardini ci sono 20 istituti penitenziari che hanno un sovraffollamento fra il 150% e il 192%; e altri 30 fra il 130% e il 150%. E questo, solo per parlare di sovraffollamento. C’è da prendere in considerazione anche i risarcimenti che decine di migliaia di detenuti avrebbero dovuto ottenere in base alla sentenza Torreggiani e che solo in 126 hanno ottenuto. Scrive Bernardini "O i detenuti che sono privati delle cure sanitarie necessarie? O quelli che vivono lontani dalla famiglia e che non vedono più figli o mogli o mariti o genitori? O i detenuti ai quali non viene data la possibilità di lavorare e/o di studiare? O vogliamo invece parlare di quelli che l’educatore, o lo psicologo o il magistrato di sorveglianza non lo vedono manco in fotografia? Si tratta (purtroppo) solo di alcune delle violazioni di legge". Bari: detenuto di 48 anni si suicida, la denuncia del Sappe "Stato latitante" di Mara Chiarelli La Repubblica, 17 febbraio 2016 Chiuso in cella per reati connessi alla droga e in condizioni fisiche difficili dopo un intervento chirurgico, non ha retto alla convivenza carceraria con altri detenuti e si è impiccato nel bagno della sua cella. Doveva tornare in libertà a dicembre prossimo il 48enne che l’altro pomeriggio, all’ora del cambio delle guardie giurate, ha realizzato con la cinta dell’accappatoio una corda rudimentale e si è chiuso nel bagno, togliendosi la vita con un solo, violento strappo. Proprio per le modalità con cui si è suicidato, non è servito l’intervento delle guardie chiamate dai compagni di cella: al loro arrivo, l’uomo era già morto. "Ormai ne abbiamo piene le tasche di protocolli, di convegni, di ordini del giorno del Consiglio regionale, di monitoraggi sul sistema carcerario pugliese", commenta Federico Pilagatti, segretario nazionale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Sappe. Pilagatti si riferisce, in particolare, a un protocollo siglato oltre un anno fa da amministrazione penitenziaria e Regione Puglia "che si prefiggeva lo scopo di prevenire il rischio autolesivo e suicidario dei detenuti". Il sindacalista ricorda come "la situazione della sanità nelle carceri è uno dei nodi più drammatici oltre alla grave carenza di poliziotti e alla fatiscenza delle strutture, che non ha trovato alcuna soluzione, nonostante pomposi protocolli firmati tempo fa che, dovevano recepire una legge dello Stato con cui si demandava la responsabilità della sanità penitenziaria alle Regioni". E annuncia nuove azioni di lotta: "Se a breve non ci saranno risposte concrete - avverte - il Sappe denuncerà l’attuale situazione alla magistratura ordinaria, poiché, a nostro parere, si potrebbe prefigurare in taluni casi, il reato di mancata assistenza sanitaria alla popolazione detenuta". Non si tratta, purtroppo, della prima denuncia pubblica fatta dal sindacato, né del primo suicidio nelle carceri pugliesi, dove il sovraffollamento costringe a una eccessiva vicinanza esponenti di clan mafiosi rivali. Il Sappe ha affrontato il problema anche con le istituzioni: "Nelle scorse settimane - spiega il segretario nazionale - ho scritto a tutti i capigruppo regionali, compreso il presidente del Consiglio, rappresentando come alcune problematiche di competenza della Regione, quali la sanità penitenziaria potevano trovare una rapida soluzione se affrontate in maniera concreta". Sala Consilina (Sa): "carcere senza detenuti, trasferiamo altrove le 14 guardie" di Erminio Cioffi La Città di Salerno, 17 febbraio 2016 Il sottosegretario Ferri: "Stiamo ricollocando il personale e dialoghiamo con i lavoratori per chieder loro se hanno delle preferenze e cercare di concordare dove destinarli". Le 14 guardie penitenziarie in servizio nel carcere di Sala Consilina, da tre mesi chiuso e senza detenuti, saranno a breve riallocate altrove. Ad annunciarlo è stato il sottosegretario al ministero della giustizia, Cosimo Maria Ferri, ieri mattina a Radio 24. "Avendo deciso di chiudere la struttura - ha dichiarato Ferri - stiamo ricollocando il personale. Stiamo dialogando, come è giusto che sia, con i lavoratori per chieder loro se hanno delle preferenze e cercare di concordare dove destinarli. Il ricollocamento avverrà in tempi brevissimi". La vicenda, riportata lo scorso 11 febbraio da La Città nei giorni seguenti è salita alla ribalta della cronaca nazionale ed è stata ripresa da tutte le emittenti televisive nazionali che in questi giorni hanno inviato i loro giornalisti a Sala Consilina, per documentare l’ennesimo paradosso italiano: un carcere chiuso da tre mesi, senza detenuti dove però prestano ancora servizio 14 guardie penitenziarie, due impiegati amministrativi e fino a qualche giorno fa anche un medico. Il sindaco di Sala Consilina, Francesco Cavallone, che si è anche incatenato ai cancelli della casa circondariale, non ha intenzione arrendersi ed è intenzionato a portare avanti la sua battaglia per cercare di ottenere la riapertura del carcere ed ha anche intenzione, se ci saranno le condizioni, di denunciare per falso in atti processuali chi ha dichiarato il falso al Tar al fine di ottenere la bocciatura dell’istanza per ottenere una ordinanza sospensiva del decreto ministeriale di soppressione. Il sindaco ha precisato anche che "in questa vicenda le guardie pentienziarie non hanno alcuna colpa, anzi loro sono le vittime visto che si ritrovano qui a fare la guardia al nulla non per loro volontà ma perché nessuno ha provveduto al loro trasferimento. Io mi auguro che i sindacati di categoria si costituiscano a nostro supporto nella causa amministrativa che di qui a pochi mesi verrà decisa anche nel merito". Roma: detenuti romeni evasi, al setaccio i campi rom di Tiziana Paolocci Il Giornale, 17 febbraio 2016 Polemiche sulla sicurezza del carcere romano. La Procura indaga. Un’interrogazione di Fi. Catalin Ciobanu e Mihai Florin Diaconescu sono due fantasmi. Le foto segnaletiche dei due romeni, evasi domenica pomeriggio da Rebibbia, sono a disposizione delle forze di polizia di tutta Italia. Ma dei due fuggiaschi non c’è traccia. Scomparsi nel nulla. Nessuna informazione, nessun indizio, nonostante la rete dei controlli abbia maglie strettissime e sia stata gettata fino alle frontiere. I controlli si estendono a campi nomadi, accampamenti abusivi e in queste ore gli investigatori hanno ascoltato anche parenti e conoscenti dei due stranieri, per capire se possano contare sull’appoggio di favoreggiatori che coprono la loro fuga. Ciobanu è stato condannato, in via non definitiva, per omicidio, e l’udienza è fissata a marzo. Diaconescu, invece, ha una condanna definitiva per rapina, legata a colpi messi a segno in villa, con fine pena nel 2021. A entrambi era stato consentito di lavorare in magazzino e proprio questo ha permesso di avere gioco facile per lasciarsi alle spalle Rebibbia. Disatteso, fino ad ora, l’appello partito dai legali dei due detenuti, che li invitavano a consegnarsi alla polizia. L’avvocato Cristiano Brunelli, difensore di Diaconescu, ha spiegato che il ragazzo era agitato per un residuo di pena, di altri 2 anni e mezzo di reclusione, che gli era stato notificato da poco. Mentre Ciobanu oggi sarebbe dovuto comparire davanti al Gup, per il rito abbreviato, difeso dall’avvocato Andrea Palmiero per rispondere di sequestro di persona e morte come conseguenza di un altro reato in relazione al decesso nel 2013, per infarto, di un commerciante egiziano, vittima di ripetuti episodi di estorsione e sequestrato a scopo intimidatorio. La Procura di Roma indaga sull’evasione, anche per appurare eventuali carenze nei servizi di controllo del carcere romano. Sull’episodio c’è anche un’indagine interna del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Per il segretario nazionale della Fp Cgil, Salvatore Chiaramonte, Rebibbia risente della carenza di personale, strutture fatiscenti e mancanza di strumenti di supporto alla vigilanza.Ma sul caso non si placano le polemiche. "I detenuti stranieri condannati in Italia devono scontare la pena nel loro Paese d’origine - sostiene Deborah Bergamini, di Forza Italia -. Lo prevede anche la Convenzione di Strasburgo del 1983 ratificata dall’Italia nel 1988". L’anno scorso qui il numero di detenuti stranieri ammontava a circa 17.500 unità, ovvero il 32 dell’intera popolazione carceraria, per un costo di 2,6 milioni di euro al giorno. "Ho presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Orlando - conclude la Bergamini - affinché il nostro Paese implementi, attraverso la sottoscrizione di accordi bilaterali con gli altri firmatari, il rimpatrio degli stranieri detenuti in Italia". Livorno: il carcere-isola di Gorgona e la polemica sul presidio sanitario di Fabrizio Ciuffini (Segretario Generale Cisl-Fns Toscana) maremmanews.it, 17 febbraio 2016 "Mentre continuiamo ad occuparci dei disagi di chi vive ed opera sull’isola di Gorgona, dell’incerto sistema di collegamenti con la terraferma e dell’assenza di servizi ai cittadini/lavoratori, leggiamo di una riflessione che il Referente Regionale Snami Medicina Penitenziaria ha diffuso, accusandoci di dare notizie sbagliate e che potrebbero dividere più che unire la comunità che sull’isola permane. Al carcere di Gorgona Isola il servizio di cui viene riferito dal Referente Snami altro non è che quella che comunemente in Tutti i Carceri d’Italia viene identificata come "infermeria del carcere", dove Sanitari del SSN prestano assistenza per le Persone detenute (essendo queste private delle libertà individuale e quindi impossibilitate ad andare dal medico di fiducia e/o in ospedale come può fare qualsiasi Cittadino libero). Per essere chiari, a tali attività sanitarie interne ai carceri, non devono rivolgersi Cittadini che non siano detenuti; tanto è vero che in ogni realtà d’Italia ogni appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria, anche quando vittima di infortunio sul servizio (anche in caso di aggressioni subite dai detenuti) viene inviato ai Presidi Sanitari del Territorio e non nell’infermeria interna. Che poi in una situazione come quella "particolare" di un isola come Gorgona, una Persona chieda un parere se accusa un disturbo, ed un medico, indipendentemente dal servizio istituzionalmente che svolge, assolva ad un suo preciso dovere deontologico professionale, questo non significa che sia attivo un Presidio per i Lavoratori ed i loro familiari. Su Gorgona non esiste nessuna farmacia e basterebbe questo per spiegare che le persone "libere", anche se necessitano di un farmaco "da banco" come una aspirina, non hanno dove fornirsene alla stregua di qualsiasi altro Cittadino su terraferma. Spiace che il Referente Snami intervenuto pubblicamente sulla questione ci accusi di dividere la comunità di Gorgona piuttosto che unire. Forse più che informare il sottoscritto del servizio di cui riferisce, dovrebbe informare chi opera e vive su Gorgona (ci riferiamo alle Persone che rappresentiamo) dell’esistenza di un servizio ritenuto dallo stesso Referente quale Presidio Pubblico aperto a Tutti, visto che non è noto e nessuno ha mai notata una sola indicazione, insegna e/o avviso che lo ufficializzasse. Chiaramente ci impegneremo perché anche quella attività - riservata ai detenuti - sia mantenuta e migliorata sperando che chi di competenza decida di eventualmente estendere il diritto a fruirne a Tutti senza che nessuno la ponga come una concessione. Su questo ci uniamo all’appello al Presidente della Regione, al Prefetto di Livorno ed al Sindaco della Città, affinché se una attività del SSN è organizzata sull’Isola, lo sia per garantire un Diritto di Tutti i Cittadini e non come un servizio per alcuni ed una gentile e discrezionale concessione per altri". Teramo: celle troppo piccole, lo Stato risarcisce il detenuto Davide Rosci di Diana Pompetti Il Centro, 17 febbraio 2016 Il Tribunale dell’Aquila accoglie il ricorso del suo legale che si è appellato alla Convenzione dei diritti dell’uomo. Lo Stato dovrà risarcire Davide Rosci perché per 340 giorni è stato detenuto in celle troppo piccole, a volte senza finestre, in spazi angusti condivisi con altri reclusi. Per la Corte europea "in condizioni non compatibili con la dignità umana". Lo dovrà fare dopo che il tribunale civile dell’Aquila ha accolto il ricorso dell’avvocato Filippo Torretta. Rosci, così come altre centinaia di reclusi italiani, si è appellato all’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, quello che secondo la corte di Strasburgo lo Stato italiano avrebbe più volte violato per i detenuti. È il caso della ormai nota sentenza Torreggiani, successivamente alla quale c’è stata una nuova normativa italiana. Che naturalmente poco o nulla si concilia con l’annoso problema del sovraffollamento della maggior parte delle carceri. Rosci attualmente è nell’istituto penitenziario di Castrogno per scontare la condanna definitiva a cinque anni e due mesi non solo per gli scontri di Roma, ma anche per un cumulo di altre pene diventate esecutive. "Non possiamo che esprimere soddisfazione per l’accoglimento del ricorso", dice l’avvocato Torretta, "è innegabile che Davide, insieme a decine di migliaia di altri detenuti, abbia vissuto in carcere in condizioni contrarie alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, senza dimenticare un anno intero di peregrinazioni tra le carceri di Teramo, Rieti e Viterbo". E negli istituti sovraffollati di Teramo e Viterbo, prima della condanna definitiva, ha trascorso 340 giorni che saranno risarciti con 2.700 euro. Scrive il legale nel ricorso accolto dal giudice Ciro Riviezzo: "Rosci ha condiviso nei luoghi di reclusione di Teramo e Viterbo celle di circa 7/8 metri quadrati con un’altra persona, per cui lo spazio di vivibilità, considerato anche il mobilio, era nettamente inferiore al parametro dei tre metri quadrati indicato in più occasioni dalla Corte come lo spazio minimo che deve essere garantito alle persone ristrette". E aggiunge: "La disumanità delle condizioni in cui era costretto a vivere l’odierno ricorrente non era determinata soltanto dalla ristrettezza degli spazi, ma anche da altri fattori: la presenza nella cella di una sola finestra (una piccola nel bagno), l’assenza di acqua calda nella cella e di una doccia nel bagno, la permanenza in cella per circa venti ore al giorno". Insieme a quella di Rosci il tribunale ha accolto altri cinque ricorsi per altrettanti detenuti di Pescara e L’Aquila. Trento: due piante di marijuana nell’armadio, assolti per "inoffensività" della condotta di Sergio Damiani L’Adige, 17 febbraio 2016 Coltivare in casa due piantine di marijuana per uso personale non costituisce reato. Lo ha stabilito la Sesta sezione penale della Cassazione, che ha annullato la sentenza di condanna emanata nel novembre 2013 dalla Corte d’appello di Trento nei confronti di due ventenni finiti nei guai per aver coltivato in un armadietto-serra della propria abitazione due piante di canapa indiana e per aver detenuto un essiccatore in cui c’erano una ventina di foglie di produzione "casalinga". La Suprema corte mostra di non condividere l’impostazione dei giudici trentini che nella sentenza di condanna avevano sostenuto (in linea con parte della giurisprudenza) come la coltivazione di piante per la produzione di sostanze stupefacenti sia sempre punibile a prescindere dal suo eventuale uso personale. Un’impostazione che agli occhi dei giudici della Sesta sezione penale risulta essere "indubbiamente rigida", ed a questa deve invece essere opposta una valutazione circa l’esistenza di una "offensività concreta" della condotta. Secondo i giudici della Suprema corte la coltivazione casalinga di due sole piantine di cannabis era sostanzialmente inoffensiva per il suo "conclamato uso esclusivamente personale" e della sua "minima entità", tale da escludere "la possibile diffusione della sostanza producibile e/o l’ampliamento della coltivazione" stessa. Anche se la coltivazione delle piante di marijuana è penalmente rilevante a prescindere dalla destinazione del prodotto e dal grado di maturazione delle piante (e dunque del principio attivo contenuto), spetta al giudice di volta in volta verificare se la condotta contestata sia idonea o meno a "mettere a repentaglio il bene giuridico protetto", cioè la salute pubblica. In sentenza si precisa che la punibilità per i coltivatori casalinghi "va esclusa allorché il giudice ne accerti l’inoffensività in concreto", cioè se la sostanza ricavabile "non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile". Per il caso in questione "va quindi ribadito - si legge nella sentenza 5254 del 2016 - che ricorre la assenza di offensività per quelle condotte che dimostrino tale levità da essere sostanzialmente irrilevante l’aumento di disponibilità di droga e non prospettabile alcuna ulteriore diffusione della sostanza". La sentenza è rimbalzata su molti siti nazionali che si occupano di questioni giuridiche e di stupefacenti, tra gli altri sulle pagine web dell’avvocato Nicola Canestrini, presidente della Camera penale di Trento e Rovereto: "È una sentenza importante, ma purtroppo non definitiva. Su questi temi la Quarta sezione penale della Cassazione ha invece una visione molto più restrittiva rispetto alla Sesta. È necessario che il nodo venga sciolto dalle Sezioni unite". L’ipocrisia su guerra e pace di Claudio Magris Corriere della Sera, 17 febbraio 2016 Le terribili guerre d’un tempo almeno finivano, oggi sembra che non ne finisca nessuna. Da più di settant’anni viviamo, anche se non ci sembra, in una lunga idillica pace. Infatti da più di settant’anni nessuno Stato ha dichiarato guerra a nessun altro e tutti sono stati dunque amici di tutti. Certo, si sono gettate continuamente bombe, sono state compiute e si compiono stragi sanguinose, eserciti si sono scontrati e si scontrano nei più diversi luoghi della terra; la Terza Guerra Mondiale - quella cosiddetta fredda, in realtà talora caldissima, bruciante come il napalm - è stata vinta dall’Occidente e persa dal blocco comunista, quarantacinque milioni di morti tra il 1945 e il 1989 in Paesi per nostra fortuna lontani. Ma non c’è stata dichiarazione di guerra né trattato di pace. Mentre le terribili guerre d’un tempo almeno finivano, oggi sembra che non ne finisca nessuna: quella in Afghanistan sta durando tre volte la Seconda Guerra Mondiale e non ha ancora né vinti né vincitori. Ora la guerra infuria nei Paesi più vari, una vera Quarta Guerra Mondiale ma senza che si sappia con precisione di chi contro chi. Assad è un alleato o un nemico dell’Occidente? L’Arabia Saudita è un’alleata dell’Occidente, ma nel suo territorio si preparano i terroristi che vanno a portare la strage in Occidente e dovunque. La guerra viene ripudiata in molte costituzioni dei Paesi civili. Basta questo a farla sparire? La stessa parola "guerra" viene pronunciata a fatica, come una brutta parola fra gente perbene; anche se si spara, si bombarda, si uccide, si distrugge, si muore, si preferisce parlare di operazioni di polizia internazionale La pudica reticenza delle parole non impedisce di gettare bombe, ma inibisce talora di comportarsi, se si è di fatto in guerra, come ci si comporta quando si è in guerra. La riluttanza a sparare è una grande virtù, ma se si mandano a difendere popolazioni minacciate non suore di carità bensì soldati, ciò implica che se, per difendere una popolazione o un gruppo inerme dal massacro, è necessario sparare bisogna purtroppo sparare e non comportarsi come quelle truppe dell’Onu nell’ex Jugoslavia mandate a impedire massacri e invece talora rimaste spettatrici passive del massacro, col proiettile mai uscito dalla canna a differenza dei proiettili che uscivano dalle bocche da fuoco dei massacratori. La conduzione della guerra sta diventando una specie di consultazione assembleare, che non diminuisce il sangue versato nel mondo ma rende assai meno efficaci le misure per impedire che si continui a versarlo. In queste settimane si parla ad esempio di probabili azioni militari - azioni di guerra - contro il cosiddetto Stato islamico jihadista. I giornali riportano opinioni, proposte; uno Stato chiede a un altro di intervenire suggerendo le modalità e le zone di intervento, un altro acconsente e insieme nicchia, avanza altre ipotesi operative. Se gli Alleati, quando preparavano lo sbarco in Normandia che decise la vittoria contro la Germania, avessero discusso pubblicamente i loro piani, tempi, modalità e località dello sbarco, quest’ultimo forse non sarebbe avvenuto e la Shoah sarebbe durata ancora di più. Un intervento militare è efficace quando se ne viene a conoscenza a cose già avvenute. Ma questo vorrebbe dire essere disposti, pur controvoglia, a fare la guerra, che invece ufficialmente non si fa più. Stragi nazifasciste: online i documenti dell’Armadio della Vergogna di Alberto Custodero La Repubblica, 17 febbraio 2016 Tredicimila pagine e oltre novecento fascicoli, che raccontano la storia di quindicimila persone, coinvolte nei crimini di guerra commessi in Italia da SS e "repubblichini" contro partigiani e civili durante l’Occupazione nazifascista. Tredicimila pagine e oltre novecento fascicoli, che raccontano la storia di quindicimila persone, coinvolte nei crimini di guerra commessi in Italia durante l’Occupazione nazifascista. È il cosiddetto "Armadio della Vergogna". È consultabile online sull’archivio della Camera. Uno di quei fascicoli, portò alla riapertura delle indagini, e poi al processo e alla condanna di Theo Saevecke, il capo delle SS di Milano che, il 10 agosto del 1944, fece la strage di Piazzale Loreto a Milano, in risposta alla quale, durante la Liberazione, ci fu il Piazzale Loreto della Resistenza. Saevecke liberò segretamente in Svizzera Indro Montanelli che finì prigioniero nelle sue mani. Un altro fascicolo portò alla riapertura del processo e alla condanna del capo delle Ss di Genova, Friedrich Engel. Un altro ancora al processo contro Henrich Schubert, comandante della famigerata, ferocissima omonima "colonna" specializzata nella repressione anti-partigiana. Un altro alle indagini sulla strage di Grimaldi, in Liguria. L’indagine della magistratura militare. I faldoni furono ritrovati nel 1994 nella cancelleria della Corte Militare di Appello presso la procura generale militare, nel Palazzo Cesi-Gaddi di Roma, in un armadio che aveva le ante rivolte verso il muro. Ed era chiuso con una catena. A cercarlo, era stato il procuratore militare Antonino Intelisano, il quale, indagando sull’ex SS Erich Priebke (estradato dall’Argentina) per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, aveva voluto riesumare il processo fatto nel Dopoguerra al capo di Priebke (e capo delle SS a Roma), Kappler. A parlare per la prima volta della sua esistenza, fu Repubblica il 28 marzo del 1999, quando sull’occultamento per 50 anni dei fascicoli sulle stragi naziste indagò il Consiglio di magistratura militare. Successivamente all’articolo di Repubblica, fu il giornalista dell’Espresso, Franco Giustolisi, a utilizzare per la prima volta il titolo: "Armadio della Vergogna. L’indagine del Parlamento. Sul mistero dell’occultamento dei fascicoli, che riguardano anche le principali stragi nazifasciste in Italia (da Sant’Anna di Stazzema, alle Fosse Ardeatine, a Marzabotto), ha lavorato, poi, anche una commissione d’inchiesta parlamentare tra il 2003 e il 2006. La novità è che adesso non solo audizioni e relazioni della commissione, ma tutti gli atti dello stesso "Armadio della Vergogna", sono pubblicati online: per ricevere copia digitale dei documenti declassificati, si deve fare richiesta sul sito della Camera. L’annuncio della presidente Boldrini. L’annuncio della pubblicazione online è stato dato dalla presidente Laura Boldrini sulla sua pagina Facebook: "Via il segreto di Stato su tredicimila pagine che raccontano i crimini commessi dai nazifascisti durante la seconda guerra mondiale. È questo il nuovo e importante capitolo nel percorso di trasparenza avviato a Montecitorio di cui sono contenta perché un Paese veramente democratico non deve avere paura del proprio passato". "Da oggi - prosegue Boldrini - sono online, sul sito dell’Archivio storico della Camera dei deputati, i documenti relativi ai 695 fascicoli del cosiddetto "Armadio della Vergogna", contenente denunce archiviate provvisoriamente e poi occultate. Quelle pagine ingiallite, a volte con il timbro secret stampigliato in copertina, riguardano - osserva Boldrini - episodi importanti della nostra storia: ci parlano di 15mila persone, di stragi come Sant’Anna di Stazzema, Fosse Ardeatine, Marzabotto, Monchio e Cervarolo, Coriza, Lero, Scarpanto, degli eccidi dell’alto Reno. Sull’anomala scomparsa di questo materiale ha lavorato una specifica Commissione d’inchiesta. Adesso, oltre ai resoconti pubblici delle sue sedute, ogni cittadino interessato potrà accedere da http://archivio.camera.it/ anche ai documenti desecretati". Se la Russia usa i profughi come arma contro l’Europa di Luigi Ippolito Corriere della Sera, 17 febbraio 2016 L’obiettivo nel mirino di Putin è la Merkel, da mettere sotto pressione. Non è stato un errore, quello di lunedì. L’attacco dei jet russi sull’ospedale di Medici senza frontiere è stato il culmine di una strategia deliberata: nella settimana precedente le forze di Bashar el Assad e di Vladimir Putin avevano distrutto i due principali ospedali di Aleppo, lasciando oltre 50 mila siriani senza assistenza vitale. Altre infrastrutture civili, come ad esempio le panetterie, erano finite nel mirino, col chiaro obiettivo di mettere in ginocchio la popolazione locale. Come risultato, nelle ultime due settimane oltre 40 mila persone sono scappate dalla regione di Aleppo, ammassandosi al confine con la Turchia. Il Financial Times ha parlato di weaponisation dei profughi, ossia la trasformazione dei rifugiati in un’arma scagliata contro l’Europa allo scopo di destabilizzarla. E non c’è dubbio che la crisi umanitaria dominerà la discussione al vertice europeo di domani e dopodomani. In particolare, a trovarsi sotto pressione a Bruxelles sarà la cancelliera tedesca Angela Merkel. Perfino il primo ministro francese Manuel Valls, in teoria il più stretto alleato della Germania, domenica scorsa si era espresso contro il piano Merkel di redistribuzione dei profughi nell’Unione, sostenendo che la politica tedesca delle porte aperte è "insostenibile nel lungo periodo". E c’è chi comincia a pensare che l’obiettivo specifico nel mirino di Putin sia proprio la Merkel: è lei che negli ultimi due anni ha tenuto dritta la barra europea nei confronti della Russia, a partire dalle sanzioni inflitte per l’invasione dell’Ucraina. Una Merkel indebolita dall’emergenza profughi, all’interno e all’esterno, avrebbe come conseguenza un’Europa disunita e in ordine sparso di fronte a Mosca. Né si può escludere che il fine ultimo della strategia del Cremlino sia addirittura la caduta della "cancelliera del mondo libero". Senza di lei l’Europa potrebbe implodere, offrendosi a Putin come un aggregato di staterelli proni al ricatto energetico e politico. C’è un filo rosso che lega l’aggressione all’Ucraina, l’appoggio ai partiti populisti e xenofobi e l’aggravamento della crisi dei profughi: impedire il consolidarsi di un’Europa forte e unita accanto alla Russia. Quando si discute dell’atteggiamento da tenere verso Putin, è importante capire qual è la vera posta in gioco. "Giulio non era una spia, così si offende la sua memoria" di Grazia Longo La Stampa, 17 febbraio 2016 La rabbia della famiglia. Dal Cairo scarsa collaborazione sulle indagini. Sarà di nuovo sentito il tutor Gervasio, Regeni doveva vederlo il 25 gennaio. Nel mistero della tortura e della morte di Giulio Regeni, di cui la famiglia difende la memoria contro chi lo accosta al mondo delle spie, l’ombra del depistaggio è sempre dietro l’angolo. È stato così anche ieri, durante l’interrogatorio dei suoi due coinquilini alla presenza, per la prima volta del nostro pool di investigatori in trasferta al Cairo. Sia l’avvocato Mohammed El Sayed, sia la ragazza tedesca Juliane Schoki, hanno smontato la testimonianza del supertestimone, un altro inquilino, che aveva raccontato del controllo dei passaporti tre giorni prima del sequestro del ricercatore friuliano. "Nessuno ha bussato alla nostra porta" hanno precisato i due. Ma che loro non fossero in casa in quel momento è confermato da un altro testimone, il web designer Eddi Saade che lavora sotto l’appartamento di Giulio. "La polizia mi chiese il passaporto e mi domandò come mai al terzo piano non rispondesse nessuno. Io dissi che non lo sapevo e tutto finì li". I nostri carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco avranno la possibilità di sentire presto anche lui?Al di là della collaborazione tanto sbandierata si sta cercando di insabbiare qualcosa? Scopriremo presto se davvero ci sarà una reale cooperazione. Entro venerdì è previsto un briefing per fare il punto dell’inchiesta. E il nostro team, coordinato dal pm della procura di Roma Sergio Colaiocco, insisterà per avere tutto il materiale che ha finora ha chiesto invano. Da oltre dieci giorni sono attesi i tabulati telefonici, i video delle telecamere, i verbali degli interrogatori. Ma finora non è arrivato nulla. E mentre ci si interroga su che cosa si nasconda dietro la brutale uccisione di Giulio (La convinzione che fosse una spia inglese? Un complotto dei servizi deviati egiziani per indebolire Al Sisi? Un’operazione di una squadraccia della polizia senza controllo?) sarà presto nuovamente sentito il suo tutor Gennaro Gervasio. Proprio con lui e con l’ideologo dissidente Hassanein Keshk aveva appuntamento Giulio la sera del 25 gennaio quando è scomparso. Gervasio, che insegna alla British University del Cairo, vive lì da vent’anni ed ha scritto anche per il Manifesto articoli sulla Primavera araba e sui sindacati autonomi. Tema che è probabilmente costato la vita a Giulio Regeni. Il professore è talmente esperto delle dinamiche del potere dei militari nella società egiziana da essere stato intervistato da Lookout News, rivista di geopolitca e intelligence che ha come direttore scientifico l’ex capo dei servizi Mario Mori. Intanto al Cairo si respira un’aria strana, pesante. Ce lo raccontano via chat giovani professionisti egiziani. "Ricevo messaggi sul telefono e sui social dove dicono che mi stanno addosso, sento che è questione di tempo". "Hanno portato via K. qualche sera fa, il telefono non risponde più". "Ci sono stati arresti ad Alessandria non sappiamo nulla". "Mi hanno preso, sono stato in custodia quattro giorni, ho tanta fame e voglio solo dormire". E un giornalista chiosa: "Per quanto possa sembra impossibile che la sicurezza s’irrigidisse ancora di più negli ultimi giorni l’aria è davvero irrespirabile da far temere che debba accadere qualcosa" dice un giornalista. C’entra la vicenda di Giulio Regeni, ma forse non solo. Mentre i suoi genitori ribadiscono: "Giulio non era un agente, né un collaboratore dei servizi segreti italiani o stranieri. Avvalorare questa pista offende la memoria di nostro figlio, brillante universitario che aveva fatto della ricerca sul campo una legittima ambizione di studio e di vita". Caso Regeni, entro giovedì l’Egitto consegnerà le "prove" agli italiani di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 17 febbraio 2016 La famiglia: "Giulio un agente? La sola ipotesi significa offendere la sua memoria". Interrogatori, analisi dei documenti, controlli sulle persone che lavoravano con lui e partecipavano alle sue ricerche: l’indagine dei carabinieri del Ros e dei poliziotti dello Sco per scoprire chi abbia torturato e ucciso Giulio Regeni entra nella fase più delicata. Entro domani le autorità egiziane dovrebbero consegnare quanto hanno raccolto sino ad ora, come si erano impegnate a fare nei giorni scorsi. Rispondere all’istanza che prevede la messa a disposizione di tabulati telefonici, filmati e relazioni sul caso fin qui compilate. Sarà la prova della tenuta dei rapporti tra i due Paesi su una vicenda che ha ormai un clamore internazionale. La verifica della collaborazione promessa dal Cairo, ma rimasta fino ad ora senza seguito. Omissioni e depistaggi continuano a segnare la ricerca della verità. Anche per questo la famiglia Regeni ha deciso ieri di rompere il silenzio. È stata l’avvocatessa Alessandra Ballerini a "smentire categoricamente ed inequivocabilmente che Giulio sia stato un agente o un collaboratore di qualsiasi servizio segreto, italiano o straniero. Provare ad avvalorare l’ipotesi che Giulio Regeni fosse un uomo al servizio dell’intelligence significa offendere la memoria di un giovane e brillante universitario che aveva fatto della ricerca sul campo una legittima ambizione di studio e di vita". In realtà l’ipotesi tuttora ritenuta più probabile è che il ricercatore sia stato vittima di chi ha sfruttato il suo lavoro, "venduto" i suoi report, reso noti i suoi numerosi contatti con dissidenti e sindacalisti. E in questo modo lo ha tradito fino a farlo finire nelle mani dei suoi aguzzini. Chi ha catturato Giulio Regeni voleva evidentemente ottenere altre informazioni e l’ha seviziato fino alla morte. Ma qual era questo segreto? Perché tanto accanimento? Il ricercatore, come hanno confermato i due ragazzi - un uomo e una donna - che vivevano con lui, ascoltati dagli agenti in trasferta al Cairo "era un grande studioso, trascorreva a casa gran parte della giornata. Usciva solo per motivi legati alla sua ricerca, ci vedevamo a cena perché gli piaceva cucinare". Uno dei due fa l’avvocato, si chiama Mohamed El Sayed, entrambi negano di aver mai sentito parlare di controlli della polizia nel palazzo, giurano di non aver mai notato nulla di strano. Una nuova smentita al racconto del testimone che aveva sostenuto di aver visto il ricercatore "portato via il 25 gennaio da due poliziotti in borghese all’entrata della metropolitana" e di averli riconosciuti "perché erano gli stessi che qualche giorno prima avevano fatto controlli nel palazzo". Versione smentita dai fatti visto che il giovane, che abita nello stesso palazzo, aveva sostenuto durante che il prelevamento era avvenuto alle 17.30 mentre l’analisi delle chat con la fidanzata e con il professor Gennaro Gervasio - consegnati da entrambi al pubblico ministero Sergio Colaiocco - dimostrano che Giulio ha parlato con loro fino alle 19.41. L’esame dei tabulati telefonici potrebbe fornire altri elementi fondamentali per scoprire che cosa sia accaduto in quelle ore, ma anche nei giorni precedenti. Ecco perché l’Italia insiste per averli. La polizia locale ha già fatto sapere che non ci sono i video delle telecamere sistemate sulla strada che il ricercatore avrebbe percorso per andare all’appuntamento con Gervasio, dove invece non è mai arrivato. Adesso bisognerà scoprire quando sono stati cancellati. Caso Regeni, a chi giovano le tesi complottarde di Marina Calculli e Francesco Strazzari Il Manifesto, 17 febbraio 2016 Speculazioni su un omicidio di Stato. Le teorie del complotto servono a complicare un quadro semplice in vista di un accomodamento semi -assolutorio. La cosa sicura è il regime politico in cui la vicenda si è svolta e il danno "collaterale" problematico per Egitto e Italia. Sono molte le ombre che si muovono attorno al brutale omicidio di Giulio Regeni: grosse falle e palesi contraddizioni animano versioni che si inseguono fra le sponde del Mediterraneo, della Manica e dell’Atlantico. È plausibile che il regime egiziano sappia e si siano messe in moto macchine che, gettando fumo e producendo tracciati inestricabili, preparino una versione più o meno di comodo. Anche se è chiaro a tutte le diplomazie che una linea rossa è stata varcata, e che i tentativi di depistaggio abbondano, né alla Farnesina né tanto meno a Bruxelles qualcuno ha intenzione di alzare la posta con toni ultimativi. Così, nell’incapacità e nell’impossibilità di mobilitare le categorie del politico, ecco che proliferano le tesi del complotto. Tutto questo dovrebbe indurre ad attenersi a ciò che sappiamo, e di cui abbiamo evidenza: ciò che Giulio stava facendo, i numeri di desaparecidos in Egitto, le vicende di altri stranieri massacrati in carcere, le firme lasciate sul corpo, le petizioni di accademici e cittadini - in Italia come in Inghilterra, perché della vicenda se ne occupino i parlamenti. Al contrario, ecco che proliferano - diffuse artatamente, spesso enunciate fra le righe - le tesi complottarde, il tutto - si noti - rigorosamente in assenza di prove o anche solo di indizi, e in aperta contraddizione con quanto sostiene la stessa famiglia. I primi corvi hanno spiccato il volo subito, appena ritrovato il corpo, sui quotidiani della destra, che ironizzavano sul fatto che Giulio avesse mandato articoli al manifesto: Giulio era una spia dei servizi italiani. Al di là della speculazione, resta infatti intatta, e nemmeno troppo implicita, la retorica del "se l’è andata a cercare" - prevalsa proprio perché Giulio, contrariamente a quanto si sbandiera, non era affatto "uno di noi": egli evidentemente non pensava, come a lungo sbandierato dal coro mediatico, che al-Sisi è comunque il meglio che l’Egitto possa produrre per la "nostra sicurezza". E del resto, anche oggi sono tutto sommato poche le voci indignate davanti a Edward Luttwak che si affaccia sui teleschermi per dire di lasciar perdere, che "magari l’ha ucciso il suo amante", o davanti agli analisti che invitano a "turarsi il naso". La seconda tesi riguarda le infiltrazioni del terrorismo islamista negli apparati di sicurezza egiziani, con scopi di provocazione e discredito, in cui per "terrorismo islamista" si intende la Fratellanza Musulmana. Va ricordato, a tale proposito, che i Fratelli Musulmani, pur essendosi distinti per incapacità di governare il paese tra il 2012 e il 2013, hanno pur sempre prodotto il primo parlamento e il primo presidente democraticamente eletto dell’Egitto repubblicano. La loro categorizzazione come "gruppo terrorista" dopo il golpe militare del 2013 guidato dal generale al-Sisi, fu il frutto di pressioni strategiche di un altro grande alleato dell’Occidente, l’Arabia Saudita. La casa dei Saud ha un problema di rivalità politica e strategica con i Fratelli Musulmani, che peraltro vede - se proprio vogliamo addentrarci negli aspetti dottrinari - come "troppo liberale". A denunciare il complotto interno non si è spinto neppure il regime, che in tal modo ammetterebbe la propria incapacità nella missione da cui deriva la propria legittimità: riportare l’ordine contro gli islamisti. La terza teoria si è fatta strada nelle ultime ore, riguarda il complotto internazionale ai danni dell’amicizia italo-egiziana, e tira in ballo grandi interessi economici (energia) e posizionamenti strategici (Libia): tale tesi sostiene che le informazioni di cui Giulio era entrato in possesso fossero state passate al suo supervisor di Cambridge e, quindi, potrebbero essere filtrate al di fuori dell’ambito accademico. Tale tesi lascia intendere che Giulio è stato forse vittima di un complesso network di spionaggio britannico, con il quale sarebbero collusi i suoi professori di Cambridge. Qui assistiamo a un passaggio concettuale dal "se l’è andato a cercare" al "sarà stato incastrato". È senza dubbio utile per l’accertamento della verità non precludersi rispetto ad alcuna ipotesi. Tuttavia sarebbe rilevante misurarsi anche con qualche indizio, che non può essere cercato meramente nel silenzio che viene dal Regno unito. Si aggiunga che tale passaggio ignora molto di come si strutturi una ricerca sul campo: il fatto che qualsiasi dottorando condivide i dati della propria ricerca con il suo supervisor, che solitamente è persona che ha cercato e voluto, costruendo una relazione di collaborazione e fiducia, e ricevendo consigli circa il metodo di osservazione più appropriato rispetto al fenomeno oggetto di studio. È certamente plausibile che un’indagine etnografica che si avvalga del metodo dell’ osservazione partecipante abbia attirato attenzioni di aguzzini incapaci di comprendere che la ricerca delle dinamiche di cambiamento politico esista, e che questa possa essere orientata non già da una pretesa "neutralità del sapere", ma da un genuino impegno intellettuale a facilitare prassi emancipatorie. È sorprendente, però, che questa ignoranza affligga anche i giornalisti nostrani, che evidentemente sono pronti a far slittare allusivamente la penna sul concetto di "ricercatore embedded", e dunque a vedere una spia, una manipolazione o un "giovane ignaro" dietro ogni dottorando e ricercatore che lavora sul campo in contesti sensibili, scambiando informazioni, collaborando con consulenze e giornali. Attenzione: i ricercatori in giro sono tanti e leggono in questi tragici eventi un messaggio anche rispetto al loro lavoro: quello su cui si dovrebbe fondare l’eccellenza della nostra famosa knowledge society. Senz’altro è importante che l’inchiesta proceda senza escludere nessun allargamento di campo: sarebbe altrettanto importante farlo senza disconoscere alla vittima il proprio ruolo e il proprio intendimento, rappresentandolo come un burattino sprovveduto. Le teorie del complotto servono in genere a complicare un quadro semplice per gettare fumo su ciò che pare ovvio a tutti, magari in vista di un qualche accomodamento semi-assolutorio. La realtà, nella maggior parte dei casi, disarma proprio per la sua banalità. Come ha fatto notare Khaled Fahmy, l’Egitto di oggi, e in particolar modo quello del 25 gennaio, attraversa una fase di paranoia senza precedenti, che potrebbe facilmente aver spinto le catene di comando oltre punti di non ritorno. Resta il fatto che il corpo morto di Giulio ha gettato moltissima - troppa - luce su come la sicurezza venga mantenuta in Egitto: l’unica cosa sicura è il regime politico in cui la vicenda si è svolta e il danno "collaterale" problematico per il Cairo quanto per Roma. Qui entrano in gioco gli interessi delle altre potenze, gli Stati uniti in primis. Molti si sono domandati come mai il New York Times sia entrato nella vicenda con rivelazioni poi apparse poco o per nulla solide. Molti però hanno dimenticato anche che il New York Times fu l’unico giornale globale a pubblicare in prima pagina la foto della militante socialista Shaima al Sabbagh morente fra le braccia di un compagno, colpita alle spalle da un fucile di un poliziotto mentre andava a depositare una corona di fiori in memoria della rivoluzione del 15 gennaio. I grandi media italiani pubblicarono poco o niente, salvo poi oggi - nel pieno del "caso Regeni" coprire l’assoluzione del poliziotto con vergognosi titoli della serie "il video che commosse il mondo". Le geografie territoriali o sociali della sicurezza e dell’insicurezza coincidono, curiosamente, con quelle della protezione degli affari, anche in contesti di estrema violenza. I miti della protezione nazionale, della divisione tra "Occidente sicuro e democratico" e "Oriente insicuro e dispotico", tra la sponda settentrionale e quella meridionale del Mediterraneo, sono un palliativo che devia costantemente l’attenzione dalla realtà dei fatti. E qui arriviamo all’ultima tesi complottarda diffusa in queste ore, quella degna di un regime che incrimina le vittime che denunciano la repressione: Giulio è stato ucciso da qualche sindacalista o oppositore che lo ha ritenuto una spia, un collaborazionista. Ora, tutto in teoria è possibile, ma forse si potrebbe cominciare col riconoscere perché Giulio era lì, a studiare chi rischia di scomparire in un carcere dal quale non riemergerà nemmeno il corpo. Forse varrebbe la pena di chiedere quanto ci interessa davvero coltivare verità e complessità, in un’era in cui la pratica sindacale sul posto di lavoro, la resistenza quotidiana ad espulsioni e sfruttamento - che in Egitto Giulio sapeva essere il centro nevralgico di una dinamica di resistenza e cambiamento - ha finito per essere equiparata tout court a un fardello che ritarda affari, politica e affari della politica. In una parola, un ostacolo alle "riforme" che ci aspettiamo l’Egitto introduca e subito. Israele: Mohammed al Qiq in fin di vita continua la sua lotta di Michele Giorgio Il Manifesto, 17 febbraio 2016 Il giornalista palestinese arrestato da Israele e in detenzione amministrativa, senza processo e accuse concrete, dallo scorso novembre, attua da oltre 80 giorni lo sciopero della fame. Vuole la scarcerazione immediata, non accetta soluzioni di compromesso. I medici avvertono che potrebbe morire nel giro di qualche giorno se non di ore. Mohammed al Qiq soffre terribilmente, accusa dolori lancinanti in ogni parte del suo corpo, sempre più debole, e potrebbe cessare di vivere nel giro di pochi giorni, forse di ore. I filmati che girano in rete mostrano il giornalista palestinese, arrestato lo scorso 21 novembre in Cisgiordania dai soldati israeliani e da allora in detenzione amministrativa (senza processo), che si muove appena e lancia un lamento straziante. Al Qiq, 33 anni, corrispondente dalla Palestina per la tv saudita al Majd, è poco più di uno scheletro. Ha perduto circa 30 kg ma non si arrende, non ha alcuna intenzione di interrompere lo sciopero della fame che porta avanti dal 24 novembre. Chiede la revoca immediata dell’ordine di detenzione amministrativa. Sua moglie, la famiglia, gli amici, pur temendo per lui e la sua vita, non si oppongono alla lotta che sta portando avanti, anzi la sostengono sino in fondo. Ripetono che "Mohammed non ha fatto nulla di male, altrimenti gli israeliani non lo avrebbero condannato alla detenzione senza processo". A sostegno del giornalista da giorni si svolgono cortei e sit in nelle città palestinesi, la sua immagine è ovunque, i media locali e i social rifericono aggiornamenti continui sulle sue condizioni. Per al Qiq manifestano anche decine di attivisti israeliani e due di loro, Anat Rimon e Anat Lev, hanno cominciato nei giorni scorsi uno sciopero della fame. I servizi segreti israeliani, senza avere nulla di concreto in mano, hanno chiesto e ottenuto dai giudici l’arresto e il carcere per sei mesi (rinnovabili) per al Qiq, perché, affermano, sarebbe un simpatizzante del movimento islamico Hamas. Il tribunale militare di Ofer ha respinto più volte la richiesta di scarcerazione perché il reporter "istigherebbe alla violenza". Al Qiq, uno degli oltre 600 palestinesi al momento in detenzione amministrativa, ha risposto alle accuse con una lettera nella quale scrive che i giornalisti palestinesi stanno sperimentando sulla loro pelle la repressione perché "sono la voce della coscienza umana, perché mostrano i crimini e le pratiche oppressive dell’occupazione israeliana". Ieri Al Qiq ha respinto la decisione dei giudici israeliani che, in parziale accoglimento dell’appello presentato dal suo avvocato Jawad Boulos, gli avevano offerto il trasferimento dall’ospedale israeliano dove è ricoverato all’ospedale palestinese Makassed a Gerusalemme Est. Al Qiq ha detto di no, vuole andare in un ospedale in Cisgiordania dove avrebbe vicino la sua famiglia e, più di tutto, non sarebbe sorvegliato dalla polizia israeliana. "Mohammed è un uomo molto forte, una persona dalla volontà eccezionale. Lotta contro una grave ingiustizia e non farà passi indietro", spiega l’avvocato Boulos. "Per al Qiq non vi è alcuna differenza tra l’ospedale HaEmek di Afula e l’ospedale al-Makassed" aggiunge da parte sua Ahmad Abu Mohammad, della Società dei Prigioneri Politici, "anche a Gerusalemme avrebbe due o tre soldati accanto al suo letto. Sarebbe esattamente lo stesso". I medici avvertono che Mohammed al Qiq è vicino alla morte e, nel migliore dei casi, potrebbe subire danni irreversibili. Il mese scorso è stato il primo detenuto palestinese in sciopero della fame ad essere sottoposto contro la sua volontà a un trattamento medico, ha denunciato la Ong israeliana "Medici per i Diritti Umani" (Mdu). Non è stato costretto a mangiare ma gli sono state trasfuse vitamine contro la sua volontà. È la prima volta, da quando la scorsa estate la Knesset ha dato il via libera all’alimentazione forzata dei prigionieri politici, che medici israeliani, violando l’etica professionale e i diritti dei pazienti, usano la forza contro un detenuto in sciopero della fame. "Mohamed al Qiq è stato tenuto fermo dalle guardie mentre lo staff medico praticava l’iniezione. Per quattro giorni è rimasto legato al letto, attaccato alla flebo mentre chiedeva invano che venisse rimossa", aveva riferito Lital Grossman di MDU. È stata una violazione del diritto internazionale e di varie dichiarazioni sottoscritte anche da Israele, che vietano di fare pressioni per interrompere uno sciopero della fame. Croce Rossa, Onu e Associazione Medica Mondiale considerano l’alimentazione forzata un trattamento crudele e disumano, vicino alla tortura. Messico: il Papa ai giovani "non lasciate la vostra vita in mano ai narcos" di Andrea Tornielli La Stampa, 17 febbraio 2016 L’incontro allo stadio di Morelia con più di centomila giovani: "Gesù mai ci inviterebbe a essere sicari, ma ci chiama discepoli. Egli mai ci manderebbe a morire, ma tutto in Lui è invito alla vita". La principale minaccia "è quando uno sente che i soldi gli servono per comprare tutto, compreso l’affetto degli altri". Per la prima volta si vede Francesco cantare. "Non è vero che l’unico modo di vivere, di essere giovani è lasciare la vita nelle mani del narcotraffico o di tutti quelli che la sola cosa che stanno facendo è seminare distruzione e morte". La penultima giornata della visita in Messico di Papa Francesco si conclude con una grande festa. Più di centomila giovani lo abbracciano nello stadio "Morelos y Pavón" di Morelia. Cinquantamila si sono radunati all’esterno, nell’aerea del parcheggio, seguendo l’incontro con i maxischermi, ma hanno potuto vedere dal vivo Francesco che è passato a salutarli con la papamobile. Gli altri cinquantamila hanno trovato posto all’interno. Tutti agitavano fazzoletti colorati. Tanti come sempre i fuori programma: due ragazze con la sindrome di down sono state fatte avvicinare a Bergoglio, che le ha abbracciate a lungo. Francesco ha ricevuto vari doni e saluti da quattro giovani messicani, provenienti da quattro angoli del Paese, hanno preso la parola. Gli hanno chiesto come recuperare "il sogno di formare una famiglia"; come ottenere la pace in un Messico piagato dalla corruzione e dal narcotraffico; come essere rafforzati nella speranza. Prendendo la parola il Papa ha ricordato che migliaia di giovani stavano seguendo la diretta dell’incontro dalla piazza San Giovanni Paolo II di Guadalajara: "Sono migliaia, siamo due stadi!". "Uno dei tesori più grandi di questa terra messicana - ha proseguito il Papa - ha il volto giovane, sono i suoi giovani. Sì, siete voi la ricchezza di questa terra. E non ho detto la speranza di questa terra, ho detto: la ricchezza". E "non si può vivere la speranza, sentire il domani se prima non si riesce a stimarsi, se non si riesce a sentire che la propria vita, le proprie mani, la propria storia hanno un valore. La speranza nasce quando si può sperimentare che non tutto è perduto, e per questo è necessario l’esercizio di cominciare da se stessi". "Vi chiedo silenzio ora - ha improvvisato - e ciascuno nel suo cuore si chieda: è vero che non tutto è perduto? Io valgo, valgo poco o molto?". "La principale minaccia alla speranza - ha continuato Francesco - sono i discorsi che ti svalutano, che ti fanno sentire di seconda o di quarta classe. La principale minaccia alla speranza è quando senti che a nessuno importa di te o che sei lasciato in disparte. La principale minaccia alla speranza è quando senti che se ci sei o non ci sei è la stessa cosa. Non è vero che succede? Questo uccide, questo ci annienta e apre la porta a tanto dolore". "Ma c’è un’altra principale minaccia alla speranza - ha continuato il Pontefice - ed è farti credere che cominci a valere quando ti mascheri di vestiti, marche, dell’ultimo grido della moda, o quando diventi prestigioso, importante perché hai denaro, ma in fondo il tuo cuore non crede che tu sia degno di affetto, degno di amore. La principale minaccia è quando uno sente che i soldi gli servono per comprare tutto, compreso l’affetto degli altri. La principale minaccia è credere che perché hai una bella macchina sei felice. Credete che avere una bella macchina renda felici?" ha chiesto mentre i giovani rispondevano "Nooo". "Voi siete la ricchezza del Messico, voi siete la ricchezza della Chiesa - ha detto ancora Francesco - E capisco che molte volte diventa difficile sentirsi la ricchezza quando ci troviamo esposti continuamente alla perdita di amici e di familiari nelle mani del narcotraffico, delle droghe, di organizzazioni criminali che seminano il terrore. È difficile sentirsi la ricchezza di una nazione quando non si hanno opportunità di lavoro dignitoso, possibilità di studio e di preparazione, quando non si vedono riconosciuti i diritti e questo finisce per spingere a situazioni limite". Malgrado tutto questo, "non mi stanco di ripeterlo: voi siete la ricchezza del Messico". "Roberto - ha aggiunto a braccio il Pontefice, riferendosi a uno degli interventi - tu hai detto una frase che vorrei tenere: hai detto che hai perduto qualcosa e non hai detto che hai perso il cellulare, o dei soldi, ma lo stupore dell’incontro, di sognare insieme. Non perdete lo stupore di sognare!" E "sognare non è lo stesso di essere dormiglioni, no!". Il Papa ha precisato: "non pensate che vi dica questo perché sono buono, o perché sono un esperto, no. Vi dico questo, e ne sono convinto, sapete perché? Perché come voi credo in Gesù Cristo. Ed è Lui che rinnova continuamente in me la speranza, è Lui che rinnova continuamente il mio sguardo. È Lui che continuamente mi invita a convertire il cuore. Sì, amici miei, vi dico questo perché in Gesù ho incontrato Colui che è capace di accendere il meglio di me stesso". È grazie a Lui che "possiamo fare strada, è grazie a Lui che ogni volta possiamo ricominciare da capo, è grazie a Lui che possiamo avere il coraggio di dire: non è vero che l’unico modo di vivere, di essere giovani è lasciare la vita nelle mani del narcotraffico o di tutti quelli che la sola cosa che stanno facendo è seminare distruzione e morte. Questa è una menzogna e lo diciamo tenendo la mano di Gesù! È grazie a Lui che possiamo dire che non è vero che l’unico modo di vivere per i giovani qui sia nella povertà e nell’emarginazione. È Gesù Cristo colui che smentisce tutti i tentativi di rendervi inutili, o meri mercenari di ambizioni altrui". La parola di speranza che Bergoglio lascia ai giovani messicani "si chiama Gesù Cristo. Quando tutto sembra pesante, quando sembra che ci caschi il mondo addosso, abbracciate la sua croce, abbracciate Lui e, per favore, non staccatevi mai dalla sua mano, per favore, non allontanatevi mai da Lui. Anche se cadete, lasciatevi tirare su. Come dice una canzone degli alpini, nell’arte di salire l’importante non è non cadere, ma è non rimanere caduto. Gesù Cristo è l’unico! Non nascondere la tua mano quando sei caduto, non dirgli: non guardami perché non c’è rimedio per me. E la ricchezza che tenevi dentro e che credevi perduto, ricomincia a dare frutto, ma sempre rimanendo attaccati alla mano di Gesù". "E se vedi un’amica o un amico caduto, offrigli la mano, con dignità, piano, come amico, dagli forza con le tue parole, lascialo parlare, è "l’ascolto-terapia". Perché insieme a Gesù, attaccati alla sua mano, è impossibile andare a fondo. È possibile vivere pienamente, insieme a Lui è possibile credere che vale la pena dare il meglio di sé, essere fermento, sale e luce tra gli amici, nel quartiere, in comunità". Il Papa ha invitato i giovani a non lasciarsi escludere: "Non lasciarvi disprezzare, non lasciarvi trattare come merce. Gesù ha dato un consiglio: siate candidi come colombe e astuti come serpenti. Astuti e buoni, sensibili. Certo, è probabile che così non avrete la macchina ultimo modello, non avrete il portafoglio pieno di soldi, ma avrete qualcosa che nessuno potrà togliervi cioè l’esperienza di sentirsi amati, abbracciati e accompagnati. È l’esperienza di sentirsi famiglia, di sentirsi comunità, a fronte alta, senza la macchina, senza il denaro, ma con la dignità". Gesù, ha concluso il Papa, "mai ci inviterebbe a essere sicari, ma ci chiama discepoli, ci chiama amici. Egli mai ci manderebbe a morire, ma tutto in Lui è invito alla vita. Una vita in famiglia, una vita in comunità; una famiglia e una comunità a favore della società. E qui vorrei riprendere una cosa che ha detto prima Rosario: nella famiglia si apprende vicinanza, solidarietà, condivisione, a portare i problemi gli uni degli altri, a litigare, a discutere, a baciarsi e a fare pace. La ricchezza è ciò che custodisce questa ricchezza. Nella famiglia voi avete dignità. Mai lasciate da parte la famiglia, la famiglia è la pietra di base della costruzione di una grande nazione. Voi sognate di formare una famiglia?". "Siii", hanno risposto in coro i giovani. "Voi siete la ricchezza di questo Paese - ha detto alla fine il Papa - e quando dubitate di questo, guardate Gesù Cristo, Colui che smentisce tutti i tentativi di rendervi inutili, o meri mercenari di ambizioni altrui". Al termine dell’incontro i giovani hanno cominciato a intonare un canto caro al Papa, che - fatto rarissimo - si è messo a cantare con loro: "Vive Jesus, el Señor", mentre migliaia di palloncini bianchi venivano liberati verso il cielo. Libia: paura per l’avanzata di Boko Haram di Guido Ruotolo La Stampa, 17 febbraio 2016 È la regione a Sud del Fezzan quella più a rischio di venir travolta dalla jihad di marca subsahariana. E intanto si allontana la prospettiva di un accordo per un governo di pacificazione entro l’inizio del Ramadan. Nei giorni scorsi ci sono state le prime avvisaglie. Ieri sera scontri a fuoco tra la Brigata 166 di Misurata e un gruppo di miliziani del Daesh. Sarebbe stato ucciso il fratello di un capo del Daesh. Ma sul campo vi sarebbero anche alcuni feriti gravi della Brigata di Misurata, dove ci sarebbe stata una manifestazione "pacifista". Da Tobruk a Misurata, appunto, sono tutti consapevoli che la resa dei conti con i tagliagole dell’Isis è ineludibile. Che prima o dopo, la "battaglia finale" non si potrà rimandare. Segnali inquietanti arrivano dalle intelligence. Sul campo, sapevamo della presenza dell’Is a Derna, Sirte, Sabratha. E numerosi punti di riferimento a Tripoli, a Bengasi, nei piccoli centri. Gli analisti stimano una presenza in Libia tra i quattromila e cinquemila combattenti dell’Isis. Ma adesso è il sud che fa paura. È il Fezzan che guarda al Ciad, al Niger, all’Algeria. Terra di nessuno. Dal Niger premono gli integralisti di Boko Haram. Che profittano della lotta tribale tra i Tuareg e i Tabù (una popolazione nomade che vive in Ciad e in Libia) per rendere quell’area impraticabile. Il sud della Libia è diventata una polveriera che fa paura. È un cocktail e crocevia di tutto quello che si agita nella fascia rivierasca e subsahariana del Maghreb. Con in testa le incursioni dei militanti di Uqba Ibn Nafi tunisini, quelli della strage al Bardo del 18 marzo. E dalla Tunisia si sarebbero spostati in Libia almeno tremila foreign fighters. Terrorismo e non solo. Una situazione incandescente. Più che i miliziani, sono gli estremisti islamici che alimentano i traffici di clandestini sulla costa diretti in Europa. Lo fanno per soldi ma anche per un uso "politico" del fenomeno, così come faceva ai suoi tempi Gheddafi, che brandiva la clava della invasione dei clandestini per ottenere legittimazione internazionale. E intanto si allontana la prospettiva di un accordo per un governo di pacificazione entro l’inizio del Ramadan (18 giugno). Il delegato speciale delle Nazioni Unite, Bernardino Leon, ha convocato i rappresentanti del tavolo negoziale in Marocco, il 7 giugno. L’ultima bozza di ipotesi di nuova architettura istituzionale è stata bocciata da Tripoli mentre accolta da Tobruk. Dunque Leon adesso dovrà produrre una nuova bozza - che si può ipotizzare - non si discosterà di molto dalla precedente. Vi saranno modifiche, alcune potranno anche non piacere a Tobruk ma alla fine, a meno che Tripoli non cambi posizione, solo Tobruk l’approverà. Lunedì, intanto, Leon aspetta al Cairo, le tribù. Tre giorni di discussione. Ma già si sa che le principali tribù non andranno al Cairo non perché non vogliano il dialogo ma per una posizione pregiudiziale sul meeting all’estero. Vorrebbero che l’incontro si svolgesse in Libia. Il 18 giugno si avvicina, dunque. E dopo la bozza da approvare ci sono i tre allegati da affrontare: la formazione del governo, le modifiche della Carta costituzionale, la cornice di sicurezza per l’inserimento a Tripoli del nuovo governo di pacificazione. Lo scenario che si apre, in prospettiva, è dunque ancora una volta quello del rinvio, del prendere tempo. Leon, nonostante tutta la buona volontà, probabilmente non potrà rispettare la scadenza che lui stesso aveva indicato: l’inizio del Ramadan. E intanto si avvicina anche un’altra scadenza, finora rimossa. A ottobre scadrà il mandato del Parlamento insediatosi a Tobruk e riconosciuto dalla comunità internazionale. Se fino allora non succederà nulla, cosa accadrà? Due sono le ipotesi. Un referendum per confermare la proroga del mandato al Parlamento o la decisione del Parlamento di nominare un Presidente della Libia con i pieni poteri. Questo è un altro buono motivo per fare presto. Per trovare l’accordo per il governo di pacificazione nazionale. Kenya: il presidente annuncia l’istituzione di nuove prigioni per "estremisti violenti" Nova, 17 febbraio 2016 Il presidente keniota Uhuru Kenyatta ha annunciato oggi che il governo intende istituire nuove carceri separate per gli "estremisti violenti" in modo da impedire loro di diffondere la loro ideologia. Parlando oggi nel corso di una parata delle guardie carcerarie a Ruiru, nel distretto di Kiambu. Kenyatta ha detto che il suo governo sta lavorando al progetto di riforma delle carceri. "Riformare il carattere di una persona è estremamente difficile e richiede compassione e fermezza", ha detto Kenyatta nel suo discorso, pubblicato sul sito web della presidenza keniota. La nuova struttura, ha aggiunto Kenyatta, ha l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita nelle carceri. "Le nostre guardie carcerarie non hanno sempre avuto vita facile. Le condizioni di servizio in cui lavorano sono a volte difficile", ha detto il presidente keniota. Attualmente solo i condannati a morte in Kenya sono reclusi in prigioni separate dal resto dei detenuti.