Due anni di governo e abbiamo il regista, non la cabina di regia di Sabino Cassese Corriere della Sera, 16 febbraio 2016 Renzi è riuscito a compiere incursioni in territorio avverso recuperando temi, parole d’ordine e consenso al di fuori dei confini tradizionali del centro-sinistra. Il governo Renzi ha due anni di vita. Qual è il consuntivo di questo biennio?. Il 63° governo della Repubblica è nato sulla base di una vittoria elettorale del Pd di un anno prima. Renzi, dopo aver conquistato la segreteria del suo partito, ha provocato la caduta del governo Letta. Un’iniziativa di partito ha portato, nel febbraio 2014, Renzi a Palazzo Chigi (si spiegano anche così le difficoltà incontrate dal governo in Parlamento con la sua stessa maggioranza). Una volta nominato, Renzi ha messo a segno tre colpi da maestro. Ha costituito un governo non pletorico, di quarantenni e per metà di donne. È riuscito ad ottenere una fiducia popolare posticipata, portando dopo tre mesi il suo partito al 40,8 nelle elezioni per il Parlamento europeo. Ha dato inizio a una politica di movimento, fondata specialmente sulle riforme istituzionali. Ha così differenziato il nuovo corso dal "ventennio buttato", quello di Berlusconi, "deludente se non fallimentare nell’arte del governare" (sono parole di un suo ministro). Se Berlusconi preferiva l’immagine dell’outsider, attaccava quotidianamente le istituzioni ed era poco interessato alla stanza dei bottoni (come osserva Mauro Calise nel suo recente La democrazia del leader, Laterza, 2016), Renzi ha subito messo in cantiere e approvato le riforme costituzionale, elettorale ed amministrativa ed importanti interventi nel campo del lavoro e dei beni culturali, con un record di circa 300 atti normativi approvati dal governo, riuscendo quasi sempre ad evitare che la politica soffocasse le politiche. Abile come tattico (meno come stratega), bravo nel negoziare (meno nell’ascoltare ed argomentare), Renzi ha capito che doveva uscire dalla cittadella del suo partito, che lo difendeva e, nello stesso tempo, lo imprigionava, e conquistare altri elettorati ad alta mobilità, che preferiscono dare fiducie temporanee (come hanno fatto nel 1994). Per questo, Renzi ha messo nelle sue politiche anche un po’ di Berlusconi (giù le tasse), dei 5 Stelle (tetti agli stipendi pubblici), e di Salvini (l’Europa ci rovina), ed è riuscito a far risalire la fiducia dei cittadini nello Stato (peraltro ancora bassa, perché poco più di un quinto della popolazione ha fiducia nelle istituzioni). Come ha osservato Giuliano da Empoli, un anno fa, ne La prova del potere (Mondadori), Renzi è riuscito a compiere incursioni in territorio avverso recuperando temi, parole d’ordine e consenso al di fuori dei confini tradizionali del centro-sinistra e a mettere l’energia del populismo al servizio di un’agenda di governo riformista. All’interno della macchina statale, Renzi ha messo spazio tra se stesso e i ministri, si è privato dei consiglieri di Stato, ma ha rafforzato la Presidenza del consiglio. Questo non vuol dire che sia un "uomo solo al comando". Tutti gli altri poteri e contropoteri sono funzionanti ed efficaci e Renzi si mostra deferente nei loro confronti (salvo che con la Commissione europea), anche quando prendono decisioni per lui scomode. Non ha vere opposizioni, né alternative, ma una corrente di opposizione (quella che gli ha dato maggiori grattacapi) nella sua stessa maggioranza parlamentare. Lo scarso peso di burocrazie e corporazioni non dipende dal fatto che Renzi non le ascolta, ma dalla loro incapacità di adeguarsi al cambiamento della società. Il rifiuto dei rituali sindacali non dipende da una sua indifferenza verso le comunità intermedie, ma dall’incapacità delle oligarchie sindacali di uscire dal loro medioevo. Elencate le luci, veniamo alle ombre. Renzi, finite le riforme istituzionali, non è stato capace di riformulare una strategia, prospettando un futuro per l’Italia, con lo stesso coraggio dimostrato da Obama nel discorso sullo stato dell’Unione del gennaio scorso. Sente che nel Paese c’è sconcerto e malessere, incertezza e timore di un ristagno secolare, ma non riesce a convogliarli su obiettivi di governo. Ha preferito spesso imboccare la strada più comoda: ad esempio, ridurre il carico fiscale non contenendo le spese, ma aumentando il deficit. Bravo nel demolire, non è altrettanto bravo nel ricostruire. Gli manca il gusto per la tessitura e il restauro, di cui l’Italia ha un grande bisogno. Innovatore, non è riuscito, però, ad esserlo fino in fondo, anche nello stile di governo, che ripete i moduli del passato, in cui c’è il regista, non la cabina di regia: agli impulsi non si accompagna l’ascolto, l’annuncio delle politiche pubbliche prevale sulla loro preparazione e sul loro disegno, gli affari urgenti prendono la mano a quelli importanti (che finiscono per ultimi), non ci si preoccupa di avvitare i bulloni e di controllare l’esecuzione e la realizzazione. Insomma, Renzi ha dimostrato di essere bravo nello scatto, deve ora dimostrare di essere un "long distance runner". Efficace come uomo di governo, deve ora convincerci di essere anche uomo di Stato. Intercettazioni. Torino dopo Roma: nuove regole per tutelare la privacy di Silvia Barocci Il Messaggero, 16 febbraio 2016 La riforma delle intercettazioni, con una norma di delega al governo che i magistrati guardano con sospetto per la sua vaghezza, è ferma al Senato dopo il via libera dello scorso autunno alla Camera. Nel frattempo, però, un’altra procura di punta, dopo quella di Roma guidata da Giuseppe Pignatone, ha deciso di anticipare le mosse del legislatore. Anche il procuratore di Torino Armando Spataro ha fissato una serie di nuove regole per rafforzare la tutela della privacy. Lo ha fatto con una circolare inviata pure al Garante Antonello Soro. La principale novità sta nel fatto che, a conclusione delle indagini preliminari, i magistrati dovranno estrapolare dal fascicolo quelle "irrilevanti" o contenenti "dati sensibili", informando però gli avvocati che intendono chiederne la distruzione a un giudice. Saranno poi gli avvocati, se lo desiderano, ad ascoltare le conversazioni o consultare le carte (senza fare delle copie) ed eventualmente ad opporsi alla soppressione immediata. La previsione che sia un giudice a decidere, nel contraddittorio delle parti, sulla distruzione delle captazioni che gli inquirenti ritengono irrilevanti è senza dubbio una grande novità. L’obiettivo è la tutela della segretezza delle conversazioni che non hanno valore di prova, anche se Spataro prova a raggiungere questo obiettivo in modo differente rispetto alla circolate di Pignatone. Oltre alle indicazioni date ai pm di Torino per le richieste di arresto, altre più specifiche riguardano la polizia giudiziaria, che non potrà trascrivere nei brogliacci le intercettazioni con dati inutilizzabili, irrilevanti e insieme contenenti dati sensibili; dovrà limitarsi a scrivere, nelle informative, data e ora della registrazione, "senza alcuna sintesi delle conversazioni o indicazione delle persone tra cui siano intervenute". Intercettazioni. Il Governo apre ai magistrati: "sarà la base della nostra legge" di Liana Milella La Repubblica, 16 febbraio 2016 La circolare Spataro? "Il ministero della Giustizia guarda positivamente a questo lavoro e lo considera come una possibile base per la futura riforma delle intercettazioni". Parola del Guardasigilli Andrea Orlando, ieri a Parigi per raccontare la sua riforma del processo civile. Ma a sera, quando esce da interminabili confronti, reagisce con soddisfazione alla notizia della circolare torinese perché, assieme a quelle in gestazione o approvate nelle altre procure, potrebbe radicalmente cambiare la storia della famosa delega di una dozzina di righe attualmente contenuta nella riforma del processo penale. Ma sentiamo Orlando. "Sapevo che alcune procure stavano elaborando dei progetti sulle intercettazioni...". E certo. I magistrati che lavorano in via Arenula hanno anche orecchie sul territorio. Peraltro che Spataro, Colangelo e Creazzo stessero lavorando a una circolare non era neppure una notizia segreta. Ma per il ministro della Giustizia che vuole cimentarsi nella difficile legge sulle intercettazioni, è una buona notizia "perché è positivo che i procuratori si autodisciplinino e recepiscano delle ragionevoli istanze contenute nella legge". Poi un giudizio positivo in più per il procuratore di Torino, visto che "Spataro non è mai stato tenero sull’analisi delle leggi". Quindi il Guardasigilli ritiene che proprio una circolare come la sua, in cui si parla anche di distruzione delle intercettazioni, possa essere un buon viatico per la sua legge. Va da sé, anche Orlando non lo dice, che le mosse in avanti delle procure coprono doppiamente la sua iniziativa legislativa. I magistrati, o almeno buona parte di loro, non potranno dire che la legge è "contro le procure", come si disse ai tempi del ddl Berlusconi. Ma anche la discussione parlamentare ne viene agevolata perché, dopo tanti contrasti sulle intercettazioni da distruggere, adesso sono i magistrati a dire espressamente che alcune intercettazioni devono restare segrete perché sono inutilizzabili o violano il codice della privacy. Ma servirà ancora in concreto un intervento legislativo dopo l’autoregolamentazione delle procure? Dalle parole di Orlando è evidente che la legge serve comunque. Legge delega che, ricordiamolo, è contenuta nella riforma del processo penale, è stata votata alla Camera ed è da mesi in attesa al Senato. Orlando non nasconde le sue rimostranze per la gestione della commissione Giustizia. Prima gestita dal forzista Nitto Palma e da qualche settimana dall’alfaniano Nico D’Ascola. Il Guardasigilli comunque proverà ad accelerarne l’esame. Un fatto va registrato subito. Ieri, leggendo il testo della circolare Spataro, un assoluto fans della riforma delle intercettazioni, l’attuale ministro per gli Affari regionali Enrico Costa, fino a poco giorni fa vice ministro della Giustizia, ha dato subito un giudizio estremamente positivo. "Ove tutti si attenessero a queste regole sarebbero superate le esigenze di intervenire normativamente. Per la semplice ragione che così le conversazioni irrilevanti non finirebbero sulle colonne dei giornali". Aggiunge Costa: "Mi sembrano linee guida assolutamente in sintonia con la nostra ipotesi di riforma, quindi del tutto condivisibili". Di decisione "importante" parla anche Giovanni Legnini, il vice presidente del Csm che sta esaminando i complessi profili giuridici dell’organizzazione delle procure e dei poteri dei capi". E di una "buona decisione" parla anche Antonello Soro, il Garante della privacy che ieri, in anteprima, ha subito ricevuto da Spataro il testo della circolare. "L’indicazione di selezionare gli atti da inviare al gip distinguendo tra intercettazioni inutilizzabili, quelli irrilevanti, quelle che contengono dati sensibili va nella direzione giusta di coniugare al meglio le esigenze investigative con la tutela della riservatezza e con il pieno esercizio del diritto della difesa". Torna, insistente, la domanda. Serve una nuova legge, oppure in quella esistente, con l’autoregolamentazione delle procure, c’è già tutto quello che serve per tranquillizzare i magistrati e la politica? Dice Soro: "Un’iniziativa come questa dimostra che dentro la cornice normativa esistente è possibile trovare buone pratiche capaci di limitare al massimo l’invasività delle intercettazioni e limitare la pubblicazione di quelle che non hanno rilievo nel processo, ma che sono giornalisticamente appetibili. Già, il problema è questo. Il rischio che vada per sempre al macero e resti segreto prezioso materiale informativo. La magistratura si spacca sulla "questione morale", ok a maggioranza al documento Anm di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2016 Magistrati divisi sulla "questione morale". Mentre ieri la Sezione disciplinare del Csm ha dovuto esaminare altri due casi di toghe sotto processo penale per reati che vanno dalla corruzione alla concussione - l’ex pm di Santa Maria Capua Vetere Donato Ceglie, trasferito prima a Napoli e poi a Bari, e Corrado D’Ambrosio, giudice a Napoli, per i quali il ministro della Giustizia e il Pg della Cassazione hanno chiesto, rispettivamente, la sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio e il trasferimento in altra sede - sabato scorso l’Anm ha approvato, sì, un documento sulla "questione morale", ma si è spaccata. Il testo è stato elaborato a dicembre dopo lo scandalo della gestione dei beni confiscati alla mafia in cui è coinvolta Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, sospesa dalle funzioni e dallo stipendio. Prevede sia modifiche statutarie e del Codice etico dell’Anm, come il "divieto di accettare regalie sotto qualunque forma" e la "decadenza automatica dell’associato sottoposto alla misura cautelare penale o disciplinare della sospensione dalle funzioni" sia interventi del Csm e del legislatore sull’organizzazione degli uffici e sulla responsabilità di chi svolge incarichi direttivi. Il risultato finale è frutto di un compromesso tra Area (la corrente progressista dell’Anm) e Unicost (la corrente di centro), poiché quest’ultima ha chiesto di eliminare alcune previsioni ritenute eccessive. Ma, pur in questa versione ridotta, è stato votato soltanto in parte da Magistratura indipendente (Mi), la corrente di centrodestra. Nettamente contrarie, invece, Proposta B e Autonomia e indipendenza (fondata dal giudice Piercamillo Davigo): entrambe contestano il documento perché, ha spiegato sabato Sebastiano Ardita, Procuratore aggiunto a Messina e numero due di Ai, "la questione è mal posta": vicende come quelle di Palermo, pur nella loro gravità, sono questioni penali o disciplinari, non morali. Ardita ha spostato quindi il baricentro della "questione morale" su altri fatti, dal correntismo al corso della Scuola della magistratura sulla "giustizia riparativa" cui erano stati invitati (come testimoni) i due ex terroristi Faranda e Bonisoli e alcune vittime degli "anni di piombo" (Moro, Rossa, Milani), partecipazione poi annullata per le polemiche di alcune toghe e per la richiesta del Comitato di presidenza del Csm. "Quella vicenda è un fatto gravissimo, enorme, di questione morale, che offende la nostra memoria molto più di altri fatti, pur gravi, che vanno comunque repressi - ha detto Ardita -. Il corso è rientrato, ma chi ha pagato per questi errori? Chi ha pagato per aver osato portare nel luogo sacro della formazione dei magistrati persone che hanno concorso a uccidere i nostri colleghi? C’è stata una sanzione di qualche tipo? Il Csm ha svolto un’attività di vigilanza oppure abbiamo scherzato?" ha rincarato la dose. Parole che scavano un solco, culturale e di sensibilità, con Area: Alessandra Camassa, presidente di sezione del Tribunale di Trapani, ha definito "discorsi improntati al benaltrismo" quelli di Ardita, che non vede una "questione morale" nei fatti di Palermo. "Non si può svalutare ciò che è accaduto - ha obiettato con forza Camassa - perché ha creato un danno enorme all’onorabilità dei colleghi palermitani e all’immagine di tutta la magistratura". Insomma, la "questione morale", invece di unire, rischia di diventare un’arma impropria. E proprio a poche settimane da un altro atteso appuntamento: le elezioni per il rinnovo dei vertici dell’Anm. Gli agenti penitenziari: "siamo pochi". Ma una ricerca Ue dimostra l’esatto contano di Massimo Malpica Il Giornale, 16 febbraio 2016 La Polizia penitenziaria denuncia "organici inadeguati" ma in Europa il nostro Paese ha il record delle "divise" in servizio. La clamorosa evasione dal carcere romano dì Rebibbia dei due romeni che, come in un film, hanno segato le sbarre e sono scappati scendendo con le lenzuola annodate, ha scatenato immancabili polemiche. Che puntano in buona parte sulle carenze di organico della polizia penitenziaria. È davvero così? Le denunce dei sindacati degli agenti di custodia sembrerebbero confermarlo, e pure l’Istat, nel suo ultimo rapporto sui detenuti, considera "sottodimensionate" le attività di custodia nelle prigioni nostrane, ricordando che il Dap "considera ottimale il rapporto 1 a 1 tra detenuto e personale di custodia", mentre la media italiana è di 60,9 guardie per 100 carcerati. Ma forse c’è qualcosa che non funziona nel sistema, se di fronte alle denunciate carenze di organico ci sono poi casi - denunciati appena ieri proprio dal sindacato Sappe - di carceri che ospitano solo agenti di polizia penitenziari pur non avendo "ospiti". Succede a Sala Consilina, in provincia di Salerno, e a Savona. Insomma, "la legge prevede la chiusura di tutte le carceri con meni di 51 detenuti, ma le guardie sono rimaste lì", sintetizza il segretario del Sappe Donato Capece. E in effetti, guardando al resto dell’Europa, non sembra che il problema delle patrie galere sia nello squilibrio tra detenuti e guardie. L’ultima relazione sulle carceri del Consiglio d’Eu-ropa riporta come la media europea, con 3,6 detenuti per ogni agente di custodia, sia "peggiore" di quella del Bel Paese, che nel 2013 contava 37.150 agenti di custodia per una popolazione carceraria di 64.835 persone (a oggi sono 52,475) per un rapporto di 1.7 a 1. Su 50 nazioni, siamo dietro solo ad Andorra, Cipro, Danimarca, Irlanda, Irlanda del Nord, Liechtenstein, Monaco, Olanda, Norvegia, San Marino e Svezia. Paesi le cui prigioni, sommate, hanno meno della metà dei nostri ospiti. Anche i partner Ue con un numero di detenuti comparabile al nostro contano su un organico di guardie più ridotto, che si riflette in un maggior numero di reclusi per ogni agente di custodia: 2,5 per la Germania, 2,7 in Francia, 3,7 in Spagna e 5 in Polonia. Un dato che non si traduce necessariamente in minor sicurezza: nel 2012 il tasso di evasione ogni 10mila detenuti era pari al 2,1 per l’Italia (14 in fuga su 66mila: la media è migliorata nel triennio successivo, con 21 evasioni in totale). Fa peggio la Francia (13,3, 89 evasioni su 66mila), mentre dalle galere di Germania, Spagna e Polonia, nello stesso anno, sono scappati complessivamente solo 11 reclusi. In tutta la Ue, insomma, nessuno ha tanti poliziotti penitenziari quanto noi. Ed è lecito il dubbio che forse più che l’organico il problema sia il modo in cui viene utilizzato. Se è vero - lo dice il Dap - che nel padiglione dove è avvenuta l’evasione c’erano 9 agenti per 300 detenuti, servirebbe una razionalizzazione. Per cominciare, già sul territorio nazionale il rapporto guardie/detenuti è molto variabile: se in Basilicata ci sono 87 agenti ogni cento reclusi, in Lombardia il dato si ferma appena sopra il 50. Poi c’è la questione dei sistemi di allarme, sollevato proprio dai sindacati degli agenti di custodia, insieme agli organici carenti. Mancano i fondi per la manutenzione delle strutture e non si investe nei sistemi hi-tech di controllo, vigilanza e video-sorveglianza, come la fuga dei due romeni ha dimostrato. Lo ha ammesso anche il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri. Rivendicando la sicurezza delle carceri e i fondi stanziati dal governo nella legge di stabilità, sia per il personale che per potenziare gli impianti dì allarme, "perché siano più moderni ed efficienti", visto che i due detenuti fuggiti avrebbero approfittato proprio del mancato funzionamento dell’allarme sulle mura di cinta del carcere capitolino. Quanto agli agenti che fanno la guardia alle mura delle carceri vuote, Ferri ha assicurato che "il ricollocamento" delle guardie avverrà "in tempi brevissimi". Sport sociale nelle Carceri e negli Istituti Penali Minorili, il lungo percorso dell’Uisp confinionline.it, 16 febbraio 2016 Sport sociale nelle carceri e negli istituti minorili: il lungo percorso dell’Uisp inizia negli anni 80, poi le convenzioni con il Ministero della Giustizia Dap e Dgm. L’esperienza diffusa dell’Uisp all’interno delle carceri italiane risale a più di trenta anni fa, quando sono iniziati, in varie città, numerosi corsi e attività sportive rivolte a detenuti, con l’ingresso all’interno del carcere di tecnici ed educatori sportivi dei Comitati Uisp. Parallelamente hanno preso il via le prime manifestazioni sportive con la partecipazione di detenuti, personale penitenziario ed atleti esterni. Le prime esperienze risalgono alla metà degli anni 80, con attività a Bologna nel carcere Dozza, a Brescia a Canton Mombella, a Roma nel carcere di Rebibbia e nel minorile di Casal del marmo, a Torino nel minorile Ferrante Aporti. Altre esperienze, a partire dal 1985, si diffusero anche nelle carceri di Genova, Cremona, Mantova, Bergamo, Piacenza e Avellino. Da un convegno nazionale che l’Uisp organizza a Genova nel maggio 1987 prende il via un progetto a rete nazionale che coinvolge le varie città, dal titolo "Ora d’aria". L’obiettivo, oltre ad offrire attività sportive all’interno dell’area trattamentale come strumento ricreativo ed educativo, come forma di socializzazione e strumento di benessere psicofisico e di relazione, è sempre stato anche quello di mettere in comunicazione la realtà del carcere con l’esterno, favorendo le relazioni anche con il tessuto sociale cittadino. I primi rapporti nazionali e formali tra Uisp e Direzione generale Istituti di prevenzione e pena risale al 18 settembre 1990, grazie ad una lettera ufficiale che l’allora presidente Uisp Gianmario Missaglia inviò al dott. Nicolò Amato, direttore generale. Dopo alcune sperimentazioni, nel 1990 prende il via "Vivicittà-Porte aperte": la manifestazione nazionale dell’Uisp, la corsa podistica messaggera di pace e vivibilità in Italia e nel mondo, fa il suo esordio all’interno delle mura delle carceri. Si inizia in otto città, da allora l’esperienza non si è mai interrotta e nel 2015 sono state più di venti carceri che hanno ospitato Vivicittà. Nel 1992 viene siglata la prima bozza di Convenzione nazionale tra Uisp e ministero di Grazia e Giustizia per le attività negli Istituti minorili, formalizzata nel 1992 e 1993 con specifici Protocolli d’Intesa. Nel 1997 viene formalizzato l primo Protocollo d’intesa tra Uisp e ministero della Giustizia-Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria. All’inizio degli anni 90, le esperienze si allargano, grazie all’Uisp, anche ad altre città: Alba, Verona, Viterbo, Palermo e nelle province del Friuli Venezia Giulia. L’esperienza Uisp si estende in tutte le Regioni italiane. In tutte le carceri e negli Istituti minorili l’Uisp interviene con attività sportive e motorie più tradizionali e con attività innovative, mettendo a disposizione la molteplicità di competenze dei suoi operatori, attenti a mettere al centro dell’attività la persona più che il gesto tecnico. Le attività dei Comitati territoriali Uisp sono sottoposte a un monitoraggio qualitativo e quantitativo da parte delle Istituzioni, delle Direzioni, degli educatori e dei Prap (Provveditorati Amministrazione Penitenziaria), in modo da offrire sempre azioni corrispondenti ai bisogni e sviluppare azioni in continuità e sostenibili negli anni. Altro elemento di qualità comune a tutti gli interventi è il coinvolgimento diretto della Polizia penitenziaria nelle attività, così come lo scambio continuo con atleti esterni, la partecipazione dei detenuti ad iniziative e manifestazioni sportive esterne e il coinvolgimento dei familiari nelle attività: lo sport per tutti in carcere è il centro dinamico di un sistema di relazioni altrimenti difficili. Il progetto "Terzo tempo", che ha preso il via nel 2012, è attivo in otto istituti minorili, ha il duplice obiettivo di offrire attività motorie e sportive ai ragazzi e migliorare gli spazi degli istituti, grazie alla realizzazione di interventi di riqualificazione e manutenzione. Il progetto è sostenuto dal ministero della Giustizia-Dipartimento giustizia minorile, insieme alla Fondazione con il Sud e a Enel Cuore. L’arma del delitto fu comprata col sì dei Carabinieri, la Difesa deve risarcire le vittime di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 16 febbraio 2016 Ucciso dal vicino di casa nel 2002 dopo una lite per il volume della tv. Le denunce sulle minacce del killer mai trasmesse alla questura che acconsentì all’acquisto della pistola. Il giudice: "Comportamento colposo dei carabinieri". Uccise il vicino di casa "perché teneva troppo alto il volume della tv", e nel dicembre di 14 anni fa lo fece con una pistola calibro 7.65 acquistata qualche mese prima con il "nulla osta" della Questura di Milano, ma ora il Tribunale civile di Milano condanna il Ministero della Difesa (in solido con l’assassino) a risarcire quasi 2 milioni di euro alla vedova e ai figli per le omissioni colpose dei carabinieri della caserma di Pioltello proprio attorno a quel "nulla osta": rilasciato regolarmente nel giugno 2002 da una Questura resa però cieca dal fatto che i carabinieri di Pioltello non le avessero trasmesso le due denunce di minacce di morte che la famiglia della futura vittima aveva già presentato in caserma in marzo e maggio. Ucciso dopo una lite per il volume della tv - Il 2 dicembre del 2002 a Pioltello, nell’hinterland milanese, un pensionato di 63 anni era salito al piano superiore dal vicino di casa: si lamentava per i rumori domestici e in particolare il volume della tv, e a colpi di pistola aveva ucciso il capofamiglia 43enne e ferito la moglie 37enne sotto gli occhi dei due figli, venendo condannato nel 2003 in primo grado a 15 anni (quasi 24 di pena base diminuita dello sconto di un terzo legato al rito abbreviato), ulteriormente ridotti nel 2005 in appello a 11 anni e 8 mesi. La condanna aveva anche stabilito una provvisionale di 100.000 euro, nei fatti però quasi del tutto teorica perché la vedova al più aveva potuto solo pignorare un quinto della modesta pensione dell’assassino. L’acquisto della pistola e il nulla osta della questura - Soltanto nel dicembre 2011 i familiari della vittima, con l’avvocato Marco Veneruso, da un accesso agli atti disposto dal Tar avevano appreso la circostanza su cui poggia tutta la causa civile decisa adesso dalla decima sezione del Tribunale: il retroscena del "nulla osta". All’epoca dei fatti, e cioè prima delle modifiche del 2006 e 2010, era la Questura all’esito di una istruttoria amministrativa a rilasciare i "nulla osta" (validi per un mese) all’acquisto di un’arma da detenere in casa senza poterla mai portare fuori, dunque cosa diversa dalla licenza al porto d’armi. Il futuro assassino aveva chiesto questo "nulla osta" il 31 gennaio 2002 alla stazione dei carabinieri di Pioltello, che il 29 marzo aveva attestato l’assenza di "elementi controindicativi" e inoltrato parere favorevole alla Questura, che a sua volta aveva interpellato la Procura di Milano e alcuni altri comandi dei carabinieri in Campania, sempre raccogliendo nessun avviso contrario. L’8 giugno 2002 la Questura aveva quindi rilasciato il "nulla osta" col quale l’uomo avrebbe successivamente comprato la pistola calibro 7.65 usata, sei mesi dopo, per uccidere il vicino di casa. Solo fatalità? Le denunce mai comunicate dai carabinieri - Non del tutto. Perché esattamente in quel periodo, e cioè mentre la Questura svolgeva l’istruttoria amministrativa e chiedeva lumi ai carabinieri di Pioltello, proprio ai carabinieri di Pioltello la famiglia della futura vittima presentava due querele (il 10 marzo e il primo maggio 2002, seguite da una terza il 31 agosto) in cui denunciava le minacce di morte ricevute dal vicino di casa, che in dicembre le avrebbe poi sanguinosamente concretizzate: ma nessuna di queste denunce, in parte confermate all’epoca anche da alcuni testimoni, fu trasmessa dai carabinieri di Pioltello alla Questura di Milano o alla Procura. Accadde così che questi elementi - che, pur non costituendo precedenti penali, sarebbero però stati "rivelatori di una condotta sintomatica di una possibilità di abuso dell’arma" da parte di chi chiedeva di acquistarla - non poterono essere presi in considerazione dalla Questura, che in loro presenza non avrebbe rilasciato il "nulla osta". Nel ragionamento della sentenza della giudice civile Annamaria Salerno si crea così una catena causale che dalla condotta dolosa dell’assassino (l’omicidio commesso con la pistola) risale all’acquisto dell’arma, legittimo in sé in forza del "nulla osta" della Questura, ma propiziato dall’omessa trasmissione delle denunce e cioè dai "comportamenti colposi dei carabinieri che hanno indotto la Questura a rilasciare l’autorizzazione". E "il mancato riscontro di elementi ostativi ha avuto incidenza causale diretta e immediata rispetto al compimento dell’omicidio", perché il processo ebbe già modo di ricostruire come il delitto fosse stato determinato da "modalità impetuose e non premeditate" dall’assassino, "in preda a un contingente stato di ira irrefrenabile" che non avrebbe avuto sbocco letale se l’omicida non avesse avuto la disponibilità di una pistola: "Il possesso dell’arma ha determinato la volontà omicida repentinamente manifestatasi". Ministero condannato al maxi-risarcimento - Per l’omissione dei carabinieri nel 2002 (coperta ormai dalla prescrizione penale, ma ancora non dalla prescrizione civile visto che i familiari ne ebbero conoscenza per la prima volta nel 2011) paga quindi ora il ministero della Difesa, con il quale l’Arma ha dipendenza organica: insieme all’assassino (ma in realtà essendo l’unico portafoglio capiente) il ministero dovrà dunque risarcire 666.000 euro alla moglie dell’ucciso, 575.000 a ciascuno dei due figli, più 40.000 euro di spese legali. Custodia cautelare, nuovi termini di deposito esclusi per il passato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2016 Corte di cassazione, sezione Prima penale sentenza 11 febbraio 2014 n. 5774. Cambio di rotta della Cassazione sull’applicazione della riforma della custodia cautelare. I nuovi termini per il deposito dell’ordinanza di riesame sulla custodia cautelare non sono retroattivi e non si applicano quindi a decisioni pese prima dell’8 maggio scorso, data di entrata in vigore della riforma. Lo stabilisce la Corte di cassazione, con la sentenza n. 5774 della Prima sezione penale, che arriva a conclusioni opposte a quelle raggiunte dalla medesima Corte solo pochi mesi con la sentenza n. 4032 del 2015. Allora si precisò che l’attività regolamentata dalla nuova previsione normativa (articolo 309 Codice di procedura penale, con il quale si fissa in 30 giorni il limite di tempo utile per il deposito delle motivazioni a fare data dalla decisione). Nel caso approdato alla Cassazione la decisione era stata presa in una data antecedente a quella di entrata in vigore del nuovo articolo del Codice e, nei successivi 30 giorni, non erano state depositate le motivazioni. Di qui la richiesta della difesa per un annullamento della misura di custodia cautelare confermata invece dal riesame. La Cassazione però sottolinea come l’applicazione del principio tempus regit actum conduce a escludere l’applicazione del nuovo termine di 30 giorni anche al caso delle motivazioni relative a decisioni prese prima dell’8 maggio e depositate solo dopo il decorso dei 30 giorni. Nella lettura della Cassazione l’actum che determina la norma applicabile è la decisione che assume al forma dell’ordinanza. Sul piano del modello legale, avverte la Corte, l’ordinanza è un atto unitario che di regola non comporta una scissione tra la parte dispositiva e quella argomentativa e, pertanto, non è possibile riconoscere una qualche forma di autonomia strutturale delle motivazioni rispetto al dispositivo. Con la riforma si è voluto contrastare una prassi di dilatazione del deposito delle motivazioni oltre limiti fisiologici sia attraverso l’introduzione di un diverso ambito di tolleranza (30 giorni) sia attraverso l’introduzione di una sanzione processuale di forte incidenza come la perdita di efficacia della misura cautelare. Tutti elementi che portano la Cassazione a ritenere che "l’introduzione di una sanzione processuale non può realizzare i suoi effetti in rapporto a segmenti del procedimento temporalmente antecedenti alla vigenza della norma che la contiene". Sì al trattenimento del richiedente asilo per motivi di sicurezza di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2016 Corte Ue - Sentenza 15 febbraio 2016 - Causa C-601/15. Motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico consentono di applicare anche ad un richiedente asilo la misura del "trattenimento". Lo ha stabilito la Corte Ue, sentenza nella Causa C-601/15, chiarendo che la direttiva 2013/33 non è in contrasto con il livello di protezione offerto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. I giudici di Lussemburgo hanno chiarito anche che la presentazione di una nuova domanda di asilo da parte di una persona destinataria di una decisione di rimpatrio non può invalidare la precedente decisione, potendo essere ripresa in caso di rigetto della domanda. Viceversa si comprometterebbe l’obiettivo perseguito dalla direttiva 2008/115, ossia l’instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare. Il fatto e il ricorso - La vicenda riguardava un uomo condannato nei Paesi Bassi in ventuno occasioni tra il 1999 e il 2015 a pene pecuniarie e detentive per diversi reati (in maggioranza furti). L’ultima volta venne condannato a una nuova pena detentiva e poi posto in stato di trattenimento in quanto richiedente asilo, aveva infatti presentato una quarta domanda di asilo. Da qui il ricorso del Consiglio di Stato dei Paesi Bassi che ha chiesto una verifica della validità della direttiva 2013/33 che autorizza il trattenimento di un richiedente asilo quando lo impongono motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico. La decisione - Con la decisione per prima cosa la Corte constata che il trattenimento è subordinato al rispetto di un complesso di condizioni che concernono in particolare la durata della detenzione (che deve essere la più breve possibile). E che la nozione di "ordine pubblico" presuppone l’esistenza di una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave nei confronti di un interesse fondamentale della società. Mentre per "pubblica sicurezza", si intende sia quella interna che esterna di uno Stato membro (per esempio la perturbazioni dei rapporti internazionali o il pregiudizio agli interessi militari). La direttiva 2008/115, poi prosegue la sentenza, impone che una procedura avviata e da cui è derivata una decisione di rimpatrio, eventualmente corredata di un divieto d’ingresso, possa essere ripresa dalla fase in cui è stata interrotta - a causa del deposito di una domanda di protezione internazionale - dal momento del rigetto in primo grado della stessa. E ciò per non compromettere l’obiettivo dell’instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare. Del resto, conclude la Corte, l’obbligo di procedere all’allontanamento con la massima celerità non sarebbe rispettato se l’esecuzione fosse ritardata dalla circostanza che, dopo il rigetto in primo grado, la procedura non potesse essere ripresa ma dovesse invece ricominciare. Si può obbligare un detenuto che ha superato l’età pensionabile a lavorare in carcere di Alessio Scarcella quotidianogiuridico.it, 16 febbraio 2016 Pronunciandosi su un caso "svizzero" in cui si discuteva della possibilità di obbligare un detenuto a lavorare oltre l’età pensionabile, la Corte di Strasburgo ha, all’unanimità, escluso che ciò determini la violazione dell’art. 4 § 2 (divieto di lavoro forzato) della Convenzione Edu. La Corte ha rilevato che non vi era sufficiente consenso tra gli Stati Membri del Consiglio d’Europa sulla questione della possibilità di imporre obbligatoriamente ai detenuti di lavorare dopo l’età pensionabile. Di conseguenza, ha sottolineato, da un lato, che le autorità svizzere godevano di un notevole margine di apprezzamento e, dall’altro, che nessun divieto assoluto potrebbe derivare dall’articolo 4 della Convenzione. Il lavoro obbligatorio effettuato dal Meier durante la sua detenzione poteva quindi essere considerato come "lavoro necessario da svolgersi durante l’ordinario periodo di detenzione", ai fini dell’articolo 4 della Convenzione. Di conseguenza, esso non costituiva "lavoro forzato o obbligatorio" ai sensi di detto articolo. Pec, valida la notifica elettronica al difensore del decreto di citazione a giudizio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 15 febbraio 2016 n. 6118. È valida la notifica via Pec all’avvocato domiciliatario del decreto di citazione a giudizio diretto. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 6118/2016, rigettando anche sotto questo profilo il ricorso di un imprenditore condannato a tre mesi di reclusione per omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali dei propri dipendenti per complessivi 32mila euro. Secondo il ricorrente invece la sentenza della Corte di appello di Milano era affetta da nullità assoluta ed insanabile "in quanto il decreto di citazione a giudizio diretto era stato notificato all’imputato mediante spedizione di messaggio di posta elettronica (Pec) all’indirizzo del difensore, in violazione dell’articolo 16 del Dl 179/2012 (come modificato dall’articolo 1 comma 19 della legge n. 228/2012) che prevede tale forma di notifica solo per i soggetti coinvolti nel procedimento penali diversi dall’imputato e soltanto a decorrere dal 15 dicembre 2014". Sul punto, ricorda la Corte, le Sezioni unite (n. 32243/2015) hanno richiamato il dettato del comma 2-bis dell’articolo 148 c.p.p. ("L’Autorità giudiziaria può disporre che le notificazioni o gli avvisi ai difensori siano eseguiti con mezzi tecnici idonei. L’Ufficio che invia l’atto attesta in calce ad esso di avere trasmesso il testo originale"), affermando che "non v’è ragione di ritenere che tra i "mezzi tecnici idonei" non possano essere ricompresi gli strumenti atti alla trasmissione telematica, se essi siano in grado di fornire prova della trasmissione stessa e della avvenuta ricezione, garanzie che il sistema della Pec è certo in grado di assicurare". Del resto, con una precedente sentenza, sempre a S.U. (n. 28451/2011), la Cassazione aveva già stabilito che "la notificazione alla parte privata, se deve essere eseguita mediante consegna al difensore, ben può essere eseguita tanto con l’uso del telefax, quanto con l’uso di altri mezzi idonei norma dell’articolo 148 comma 2-bis c.p.p.". Con tale articolo, infatti, prosegue la sentenza, il legislatore ha previsto "l’uso di mezzi tecnici idonei per le notificazioni o gli avvisi ai difensori quale sistema ordinario, generalizzato, alternativo all’impiego dell’ufficiale giudiziario o di chi ne esercita le funzioni (comma 1), purché sia assicurata l’idoneità del mezzo tecnico". E, conclude la Corte, "la mancata individuazione, in sede normativa, dei mezzi tecnici idonei ad assicurare la effettiva conoscenza dell’atto (cosiddetta norma aperta) è evidentemente legata all’esigenza di non rendere necessario il continuo aggiornamento legislativo degli strumenti utilizzabili, né in qualche modo obbligatorio il loro utilizzo, tenuto conto della evoluzione scientifica e dell’effettivo grado di diffusione di nuovi mezzi tecnici di trasmissione". Rilevabilità d’ufficio della violazione del principio di legalità della pena Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2016 Impugnazioni - Giudizio di cassazione - Ricorso inammissibile - Intervenuta modifica del trattamento sanzionatorio per effetto di pronuncia della Corte costituzionale - Illegalità sopravvenuta della pena - Rilevabilità d’ufficio - Ammissibilità. Nel giudizio di cassazione l’illegalità della pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio è rilevabile d’ufficio anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo. • Corte cassazione, sezioni Unite, sentenza 28 luglio 2015 n. 33040. Impugnazioni - Cognizione del giudice dell’impugnazione - Violazione del principio di legalità della pena per effetto di riforma legislativa - Rilevabilità d’ufficio - Sussistenza. La violazione del principio di legalità della pena deve essere rilevata d’ufficio dal giudice dell’impugnazione anche quando dipenda da una riforma legislativa che modifica il trattamento sanzionatorio in senso favorevole all’imputato, intervenuta successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, e a prescindere dalla prospettazione di specifiche doglianze sul punto nei motivi d’impugnazione. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 13 maggio 2015 n. 19765 Impugnazioni - Giudizio di cassazione - Violazione del principio di legalità della pena - Pena illegale "ab origine" - Rilevabilità d’ufficio anche in caso di inammissibilità del ricorso. L’illegalità della pena, dipendente da una statuizione "ab origine" contraria all’assetto normativo vigente al momento consumativo del reato, è rilevabile d’ufficio nel giudizio di cassazione anche nel caso in cui il ricorso sia inammissibile. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 7 novembre 2014 n. 46122 Impugnazioni - Giudizio di cassazione - Violazione del principio di legalità della pena - Rilevabilità d’ufficio - Condizione. La violazione del principio di legalità della pena è rilevabile d’ufficio anche nel giudizio di cassazione a condizione che il ricorso non sia inammissibile e l’esame della questione rappresentata non comporti accertamenti in fatto o valutazioni di merito incompatibili con il giudizio di legittimità. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 6 novembre 2013 n. 44667 Impugnazioni - Giudizio di cassazione - Inammissibilità del ricorso - Violazione del principio di legalità della pena - Questione rilevabile d’ufficio - Superamento della preclusione processuale determinata dall’inammissibilità del ricorso - Esclusione. L’inammissibilità del ricorso non consente l’esercizio del potere-dovere di decidere la questione, rilevabile d’ufficio, concernente la violazione del principio di legalità della pena. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 14 settembre 14 settembre 2004 n. 36293 Impugnazioni - Cognizione del giudice della impugnazione - Violazione del principio di legalità della pena - Rilevabilità d’ufficio - Sussistenza. La violazione del principio di legalità della pena deve essere rilevata d’ufficio dal giudice dell’impugnazione, in applicazione analogica del principio fissato nell’articolo 129 del Cpp, anche quando dipenda da una riforma legislativa che modifichi il trattamento sanzionatorio, in senso favorevole all’imputato, dopo la sentenza impugnata, e a prescindere dalla prospettazione di specifiche doglianze sul punto nei motivi dell’impugnazione o nel corso del relativo giudizio. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 22 novembre 2002 n. 39631 Prova "nuova" rilevante ai fini della revoca delle misure di prevenzione Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2016 Sicurezza pubblica - Misure di prevenzione - Revoca, modificazione o sospensione - Prova nuova - Nozione. La revoca delle misure di prevenzione disposte con provvedimenti che abbiano acquisito la forza di cosa giudicata costituisce misura straordinaria, che postula l’emergere di una prova nuova e sconosciuta nel corso del procedimento di prevenzione, suscettibile di mutare radicalmente i termini della valutazione a suo tempo operata. Sul piano fattuale, la prova nuova non può, pertanto, consistere in un qualsiasi elemento favorevole, il quale finirebbe per trasformare un istituto che ha il carattere di rimedio straordinario in una non consentita forma di impugnazione tardiva; su quello processuale, costituisce prova nuova solo quella sopravvenuta rispetto alla conclusione del procedimento di prevenzione e non anche quella deducibile, ma per qualsiasi motivo non dedotta, nell’ambito di esso • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 4 novembre 2015 n. 44609. Sicurezza pubblica - Misure di prevenzione - Revoca, modificazione o sospensione - Prova nuova (nozione) - Diversa valutazione tecnico-scientifica di dati già valutati - Esclusione - Mero riesame degli stessi elementi fattuali che hanno portato a disporre la misura - Esclusione. Non costituisce prova nuova, ai fini della revoca ex tunc della misura di prevenzione, una diversa valutazione tecnico-scientifica di dati già valutati, che si tradurrebbe in una mera modalità ricostruttiva e in un apprezzamento critico di emergenze oggettive già conosciute e delibate nel procedimento, in violazione del principio della improponibilità nel giudizio di revisione di ulteriori prospettazioni di situazioni già note e contestate né la revoca è compatibile con il mero riesame degli stessi elementi fattuali che hanno portato a disporre la confisca nè - ai suoi fini - è sufficiente evocare un qualsiasi elemento favorevole, che non determini una decisiva incrinatura del corredo fattuale sulla cui base è intervenuta la decisione di confisca di prevenzione e che finirebbe per trasformare un istituto, che ha il carattere di rimedio straordinario, in una non consentita forma di impugnazione tardiva. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 20 marzo 2015 n. 11862. Sicurezza pubblica - Misure di prevenzione - Revoca, modificazione o sospensione - Prova nuova - Nozione. In tema di misure di prevenzione, la prova nuova che consente la revoca della misura di prevenzione deve presentarsi, nel quadro di un ponderato scrutinio degli elementi a suo tempo acquisiti, come un fattore che determini una decisiva incrinatura del corredo fattuale sulla cui base era intervenuta la decisione, non essendo, quindi, sufficiente evocare un qualsiasi elemento favorevole che finirebbe per trasformare un istituto che ha il carattere di rimedio straordinario in una non consentita forma di impugnazione tardiva. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 8 ottobre 2013 n. 41507. Sicurezza pubblica - Misure di prevenzione - Revoca, modificazione o sospensione - Revoca - Presupposti - Prove nuove - Nozione. Ai fini della revoca della confisca definitiva di prevenzione, che si muove nello stesso ambito della revisione del giudicato penale di condanna, non costituisce prova nuova una diversa valutazione tecnico-scientifica di dati già valutati, che si tradurrebbe in apprezzamento critico di emergenze oggettive già conosciute e delibate nel procedimento. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 11 ottobre 2010 n. 36224. Un ringraziamento a Carlo Conti dall’Associazione "A Roma, Insieme - Leda Colombini" di Francesca Cusumano Ristretti Orizzonti, 16 febbraio 2016 Davanti alla sterminata platea di Sanremo, Carlo Conti ha voluto evidenziare l’incresciosa situazione che ancora esiste nelle nostre carceri alla quale la nostra fondatrice, Leda Colombini, ha dedicato gran parte della sua vita. Vogliamo ringraziarlo di cuore e allo stesso tempo teniamo a far sapere a quello che consideriamo, a questo punto, un nostro "socio onorario", che da parte del Comune di Roma è partito in questi giorni l’invito rivolto alle associazioni che ne hanno i requisiti, a partecipare al bando per la gestione della nuova Casa Famiglia Protetta "Casa di Leda", destinata a ospitare i bambini attualmente reclusi con le loro mamme nella Sezione Nido della Casa Circondariale di Rebibbia Femminile. La realizzazione delle case famiglia protette è prevista da una legge del 2011, grazie anche alla battaglia condotta dall’Associazione "A Roma, Insieme - Leda Colombini" che da più di 20 anni è impegnata con le donne del carcere romano di Rebibbia Femminile e con i loro figli, che fino all’età di 3 anni ne condividono la dura esperienza della detenzione. Obiettivo dell’Associazione è "che nessun bambino varchi più la soglia di un carcere". Tanto tempo è dovuto passare perché si arrivasse a realizzare la prima di queste strutture che connotano la civiltà di un paese, grazie al fondamentale finanziamento della Fondazione Poste Italiane Onlus. La casa famiglia sorgerà in una villa sequestrata alla criminalità organizzata e permetterà ai suoi piccoli ospiti di trascorrere il tempo della "detenzione" con le loro mamme, ma in una dimensione "senza sbarre". Approfittiamo fin da adesso per invitare all’inaugurazione Carlo Conti, gradito "testimonial" della nostra causa. Lazio: dal Consiglio regionale un documento sulle criticità del sistema penitenziario Ansa, 16 febbraio 2016 Un documento che fotografa "le criticità del sistema carcerario, tra cui la mancanza della figura del Garante regionale dei detenuti, il sovraffollamento, la condizione dei detenuti", ma anche "il poco sostegno istituzionale ai tanti progetti che in passato hanno contribuito a sostenere la funzione rieducativa della detenzione, attraverso lo sport o il teatro, coinvolgendo associazioni di volontariato da sempre impegnate a sostegno dei detenuti". E infine, "le proposte per risolvere tutte queste criticità". Il Presidente della III Commissione del consiglio regionale del Lazio Giuseppe Cangemi ha illustrato, questa mattina, i contenuti di un documento sulla situazione delle carceri nel Lazio che verrà consegnato al presidente della Regione Nicola Zingaretti. E lo ha fatto durante il convegno dal titolo "Garantire la giustizia - giusta pena e giusto reinserimento" che si è svolto oggi nella sede del Consiglio regionale del Lazio. Durante l’incontro, nato in collaborazione con l’associazione Gruppo Idee e "Dietro il cancello", giornale della Casa circondariale di Rebibbia nuovo complesso, il vicepresidente della Regione Massimiliano Smeriglio ha sottolineato l’importanza "di questa mattinata perché riusciamo a fare un punto su una situazione di difficoltà del sistema carcerario del Lazio, del sovraffollamento, degli strumenti di intervento sul reinserimento sociale, lavorativo, formativo e persino affettivo dei detenuti, cercando di uscire da un cono d’ombra di cui pochi si occupano. In questo senso il Lazio storicamente ha fatto molto in questa direzione". Lazio: Bonafoni (Si-Sel): su inclusione e reinserimento occorre una centrale del lavoro Ansa, 16 febbraio 2016 "La condizione in cui versano le prigioni è una questione di civiltà e serve a misurare il grado di salute democratica del nostro Paese". "Lavoro, agricoltura sociale, sport, formazione, editoria e salute. Sono questi gli assi principali di intervento che la Regione Lazio può mettere in campo per migliorare le condizioni di vita delle persone detenute e restituire al carcere la sua funzione riabilitativa. Azioni concrete che possono contribuire a creare un ponte tra il dentro e il fuori, cioè tra gli operatori e le istituzioni, dando voce a chi nel carcere vive tutti i giorni" - dichiara la consigliera regionale di Si-Sel, Marta Bonafoni, intervenuta al convegno "Garantire la giustizia giusta pena e giusto reinserimento", nella sede del Consiglio regionale del Lazio. "Quelle sopra enunciate - prosegue il comunicato - sono linee di intervento che guardano non solo ai numeri ma anche alla qualità della realtà carceraria, e che vanno ad affrontare i grandi temi quali il diritto alla salute dei detenuti, la condizione delle donne in carcere, la maternità dietro le sbarre, i minori reclusi, per i quali più che mai dovrebbe valere un approccio sociale forte rispetto a quello repressivo e la fortissima presenza di stranieri. A tal proposito diventa sempre più centrale e improcrastinabile la nomina del Garante dei detenuti del Lazio. Una figura che, dopo la designazione del Garante nazionale, diventa sempre più necessaria per rimettere in piedi una struttura complessiva che abbia deleghe importanti e possa intervenire direttamente all’interno del sistema carcerario". "La condizione in cui versano le carceri oggi è una questione di civiltà e serve a misurare il grado di salute democratica del nostro Paese e della nostra Regione" - conclude Bonafoni. Porto Azzurro (Li): si uccide a 50 anni in carcere, l’uomo trovato impiccato nella sua cella Il Tirreno, 16 febbraio 2016 Ancora il suicidio in carcere di un detenuto, il quarto dall’inizio dell’anno in un penitenziario italiano. È accaduto domenica 14 febbraio nel penitenziario di Porto Azzurro: protagonista un detenuto grossetano di 50 anni, sofferente di depressione, che già nel passato aveva tentato di togliersi la vita in cella ma era stato salvato dal tempestivo intervento della Polizia Penitenziaria. Ne dà notizia Pasquale Salemme, segretario regionale per la Toscana del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria: "L’ennesimo suicidio di un detenuto in carcere dimostra come i problemi sociali e umani permangono, eccome, nei penitenziari, al di là del calo delle presenze. E si consideri che negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 17mila tentati suicidi ed impedito che quasi 125mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Purtroppo a Porto Azzurro, il pur tempestivo intervento del poliziotto di servizio non ha potuto impedire il decesso del detenuto". Nel carcere di Porto Azzurro, struttura con circa 360 posti letto regolamentari, erano presenti il 31 gennaio scorso 255 detenuti: 12 i ristretti imputati mentre 243 sono condannati. Oltre il 45% dei presenti (116) sono stranieri. "In un anno la popolazione detenuta in Italia è calata di poche migliaia di unità", commenta Donato Capece, segretario generale del Sappe: "il 31 gennaio scorso erano presenti nelle celle delle carceri italiane 52.475 detenuti, che erano l’anno prima 53.889. La situazione nelle carceri italiane resta ad alta tensione: ogni giorno, i poliziotti penitenziari nella prima linea delle sezioni detentive hanno a che fare, in media, con molti atti di autolesionismo da parte dei detenuti, tentati suicidi sventati in tempo dalla Polizia Penitenziaria, colluttazioni e ferimenti". Capece sostiene infine che "la Polizia Penitenziaria continua a tenere botta, nonostante le quotidiane criticità. Ma è sotto gli occhi di tutti che servono urgenti provvedimenti per frenare la spirale di problematicità che ogni giorno caratterizza, coinvolgendo loro malgrado gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, le carceri italiane, per adulti e minori. Come dimostra quel che è accaduto questa notte nel carcere di Porto Azzurro". Il garante. "Da nostre informazioni risulta che la persona era lavorante e fra qualche giorno avrebbe goduto di un permesso per incontrare i familiari. Il suicidio è sempre una scelta dai motivi imperscrutabili, ancor più quando ci si trova in situazioni di vita complicate". Sono le parole di Nunzio Marotti, garante dei detenuti del carcere di Porto Azzurro, in seguito alla morte del detenuto grossetano. "Eventi come questi devono farci riflettere. È l’ennesima conferma che il carcere non è luogo dove sia possibile affrontare problematiche che non sempre vengono alla luce. Generalmente, si prestano attenzioni maggiori verso i nuovi giunti, ma questo vale anche per chi, come in questo caso, è in procinto di poter accedere ad una misura di esecuzione della pena alternativa al carcere - spiega Marotti - Bisogna quindi rivedere talune modalità di attenzione alla persona, potenziando per esempio il lavoro delle figure psicopedagogiche, segnate negli anni dai tagli governativi". Secondo il garante dei detenuti Nunzio Marotti "è questa l’occasione per accelerare il progetto di rilancio del carcere di Porto Azzurro per il quale, sin dall’inizio, si è impegnato il direttore e che vede coinvolti numerosi soggetti interni ed esterni all’amministrazione penitenziaria. Accelerare vuol dire anche maggiori fondi e partecipazione del territorio". Roma: detenuti romeni evasi da Rebibbia, giallo sulla cattura confermata e poi smentita di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 16 febbraio 2016 Retata della penitenziaria annunciata e poi non confermata in un appartamento di Tivoli. I due romeni erano fuggiti segando le sbarre delle finestre e calandosi con le lenzuola. Poi, secondo il racconto di un testimone, sarebbero saliti su un autobus. È giallo sulla cattura dei romeni evasi da Rebibbia. Un corto circuito di informazioni sul presunto rintraccio di Catalin Ciobanu e Florin Mihai Diaconescu durato quasi un’ora. Prima la notizia dell’arresto della coppia in un appartamento a Tivoli (rimbalzata su radio, televisioni e siti web), poi la conferma da parte dei sindacati della polizia penitenziaria di un’operazione del Nucleo investigativo centrale del Corpo, infine la smentita, ripetuta anche da carabinieri e polizia ai quali non risultava alcun arresto: gli evasi sono ancora in fuga. Gli investigatori avevano fermato alcune persone nel corso delle ricerche ma i due non c’erano. La caccia continua, con perquisizioni soprattutto nella periferia est della città. Setacciate le zone dell’hinterland, compresa quella di Tivoli e della Borghesiana. Gli avvocati difensori - Nella mattinata di lunedì gli avvocati dei due "fuggitivi" erano intervenuti: "Costituitevi subito. Mettetevi al più presto a disposizione delle autorità e delle forze dell’ordine. Solo così potete evitare di peggiorare la vostra situazione". È l’appello che gli avvocati Cristiano Brunelli e Andrea Palmiero. La fuga da Rebibbia - I due romeni erano evasi domenica pomeriggio dal carcere di Rebibbia dopo aver messo in atto un piano di fuga probabilmente studiato da tempo, sfruttando il fatto di aver ottenuto lo status di detenuto-lavoratore forse per buona condotta. Dopo aver segato con una lima le inferriate delle finestre ed essersi calati con le lenzuola avevano raggiunto l’esterno del carcere e poi, secondo il racconto di un testimone, si erano allontanati a bordo di un autobus. Le indagini - Gli investigatori di polizia, carabinieri e del nucleo investigativo centrale della penitenziaria setacciano gli ambienti vicini a Catalin Ciobanu e Florin Mihai Diaconescu, 33 e 28 anni, per trovare tracce del loro passaggio. Secondo le loro ipotesi i due si trovavano ancora a Roma o nei dintorni, non avendo avuto il tempo di allontanarsi troppo visto che l’allarme a Rebibbia era comunque scattato dopo mezz’ora circa dalla loro fuga. Roma: scoppia il "caso carceri", mentre sono braccati i due romeni evasi da Rebibbia di Paola Vuolo Il Messaggero, 16 febbraio 2016 Nessuna traccia dei due romeni evasi dal carcere romano di Rebibbia. Braccati ormai da domenica sera da centinaia di poliziotti, carabinieri e agenti penitenziari con posti di blocco e perquisizioni in appartamenti e nei campi rom a Roma e provincia. Le stazioni sono presidiate, sono stati interrogati amici e conoscenti e identificati alcuni romeni. Ma dopo un’evasione da manuale, Catalin Ciobanu, 33 anni e Florin Mihai Diaconescu di 28, continuano a sfuggire alle forze dell’ordine. La procura ha aperto un’inchiesta e aspetta il rapporto del (Dap) Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che ha avviato un’indagine interna, e afferma che "c’è un eccesso di allarme e gli istituti penitenziari sono sicuri" e ci sono 9 agenti a Rebibbia per 300 detenuti. Secondo i sindacati domenica erano di turno solo due agenti di guardia nel reparto lavoranti, dove si trovavano i romeni. Due anni fa dal penitenziario scapparono due detenuti romani con lo stesso sistema usato da Florin e Catalin. Sembra evidente che nel sistema di sorveglianza qualcosa non va. Per i sindacati il problema è il sovraffollamento di detenuti rispetto al numero degli agenti, 830 per 1.797 carcerati. Un’altra falla è in quella che chiamano "la sorveglianza dinamica", che lascia liberi i detenuti di girare per alcuni ambienti aperti della prigione fino a una certa ora senza essere seguiti dalle guardie. "Stiamo verificando come mai non c’è stato l’allarme - dice Santi Consolo, capo del Dap ma sulle celle aperte sarebbe un errore tornare indietro". Le polemiche - Il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri dice: "Fatto grave, ma le carceri in Italia sono sicure". Domenica sera i romeni hanno segato le sbarre di una finestra del magazzino del reparto G11, hanno scavalcato la finestra aiutandosi anche con dei bastoni di manici di scopa e raggiunto la zona passeggiate. I romeni avevano delle lenzuola a cui avevano fissati dei ganci di metallo rudimentali, aiutandosi con i bastoni hanno agganciato le lenzuola all’estremità del muro di cinta, e si sono calati indisturbati oltre il perimetro del carcere alto 5-6 metri. Per segare le sbarre del magazzino gli evasi potrebbero aver usato un seghetto di ferro e avrebbero incominciato a tagliare le sbarre almeno una ventina di giorni fa. Nel reparto lavoranti era facile disporre di questi arnesi. I due forse si sono divisi, un testimone ha detto agli investigatori di averne visto uno su un autobus diretto a Tivoli vicino Roma. Ieri mattina il sindacato Fns Cisl aveva annunciato che i due evasi erano stati presi, ma poi è arrivata la smentita dalle forze dell’ordine. Catalin Ciobanu è accusato di avere rapito a Roma un commerciante egiziano nel 2013 su ordine di un rivale in affari e di averne provocato la morte (l’egiziano ebbe un infarto). Oggi sarebbe dovuto comparire davanti ai giudici e rispondere dell’accusa di morte come conseguenza di altro reato. Florin Mihai Diaconescu è accusato di una serie di rapine sua madre dice che il figlio è disperato "aveva tentato il suicidio". Gli avvocati hanno lanciato un appello chiedendo ai fuggiaschi di costituirsi. Roma: Santi Consolo (Dap): "a Rebibbia c’erano misure anti-scavalcamento" di Andrea Scutellà Il Mattino di Padova, 16 febbraio 2016 Santi Consolo, capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, interviene a un convengo sulle libertà religiose dei detenuti: "Stiamo cercando di capire perché non è scattato l’allarme", spiega. Investire sulla tecnologia nelle carceri per scongiurare il pericolo evasione. Proprio quella tecnologia che (forse) nel caso dell’evasione di Rebibbia non ha funzionato. È il pensiero di Santi Consolo, capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, cioè il vertice delle carceri italiane. Il magistrato è intervenuto a un convegno intitolato "I diritti religiosi in carcere. Una risposta alla radicalizzazione", organizzato dall’associazione Antigone, che tutela i diritti dei detenuti, con i ministri di culto e i rappresentanti di alcune confessioni religiose. Ma i fuggiaschi di Rebibbia tengono banco: avrebbero segato le sbarre di un magazzino e si sarebbero calati da un muro usando delle lenzuola, per poi darsi alla fuga a piedi sulla via Tiburtina. "Dichiarazioni non in linea con l’allarme". È Consolo a prendere di petto l’argomento nel suo intervento. "I fatti di ieri sono stati attenzionati con un livello elevato all’opinione pubblica - ha esordito - e con dichiarazioni non in linea all’allarme. Ci sono tecniche per creare paura e reazioni conseguenti. Per prevenire il rischio che qualcuno scappi non possiamo tenere le persone in cella per 24 ore al giorno, in uno stato di sofferenza permanente". "A Rebibbia c’erano misure anti-scavalcamento". La notizia dell’evasione è stata diffusa dalla Fns Cisl, che aveva denunciato la presenza di 2 agenti per circa 150 detenuti nel reparto. Consolo corregge i numeri, ma non la sostanza: "I dati provvisori indicano che nel Padiglione G11 al momento dell’evasione c’erano più di 300 detenuti e forse 9 agenti presenti, ma sono in corso delle indagini". Davanti alle telecamere, a margine dell’incontro, il magistrato appare più conciliante. Sappe: "Solo due agenti di guardia". "Il numero dei poliziotti penitenziari - sottolinea - è effettivamente inadeguato e va potenziato. Soprattutto necessitiamo di maggiori fondi per un controllo e una vigilanza che si affida ai nuovi sistemi di allerta: anti-scavalcamento e allarmi vicino ai muri di cinta. Misure predisposte a Rebibbia: stiamo verificando come mai non c’è stato questo allarme che si sarebbe dovuto allertare. Bisognerà vedere se erano stati collocati a regola d’arte e se le manutenzioni sono state fatte correttamente". "Abbiamo il più alto numero di agenti carcerari in Europa". Anche Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, interviene sull’argomento. "Ogni volta che accade un fatto di cronaca nera che parte dal carcere c’è subito una pericolosissima strumentalizzazione, che rischia di far peggiorare le condizioni di vita di tutti i detenuti. Bisogna distinguere tra allarme sicurezza e l’enfatizzazione per avere un concorso e tre persone in più da assumere". Gonnella, ad esempio, non crede che il numero di agenti penitenziari presenti nelle nostre carceri sia insufficiente. "Abbiamo il più alto numero di poliziotti in relazione ai detenuti nell’Europa democratica - spiega, circa 40mila agenti per circa 52mila detenuti. Il problema è la loro utilizzazione, quanti lavorano nelle carceri e quanti non lavorano nelle carceri. Invece c’è carenza di organico per gli educatori, i mediatori culturali, gli psicologi, i medici e in alcuni luoghi anche per gli stessi direttori". I diritti religiosi e il pericolo radicalizzazione. Nonostante Rebibbia, però, il convegno prosegue: dialogano associazioni ebraiche, islamiche, cattoliche, evangeliche, ortodosse. E proprio i dati forniti da Antigone raccontano che poco di 29mila detenuti dei 52mila presenti nelle carceri italiane sono cattolici. Quasi 6mila i musulmani, poco più di 2mila gli ortodossi. Eppure non a tutti i diritti religiosi sono assicurati nello stesso modo: al vertice della piramide ci sono i privilegiati riti cattolici, poi le chiese che hanno stipulato un’intesa con lo Stato, infine quelli delle altre confessioni. "Dobbiamo pensare a una norma sulla libertà religiosa che valga per tutti e delle pratiche luogo per luogo per eliminare le discriminazioni", spiega ancora Patrizio Gonnella. Secondo il presidente di Antigone, inoltre, assicurare i diritti religiosi è il miglior modo per togliere terreno a una possibile radicalizzazione. "I numeri sono ancora molto bassi, ma vanno interpretati". Ad oggi il ministero della Giustizia ha indicato 19 detenuti "radicalizzati" e ristretti in apposite sezioni di sicurezza. Circa 200, invece, sarebbero gli "attenzionati". Roma: dalla videosorveglianza alle sentinelle esterne, i buchi nella sicurezza di Rebibbia di Federica Angeli La Repubblica, 16 febbraio 2016 Le accuse dei dipendenti: "Qui entra di tutto, anche droga". Ma per il ministero il numero di guardie penitenziarie è ok. "Così Rebibbia fa acqua". Dal sistema di videosorveglianza disattivato all’anzianità degli agenti della penitenziaria. Dalla pratica della "battitura" soppressa alla guerra di numeri: poche unità a sorveglianza dei detenuti, secondo i sindacati di categoria; un rapporto superiore al resto d’Europa, secondo il ministero della Giustizia. Chi lavora ore e ore nelle varie sezioni del carcere, mantenendo l’anonimato, ci spiega tutte le falle di una casa circondariale che ha ospitato e ospita boss anche di spessore. Dove a suo dire "entra di tutto, da telefonini alla droga" e dove sostanzialmente "i padroni sono i criminali". Ecco quindi come è facile evadere dal carcere di Rebibbia. La videosorveglianza - Due anni fa nel carcere romano fu installato, per due milioni di euro, un sofisticato sistema di allarme con videosorveglianza a fotocellule. Qualche mese dopo però, data la sensibilità del sistema (l’allarme scattava di continuo anche per il volo di un uccello), questo fu disinstallato. Da un anno dunque Rebibbia non ha più un sistema di controllo del sistema esterno. La "battitura" dei ferri - Fino a cinque anni fa le guardie penitenziarie ogni sera passavano cella per cella con una sbarra di ferro e le facevano scivolare contro le grate delle finestre. Dal rumore o dal cedimento si poteva capire se erano state manomesse. Ora non si fa più. Con due agenti a piano (i piani sono 4) nel turno notturno è impossibile aprile celle con 12 detenuti dentro. Addio sentinelle esterne - Da due anni a questa parte a causa dei tagli, il muro esterno di Rebibbia non ha più le due volanti di ronda esterne della penitenziaria. Se domenica sera ci fossero state, i due non sarebbero scappati. Le poche e anziane unità - A Rebibbia l’età media degli agenti va dai 30 ai 50, costretti a turni massacranti, secondo il sindacato Sappe, pur di riuscire a coprire l’intero orario di servizio. I dati del ministero dicono però altro. In Italia ci sono circa 39mila agenti, a fronte di 52mila detenuti, una media superiore al resto d’Europa. In Germania, ad esempio, per 61mila detenuti ci sono 34mila poliziotti nelle carceri. Nessun controllo - Se ci fosse stato un controllo capillare dei locali dove i detenuti ogni giorno lavorano, i due non sarebbero evasi. Le grate del magazzino da cui sono passati i due romeni, incrociate in cinque punti, è impossibile segarle in un pomeriggio. Savona: al carcere Sant’Agostino in servizio 40 agenti, ma... non ci sono detenuti di Claudio Vimercati Secolo XIX, 16 febbraio 2016 Quaranta agenti penitenziari per quattro detenuti. Ma attenzione, si tratta dei semiliberi, quelli cioè che in carcere vanno solo a dormirci oppure i cosiddetti articoli 21 che in cella ci stanno quando hanno finito il turno di lavoro all’esterno. Il che significa che per due turni di servizio su tre, gli agenti vigilano su un Sant’Agostino praticamente vuoto. E che un po’ fa effetto se il pensiero va al sovraffollamento di qualche anno fa, quando nelle celle ci stavano anche in dieci ed era l’inferno. Ora regna il silenzio. Quasi irreale. A un mese dalla chiusura del carcere, questa è la situazione a Savona. C’erano cinquanta detenuti: trenta sono stati trasferiti a Marassi, venti a Sanremo. E per i quattro rimasti, i semi liberi, c’è già la nuova destinazione: Genova. E così a ogni turno, gli agenti entrano in servizio, timbrano il cartellino e aspettano di sapere che cosa c’è da fare. Attendono indicazioni. È soprattutto il futuro a preoccupare. Dove finiranno i quaranta agenti penitenziari? Il Sappe ha fatto nei giorni scorsi un sondaggio fra il personale. C’è chi, siciliano di origini, spera di avvicinarsi a casa. Chi vorrebbe una collocazione nella scuola penitenziaria di Cairo; chi ancora accetterebbe un servizio in Procura come agente distaccato oppure svolgere servizi sul territorio, ad esempio andando a controllare i detenuti agli arresti domiciliari, un compito svolto da carabinieri e polizia che verrebbero così sgravati da questo genere di impegno a vantaggio di altri servizi. Chi propone che venga istituito un nucleo di agenti a palazzo di giustizia, per occuparsi dei detenuti che aspettano di essere interrogati o processati. Oristano: Caligaris (Sdr); l’ergastolano Mario Trudu per tre mesi a Massama castedduonline.it, 16 febbraio 2016 "Tre mesi nell’Istituto Penitenziario di Oristano-Massama per poter effettuare regolari colloqui con i familiari. Li ha disposti il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a favore di Mario Trudu, l’ergastolano di Arzana in carcere dal 1978. Un’apertura significativa e importante che sembra far sperare in un definitivo trasferimento dell’anziano detenuto in Sardegna, nel rispetto della territorialità della pena". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" ricordando che " Trudu, attualmente recluso a San Gimignano, da molti anni chiede insistentemente di poter continuare a mantenere i rapporti affettivi con la sorella gravemente ammalata". "Mario Trudu era stato condannato all’ergastolo. La misura è stata però successivamente trasformata in "ostativa", cioè il suo "fine pena mai" esclude - sottolinea Caligaris - la possibilità di usufruire di qualsiasi beneficio penitenziario. Nel frattempo tuttavia l’uomo ha studiato conseguendo il diploma e ha pubblicato un libro "Totu sa beridadi - Tutta la verità" in cui ricostruisce la sua vita da giovane pastore fino alle vicende giudiziarie e ribadisce la sua innocenza relativamente al sequestro dell’ing. Giancarlo Bussi, per il quale venne condannato la prima volta". "Trudu non chiede la libertà ma soltanto di poter restare in Sardegna. Nel 2012 con un’ordinanza il Tribunale di Sorveglianza di Perugia aveva invitato il responsabile della Direzione Generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ad "adottare ogni provvedimento amministrativo necessario a tutelare l’esigenza di regolare svolgimento di colloqui con i propri familiari rappresentata da Mario Trudu". L’auspicio è - conclude la presidente di Sdr - che finalmente il Dap accolga la sua richiesta e possa restare almeno a Oristano". Porto Azzurro (Li): detenuto semilibero non rientra in carcere, ora è ricercato tenews.it, 16 febbraio 2016 Non rientra in carcere dopo il lavoro esterno che gli era stato concesso ed ora è ricercato, con molta probabilità ancora sul territorio dell’isola. Protagonista di questa che deve essere considerata come un’evasione è un detenuto nordafricano, ristretto presso la Casa di Reclusione di Porto Azzurro. L’uomo era uno dei sei detenuti ammessi dalla Amministrazione Penitenziaria al lavoro esterno presso il comune di Rio Elba, con le mansioni di operatore ecologico. Il Nordafricano aveva lavorato venerdì ed aveva fatto regolare rientro a Forte San Giacomo, uscendo poi al sabato mattina per una attività di volontariato gratuito alla quale era regolarmente autorizzato. Da quel momento si sono perse le sue tracce. Non è purtroppo il primo caso di questo genere che accade con detenuti ammessi al lavoro esterno. Mentre continuano le ricerche delle Forze del’Ordine, prosegue comunque regolarmente la collaborazione fra la Casa di Reclusione e il comune di Rio nell’Elba: già lunedì mattina gli altri cinque reclusi autorizzati al lavoro esterno si sono regolarmente presentati in servizio. Padova: per Riina jr altri due anni di libertà vigilata di Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 16 febbraio 2016 Il figlio di Totò, capo dei capi di Cosa Nostra, non può lasciare Padova e tornare a Palermo per i suoi legami con i boss. Altri due anni di libertà vigilata per Giuseppe Salvatore Riina, 38 anni, figlio del capo dei capi di Cosa Nostra Totò Riina. Il giudice di sorveglianza ha disposto il prolungamento del provvedimento di sorveglianza speciale, il cui termine era fissato per fine mese. La decisione è stata presa sulla base di un’inchiesta della Procura di Palermo, secondo cui Salvuccio sarebbe ancora in qualche modo vicino alle cosche mafiose. Il terzogenito del capomafia è sospettato di essere la figura cardine per il rispetto dei patti presi dal padre. L’inchiesta di Palermo - Riina junior viene menzionato varie volte nel provvedimento con il quale i sostituti procuratori di Palermo Caterina Malagoli, Sergio Demontis e Gaspare Spedale hanno disposto il fermo di alcuni presunti esponenti di spicco del mandamento mafioso di Corleone. È l’inchiesta che portò a ipotizzare un possibile attentato al ministro dell’Interno Angelino Alfano "colpevole", a loro dire, di avere aggravato il regime di carcere duro al 41 bis. Giuseppe Salvatore Riina non è indagato ma, secondo i carabinieri di Monreale, alcuni indagati gli avrebbero garantito aiuti economici. La cessione di denaro emerge da una conversazione intercettata il 22 settembre 2014 tra uno degli arrestati, il palermitano Vincenzo Pellitteri, e il capofamiglia Paolo Masaracchia. Il primo suggeriva a Masaracchia di rivelare all’anziano boss Gaspare Geraci, di aver consegnato attraverso una terza persona quattromila euro per il figlio di Salvatore Riina. Questa, oltre a un’altra tranche non meglio quantificata a distanza di 15 giorni. Francesco Di Marco tira in ballo nuovamente Giuseppe Salvatore Riina indicandolo quale unica figura al momento in grado di fare da garante ai patti stipulati anni prima tra i Riina e la famiglia Di Marco. Francesca Casarotto, avvocato vicentino che lo assiste ormai da anni, le ha subito bollate come illazioni basate su intercettazioni vecchie. Il nuovo provvedimento - Gli atti di Palermo sono stati trasmessi al giudice di sorveglianza di Padova che li ha esaminati attentamente, soprattutto in vista della scadenza della libertà vigilata di Salvuccio prevista per il 20 febbraio. Sulla base delle evidenze emerse in questa nuova inchiesta, è stato deciso un ulteriore prolungamento. Dovrà quindi continuare a condurre una vita con orari ben definiti, senza guidare, senza uscire la sera, senza frequentare pregiudicati e firmando ogni mattina in Questura. Il suo sogno di vivere a Padova finalmente da uomo libero sfuma nuovamente. Ed è la seconda volta. Perché a febbraio di due anni fa, alla vigilia della scadenza della libertà vigilata, venne raggiunto da un nuovo provvedimento dell’ufficio di sorveglianza di Pavia, scaturito dalla sua precedente permanenza nella città lombarda. Due anni dopo è ancora l’eco del suo passato a giustificare un nuovo regime scandito da limitazioni. Solo chi gli sta vicino sa quanto male l’ha presa anche stavolta. Napoli: workshop "Vivere dentro-progettare lo spazio e le relazioni nel carcere" di Adriana Tocco (Garante dei detenuti della Regione Campania) Ristretti Orizzonti, 16 febbraio 2016 Si apre a Poggioreale la seconda fase del Workshop "Vivere dentro-progettare lo spazio e le relazioni nel carcere", organizzato dal Diarc, Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e la casa circondariale di Poggioreale. Il Workshop nella prima fase, conclusasi il 9 ottobre 2015, ha coinvolto 25 studenti del Diarc e 15 detenuti di Poggioreale che, sotto la guida di docenti, tutor ed educatori hanno lavorato in sinergia per formulare idee progettuali finalizzate al recupero e al riuso dei corridoi di alcuni padiglioni. I 5 gruppi in cui erano divisi studenti e detenuti ha prodotto 5 idee progettuali tradotte in altrettanti piccoli plastici destinati a rendere i corridoi un luogo collettivo attrezzato per attività da svolgere in comune nel nuovo regime di celle aperte. I lavori sono in via di esecuzione. La seconda fase che inizierà il 29 febbraio riguarderà la rivisitazione dei passeggi all’aperto, oggi spazi vuoti e privi di caratterizzazione che possono invece assumere un ruolo di socialità e di svago importante. Tutto questo nasce da un lontano convegno sull’architettura penitenziaria, organizzato dal Garante Regionale Adriana Tocco, che ha poi dato vita a un fattiva collaborazione tra il Diarc e il Prap. Responsabili del progetto sono Antonio Fullone, direttore dell’Istituto e i proff. Marella Santangelo e Paolo Giardiello del Diarc. Fossano (Cn): al carcere di Santa Caterina entra il giornalismo ed escono le idee Comunicato stampa, 16 febbraio 2016 In partenza il progetto di formazione che sfocerà in una redazione composta da detenuti. Continua il cammino di innovazione portato avanti nella casa di reclusione Santa Caterina di Fossano. Dopo ii Natale di Barabba che ha spalancato al pubblico i cancelli del cortile dei carcere e permesso a 14 detenuti di interagire con i visitatori delle mostre e i frequentatori di un animato mercatino, sta per partire un progetto di giornalismo e redazione. Per cinque settimane i redattori del quotidiano online TargatoCN incontreranno un gruppo di detenuti per sviluppare gli argomenti di base necessari per conoscere il funzionamento di una redazione: scrivere per il web, il "mestiere del giornalista"; come è cambiata nel tempo la cronaca nera, cosa vogliono leggere i lettori; sono tutti giornalisti nell’era dei social network; un solo fatto e tanti modi di raccontarlo: dalle pagine del giornale al romanzo passando per il web; la multimedialità al servizio dell’informazione, analisi di reportage fotografici e audiovisivi. Al termine dei cinque incontri un gruppo ristretto di detenuti inizierà un percorso redazionale con la stesura di articoli e la gestione di una rubrìca dedicata sul quotidiano TargatoCN. II progetto rappresenta un’interessante novità perché uno degli strumenti utilizzati sarà chiaramente il web, possibile a Fossano grazie allo status della struttura di casa di reclusione a custodia attenuata. È evidente la duplice valenza del percorso che sa per partire: da un iato un percorso didattico e di fruizione di strumenti di comunicazione moderni che permettono al detenuto di accorciare le distanze rispetto alla velocità di comunicazione tipica dell’esterno e dall’altro lato permetterà di stabilire un flusso di comunicazione tra il carcere e la città in un’ottica di avvicinamento come auspicato da amministrazione pubblica e direzione del carcere. "È fondamentale che si cominci a pensare al carcere come ad un luogo nel quale si fanno esperienze significative, un luogo di cultura e comunicazione. Dove si impara anche ad interpretare la comunicazione in un luogo che è tradizionalmente sottratto dalla comunicazione. Questo progetto rappresenta un modo per fornire strumenti per reinterpretare il mondo" ha detto il direttore del Santa Caterina Domenico Arena. Il Direttore Dr. Domenico Arena Sanremo (Im): "Parole liberate" ringrazia Carlo Conti per l’impegno sul carcere 9Colonne, 16 febbraio 2016 Chi è il cantautore che musicherà la lirica vincitrice del Premio "Parole liberate: oltre il muro del carcere", scritta da Giuseppe Catalano, detenuto del carcere milanese di Opera, dal titolo "Ps. Post scriptum", e letta da Gabriel Garko? È l’invito ai big della musica italiana lanciato da Carlo Conti nel corso della finalissima del Festival di Sanremo. Il progetto prevede che ogni anno il testo vincitore venga affidato a un big perché si trasformi in una canzone, come è accaduto lo scorso anno con "Clown Fail", scritta da Cristian Benko, in arte Lupetto all’epoca detenuto a San Vittore e musicata da Ron. Il direttore artistico del Premio, Michele De Lucia ha dichiarato: "Carlo Conti ha avuto il coraggio di parlare a Sanremo di carcere, di detenuti, di muri che vanno abbattuti. Di bambini che non devono stare in carcere. Mica poco. Credo che questo sia di un’importanza incredibile", "da una parte, attendiamo che qualcuno raccolga l’appello di Carlo Conti a musicare la lirica di quest’anno. Dall’altra, invitiamo tutti ad aiutarci a sostenere le spese dell’associazione, versando un piccolo contributo collegandosi alla pagina.paroleliberate.it/prodotto/donazione-libera/". Sul sito web sono ora disponibili tutte le poesie, quasi 200, delle persone detenute che hanno partecipato alle due edizioni svolte finora. Fanno parte di Parole liberate, tra gli altri, il giornalista di Repubblica Ernesto Assante, l’attore Toni Garrani, il pianista di fama internazionale Giampaolo Pape Gurioli e la storica voce de "I Giganti" Enrico Maria Papes. Il Muro dell’Est di Maria Serena Natale Corriere della Sera, 16 febbraio 2016 I quattro Paesi di Visegrád seguono Orbán Progettano una barriera e sfidano Berlino. Il fronte Est si compatta, la prospettiva di una politica europea coordinata sull’immigrazione si allontana. A pochi giorni dal Consiglio Ue che giovedì e venerdì discuterà di rifugiati e Brexit, i leader del Gruppo di Visegrád si sono riuniti a Praga allargando il tavolo a Bulgaria e Macedonia. Ironie della storia. Visegrád era la santa alleanza nata nel 1991 per tracciare una via comune dell’ex blocco sovietico all’integrazione comunitaria. Oggi i premier di Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca serrano i ranghi sotto leadership di segno sempre più autoritario - Budapest e Varsavia - in opposizione alle aperture tedesche sulla crisi dei rifugiati e al programma di redistribuzione dei richiedenti asilo sostenuto da Bruxelles. Il nuovo muro - "La Grecia ha fallito nella difesa dei confini Schengen dall’immigrazione di massa, quindi dobbiamo attuare un piano B con la costruzione di un muro a Sud" dichiara il premier ungherese Viktor Orbán. La nuova barriera dovrebbe sigillare le frontiere di Macedonia e Bulgaria per frenare gli ingressi dalla Grecia e limitare il flusso che risale i Balcani verso il Nord, nel caso in cui Atene non rispettasse l’ultimatum di tre mesi lanciato dalla Ue: rafforzamento dei confini esterni o sospensione dell’area di libera circolazione di Schengen. Sarà uno dei temi al centro del vertice dei leader dell’Unione, per questo il governo ellenico di estrema sinistra guidato da Alexis Tsipras accelera sull’attivazione degli hotspot, i centri per la registrazione dei migranti: quattro sui cinque promessi (e a lungo rinviati) apriranno domani, resta in sospeso quello dell’isola di Kos dopo le proteste del weekend disperse dalla polizia con i lacrimogeni. In Grecia è massima tensione, nel pieno delle verifiche dei creditori internazionali sulle riforme imposte dal terzo salvataggio. Il blocco dei confini aumenterebbe la pressione sulle rotte alternative, in primis il corridoio mediterraneo verso l’Italia favorito dal miglioramento delle condizioni meteo. A Berlino non piace il progetto di Visegrád: meglio rafforzare la rete degli hotspot e puntare sul piano di cooperazione da tre miliardi di euro con la Turchia. Le forze - Alla fine dell’estate scorsa, all’apice dell’emergenza, Orbán aveva fatto da apripista alzando barriere di filo spinato ai confini con Serbia e Croazia, rivendicando al Centro-Est il ruolo di bastione a difesa della cristianità dalla minaccia islamica - e formalizzando la strumentale sovrapposizione tra terrorismo e immigrazione che macina consensi e tiene bassi i numeri dell’accoglienza nella regione. Così in Polonia la premier Beata Szydlo rivede al ribasso gli obiettivi del governo liberale mandato a casa in autunno: da 7 mila a 400 immigrati ammessi per i prossimi due anni. In Slovacchia a marzo si vota e l’esecutivo uscente scommette sulla sicurezza. Ieri il premier socialdemocratico Robert Fico ha ribadito l’urgenza di "investire sulla protezione della frontiera che separa la Grecia da Macedonia e Bulgaria" con l’invio di uomini e mezzi che si aggiungerebbero alle forze di polizia già sul posto. In contemporanea con il vertice di Praga, la Commissione europea ha annunciato lo stanziamento di dieci milioni di euro di aiuti alla Macedonia: fondi destinati alle operazioni di controllo, "non alla chiusura delle frontiere" precisano da Bruxelles. Estremo tentativo di prevenire fughe in avanti. Il negoziato - Partita doppia. In queste ore procede l’offensiva diplomatica congiunta del premier britannico David Cameron e del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, polacco ed ex leader del centro-destra liberale rivale dei nazional-populisti di Jaroslaw Kaczynski tornati al potere. Dopo il giro delle capitali orientali, Cameron ieri è volato a Parigi per strappare il sostegno del presidente François Hollande alla bozza di accordo che dovrebbe tenere Londra nella Ue in cambio di maggiore autonomia e ridotti benefici sociali per i lavoratori immigrati. Anche Tusk ieri era a Parigi, prima di partire per il tour promozionale tra Berlino, Praga e Bucarest. Il Centro-Est si è ritagliato un ruolo cruciale nella trattativa che entra nella fase finale. Ha ottenuto garanzie per gli immigrati dall’Est già presenti nel Regno Unito. Per tendere la mano a Londra, vuole di più. Rignano (Fg): bruciato il ghetto dei migranti, dubbi sulla causa accidentale di Antonio Maria Mira Avvenite, 16 febbraio 2016 Solo cenere e fango. È quello che resta del "grande ghetto" dei migranti nelle campagne tra Foggia, Rignano Garganico e San Severo. La scorsa notte le fiamme hanno distrutto centinaia di baracche di plastica, legno e lamiera, che arrivano ad ospitare fino a 2mila persone nella stagione della raccolta del pomodoro, ma che in questi giorni davano riparo a "solo" 450 migranti africani. Che ora sono senza un tetto. È infatti bruciato circa il 90 per cento della baraccopoli sorta spontaneamente una decina di anni fa e rimasta da allora l’unica soluzione abitativa per migliaia di braccianti/schiavi africani. Ora tutto finito in fumo. "Sono rimaste solo le mattonelle - commenta don Francesco Catalano, direttore della Caritas diocesana di Foggia da anni presente con moltissime iniziative in questo e negli altri ghetti. È bruciato tutto, non hanno più niente neanche i documenti". Le fiamme sono scoppiate alle due di notte, altissime e hanno richiesto l’intervento di tre squadre dei vigili del fuoco intervenuti con vari mezzi. Il rischio maggiore era che scoppiassero le tante bombole del gas presenti nelle baracche. Ma grazie all’impegno dei vigili, tranne quattro migranti intossicati dal fumo, non c’è stata nessuna conseguenza per le persone. Sulle cause si sta indagando ma tutti sottolineano la stranezza di questo incendio. "È tutto molto sospetto, le fiamme sono partite dopo due giorni di pioggia e hanno distrutto tutto - sottolinea don Francesco. Era evidente che in queste situazioni drammatiche tutto era prevedibile. Piccoli incendi c’erano già stati ma mai di queste dimensioni". Il sospetto é che non sia stato fortuito. "È successo proprio ora che la Ragione ha annunciato l’intenzione di eliminare tutto il ghetto. Una strana coincidenza, ora tutto è più facile...", è il ragionamento del sacerdote. Anzi sembra che da alcuni giorni girasse una voce tra i migranti che era meglio andare via. Un’ipotesi che fa anche il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano. "L’incendio è arrivato pochi giorni prima delle operazioni di sgombero che la Regione e la prefettura di Foggia stanno attuando al fine di porre termine a una situazione inaccettabile dal punto di vista umanitario, igienico e di ordine pubblico. Non si può escludere - aggiunge il governatore - che l’incendio sia stato un modo attraverso il quale ignoti abbiano voluto rendere inutilizzabile la struttura. In queste ore - conclude Emiliano - si sta procedendo ad analizzare la situazione per verificare quanto necessario attuare nell’immediato". Intanto si sono già mossi i volontari della Caritas. Coperte, il pranzo e la cena. L’unica donna con due bambini è stata ospitata in una parrocchia di Foggia. "Bisogna chiudere subito quel serbatoio di sfruttamento che è il ghetto di Rignano Garganico, in provincia e sostituire l’accampamento con un sistema strutturato di alloggi, tutela e protezione" è la denuncia del segretario della Fai-Cisl Foggia, Franco Bambacigno, "Enti Locali, Regione e Istituzioni nazionali - afferma da parte sua il commissario nazionale Fai Cisl, Luigi Sbarra - devono intervenire urgentemente assicurando in quella realtà una rete di servizi adeguata, dagli alloggi alla sanità, dai trasporti al lavoro". Intanto però la scorsa notte i migranti rimasti senza un tetto hanno dovuto arrangiarsi. Alcuni hanno trovato posto, stringendosi un po’, nelle poche decine di baracche salvate dalle fiamme. La Prefettura si è subito attivata ma la Protezione civile regionale non è riuscita a predisporre nulla. Così per gli altri c’è solo il freddo della notte senza alcun riparo, solo le coperte e il latte caldo dei volontari. Sperando che non torni a piovere. "Ma qualche migrante ha già cominciato a ricostruirsi la baracca con quello che é riuscito a rimediare. Non hanno alternative", avverte don Francesco. Così il ‘grande ghettò risorge dalle sue ceneri. Amnesty: "basta con l’hacking di Stato, denunciamolo" di Arturo Di Corinto La Repubblica, 16 febbraio 2016 Una nuova campagna per la sicurezza di attivisti e giornalisti che usano smartphone e pc, sempre più spesso obiettivo di mercenari e hacker di regime. Intrufolarsi nei computer degli attivisti per i diritti umani è una pratica comune degli Stati canaglia. A dirlo è uno studio di Amnesty International che dopo aver elencato numerosi casi di hacking di stato, avverte che tenere nascoste queste intrusioni è peggio che subirle. Molte Ong infatti, per evitare il panico tra gli stessi attivisti tengono le intrusioni nascoste e quel che è peggio non si preparano a evitarle per il futuro. L’hacking di stato colpisce invariabilmente giornalisti, cooperanti, attivisti, avvocati impegnati nella difesa dei diritti umani. Prove e denunce di intrusioni verso obiettivi civili da parte del governo cinese sono venute da Google, Adobe, Yahoo e Symantec. Molte sono state dirette specificamente verso Ong impegnate in Tibet e così via. Non si contano poi i casi riportati in Russia soprattutto dagli attivisti per i diritti gay e la difficile situazione in Egitto dove molti attivisti sono spariti proprio prima dell’anniversario delle manifestazioni di piazza Tahrir nel 2011, oggi tornata alla ribalta per la scomparsa del nostro connazionale Giulio Regeni. Lo studio voluto da Amnesty International e realizzato da due consulenti, Morgan Marquis-Boire ed Eva Galperin ricorda che diversi di questi attacchi sono stati compiuti a danno di singoli giornalisti in Marocco o del Bahrain usando software spia del famigerato Hacking team e anche con software realizzato da un’azienda tedesca e commercializzato da un’omologa inglese Ahmed Mansoor, negli Emirati Arabi Uniti, membro di Human Rights Watch, ad esempio, si è ritrovato nel computer proprio uno spyware che consentiva alle autorità di tracciarne movimenti e di leggerne le email e la stessa pratica è frequente nelle denunce contro il cosiddetto Syrian Electronic Army da parte degli attivisti siriani. A differenza di altri tipi di software malevoli che si installano nel computer e ne danneggiano o bloccano il funzionamento, o che precedono una richiesta di riscatto, i ransomware, questi software servono a controllare il comportamento di chi quel computer lo usa e per questo si chiamano spyware. Quei software che per sbaglio, disattenzione, ignoranza, lasciamo installare sul nostro telefonino perché abbiamo cliccato sul "secure.pdf" mandato dal collega da cui aspettiamo una soffiata, invece può sia tracciare la nostra posizione in ogni momento della giornata che accedere alla lista dei contatti telefonici, leggere i messaggi e le chat e perfino registrare le nostre telefonate. Molti di questi software spia vengono usati per finalità legittime, per la sicurezza dello stato, ma i confini tra quest’utilizzo e lo spionaggio illegale di altri stati è sempre labile. Come si legge nel rapporto, anche in Occidente si sono verificati casi in cui l’intelligence ha spiato i difensori dei diritti umani. Ad esempio quella inglese ha intercettato le comunicazioni riservate di Amnesty International. Ma lo stesso era accaduto al Centro americano per la democrazia e la tecnologia, persino alla EFF. Nel dicembre del 2013, alcuni dipendenti della Electronic Frontier Foundation erano invece stati presi di mira da gruppi collegati al governo vietnamita. Stessa sorte per i giornalisti dell’Associated Press, studiosi francesi residenti in Vietnam e altri blogger. Nell’agosto del 2015, si sono avute invece le prove di un elaborato attacco di phishing collegato al governo iraniano. Secondo Amnesty questi attacchi sono solo la punta dell’iceberg. Come ha raccontato in prima persona il direttore del comitato per la protezione dei giornalisti, Joel Simon, tempo addietro una semplice email di un collega coinvolto nel comitato era stata sufficiente a sollecitare il suo interesse, ma conteneva un malware molto pericoloso. Il nome del mittente era storpiato ma assai simile al nome del collega che lo mandava, il subject riguardava la vicenda di un giornalista in Gambia in quel momento seguita dal comitato e quindi era plausibile. Tuttavia, non fu aperta, ma messa in quarantena dagli esperti prima di rivelare che il malware al suo interno era un file eseguibile che una volta lanciato comunicava con un server in Indonesia ma che conteneva commenti in cinese. Il punto è che non tutti i giornalisti o gli attivisti hanno sui loro computer un antivirus funzionante in grado di fare un’immediata scansione dei file malevoli, e non prevedono procedure di analisi per i file compressi, i.zip, che superano l’eventuale prima barriera di protezione di molti sistemi di webmail e, drammatico, non hanno uno staff in grado di gestirli per capire se i file portano documenti scottanti o virus trojan. Quel che è peggio, dice Marquis è che gli attivisti e le loro organizzazioni quando si rendono conto di essere stati oggetti di un attacco, non lo comunicano per il timore di perdere la faccia e di creare sfiducia nei propri contatti. Invece bisognerebbe fare proprio il contrario, dirlo pubblicamente e attivare un network di esperti in grado di risalire alle origini del problema, offrendo a tutti i potenziali target, gli informatori sul campo e gli altri colleghi, i mezzi per difendersi. Ora ne esistono moltissimi, facili da usare e installare, ricordando che per quanto potenti, nessun software, neanche quelli a cifratura robusta, garantiscono una sicurezza completa e totale. Motivo per cui, mentre ci si dota di strumenti come signal o altri per comunicare via sms o via voce o altri per mandarsi file dal telefonino, gli strumenti più utili sono sempre quelli di tipo open source, che consentono cioè agli esperti di verificare sempre che non contengano routine di codice che fanno fare ai nostri strumenti quello che non vorremmo. Egitto: caso Regeni, forse uno spiraglio verso la verità di Ugo Tramballi Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2016 Qualcuno ricorderà Mohammed Saeed al-Sahhaf, meglio conosciuto come Alì il Comico. Nel 2003 era il ministro dell’Informazione di Saddam Hussein. Gli americani erano già dentro Bagdad. Ma lui continuava a raccontare alla stampa di tutto il mondo che le truppe irachene stavano respingendo e decimando il nemico. Riuscito miracolosamente a fuggire, fu scritturato nel talent di una tv degli Emirati dove ancora vive. Senza volerlo, al-Sahhaf era riuscito a regalare qualche minuto quotidiano di comicità nella tragedia dell’inutile invasione americana dell’Iraq: voleva essere l’inizio della democratizzazione forzata del Medio Oriente ma fu l’inizio della fine del Medio Oriente. Se dimenticassimo per un istante l’arresto, le torture, l’agonia e la morte insensata di Giulio Regeni, anche i ministri, i generali di polizia e gli ambasciatori egiziani che sono intervenuti sul caso, sarebbero stati capaci di farci ridere. La prima archiviazione poliziesca del caso come incidente stradale. Poi il ministro degli Interni "infastidito" dalle "insinuazioni" della stampa italiana sul coinvolgimento degli apparati dello Stato. La cosa apparentemente più comica è stata la promessa del ministro, un generale, di trattare il caso "come se Giulio fosse un egiziano". Voleva rassicurare. Invece, come poi dimostrato, era una minaccia. Il giovane italiano ha fatto la stessa fine di centinaia e centinaia di coetanei egiziani, spariti nelle carceri. Poi c’è stato l’ambasciatore egiziano a Roma, minaccioso: continuando così voi italiani metterete a repentaglio le relazioni economiche con l’Egitto. Infine il ministro degli Esteri con la perla del paragone con le migliaia d’immigrati egiziani, vittime quotidiane della malavita italiana. "Se dovessi insinuare che ogni attività criminale è legata al governo italiano, sarebbe molto difficile condurre relazioni internazionali". Oltre ad essere offensivo con gli italiani, Sameh Shoukry, il ministro, lo è stato anche con i suoi connazionali. Chiunque la conosca, sa che al Cairo non c’è criminalità e che i pochi banditi di strada non torturerebbero la loro vittima, come è accaduto a Giulio. Nel caos creativo del traffico del Cairo si muore poco anche d’incidente stradale. Le principali cause di decesso sono i terroristi e l’uso indiscriminato della lotta al terrore che applica la polizia. Poi sono arrivati gli americani a raccontarci come sono andate le cose. Ma per quanto il New York Times sia il primo giornale al mondo, i suoi segugi non avrebbero trovato tre ufficiali pronti a raccontare come sono andate le cose se qualcuno al governo - dove c’è ancora gente con il senso della giustizia - non glieli avesse fatti trovare. È da qui che bisogna ripartire per avere giustizia e riprendere quella collaborazione politica, economica e culturale che fino alla tragedia di Giulio aveva distinto i rapporti fra Egitto e Italia. C’è ora un’ombra sui cinque miliardi d’interscambio, sulla grande scoperta del mega-giacimento di Zohr fatta dall’Eni e carica di opportunità future, sull’impegno di migliaia d’imprenditori italiani in Egitto. Non è difficile fugarla. Basta ammettere una verità scomoda ma ormai ineludibile. Come diceva qualche giorno fa Pier Ferdinando Casini, noi italiani "siamo pazienti ma non ingenui". Egitto: la polizia non collabora, su Regeni la verità è lontana di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 16 febbraio 2016 L’intimidazione e l’arresto sommario. Il ragionamento dei carnefici forse è stato: "Punirne uno per educarne cento". Fin qui non c’è nessuna verità nel caso Regeni. Illazioni ed accuse si sommano senza arrivare a nessuna prova decisiva. Questo accade perché, nonostante i flebili appelli del governo italiano, l’ultimo lanciato ieri da Gentiloni, le autorità egiziane non stanno collaborando con il team investigativo italiano, volato ormai da troppi giorni in Egitto. Anche l’ambasciata egiziana a Roma si è unita al coro di smentite rendendo tutto il quadro indiziario davvero fragile. Neppure il luogo dove il dottorando italiano sarebbe stato prelevato dalla polizia è certo. Gli sms resi noti ieri in seguito agli interrogatori con amici e colleghi del pm Colaiocco, in cui Giulio scrive "sto arrivando", e le comunicazioni via internet con la sua ragazza, insieme all’assenza di immagini video riprese dalle telecamere a circuito chiuso dei negozi che si trovano intorno alla fermata della metropolitana Behoos, sotto casa sua, potrebbero di nuovo riportare la scena dell’arresto nei pressi di piazza Tahrir (metro Mohamed Naguib) quel maledetto 25 gennaio scorso quando Giulio è sparito nel nulla. Ma dopo giorni di indagini è emerso tutto un quadro di relazioni tra il ricercatore italiano al Cairo e i suoi amici. Non è solo Giulio ad essere coinvolto in questo crimine orribile. Ci sono tante altre persone, inclusi suoi colleghi ricercatori che lavoravano sugli stessi temi del giovane friulano: sindacati indipendenti e movimenti alternativi. Tutti loro potrebbero essere stati controllati per le loro attività di studio e, solo per alcuni escluso Giulio, forse anche per il loro impegno politico. È lì potrebbe essere trovata la vera risposta per stabilire se Giulio effettivamente fosse sotto controllo prima del 25 gennaio oppure no. Quando poi quella stessa notte Giulio Regeni è sparito, alcuni dei suoi amici egiziani hanno iniziato a twittare Where is Giulio? Dopo pochi minuti tutti questi tweet sono spariti perché si è deciso, in accordo con l’ambasciata italiana al Cairo, di procedere secondo le consuetudini egiziane di non fare "outing" nel caso di un congiunto desaparecido ma di avviare le ricerche in modo informale e fare pressione sulle autorità locali. Questa decisione è centrale per rivelare il clima di spavento e preoccupazione per la propria persona che probabilmente la cerchia di amici di Giulio viveva nel contesto e nel clima della dittatura militare egiziana. È possibile anche che si sia trattata di una semplice sottovalutazione del rischio, che coinvolge - come è stato scritto - anche le responsabilità dell’Università inglese in materia di risk assessment sui temi della ricerca del dottorando. A questo punto torna prepotentemente in campo la pista dell’arresto sommario di uno straniero, avvenuta per mano della polizia egiziana. Tutte le testimonianze fornite fin qui sui poliziotti in borghese e l’arresto mirato di una "spia" sono sembrate davvero fabbricate e prive di riscontri credibili. Almeno due domande: se davvero ritenevano che Giulio fosse una spia perché non avrebbero perquisito la sua casa e avrebbero addirittura fatto ritrovare il suo computer? Al momento dell’arresto devono essere emersi elementi indiziari contro il giovane ricercatore che hanno fatto insospettire i poliziotti. Forse il suo accento, forse i numeri sul cellulare o altro. Questo ha potuto far prolungare l’arresto o portare al passaggio di mano da un apparato all’altro che anche noi abbiamo vissuto al momento del nostro arresto il 2 febbraio 2011. O addirittura, se davvero la polizia stava mirando a quel gruppo di persone che partecipava ad assemblee sindacali, si potrebbe anche ipotizzare lo scambio di persona perché nella sua cerchia di amici Giulio era il più lontano dall’identikit di attivista dichiaratamente politico. È possibile che gli interrogatori siano andati avanti per giorni. A quel punto Giulio è stato torturato come solo la Sicurezza di Stato sa fare. Nei giorni scorsi sono emerse indiscrezioni dall’autopsia italiana che rivelano scariche elettriche ai genitali, emorragia celebrale e sette costole rotte. Insomma un trattamento da spia che Giulio non era. Forse il giovane ricercatore si è strenuamente rifiutato di fare i nomi della sua cerchia di contatti e amici o è stato nelle mani di veri macellai. A quel punto il ragionamento dei carnefici egiziani è stato: "punirne uno per educarne cento". Far ritrovare il cadavere, solo dopo la telefonata del ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, al suo omologo egiziano può apparire un errore dei suoi carnefici o altro. Ma in realtà era la prova essenziale, da una parte, per chiarire a tutti che Giulio fosse magari un gay o una spia e, dall’altra, per spaventare ogni straniero che voglia seguire le orme del brillante e sfortunato studioso friulano. Egitto: sul caso Regeni smentite e depistaggi, ma Renzi rimane in silenzio di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 febbraio 2016 Dal governo italiano si leva solo la voce del ministro degli Esteri, Gentiloni, che si limita a ribadire: "Non ci accontentiamo di ricostruzioni facili o verità di comodo". È un silenzio mortificante, quello del premier Matteo Renzi davanti alle smentite e ai depistaggi egiziani. Mentre l’ambasciatore di Al Sisi in Italia, Amr Helmy, mantiene il punto fermo sulla versione ufficiale confermando che Giulio Regeni "non è stato arrestato dagli apparati di sicurezza egiziani come citano alcune fonti dei media" e arriva a invitare gli inquirenti italiani a "prendere distanza dai mass-media" perché così richiede la "professionalità delle indagini congiunte", dal governo italiano si alza la voce troppo solitaria del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, a ribadire che "non ci accontentiamo di ricostruzioni facili o di verità di comodo". Risale a venerdì scorso, il giorno dei funerali del giovane ricercatore friulano, l’ultima prudente esternazione del presidente del consiglio che nel porgere le condoglianze alla famiglia fece sapere: "Noi agli egiziani abbiamo detto: l’amicizia è un bene prezioso ed è possibile solo nella verità". Poi più nulla. Eppure non sfugge nemmeno a Renzi che qualcosa non quadri nella "massima collaborazione dalle Autorità Egiziane a tutti i livelli" confermata ancora ieri dall’ambasciatore Helmy. Tanto che gli uomini del Ros e dello Sco inviati al Cairo dalla procura di Roma dovranno attendere gli esiti della rogatoria internazionale formalizzata ieri per poter visionare i materiali delle indagini avviate dalla procura di Giza, i tabulati telefonici di Giulio Regeni o le immagini delle telecamere di sorveglianza dell’area dove presumibilmente il ricercatore si mosse prima del sequestro, nella sera del 25 gennaio. Mentre è ormai appurato che anche il supertestimone che si è presentato presso l’ambasciata italiana al Cairo affermando di aver visto due poliziotti in borghese portarsi via Giulio attorno alle 17.30, è solo l’ultimo tentativo di depistaggio delle indagini italiane, come dimostrano i contatti telefonici e via Facebook che Regeni ebbe con la fidanzata e con il professor Gervasio. E ad ammettere che "dall’Egitto non sta arrivando la verità" che l’Italia dovrebbe "pretendere", è stato il presidente della commissione Esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini, che in un’intervista a Qn afferma: "Il governo egiziano per difendersi dalle minacce jihadiste ha messo in campo tutti i mezzi leciti e anche quelli non sempre leciti. Apparati che dipendono dalle forze armate e altri dal ministero dell’Interno e io temo che questa storia si collochi in una sorta di antagonismo e competitività tra pezzi dello Stato. Non escludo che per un drammatico eccesso di zelo di qualche apparato si sia ritenuto il nostro giovane parte di un puzzle più ampio e pericoloso per lo Stato. È ormai acclarato - conclude Casini - che le torture e l’atroce strazio di Regeni siano state un’opera di killeraggio da parte di gruppi di squadre speciali". Anche il capogruppo di Sinistra Italiana alla Camera Arturo Scotto ha rinnovato l’invito al governo Renzi di mostrare più fermezza nel rifiutare "di essere presi in giro da un regime autoritario". Eppure ieri Gentiloni, a Bruxelles per il Consiglio degli Affari esteri dell’Ue, a domanda si è limitato a rispondere: "Sul caso Regeni il governo italiano mantiene una posizione molto ferma. La nostra partnership, che è una partnership importante, deve anche tradursi, in casi come questi, in una piena collaborazione per l’accertamento della verità. È chiaro che noi non è che ci accontentiamo di ricostruzioni facili o di verità di comodo, ed è altrettanto chiaro che il passare del tempo non attenuerà il nostro impegno su questa questione". Il passare dei giorni però gioca a favore di chi vorrebbe che la morte di Giulio Regeni, al quale è stato inflitto probabilmente lo stesso trattamento riservato a centinaia di oppositori di regime, finisse nel dimenticatoio. Ma il ministro Gentiloni mostra invece molta pazienza: "Nei prossimi giorni faremo il punto con il team investigativo che è da una decina di giorni al Cairo per verificare i frutti di una collaborazione che noi ci aspettiamo, e che ci aspettiamo sia piena e totale da parte delle autorità egiziane". Nell’attesa, altri accademici amici di Giulio si sono mobilitati con un altro appello, dopo quello firmato da 4.600 docenti e studiosi di tutto il mondo. Ieri Hannah Waddilove, ricercatrice all’Università di Warwick, e Neil Pyper, docente e amico di Regeni a Cambridge, hanno inviato una lettera al governo britannico affinché prema sulle autorità egiziane per chiedere verità e giustizia. Sostengono i due accademici che quel terribile omicidio di un giovane ricercatore dell’università britannica configura una "violazione della libertà accademica" e, più in generale, un attentato ai principi di libertà. "Come parte del nostro sforzo, come parte della società civile a tutela della libertà accademica, in particolare in quei Paesi in cui il pericolo della violenza è reale, - scrivono i due firmatari - chiediamo a tutti di aderire a una petizione rivolta al Parlamento britannico per chiedere che ci aiuti a far sì che il caso di Giulio sia sottoposto a un’investigazione indipendente e imparziale". Siria: ciò che resta di Aleppo di Andrea Riccardi Avvenire, 16 febbraio 2016 Stiamo assistendo alla battaglia di Aleppo. La città è morta, nonostante tanti ancora sopravvivano tra le sue rovine. Un tessuto urbano prezioso è stato sconvolto. L’ambiente è ormai invivibile. L’assedio dura dal 2012. Hanno lasciato la città tanti aleppini che potevano farlo. La gente di Aleppo sente che non c’è più futuro, nonostante vanti una continuità abitativa in quel luogo per quasi cinquemila anni. Ora, con l’offensiva russo-siriana, decine di migliaia fuggono verso la frontiera turca, ormai chiusa. Ma quante frontiere si sono chiuse e si stanno chiudendo ai siriani in Medio Oriente e in Europa! Il mondo aleppino, vero patrimonio dell’umanità, è finito. Purtroppo, tanti uomini, donne e bambini hanno perso la vita o hanno vissuto inenarrabili sofferenze in anni di bombardamenti, scontri e isolamento. Perché tutto questo? Scrivo volentieri per cercare una risposta sulle pagine di un giornale che, per settimane, con coraggio ha sostenuto l’appello, Save Aleppo. L’avevo lanciato il 22 giugno 2014 perché bisognava salvare la città: "Salvare Aleppo val più di un’affermazione di parte sul campo". Aleppo poteva essere l’inizio di un processo di pacificazione o almeno una tregua che fermasse la guerra: in quell’area specifica e magari, poi, regione dopo regione. Nessuno ha avuto interesse a salvare Aleppo. Non l’hanno fatto i "ribelli", che occupavano la parte della città ora attaccata e bombardata dai siriani e dai loro alleati. Il Daesh in quei giorni, era ebbro della proclamazione del califfato, e oggi - mi pare - le vite umane hanno ancor meno valore per questa realtà criminale. Lo stesso potrebbe dirsi delle propaggini locali di al-Qaeda. Il mondo della cosiddetta opposizione, frantumato in conflitti interni, non ha colto come salvare Aleppo fosse segno di maturità responsabile. Gli interessava? Non interessava a chi ha creduto di guadagnare con il caos, come la Turchia o l’Arabia Saudita. Dispiace dirlo. Le rovine di Aleppo restano un atto di accusa, come quelle di Varsavia nella seconda guerra mondiale. Sono anche un atto di accusa per il governo di Damasco, che - assieme a tante crudeltà - si è squalificato fin dall’inizio bombardando il suo stesso popolo. Questa politica ha coinvolto i suoi alleati, tra cui un grande paese come la Russia. Per molti, tra cui i cristiani, Assad è il male minore. Ma come è stato possibile credere che la sua vittoria avrebbe salvato la Siria? Quanto tempo è passato, mentre Aleppo e la Siria morivano. Questo scialo di tempo e di vite umane è avvenuto per il fanatismo di alcuni e il perseguimento cinico dell’interesse di parte di troppi. È mancato un coraggioso realismo, capace di comporre i diversi interessi con la sopravvivenza di Aleppo. Pur di non trattare con i russi, gli americani e gli occidentali hanno confidato su forze divise, sempre più radicalizzate, trasformiste, anche se non sono mancati combattenti per la libertà. Bisognava negoziare presto. E invece ciascun attore ha fatto una politica di parte, senza capire che così - con la guerra - tutto era perduto. Le rovine di Aleppo testimoniano come la parzialità, il settarismo, il cinismo, abbiano portato alla fine della "città del vivere insieme", perduta per sempre. Forse alcuni saranno contenti di questo fallimento. Non noi, che crediamo che democrazia sia, appunto, vivere insieme. Non i musulmani che vedono il nome dell’islam ridotto a fanatismo. Non i cristiani, che hanno perso una presenza bimillenaria in un crocevia storico. Mi ricordo la bella cattedrale armena dei Quaranta Martiri, cominciata nel XV secolo, ora una rovina: era stata testimone della generosità di Aleppo nel 1915 verso i deportati armeni. Il "Washington Post" parla ora di una "miniguerra mondiale" attorno alla città. È un "gioco" pericoloso - come si è visto con la vicenda dell’aereo russo abbattuto dai turchi -, che rischia innalzamenti di tensione. Questo pericolo ha spinto alle scelte di Monaco, che vanno applicate e ampliate. Di fronte a questa guerra, la nostra opinione pubblica è stata incerta, divisa, impotente e indifferente, incapace di chiedere, innanzitutto, di salvare Aleppo. Non si tratta dell’iniziativa dell’uno o dell’altro, ma di vite umane e di una città-simbolo della civiltà. Non si è capito che salvare Aleppo potesse essere un punto di svolta e una battaglia di civiltà. Ora, per lealtà a quelli che resistono alla voglia di fuggire dalla città, per rispetto dei tanti caduti e profughi, bisogna fare presto a salvare Aleppo. Almeno quello che ne resta. Siria: terrore e morte nell’ospedale colpito dai missili di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 16 febbraio 2016 Il più grave contro quello di Màarat al Numan. Qui i primi due missili provocano la maggioranza delle vittime e i danni più gravi. Quattro minuti dopo altri due fanno strage dei soccorritori. Feriti scaraventati giù dai letti con le flebo ancora nelle vene, lenzuola e camici insanguinati, vetri infranti, camerate e sale operatorie sventrate. È lo scenario provocato dai nuovi attacchi contro gli ospedali in Siria. Il più grave contro quello di Màarat al Numan. Due missili provocano la maggioranza delle vittime e i danni più gravi. La direzione di Medici senza frontiere accusa: gli aerei che hanno sparato, presumibilmente russi o dell’aviazione fedele ad Assad, avevano ordini specifici in merito. I testimoni sul posto raccontano e documentano ora con le immagini diffuse dai loro portatili di feriti scaraventati giù dai letti con le flebo ancora nelle vene, un inferno di macchinari danneggiati, lenzuola e camici insanguinati, vetri infranti, camerate e sale operatorie sventrate dalla potenza degli spostamenti d’aria. Le ambulanze si sono ritrovate bloccate dai calcinacci: impossibile evacuare pazienti e nuovi feriti, strade impraticabili per l’allarme aereo ancora in corso e la consapevolezza che tanto il simbolo della mezza luna rossa non serve a nulla. Sono gli scenari dei nuovi attacchi contro gli ospedali in Siria. Il più grave contro quello di Màarat al Numan. Qui i primi due missili provocano la maggioranza delle vittime e i danni più gravi. Quattro minuti dopo altri due fanno strage dei soccorritori. Nelle stesse ore altri due ospedali nella regione sono bombardati. "Il segno evidente che si è trattato di un’azione deliberata. I piloti degli aerei che hanno sparato, molto presumibilmente russi o dell’aviazione fedele a Bashar Assad visto che sono loro ad operare nella Siria settentrionale controllata dalle milizie ribelli, avevano ordini specifici in merito", denunciano al Corriere della Sera i dirigenti di Medici Senza Frontiere (Msf). "Se fosse stato un errore non sarebbe arrivato il secondo lancio di missili. Il risultato diretto è che adesso almeno altri 40.000 civili restano privi di assistenza medica. Cresce il rischio di epidemie tra i profughi. La situazione sanitaria nel Nord della Siria è a livelli catastrofici", dice il 42enne torinese Massimiliano Rebaudengo, capo missione che da Gaziantep coordina le attività. Un bombardamento inaspettato nella sua sfrontata crudezza. In tempi di guerra, anche se le strutture sanitarie sono già state prese di mira, pazienti, personale sanitario e civili in generale cercano naturalmente zone franche dove la guerra resti fuori dalla porta. Ospedali e cliniche diventano così, nella psicologia collettiva, come isole di pace nel cuore della tempesta. Ma in Siria, in verità, non è mai stato così. I due ospedali colpiti sono a Idlib e nella zona di Azaz, un pugno di chilometri dal confine con la Turchia. "Sono molti mesi che le strutture sanitarie vengono attaccate. Temiamo per il nostro ospedale Al Salama ad Azaz. Vi lavorano 160 dipendenti, che fanno un lavoro gigantesco con oltre 170 visite ambulatoriali quotidiane. In pochi mesi sono stati colpiti e chiusi almeno 9 ospedali", ci diceva tre giorni fa la fiorentina Olivia Tanini, numero due della missione di Msf. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità e Medici per i diritti umani, dal 2011 il fronte legato a Damasco è responsabile di almeno il 90% dei circa 340 attacchi contro 230 strutture sanitarie. Già nel 2012-13 il regime o le sue squadracce in civile applicavano la strategia del terrore contro la popolazione. Nei villaggi appena riconquistati ai ribelli tra le prime misure c’erano le esecuzioni di medici, infermieri e farmacisti. I siriani dovevano capire sulla loro pelle che chiunque stesse con la ribellione era privato di aiuto sanitario. Polizia e militari avevano ordine di arrestare sul posto chi avesse con sé medicine per trattare ferite gravi o in quantità superiori ad una dose. Siria: come uscire dal caos, i 7 punti che spiegano una situazione ormai troppo intricata di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2016 Primo. Il problema lo hanno creato gli Stati Uniti nel 2003 frantumando l’Iraq e loro devono risolverlo. Non hanno espresso una chiara intenzione di farlo e adesso non riescono a gestire i disastri provocati fomentando in Siria una guerra per procura insieme a inefficaci e inaffidabili potenze sunnite. L’ultimo esempio, dopo l’Isis, è lo Yemen, dove hanno dato via libera a Riad e vediamo con quali risultati devastanti. Da questo punto di vista Obama e Kerry, come scrive anche il Wall Street Journal, sono meno credibili di Putin e questo è stato percepito da tutto il mondo occidentale e musulmano. Secondo. La tregua di Monaco non ferma la guerra in Siria. Anche avere dei corridoi umanitari sarà purtroppo assai difficile, in particolare ad Aleppo, lo dice anche il ministro italiano degli Esteri Gentiloni. La guerra finisce con la guerra, bisogna decidere di dare credito a chi se lo è guadagnato sul campo di battaglia. Tre. Il primo passo è fermare i bombardamenti della Turchia sui curdi siriani che continuano nonostante gli appelli internazionali. Offrire al fronte sunnita un compromesso territoriale: Aleppo e la direttrice Nord-Sud con Damasco ad Assad e ai russi. Il resto della Siria e dell’Iraq, se lo vogliono, lo possono liberare dal Califfato le potenze sunnite insieme agli americani. Sarà da vedere però come i turchi e i sauditi combatteranno l’Isis, cosa che non hanno mai fatto, e poi amministreranno questa area da truppe occupanti. Ma è esattamente questo che profilano Riad e Ankara e anche Washington, che nel marasma decisionale non sa più che pesci prendere. Quattro. Per gli amanti dell’horror diplomatico, dovrà forse essere formato un contingente di caschi blu per sorvegliare eventuali tregue. Sappiamo bene quali successi abbiano colto in passato ma proviamoci ancora una volta. Quinto. Soluzione politica e confini. Non c’è soluzione ed è questo uno dei motivi principali per cui la guerra va avanti. L’unica soluzione appoggiata da Usa e Russia è confermare le vecchie frontiere come in una fiction: nessuno ha voglia di mettersi a fare spartizioni se non creando entità autonome simili al Kurdistan in Iraq. Sesto. L’Italia deve restare fuori dall’Iraq con le truppe. Abbiamo già il problema della Libia che per altro non abbiamo creato noi. Quanto alla diga di Mosul, i genieri americani continuano a lanciare allarmi: visto che Washington sa tutto della situazione perché gli Stati Uniti non mandano i loro soldati già presenti sul campo a sorvegliare la diga? Al primo soldato morto o al primo attentato in Italia comincia la litanìa del "perché ci siamo andati". E infatti non c’è alcuna ragione strategica per andarci. Settimo. Dal caos non si esce né oggi ne forse tra dieci anni. Le previsioni fatte nel 2001, nel 2003 e nel 2011 sono lì a confermarlo. Buona fortuna a tutti. "Zomba", la band dei carcerati fa sognare il Malawi di Michele Farina Corriere della Sera, 16 febbraio 2016 Zomba: sembra il nome di una danza. O di una band scatenata. Nella grande notte dei Grammy Awards a Los Angeles, tra pesi massimi come Taylor Swift e Rihanna, un posto se lo sono conquistato gli artisti della Zomba. In gara nella categoria world music, accanto a star del calibro di Gilberto Gil e Angelique Kidjo. L’album I have No Everything Here è parecchio autobiografico. Il gruppo viene dal Malawi, e ci resterà per sempre. Nessuno ha potuto prendere un volo per Los Angeles. Perché la "Zomba Prison Band" è per definizione una band "incatenata". Lo studio di registrazione, se così si può dire, sta di fianco al loculo della falegnameria, dentro il carcere più famigerato di un piccolo Paese incastonato nel cono (d’ombra) dell’Africa del Sud. Sedici artisti, 14 detenuti più due secondini. Ergastolani come Elias Chimeneya, 40 anni, che ha fatto fuori la zia, autore di Jelous Neighbor, vicino geloso. O le tre sorelle Mtemang’ombe, che hanno ucciso a bastonate e dato alle fiamme la figlia undicenne di una di loro, perché sembrava "posseduta dal demonio". Stefano Nyerenda, 30 anni, dietro le sbarre dal 2009 per rapina, canta un brano sul maschilismo africano che potrebbe anche andare a Sanremo e che fa così: "Quando le donne sono dal parrucchiere / gli uomini dormono / Quando le donne sono al mercato a vendere cipolle / i loro mariti dormono / Quando gli uomini si svegliano / tutto quello che sanno fare è suonare il bawo". Thomas Binamo, 42 anni, è la guardia che nel 2008 ha cominciato a insegnare musica a Zomba, 2.400 detenuti in uno spazio da 800. Il progetto iniziale prevedeva una band che divulgasse la campagna governativa anti-Aids. Il brano firmato da Binamo, Please, Don’t Kill My Child, parla di una forma di delitto non rara in Malawi: "È un problema nelle nostre comunità - ha detto Binamo al New York Times. C’è gente gelosa del successo degli altri che si vendica uccidendone i figli". Zomba, nel Sud del Paese, non sembra un posto dove andare in cerca di nuovi talenti. L’ha fatto Ian Brennan, 49 anni, produttore americano che bazzica i margini del mondo. Si è spinto anche ai margini dei margini, nell’ala femminile (35 donne più 3 bambini) che non era stata coinvolta nel progetto. Si è fatta avanti Gladys Zinamo: "Non abbiamo nulla, ma ci piace cantare". Comunque vada, sarà ricordata come una grande notte. Per tutto il Malawi, afflitto di questi tempi dalla grave siccità che ha colpito l’Africa. I have No Everything Here lo potrebbero dire in molti laggiù. Arrivare in finale ai lontani Grammy, tra le luccicanti star di Hollywood, non cambierà la vita a nessuno. O forse sì?