Quando capisci che l’altro, il bandito, potresti essere tu, cambia tutto Il Mattino di Padova, 15 febbraio 2016 La discussione su come nel nostro Paese l’informazione parla di pene e di carcere ha coinvolto lunedì scorso, dentro la galera, 120 giornalisti, ai quali forse ora sarà un po’ più difficile parlare di "mostri" quando parleranno di persone che hanno commesso un reato. Un esempio del confronto che ne è nato è da una parte l’intervento di un ergastolano che ha spiegato quanto è disumana la pena senza speranza, quella che finisce nel 9999, e dall’altra la riflessione di un giornalista che, entrato in carcere per la prima volta per partecipare a questo seminario di formazione, di fronte alle testimonianze delle persone detenute ha messo in discussione le sue certezze fino a porsi la domanda che più dovrebbe turbare i cittadini perbene: "Sono proprio sicuro che non mi sarei mai comportato allo stesso modo?". Dedicato ai giornalisti, che sono convinti che in Italia l’ergastolo non lo sconta nessuno Inizio il mio intervento confidandovi che per venticinque anni ho sempre pensato che mi avrebbero liberato solo quando avrei finito di scontare la mia pena, cioè nell’anno 9999, come c’è scritto nel mio certificato di detenzione. E vi rivelo che ormai avevo finito tutti i miei ricordi di quando ero un uomo libero. Lo scorso mese, grazie a una coraggiosa ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Venezia che mi ha tolto l’ergastolo ostativo che mi vietava di usufruire di qualsiasi beneficio, sono uscito in permesso qualche giorno per la prima volta a casa e adesso ho dei ricordi nuovi che mi aiutano a fare sera e a fare mattino. Adesso vi voglio raccontare brevemente cosa prova un uomo che esce dal carcere dopo venticinque anni. È difficile uscire dal carcere senza portarti il carcere sulle spalle, specialmente se sai che dopo qualche giorno ci devi ritornare. Vi confido che una volta fuori la prima cosa che noti sono i rumori poi gli odori della libertà. Subito dopo ti senti come un cieco che apre gli occhi. Ti sembra di essere come un morto che è uscito da una tomba. Ti senti stupito persino dallo stesso stupore che provi e geloso che il tuo cuore ti nasconde parte delle tue emozioni forse per farti soffrire di meno. Fuori ti accorgi che ogni secondo è un istante di vita, di vita vera. E assapori tutto quello che ti circonda. E pensi a quanta vita c’è fuori mentre dentro tutto è buio e morto. Sorridi e vivi. Ti commuovi e ti senti felice. Ti sembra di vedere migliaia di arcobaleni. A tratti ti senti come un ladro che sta rubando un po’ di libertà e amore alla vita. Una volta a casa sei preso da mille pensieri. Ti accorgi che la felicità, la libertà è bella, ma stanca. E io non ci sono più abituato. E ti accorgi com’è bello affacciarsi a una finestra senza sbarre o camminare per strada tenendo per mano la persona che ami. Ti accorgi che la vita vissuta è diversa da quella immaginata e che hai sognato per un quarto di secolo. Ti sembra che le persone ti osservino. Per non dare nell’occhio ti sforzi di non guardarli. E hai paura che quello è un modo di vivere che non ti appartenga più. Un giorno la mia compagna mi porta al bar e vuole che paghi io per abituarmi. Mi sento a disagio. Non mi sento all’altezza della situazione. E mi accorgo che la cassiera mi osserva in modo strano. Confondo il valore delle banconote. Per fortuna interviene la mia compagna a salvarmi da una figuraccia. I miei figli mi sembra che mi guardano in modo preoccupato e che vogliono leggere nei miei pensieri. Gli specchi di casa mi fanno paura. Non sono più abituato a vedere il mio corpo per intero. Mi sembra di vedere l’immagine di un estraneo perché in carcere possiamo vedere di noi solo il viso. Dopo tanti anni bevo con i bicchieri di vetro e mi ero dimenticato che pesano così tanto. Mi cadono facilmente bicchieri e tazzine per terra. Per fortuna la mia compagna non s’arrabbia. E questo mi fa arrabbiare un po’ perché mi sembra che mi tratti come un convalescente o un reduce di guerra. Penso che per non disabituarmi a vivere mi ero battuto, disperato con il corpo, la mente e il cuore contro il carcere per tanti anni, ma mi accorgo che fuori è dura ricominciare a vivere. Con i miei nipotini va un po’ meglio. Mi apparto spesso con loro. Sono diretti. Mi trattano come uno di loro. E non hanno timore a dirmi quello che pensano. E mi dicono che sono un po’ imbranato e rimbambito e mi fa piacere che mi dicono, a differenza dei grandi, quello che pensano di me. All’improvviso è già il giorno di rientrare in carcere. E imparo qualcosa su di me che non sapevo. Imparo che non sono poi così coraggioso come pensavo perché non mi è facile tornare in carcere sapendo che la mia pena finirà nell’anno 9999. Credo che la legge degli uomini spesso è più dura e crudele dei reati che abbiamo commesso. Penso anche che non c’è vita senza amore. E in carcere purtroppo non c’è amore. Poi sono di nuovo dentro. E adesso sono qui davanti a voi. Carmelo Musumeci, ergastolano In fondo siamo molto più simili di quanto il cinismo ci voglia far credere Premessa: prima o poi doveva succedere. E oggi sono finito in carcere. Nel 1959, Truman Capote lesse sul giornale un trafiletto relativo all’uccisione di una famiglia nella profonda provincia americana. Senza pensarci troppo, raggiunse il villaggio di Holcomb e seguì tutte le indagini e il successivo processo. Trascorse sei anni della sua vita a scrivere su questa vicenda un libro, che si intitola "A sangue freddo". Se pensate che l’interesse del suo autore fosse legato alla gravità dei fatti di sangue, siete fuori strada: nessuno ricorderebbe questa vicenda efferata se Truman Capote non avesse deciso di raccontarla. Perché allora uno scrittore già affermato, reduce dai fasti di "Colazione da Tiffany", si immolò a un episodio oscuro della storia patria? Credo che la risposta sia abbastanza semplice: la consapevolezza che al posto di Perry, uno dei due omicidi, avrebbe potuto esserci lui. Perché il confine tra bene e male è labile e spesso questione di occasioni e circostanze. Quando capisci che l’altro, il bandito, potresti essere tu, cambia tutto. Non puoi più fare finta che questa cosa non ti tocchi, non sia un po’ anche tua. Ne ho avuto conferma oggi, durante una giornata di formazione al carcere Due Palazzi di Padova. Oltre ai relatori professionisti, hanno preso la parola alcuni detenuti. Emozionati come bambini, questi uomini che hanno infranto la legge si sono rivelati appunto per quello che sono, uomini. Non mostri. Ho letto, su quei visi segnati, debolezza e sfortuna e destini sbagliati; ma non un’intrinseca malvagità, il marchio di fabbrica del "cattivo". Ascoltando la testimonianza di una ex brigatista e quella di un ex componente della mala del Brenta, mi sono addirittura commosso: cazzo, sono così fragili! Non dimentico le loro azioni, ma pensavo: chissà cosa gli è successo? Come posso giudicarli in base a un blackout della ragione, a un azzeramento di amore che a loro è sembrato magari il supremo gesto d’amore? Sono proprio sicuro che non mi sarei mai comportato allo stesso modo? Mentre loro, i carcerati, scorticavano in pubblico la loro anima, diventavano lo specchio di noi spettatori "innocenti", facendoci sentire che in fondo siamo molto più simili di quanto il cinismo ci voglia far credere. "A sangue freddo" uscì nel 1965 e dopo quel libro Truman Capote non scrisse nient’altro. Immedesimandosi così a fondo nell’assassino, era giunto alla radice ultima dell’umanità, al fondo del dolore, a quella linea a volte invisibile che unisce il male al bene. Sentì che la scrittura arrancava inutilmente. Non c’era altro da scoprire; e a un certo punto smise di provarci. Alessandro Zaltron, scrittore Per tagliare l’arretrato i Tar ora puntano sul processo telematico di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2016 I Tar continuano a disfarsi dell’arretrato: l’anno scorso le cause pendenti sono diminuite di quasi il 10% (più di 25mila in meno rispetto al 2014), fermandosi a quota 241mila. Non così al Consiglio di Stato, dove l’arretrato è, invece, cresciuto del 5,4%, cosicché a inizio anno Palazzo Spada si è trovato a dover tener conto di oltre 26mila fascicoli in lista d’attesa. Nel complesso, però, l’operazione di smaltimento dei vecchi ricorsi ha dato i suoi frutti: si è, infatti, passati da un totale (Tar più Consiglio di Stato) di 467mila fascicoli pendenti nel 2011 ai 268mila dell’anno scorso (si veda il grafico). L’obiettivo è fare in modo che l’opera di erosione non solo continui, ma viaggi più spedita. Le speranze sono riposte nel debutto del processo telematico, che dopo tanti rinvii dovrebbe partire il primo luglio. Le regole tecniche - la cui mancanza aveva indotto il legislatore a differire più volte l’esordio del processo senza carta - sono finalmente arrivate e aspettano di essere pubblicate. I primi passi - Si passa, dunque, alla sperimentazione, che coinvolgerà alcune sezioni di Tar, una sezione di Palazzo Spada e anche gli avvocati. La sfida è impegnativa, non solo perché i tempi sono stretti. Per quanto infatti l’infrastruttura del nuovo processo - ribattezzata Nsiga (Nuovo sistema informativo della giustizia amministrativa) - sia pronta da tempo, adesso si tratta di attivarla in poco più di quattro mesi e fare in modo che il primo luglio tutto sia pronto. Anche perché, a differenza di quanto accaduto per la giustizia civile, il processo telematico dei Tar e del Consiglio di Stato non prevede fasi di avvicinamento: dal momento del debutto si dirà addio alla carta e tutti i passaggi processuali - dal deposito del ricorso agli atti successivi, dalle comunicazioni di segreteria fino alla scrittura e pubblicazione della sentenza - avverranno in modalità digitale. La giustizia amministrativa è, dunque, a un momento di svolta. Come sottolineerà il presidente Alessandro Pajno nella sua prima relazione di apertura dell’anno giudiziario che terrà domani mattina a Palazzo Spada alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Occasione che rappresenterà anche l’insediamento del nuovo presidente del Consiglio di Stato. Il turn over - Una svolta rappresentata pure da un sensibile ricambio generazionale. L’abbassamento dell’età della pensione a 70 anni, insieme alla decisione di qualcuno di lasciare anticipatamente la magistratura, ha portato 18 consiglieri di Stato e 21 giudici dei Tar a rimanere a casa a partire dal 1° gennaio scorso. Un significativo impatto sugli organici, che già erano in sofferenza. Al momento a Palazzo Spada, su una dotazione di 105 magistrati, ce ne sono in servizio 64 e 12 fuori ruolo o in aspettativa. Nei Tar, su un organico di 403 magistrati, quelli presenti sono 294, più 6 fuori ruolo o in aspettativa. Vuoti a cui si sta in parte cercando di porre rimedio con un concorso a 5 posti di consiglieri di Stato, le cui prove scritte si svolgeranno dall’11 al 16 aprile prossimo. A questi dovrebbero aggiungersi i 10 consiglieri di Stato di nomina politica(ma potrebbero, dopo un’ulteriore ricognizione delle uscite, essere 13), designazioni che si aspettano dalla Presidenza del consiglio. Nei Tar invece si confida nei 45 referendari (il primo gradino della carriera)che usciranno dal concorso le cui prove si svolgeranno tra il 17 e il 20 maggio prossimo. Nuovi arrivi a cui nel triennio 2016-2018 se ne aggiungeranno altri 29, mentre sempre nei Tar è all’orizzonte un concorso per 78 giudici. Apriamo ai detenuti le porte delle emozioni. Con la musica di Franco Mussida Corriere della Sera, 15 febbraio 2016 L’iniziativa di uno dei fondatori della PFM in venti carceri italiane. "L’unica libertà che non deve essere persa è quella del sentire del cuore". Prima di tutto andate sul sito co2musicaincarcere.it. Se siete musicisti, suonate uno strumento o semplicemente vi sentite amanti della musica, seguite le istruzioni che trovate sul sito e offrite un po’ della vostra sensibilità musicale, suggerendo i brani di musica strumentale che amate (non canzoni) associandoli a uno dei nove grandi stati d’animo che trovate indicati. Li inseriremo in speciali audioteche poste in alcune carceri italiane e, attraverso un particolare metodo di ascolto, la vostra musica risuonerà nel cuore dei detenuti che l’ascolteranno e confronteranno le loro emozioni con le vostre. È un modo per aiutare a rimettere in moto il mondo arcobaleno dei loro sentimenti, schiacciato, oppresso dal nero dell’odio e del risentimento che in quei luoghi si vive, per portare cultura ed educazione emotiva li dove c’è bisogno. Un appello partito da Sanremo. Questa volta però non ci sono andato per fare l’ospite all’Ariston, come è capitato alcune volte quando ero con la PFM, ma per parlare a tutti i musicisti italiani. L’ho fatto durante la presentazione del bel libro postumo di poesie di Pino Mango, invitato da Laura Valente. L’appello è consistito nell’incitare i musicisti a suggerire brani strumentali attraverso co2musicaincarcere.it, indicando, oltre al titolo, l’emozione che ciascuno ha provato ascoltandoli. Un brano di una colonna sonora, di musica etnica, classica, jazz, pop, elettronica... Per i musicisti e gli amanti del suono organizzato la musica è una gioia; un meraviglioso mezzo per vivere e far vivere i nostri più intimi sentimenti. Ma in carcere, per limitare il dolore di quella condizione, vengono soffocati anche quelli che aiuterebbero ad alleviare quel dolore. Le audio-teche per ora sono quattro: Opera, Monza, Secondigliano, Rebibbia femminile. Diventeranno presto una ventina. Il progetto si chiama CO2, è sostenuto dal ministero della Giustizia col patronato della presidenza della Repubblica. Organizzato dal CPM Music Institute, è sovvenzionato dalla Nuova Siae, che con questa iniziativa sociale offre il sostegno degli autori, dei compositori, degli artisti di tutti i comparti creativi e della discografia, aprendo una diversa stagione nella gestione di questo ente. La genialità dei musicisti di tutte le epoche e di tutti gli stili potrà cosi essere goduta anche in quei luoghi in cui l’unica libertà che non deve essere assolutamente persa è quella del sentire del cuore. Vi ringrazio, e vi chiedo di diffondere a tutti questo appello. L’attualità del rischio di recidiva può ricorrere anche con detenzione per altra causa di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 18 dicembre 2015 n. 50027. L’attualità del rischio di recidiva è condizione che ben può ricorrere anche in caso di detenzione per altra causa, anche per effetto di condanna definitiva, in considerazione dei molteplici benefici che l’ordinamento prevede per l’attenuazione del regime carcerario. Così si è espressa la Cassazione con la sentenza 50027 del 2015 in materia di misure cautelari personali. Il rischio di recidiva - In particolare, ai fini della valutazione della sussistenza del rischio di recidiva, la modifica normativa di cui alla legge 47 del 2015, che al requisito della concretezza, ha affiancato anche quello dell’attualità, non costituisce una effettiva novità, nel senso cioè che in precedenza l’attualità non fosse necessaria, giacché si limita solo a confermare la correttezza di quell’orientamento giurisprudenziale che, pure in precedenza, riteneva necessario che le esigenze cautelari, per essere concrete, non potevano che essere anche attuali. La ragione della modifica, in questa prospettiva, confermando questa interpretazione, mira solo a garantire una maggiore attenzione nell’applicazione delle misure, senza che peraltro risulti necessario ricercare una attualità delle esigenze di cautela (intesa quale "riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di reati") che si aggiunga al parametro della concretezza delle esigenze di cautela, perché, secondo la richiamata interpretazione, già la concretezza, intesa in senso corretto, ricomprende in sé anche l’attualità. Altri orientamenti - In senso diverso, e più rigoroso, si veda peraltro sezione III, 19 maggio 2015, Sancimino, che accredita un significato innovativo nelle modifiche introdotte dalla legge 16 aprile 2015 n. 47, attribuendo un diverso significato ai parametri della concretezza e della attualità delle esigenze di cautela. Secondo tale decisione, in sostanza, ai sensi dell’articolo 274, comma 1, lettera c), del Cpp, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 16 aprile 2015 n. 47, che ha previsto anche il requisito della attualità del rischio di recidiva, per ritenere attuale il pericolo concreto di reiterazione del reato, non è più sufficiente ipotizzare che la persona sottoposta alle indagini/imputata, presentandosene l’occasione, sicuramente (o con elevato grado di probabilità) continuerà a delinquere e/o a commettere i gravi reati indicati nello stesso articolo 274, comma 1, lettera c), del Cpp (in ciò consistendo la concretezza del rischio di recidiva), ma è necessario ipotizzare anche la certezza o comunque l’elevata probabilità che l’occasione del delitto si verificherà. Ne consegue che il giudizio prognostico non può più fondarsi sul seguente schema logico: "se si presenta l’occasione sicuramente o molto probabilmente, la persona sottoposta alle indagini/imputata reitererà il delitto", ma dovrà seguire la seguente, diversa impostazione: "siccome è certo o comunque altamente probabile che si presenterà l’occasione del delitto, altrettanto certamente o comunque con elevato grado di probabilità la persona sottoposta alle indagini/imputata tornerà a delinquere". In altri termini, secondo questo diverso orientamento, se la concretezza significa esistenza di elementi concreti (cioè non meramente congetturali) sulla cui base possa argomentarsi il rischio cautelare, il requisito dell’attualità impone un ulteriore sforzo motivazionale, risultando necessario che il rischio cautelare si basi su riconosciute "occasioni prossime favorevoli", accreditanti, per quanto interessa, il rischio della reiterazione del reato. Configurabile il reato di stalking se gli atti hanno destabilizzato la vittima di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 16 dicembre 2015 n. 49613. Ai fini della configurabilità del delitto di atti persecutori (stalking) (articolo 612-bis del Cp), la sussistenza del grave e perdurante stato di turbamento emotivo prescinde dall’accertamento di uno stato patologico conclamato, essendo sufficiente che gli atti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità dell’equilibrio psicologico della vittima. Lo hanno precisato i giudici della Suprema corte con la sentenza 49613/2015. Un reato di evento - Come è noto, lo stalking costituisce un reato di evento, giacché la condotta materiale (reiterati episodi di minacce o molestie) deve avere determinato, in forma alternativa, la realizzazione di uno tra tre tipi di evento: cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero, in alternativa, ingenerare nella vittima un fondato timore per la propria incolumità ovvero, sempre in alternativa, costringere la vittima stessa ad alterare le proprie abitudini di vita. Lo stato di ansia e paura - Qui, la Cassazione si è soffermata sull’evento stato di ansia e di paura, ribadendo l’orientamento consolidato secondo cui è a tal fine sufficiente che gli atti incriminati abbiano avuto un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima (di recente, sezione V, 14 novembre 2012, O.; in termini, sezione V, 1° dicembre 2010, R.), non essendo richiesto l’accertamento di uno stato patologico, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 612-bis del Cp non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (articolo 582 del Cp), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (in termini, sezione V, 10 gennaio 2011, C.; sezione III, 23 maggio 2013, U.; nonché, sezione V, 28 novembre 2013, C.). La prova dell’alterazione - Da ciò deriva, dal punto di vista probatorio, la non necessità del riscontro di tale stato attraverso una certificazione sanitaria, in ipotesi attestante una patologia determinata dal comportamento persecutorio (ad esempio, un certificato medico attestante di una sindrome ansioso depressiva). La prova dell’alterazione, infatti, può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante (sezione V, 28 febbraio 2014, D’E.). Da queste premesse, nella fattispecie qui esaminata la Corte ha ritenuto fattivamente motivata la decisione che aveva desunto la sussistenza dello stato di alterazione dalle stesse dichiarazioni della vittima, che aveva riferito di essersi dovuta rivolgere a uno psicologo e di dover assumere antidepressivi e sonniferi, con indicazioni fattuali confermate dal marito e dal medico di base. Reati fallimentari, la bancarotta impropria Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2016 Società - False comunicazioni sociali - Riforma introdotta dalla L. 69/2015 - Eliminazione dal novero della rilevanza penale delle attività valutative - Conseguenze in tema di bancarotta impropria. In tema di bancarotta impropria da reato societario, di cui all’articolo 223, comma 2°, numero 1, della legge fallimentare, l’entrata in vigore della legge n. 69 del 2015 che ha riformulato gli articoli 2621 e 2622 del codice civile, eliminando l’inciso "ancorché oggetto di valutazioni" ha determinato una parziale abolitio criminis, escludendo dall’ambito della rilevanza penale le condotte che si sostanzino in un’attività "valutativa". • Corte di Cassazione, sezione 5, sentenza 30 luglio 2015 n. 33774. Reati fallimentari - Bancarotta impropria patrimoniale - Iniziativa economica formalmente legittima - Impresa in stato pre-fallimentare - Operazione produttiva di riflessi negativi per i creditori - Reato - Sussistenza. Sussiste il reato di bancarotta fraudolenta impropria patrimoniale anche in presenza di un’iniziativa economica in sé legittima, che si riferisca ad una impresa in stato pre-fallimentare, producendo riflessi negativi per i creditori. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 4 giugno 2015 n. 24024. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta patrimoniale post-fallimentare - Condotta - Forma - Concorso di persone - Possibilità - Ragioni. In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale post-fallimentare impropria, la condotta distrattiva, non potendo essere compiuta interamente dall’amministratore, ad eccezione dei casi in cui la disponibilità dei beni dell’impresa fallita è conservata dallo stesso, si manifesta, di regola, nella forma del concorso di persone nel reato, poiché è necessario il contributo dei soggetti che, in quanto titolari di funzioni nella procedura concorsuale, sono in grado di adottare gli atti dispositivi dei beni del fallimento o di consentire il compimento della azioni distruttive. • Corte di Cassazione, sezione 5, Sentenza 16 aprile 2015 n. 15951. Reati fallimentari - Reati di persone diverse dal fallito - Bancarotta impropria da reato societario - Aggravamento del dissesto - Sussistenza. Il reato di bancarotta impropria da reato societario sussiste anche quando la condotta illecita abbia concorso a determinare solo un aggravamento dell’evento costituito dal dissesto già in atto della società. • Corte di Cassazione, sezione V, Sentenza 15 aprile 2015 n. 15613. Reati fallimentari - bancarotta impropria - circostanza aggravante del danno di rilevante gravità ex articolo 219 comma 1 L.F. - applicabilità. In tema di reati fallimentari, la circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità di cui alla L.F., articolo 219, comma 1, è applicabile alle ipotesi di bancarotta impropria previste dalla L.F., articolo 223, comma 1. Si è osservato che la diversa struttura del reato di bancarotta c.d. "impropria" di cui alla L.F., articolo 223, rispetto alla fattispecie "propria" contemplata dal precedente articolo 216, non può condurre ad una indiscriminata preclusione verso l’applicazione dell’aggravante di cui si discute; e ciò in quanto il citato articolo 223, comma 1, contenendo un rinvio formale a tutti i reati di bancarotta propria puniti dagli articoli 216 e 217 della legge, rende compatibile l’applicazione dell’aggravante in virtù del "raccordo normativo tra la norma incriminatrice e la statuizione della L.F., articolo 219, comma 1, costituito dall’inciso che rinvia alle "pene stabilite dall’articolo 216": inciso che si coniuga con quello della L.F., articolo 219, disposizione quest’ultima che richiama la prima". • Corte di Cassazione, sezione 5, sentenza 18 febbraio 2015 n. 7331. Le false comunicazioni sociali dopo la riforma della legge n. 69 del 2015 Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2016 Società - Reato di false comunicazioni sociali - Modifiche agli articoli 2621 e 2622 cod. civ. introdotte dalla L. n. 69 del 2015 - Distinzione tra società quotate nuovo articolo 2622 cod. civ.) e società non quotate (odierno articolo 2621 cod. civ.) - Delitti di pericolo punibili di ufficio - Diminuzione di pena per fatti di lieve entità ex articolo 2621 cod. civ. - Non punibilità per particolare tenuità del fatto. La L. 69/2015 ha profondamente inciso sulla precedente fisionomia della fattispecie delle false comunicazioni sociali, prima articolata - in una sorta di progressione criminosa - in due distinte ipotesi (la prima, prevista dall’originario articolo 2621 cod. civ., in termini di reato contravvenzionale; la seconda come reato di danno). Sono, ora, previste due distinte tipologie di reato, a seconda che si tratti di società non quotate (odierno articolo 2621 cod. civ.) o quotate (nuovo articolo 2622 cod. civ.), entrambe concepite come delitti di pericolo, punibili di ufficio. Incisivo è stato l’intervento sulla stessa morfologia dell’illecito, mediante l’eliminazione delle soglie di punibilità; mentre, quanto all’elemento soggettivo, alla rimozione dell’inciso con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico ha fatto riscontro l’impiego dell’avverbio "consapevolmente", ferma restando la necessità del dolo specifico (al fine di procurare per sè o per altro un ingiusto profitto. Sono stati, inoltre, introdotti due nuovi articoli, e cioè gli articoli 2621-bis e 2621-ter cod. civ. Il primo prevede una diminuzione di pena, ove i fatti di cui all’articolo 2621 siano di lieve entità, tenuto conto della natura e delle dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta; e prevede, altresì, lo stesso regime sanzionatorio per i fatti di cui allo stesso articolo 2621 cod. civ. (salvo che costituiscano più grave reato), riguardanti società che non superino i limiti indicati dal R.D. n. 267/1942, articolo 1, comma 2 stabilendo, in ipotesi siffatta, la procedibilità a querela della società, dei soci, dei creditori o degli altri destinatari della comunicazione sociale. L’articolo 2621-ter cod. civ. stabilisce, invece, la non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’articolo 131-bis cod. pen., qualora il giudice valuti in modo prevalente, l’entità dell’eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori conseguente ai fatti di cui agli articoli 2621 e 2621-bis. • Corte di Cassazione, sezione V, Sentenza 12 gennaio 2016 n. 890. Società False comunicazioni sociali -­ Nuova formulazione degli articoli 2621 e 2622 del cod. civ. Utilizzo da parte del legislatore di concetti indeterminati Individuazione da parte del giudice Necessità. I concetti di "materialità" e "rilevanza" usati nella nuova formulazione degli articoli 2621 e 2622 del codice civile sono indeterminati. Tale formulazione in termini volutamente generici e indeterminati demanda al giudice il compito di specifica determinazione in relazione alle concrete fattispecie al suo esame. La soppressione, nel nuovo dettato normativo, dell’inciso "ancorché oggetto di valutazioni", non ha alcun rilievo sul piano interpretativo e applicativo delle nuove norme e, pertanto, il falso valutativo continua a essere penalmente rilevante. La locuzione "fatti materiali rilevanti" che figura nei relativi dettati normativi va letta, ed è da intendersi, come "dati informativi essenziali fuorvianti". • Corte di Cassazione, sezione 5, Sentenza 12 gennaio 2016 n. 890. Società - Reato di false comunicazioni sociali - Mancata esposizione in bilancio di poste attive - Modifiche all’articolo 2622 cod. civ. introdotte dalla L. n. 69 del 2015 - Effetto abrogativo - Esclusione. La nuova formulazione dell’articolo 2622 cod. civ., introdotta dall’articolo 11 della L. n. 69/2015, si pone, quanto alla condotta di mancata esposizione in bilancio di poste attive effettivamente esistenti nel patrimonio sociale, in rapporto di continuità normativa con la fattispecie previgente, determinando una successione di leggi penali, ai sensi dell’articolo 2, comma quarto, cod. pen. • Corte di Cassazione, sezione 5, Sentenza 16 settembre 2015 n. 37570. Società - False comunicazioni sociali - Bilancio consolidato della società capogruppo - Regolarità - Bilancio di esercizio della stessa società capogruppo - Falsità - Reato di cui all’articolo 2621 cod. civ. - Configurabilità - Ragioni. In tema di false comunicazioni sociali, la regolarità del bilancio consolidato della società capogruppo non impedisce la configurabilità del reato di cui all’articolo 2621 cod. civ., in relazione al bilancio di esercizio della medesima società, in quanto il bilancio consolidato, siccome funzionale a rappresentare la situazione patrimoniale complessiva dell’intero gruppo societario, è redatto previa eliminazione delle operazioni "infragruppo" e resta perciò nettamente distinto dagli autonomi bilanci di esercizio delle singole società dello stesso gruppo. • Corte di Cassazione, sezione V, Sentenza 5 giugno 2015 n. 24289. Roma: lima e lenzuola annodate per la fuga, in due evadono da Rebibbia di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 15 febbraio 2016 È caccia in tutta Roma a due detenuti romeni, uno dei quali condannato per omicidio. Nel 2014 un episodio analogo. I sindacati: "Soltanto due guardie per 150 reclusi". Hanno seguito l’esempio di due reclusi italiani che erano evasi due anni fa sempre dal carcere di Rebibbia. E così domenica pomeriggio, approfittando dell’ora d’aria, una coppia di romeni, uno dei quali - Catalin Ciobanu, in cella per omicidio e sequestro di persona, hanno segato le sbarre di un magazzino del reparto G11 e, dopo aver scavalcato una recinzione, si sono calati con lenzuola annodate da un muro di cinta. E sono spariti nel nulla. Dalle 18.30 in tutta Roma è caccia all’uomo. I fuggiaschi hanno 28 e 33 anni. Il primo - Florin Mihai Diaconescu - era stato arrestato e condannato per rapina e ricettazione. Controllate le stazioni della metropolitana e delle ferrovie, anche i capolinea dei pullman e dei bus che portano fuori la Capitale. Erano detenuti lavoranti, considerati a bassa pericolosità. Il sindacato: "Servono più agenti della Penitenziaria" - Secondo Massimo Costantino, segretario generale aggiunto della Cisl Fns, "il dato di sovraffollamento dei detenuti presenti nel Lazio è pari a +468. Risultano attualmente reclusi e presenti nei 14 istituti penitenziari regionali 5.747 detenuti (358 donne, 5.389 uomini), mentre la capienza regolamentare dovrebbe essere 5.279. Il dato nazionale ad oggi è di 52.230 detenuti reclusi ( 2.115 donne e 50.115 uomini) con un + 2.648 rispetto ai 49.582 previsti. Attualmente l’istituto Nuovo complesso Rebibbia risulta in sovraffollamento: + 157 rispetto ai previsti 1.235, Regina Coeli (+ 26 rispetto ai previsti 836), Velletri (+117 rispetto ai previsti 408). Secondo Costantino "il personale in servizio di polizia penitenziaria nei 14 istituti penitenziari del Lazio risulta essere sottodimensionato e non più rispondente alle esigenze funzionali degli istituti dove si continua a registrare un esubero di detenuti rispetto alla capienza detentiva prevista. La Fns Cisl Lazio pertanto chiede al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) una maggiore consistenza effettiva di personale della Penitenziaria che consenta lo svolgimento del proprio servizio non solo nelle migliori condizioni lavorative". Il Sappe: "A Rebibbia sistemi di sicurezza fuori uso da tempo" - Per Maurizio Somma, segretario regionale (Lazio) del Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria, "si tratta di due delinquenti molto pericolosi, pluriomicidi. Le carceri sono più sicure assumendo gli agenti che mancano, finanziando gli interventi per far funzionare i sistemi anti-scavalcamento, potenziando i livelli di sicurezza: non è un caso che proprio i sistemi di Rebibbia siano fuori uso da tempo". E per Donato Capece, segretario generale della stessa sigla "altro che vigilanza dinamica, che vorrebbe meno ore i detenuti in cella, senza però fare nulla. Al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il personale della Penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo a un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più agenti, a tutto discapito della sicurezza. Le idee e i progetti dell’Amministrazione penitenziaria, in questa direzione, si confermano ogni giorno di più fallimentari e sbagliati", sostiene Capece. "Fatti come questo creano senso di insicurezza nei cittadini" - Sempre il segretario generale del Sappe rivela: "In quel reparto c’erano soltanto due agenti per controllare 150 detenuti. Nel Corpo c’è una grave situazione di sottorganico". "Il problema degli organici nelle carceri - sottolinea Capece - si riverbera sulla sicurezza delle strutture penitenziarie: fatti come quello accaduto a Rebibbia creano un forte senso di insicurezza tra la popolazione. Torno a fare appello, a nome del sindacato, al ministro della Giustizia Andrea Orlando, al premier Renzi e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria perché affrontino i problemi di organico degli agenti. Avevamo chiesto che nella legge di stabilità si anticipasse dal 2018 al 2016 il turn over di 800 agenti: ci hanno bocciato l’emendamento. Il Corpo di polizia penitenziaria ha complessivamente settemila unità in meno del dovuto. Ogni anno perdiamo circa 1.300 unità per gli agenti che vanno in pensione. Inoltre pesa anche l’età e in tanti reparti molti agenti sono ormai in là con gli anni: sarebbe indispensabile un ricambio per garantire migliore sicurezza delle carceri". Napoli: contro la criminalità la ricetta giusta è più scuola, più lavoro e più sicurezza di Gigliola Alfaro Avvenire, 15 febbraio 2016 Nel capoluogo campano la repressione non basta per fermare l’escalation di violenza e morte che sta seminando in questi ultimi tempi la camorra. Si tratta anche di una battaglia culturale che vede in prima linea impegnate la Chiesa e le associazioni, come spiegano Mario Di Costanzo (formazione socio-politica della diocesi di Napoli), don Franco Esposito (pastorale carceraria della diocesi di Napoli), Antonio Mattone (Comunità di Sant’Egidio), Vito Gurrado (Azione cattolica). Continua a crescere il numero degli omicidi a Napoli e provincia, imputabili alla camorra,, ma sull’idea lanciata dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano, di impiegare l’esercito e di abbassare l’età della punibilità, il dibattito è vivace, mentre è concorde la richiesta di più scuola, più lavoro e più sicurezza per un riscatto reale della città. Scuola a tempo pieno. Il volto della camorra a Napoli è cambiato: ne è convinto Mario Di Costanzo, responsabile della formazione socio-politica della diocesi di Napoli, per il quale, "paradossalmente, l’aver effettuato molti arresti tra i capi ha liberato le seconde, le terze e le quarte file della criminalità organizzata, che per la spartizione delle zone e dei traffici preferiscono l’ultima ratio dell’eliminazione dell’avversario". In questo senso, guarda positivamente all’invio dell’esercito a Napoli: "Il suo utilizzo - evidenzia - dovrebbe servire solo per presidiare alcuni punti sensibili, per concedere più tempo all’attività investigativa delle forze di polizia e dei carabinieri". Ma "Napoli potrà cambiare solamente quando saranno sottratti i figli alle famiglie, perché in certi ambienti è difficile che un bambino possa ricevere un’educazione normale - sostiene. Allora, si dovrebbero promuovere scuole a tempo pieno", ma su questo fronte "ci sono grandi responsabilità della politica, di tipo omissivo: non ricordo un politico, che in campagna elettorale o nell’azione concreta, abbia messo al centro il problema della scuola, perché non è una questione che porta voti". Anche la società civile ha le sue colpe: "C’è una debolezza educativa e nella cultura della cittadinanza". Non a caso, "all’interno del Consiglio pastorale diocesano di Napoli, da poco rinnovato, sono state costituite quattro commissioni, una delle quali si occuperà anche del contrasto all’evasione scolastica". Di Costanzo rammenta anche "l’impegno di diversi parroci per formare risorse sul versante del servizio alla città e gli incontri per giovani promossi dall’ufficio per la formazione socio-politica sulla responsabilità politica". Non serve l’esercito. Don Franco Esposito, direttore della pastorale carceraria della diocesi di Napoli, è netto: "Quello che meno serve è proprio l’esercito per le strade; occorrono, piuttosto, una scuola a tempo pieno, telecamere che funzionino e un’attenzione maggiore alla prevenzione". Per il sacerdote, "dovrebbero essere sostenute quelle realtà positive che possono incidere sul tessuto sociale: le case di accoglienza, le scuole, le associazioni che si impegnano sul fronte educativo". Infatti, racconta, "nella mia esperienza ho sempre toccato con mano che bastano anche 500/600 euro al mese guadagnati con un lavoro dignitoso per aiutare a tagliare i legami con la criminalità. Ad esempio, l’anno scorso la Fondazione con il Sud ha finanziato 30 borse lavoro per giovani provenienti dal carcere e in affido presso il centro di pastorale carceraria. Ora il progetto è finito e questi giovani si ritrovano nella situazione a rischio di prima". Sull’abbassamento dell’età punibile, don Franco non ha dubbi: "Abbassare l’età punibile significa creare dei criminali in erba". Di più: "Noi speriamo che siano eliminate le carceri minorili, sostituite da case di accoglienza per detenuti ed ex detenuti. È così che le persone vengono rieducate per far uscire il bene che c’è in loro". Fare sinergia. "Quando ci sono omicidi a Napoli, ritorna il mantra della punibilità dei minori e dell’arrivo dell’esercito", osserva Antonio Mattone, portavoce della Comunità di Sant’Egidio di Napoli, da sempre impegnata sia nelle carceri sia nei quartieri a rischio della periferia, "per creare una cultura della pace e del rispetto degli altri". Rispetto alla prima questione, "le carceri sono piene di una gioventù bruciata: abbassando l’età della punibilità, non vengono scoraggiati a delinquere". Il fenomeno della criminalità a Napoli, secondo Mattone, "è molto complesso, di conseguenza non si possono adottare soluzioni semplicistiche. C’è un problema di ritardo di anni con una generazione lasciata a se stessa. Occorre prevenire per evitare che questi ragazzini diventino baby boss. Certo, non esiste un intervento magico: rispetto ai vari problemi sono necessarie risposte articolate. Per contrastare il fenomeno delle baby gang, ad esempio, bisognerebbe creare una task force creata da forze dell’ordine, insegnanti, assistenti sociali, associazioni, parrocchie, adottando delle misure riguardanti anche i genitori". Un popolo in cammino. È un po’ scettico riguardo all’efficacia delle misure prospettate da Alfano Vito Gurrado, presidente dell’Azione cattolica di Napoli: "La repressione non basta. È un problema, infatti, non solo di ordine pubblico, ma anche di carattere culturale". La società civile e la Chiesa non stanno a guardare, tanto che "è nato il movimento "Un popolo in cammino per la giustizia sociale, contro le camorre", formato da parroci e associazioni, che ha già ha organizzato una manifestazione pubblica lo scorso 5 dicembre, al termine della quale c’è stato l’incontro con il prefetto per chiedere il potenziamento della scuola a tempo pieno, nuove possibilità di lavoro, più sicurezza attraverso la presenza di vigili urbani, telecamere, presidi di polizia. Ma sono passati due mesi e ancora non abbiamo avuto riscontri. A breve dovrebbe svolgersi un nuovo incontro con il prefetto". Intanto, sabato 13 febbraio al Rione Sanità (nella chiesa di San Severo fuori le mura) c’è stato un nuovo appuntamento per discutere le proposte e le richieste per il Governo e gli enti locali e "riscrivere il futuro della città, un futuro di lavoro e di giustizia sociale, libero dalle camorre". Milano: laboratori e turni in negozio i giovani detenuti sfornano pane, pizze e sogni di Claudia Zanella La Repubblica, 15 febbraio 2016 Romeo lavora con un altro ragazzo. Sono entrambi sporchi di farina e chiacchierano mentre impastano. In questo momento stanno imparando a preparare il pane. Presto passeranno alle colombe, per le quali sono già arrivate centinaia di ordinazioni. Ma se deve scegliere, Romeo preferisce le pizzette. "Bisogna sempre assaggiare per fare il controllo qualità", scherza. La maggior parte dei loro prodotti finisce nei circuiti dei gruppi di acquisto solidale o ai privati. L’étoile dell’inverno è stato il panettone artigianale. Ne hanno venduti più di 5mila. Le richieste sono arrivate anche da fuori regione. Ma questo autunno hanno anche fatto beneficenza, sfornando pane - fatto con farina ricavata dal frumento del Parco delle Cave - che l’associazione Pane quotidiano ha distribuito ai bisognosi. Claudio Nizzetto, ideatore di Buoni dentro lo chiama "il circolo della solidarietà": i ragazzi in difficoltà, a cui è stata data la possibilità di imparare un mestiere, restituiscono qualcosa alla comunità attraverso quello che hanno appreso. Da un anno esiste anche "Pezzi di pane", la panetteria di Buoni dentro. Un forno in piazza Bettini, dove i ragazzi dei due penitenziari, affiancati da panificatori, impastano e sfornano pizzette e biscotti e poi li vendono agli abitanti della zona. Se i residenti hanno accolto con un’iniziale diffidenza l’iniziativa, non ci hanno messo molto a cambiare idea. Sono bastanti i modi gentili e i sorrisi dei ragazzi. Romeo racconta di averci lavorato qualche mese fa, quando era detenuto a San Vittore. In pochi giorni è diventato molto apprezzato per il suo modo di trattare i clienti. Dal tenere la porta aperta per le signore anziane, al regalare le pizzette ai bambini. "Così sono contenti e convincono le mamme a tornare", spiega. Tra vicende giudiziarie, problemi burocratici e trasferimenti da un istituto all’altro, non ha potuto continuare a lavorare in negozio. "Quando ha smesso di venire i clienti chiedevano dove fosse finito", spiega Paola Lanzoni, una volontaria. Ora Romeo è al Beccaria e lavora nel laboratorio di panificazione. "Mi piace dice - sto imparando a fare cose nuove. Ma preferisco stare in mezzo alla gente. Mi piacerebbe tornare a lavorare in negozio". Sorride mentre dice che tra poche settimane, se il giudice lo permetterà, potrà farlo. A lavorare a "Pezzi di pane" ora c’è il 25enne albanese Mistian, detto "il gigante buono", un ex calciatore. Un metro e novanta di muscoli e tatuaggi, con un sorriso stampato in faccia. "Ho giocato anche nelle giovanili dell’Inter con Mario Balotelli. Siamo amici da quando avevamo 15 anni, anche se ora non ci vediamo più", spiega Mistian. Come Balotelli sognava di diventare un professionista. Dopo che un brutto infortunio l’ha portato lontano dai campi da calcio e il carcere, sogna solo di avere la possibilità di ricostruirsi una vita. Da quando è agli arresti domiciliari ha cercato ogni tipo di lavoro, ma ha ricevuto solo porte in faccia. "È come se avessi addosso un bollino con scritto "ex carcerato e albanese". Poi ha ritrovato Nizzetto - che aveva conosciuto a San Vittore seguendo il "laboratorio di avviamento al lavoro" - e che gli ha proposto di lavorare a "Pezzi di pane". Dopo un paio di mesi è arrivato il permesso del giudice. "Sono entrato nel negozio. Neanche il tempo di dire "ciao" e mi hanno detto "mettiti subito al lavoro". C’erano 4mila panettoni da impacchettare. Ma il tempo è volato, è stato bello". Ci mette un’ora da casa sua per arrivare lì, ma non gli importa. Ogni pomeriggio alle 15.30 inizia il turno. Pulisce gli strumenti e poi si avvicina al panificatore, che gli fa vedere come impastare i dolci. È un maestro severo e Mistian lo ascolta con attenzione. Poi inforna teglie di focaccia e vende pane al banco. "Voglio chiedere il permesso al magistrato di poter fare qualche turno di mattina". Perché è alla mattina che si concentra la maggior parte del lavoro, "si fanno pane e brioches e voglio imparare". Mistian è contento del lavoro che ha, ma ha un sogno: "vorrei aprire una trattoria di cucina albanese con mia madre". Ma, anche se non può più giocare, la passione per il pallone c’è ancora. "Vorrei allenare una squadra di bambini. Ma non troppo piccoli - dice ridendo - perché quelli si mettono a giocare con la terra, piangono e litigano tutto il tempo". Livorno: "prigionieri a Gorgona, ma siamo le guardie", appello-denuncia della Fns-Cisl La Nazione, 15 febbraio 2016 Hanno scritto al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Carmelo Cantone, al presidente della Regione Rossi, al prefetto di Livorno Tiziana Costantino al sindaco Nogarin al capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di Roma e alla direttrice della casa circondariale di Livorno Santina Savoca. è Fabrizio Ciuffini, segretario generale di Fns Cisl a denunciare la situazione delle guardie penitenziarie di stanza sull’isola carcere di Gorgona, diventata sezione distaccata della casa circondariale delle Sughere, con il personale che, in caso di maltempo, può rimanere isolato per giorni. Ministero di Giustizia e Dipartimento amministrazione penitenziaria ipotizzano, nell’ambito del progetto di riorganizzazione, che in Italia vengano mantenute solo le basi navali del corpo di polizia penitenziaria di Venezia e di Livorno. "Ma intanto - segnala Fns Cisl - consente il permanere di una flotta in maggior efficienza all’Elba, per favorire i collegamenti con Pianosa, dove il carcere è chiuso dal 1998, mentre la base navale di Livorno, unica soluzione per i collegamenti con Gorgona, mancando ogni forma di trasporto pubblico, versa in pessime condizioni sia per la flotta di natanti, sia per la sempre più ridotta dotazione organica, sia per le risorse economiche assegnate". "Dal 6 febbraio scorso - denunciano - il personale in servizio a Gorgona è rimasto bloccato sull’isola fin quando non sono cambiate le condizioni meteo marine. Persone abbandonate a se stesse, segregate su Gorgona, senza poter uscire e raggiungere i propri familiari. Isolati a Gorgona dove non esiste nessun esercizio commerciale e turistico, nessun presidio sanitario, nessuna farmacia, ufficio postale o banca, nessun cinema, nulla di nulla. E l’unica struttura di benessere, se così si può definire, lo spaccio, rimane sovente chiuso per carenza di personale. Tutto questo - continuano - mentre viene riconosciuto al personale di Gorgona un’indennità di sede disagiata p pari ad un euro al giorno, identico riconoscimento che viene riconosciuto a chi opera a Venezia, a Porto Azzurro, a Volterra, a San Gimignano, sedi in cui vi è assegnato, una volta libero dal servizio, può almeno distrarsi nel contesto sociale esterno". "È ora che su questa situazione si faccia chiarezza - continua Fns Cisl - e si decida come versi fare carico del disagio che vivono i lavoratori del corpo di polizia penitenziaria assegnati a Gorgona, perché questi non hanno colpe da scontare. la Direzione della casa circondariale di Livorno - spiegano - si è ritrovata a farsi carico di un istituto in più, la sezione di Gorgona, e ha chiesto più volte come dover gestire la situazione, visto che non si sa nemmeno se il personale assegnato era destinatario di una specifica tutela sulla mobilità nazionale a domanda. Invece se da un lato venne decretata la soppressione della Casa di reclusione, per altro verso le gestioni rimangono separate con la casa circondariale di Livorno. Basta pensare che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non revoca e non definisce la questione del "comandante di reparto, visto che un funzionario del corpo rimane a Livorno e uno a Gorgona, ognuno con un proprio decreto relativo all’incarico di comandante. Così come non è chiara la gestione dei detenuti, visto che gli spostamenti tra le diverse sezioni della casa circondariale di Livorno, compresa quella staccata di Gorgona, non vengono lasciate alla discrezionalità della direzione livornese, ma sono gestite direttamente da Firenze". Trani: Mastrulli (Cosp); carcere non sovraffollato? nel tempo sono cambiati i parametri Il Giornale di Trani, 15 febbraio 2016 "Fine del sovraffollamento? Ma è anche vero che a Trani i parametri sono sensibilmente cambiati negli ultimi anni". Lo dichiara il segretario generale nazionale del sindacato di Polizia penitenziaria Cosp, Domenico Mastrulli. "In precedenza - spiega - il numero regolamentare di detenuti era 220, mentre quello tollerabile 250. Pertanto, alla luce dei numeri attuali, saremmo ancora in presenza di una situazione di sovraffollamento carcerario. Diversamente, non si spiegherebbero le 3.200 ore di straordinario svolte dal personale per il solo mese di dicembre: perché lavorare tante ore in più se non vi è sovraffollamento? Non nego che un calo dei detenuti via sia stato, anche legato alla depenalizzazione di almeno ottanta reati, ma è anche vero che il personale della Polizia penitenziaria è sottostimato di almeno 40 unità, e non vorremmo che i numeri presentati siano un alibi per non integrare il nostro corpo". Dal punto di vista strutturale, Mastrulli lamenta anche "una situazione di complessiva fatiscenza delle due case di reclusione e, soprattutto, lo stallo dei lavori per la nuova ala del carcere di Trani, che dovrebbe ospitare fino a 200 detenuti e per la quale ci sarebbero fondi fino a 2 milioni di euro". Viterbo: colluttazione tra detenuti a Mammagialla, agente interviene e rimane contuso tusciaweb.eu, 15 febbraio 2016 Colluttazione tra detenuti a Mammagialla. Agente interviene e rimane contuso alla spalla. Quindici giorni di prognosi. Ieri mattina in una sezione detentiva del carcere di Mammagialla, a seguito dell’apertura di almeno 8 ore delle celle prevista dalle nuove disposizioni dipartimentali, dei detenuti sono venuti alle mani. Per dividerli l’agente della sezione cade e si fa male a una spalla. Una contusione con 15 giorni di prognosi. "Solamente pochi giorni fa - afferma Daniele Nicastrini, coordinatore regionale della Uil-Pa Polizia penitenziaria - si è tenuto un incontro con la direzione del carcere e avevamo sollecitato interventi a garanzia del personale. Personale che ormai, con queste disposizioni, si ritrovano in balia di situazioni critiche, pagandone conseguenze importanti sul piano fisico. Ricordiamo che lo scorso ottobre la Uil-Pa Polizia Penitenziaria, insieme ad altre sigle sindacali, aveva aderito alla protesta contro il non funzionamento delle torri luci che circondano l’istituto penitenziario. Il provveditorato regionale aveva previsto un primo intervento con circa 10 mila euro. Seppur sia scontata l’importanza di avere un impianto luci funzionanti all’interno ed esternamente di un penitenziario, purtroppo sottolineiamo da parte dell’amministrazione un’inaspettata disattenzione, non ritenendo urgente la soluzione del problema. Infatti ad oggi il problema persiste. A detta della direzione il costo complessivo della riparazione delle 22 torri e pari a circa 170 mila euro, fondi che purtroppo non ci sono. Riteniamo primario questo intervento per garantire la sicurezza del personale che opera all’interno del carcere". Il problema non sono solo le torri ma anche dei gabbiotti al centro dell’attenzione del sindacato. "C’è poi il problema dei gabbiotti nelle sezioni detentive destinato al personale preposto alla vigilanza detenuti - continua Nicastrini. Padova: "nessun decreto ingiuntivo" per l’affitto degli alloggi del Due Palazzi Il Mattino di Padova, 15 febbraio 2016 Nessun atto esecutivo per riscuotere i soldi degli affitti degli alloggi che occupano. Una promessa che i canoni verranno abbassati e la richiesta ufficiale al ministero di avviare una necessaria ristrutturazione di quegli spazi occupati da un centinaio di agenti della polizia penitenziaria. Allenta la tensione Salvatore Pirruccio del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, già direttore del carcere Due Palazzi che nei giorni scorsi ha incontrato una delegazione dei circa 70 agenti che si erano opposti, assistiti dall’avvocato Fabio Targa, alla mano pesante della direzione dell’ente, organizzando una protesta che non era di certo passata inosservata. Gli alloggi oggetto della diatriba sono camere senza cucina con bagno, la singola misura 12 metri quadri, è più piccola di una cella. Questi locali sono dislocati nei nove piani del palazzo a fianco di quella che ospita i detenuti. La singola costa 37 euro al mese, la doppia 64 e la tripla 76: si tratta di una cifra non alta, ma gli agenti ne fanno una questione di principio e soprattutto di igiene. Per quelle condizioni sono e restano determinati a non pagare nulla. Nemmeno un euro. La situazione era precipitata qualche settimana fa quando l’ente gli ha intimato per lettera raccomandata di provvedere entro 10 giorni dal ricevimento di saldare una cifra variabile tra i 600 e 700 euro a fronte dell’occupazione di quegli spazi. Ora le parole di Pirruccio allentano la tensione anche se gli agenti penitenziari sono decisi a chiarire la situazione una volta per tutte. Per diversi mesi durante lo scorso anno era rimasto pure fuori servizio l’ascensore, costringendo chi beneficia dell’alloggio ai piani più alti ad una vera e propria sfacchinata. L’amministrazione penitenziaria si giustifica con i pochi soldi a disposizione: un particolare che ha spinto qualcuno a ridipingersi la propria stanza. Caltanissetta: "umanizzare le carceri", così Toto Cuffaro a Gela per presentare un libro Giornale di Sicilia, 15 febbraio 2016 Grande folla di curiosi ed ex Udc, stamani al tetro Eschilo di Gela, per la presentazione del libro "L’Uomo è un mendicante che crede di essere un re", scritto in carcere dall’ex presidente della Regione Sicilia, Salvatore Cuffaro. "Sino a quando lo Stato non riesce a capire che il carcere non contiene dei corpi ma dentro ci sono delle anime - ha detto Cuffaro - io credo che sarà difficile risolvere il problema di umanizzare le nostre carceri e sono perciò convinto che la politica non farà nulla sino a quando questo grido di umanità non si alza dalla società". "Questo mio libro - ha spiegato - ha il significato di sensibilizzare la società affinché lanci quel grido di umanità che possa essere raccolto dalla politica per rendere gli istituti di pena più vivibili e umani". "Io non mi sento vittima come non mi sento colpevole di aver favorito la mafia. Ho commesso tanti errori nella mia vita ma mai quello di favorire la mafia", ha aggiunto. "Non credo che ci sia stata una volontà specifica della magistratura di colpirmi. - ha concluso - Credo piuttosto che ci siano state delle condizioni attorno a me che mi hanno voluto dipingere diversamente da quello che sono. Se tornassi indietro, a questa mia scelta di stare con la gente non rinuncerei". La studentessa modello suicida. I pm: "colpa dei genitori, siano processati" Corriere della Sera, 15 febbraio 2016 La 16enne prima di buttarsi dal tetto del liceo classico aveva lasciato una lettera e un video con pesanti accuse a madre e padre, che non le fecero neanche i funerali. Maltrattamento e istigazione al suicidio. Con queste accuse la procura di Forlì ha chiesto il rinvio a giudizio del padre e della madre di Rosita Raffoni, la studentessa modello del liceo classico Morgagni (aveva una media di 9,25) che il 17 giugno 2014 si suicidò buttandosi dal tetto della scuola. I genitori della sedicenne (ne avrebbe compiuti 17 due mesi dopo) erano stati messi sotto indagine già la settimana seguente la morte della figlia, dopo che gli inquirenti avevano trovato una lettera nello zainetto e un video di 40 minuti lasciati sul tetto prima di lanciarsi nel vuoto in cui la ragazza accusava i genitori di averle reso la vita impossibile. "Chiedo perdono a tutti. Ma questo è un gesto che medito da tempo. Perdonatemi. Il mio disagio interiore è insopportabile. Mia mamma e mia padre mi hanno reso la vita impossibile. Spero che ci sia giustizia per questa mia morte. Spero che i carabinieri facciano un’indagine", aveva scritto Rosita. La situazione all’interno della famiglia - Una situazione, quella di Rosita, che era a conoscenza dei suoi insegnanti già dai tempi delle medie che avevano notato i suoi temi cupi, dai quali traspariva una grande tristezza per i rapporti famigliari. I professori avevano cercato di parlare con i genitori ma la situazione non era cambiata. Ora però il procuratore Sergio Sottani e il pm Filippo Santangelo nella loro richiesta di rinvio a giudizio hanno chiarito le condizioni che i genitori (che hanno un altro figlio di pochi anni più grande, studente nella stessa scuola) imposero a Rosita all’interno della famiglia: la isolarono, la umiliarono, la fecero vivere in un clima di costante deprivazione affettiva e di solitudine, di totale svalutazione della personalità, affermando e dimostrandole che era una persona indegna di qualsiasi tipo di fiducia. E quando lei non ne poté più e minacciò di farla finita, la sfidarono a uccidersi, dicendole che così avrebbe risolto i suoi problemi e anche i loro. "Una vita di deprivazione affettiva e di continue umiliazioni" - Secondo l’ipotesi accusatoria costrinsero la figlia "a una vita di deprivazione affettiva e di continue umiliazioni, svalutandola come essere umano e discendente fin dalla nascita, privandola della possibilità di avere una vita adeguata alla sua età evolutiva, isolandola dall’ambiente esterno e dal contesto sociale". La obbligarono "a vivere di studio e in totale solitudine", e "le ricordavano continuamente che lei era la figlia non voluta". Senza di lei, la loro sarebbe stata una famiglia perfetta, le dicevano. In tre anni la ragazza sarebbe uscita non più di tre volte con gli amici. Non le consentivano di usare internet e gli smartphone, non l’accompagnavano da nessuna parte per impedire che avesse rapporti sociali. La sottoponevano a punizioni e "processi sommari". Quando le fu negato un viaggio in Cina per un anno di studi all’estero (a iscrizione avvenuta e retta già pagata), la ragazza manifestò la volontà di uccidersi. Secondo gli inquirenti, i genitori la "incitarono e la sfidarono" a compiere il gesto, avvenuto il giorno prima dell’inizio degli esami di maturità per il fratello. Abbandonata anche dopo morta - Anche dopo la morte, avrebbero proseguito nel disinteresse e dissociazione affettiva e familiare, "lasciandola nuda e senza vestiti in cella frigorifera per giorni, impedendo ad amici e parenti di visitarla presso la camera mortuaria". Non le diedero neppure gli onori del funerale, sottolineano i Pm, "disponendo che la salma venisse cremata senza alcuna visita e senza alcun sentimento di pietà per la defunta". Risulta però che i genitori e il fratello parteciparono il 26 giugno 2014 alla Messa e alla fiaccolata in suo ricordo alla quale parteciparono oltre 300 persone. Il 3 marzo il giudice per le indagini preliminari deciderà se i genitori - entrambi 50enni, il padre libero professionista, la madre docente - andranno o processo o archiviare il caso. Basta muri, sono castelli che scatenano nuovi assedi di Roberto Saviano La Repubblica, 15 febbraio 2016 Dobbiamo fermare i soldi della criminalità, non gli esseri umani.. Da oggi, ogni lunedì, l’alleanza editoriale Lena (Leading European Newspapers Alliance) di cui Repubblica fa parte insieme con El País, Figaro, Die Welt, Tribune de Genève, Tages Anzeiger e Le Soir, pubblicherà contemporaneamente su tutti i suoi quotidiani un editoriale su un tema europeo. A inaugurare la serie con questo articolo è proprio Repubblica. Mentre i ministri delle Finanze dell’Unione si riunivano venerdì scorso a Bruxelles nelle stanze del Justus Lipsius, decretando con una firma la messa in mora sui profughi della povera Grecia, e dando praticamente il via al restringimento dell’Europa di Schengen, dall’altra parte del mondo - nell’ufficio lussuosissimo di un grattacielo di Dubai, in un ranch blindatissimo del Nord Est messicano - il contabile di turno avrà stancamente cliccato sul tasto "send" di un personal computer, di un laptop, forse anche di un semplice smartphone: e per l’ennesima volta la marea di denaro più o meno sporco avrà investito, senza incontrare resistenza, le coste del continente. Ma sì, diciamolo subito. Davvero in Europa c’è ancora qualcuno che pensa di fermare le stragi dei migranti e l’orrore della jihad alzando l’ennesimo muro? Davvero c’è chi pensa di fermare gli esseri umani decretando la morte di Schengen? No, pretendere di proteggersi innalzando di nuovo i confini è un errore. Un madornale errore. Innanzitutto perché è dimostrato che le strutture militari, terroristiche non hanno bisogno di utilizzare canali clandestini. Riescono a strutturarsi e a essere operative in ogni Paese indipendentemente dai flussi migratori attuali. È ormai accertato che ad agire in queste strutture - l’abbiamo purtroppo visto nel caso del Bataclan e di Charlie Hebdo - sono uomini e donne di seconda generazione. E se in alcuni casi, è vero, ci siamo trovati di fronte a persone che avevano chiesto l’asilo politico e si sono poi trasformate in miliziani, si è trattato di una "evoluzione" indipendente dalla struttura madre. È questa la premessa fondamentale per capire che fermare Schengen significherebbe soltanto distruggere l’integrazione europea. E non semplicemente nella declinazione dei diritti ma nella stessa formazione della struttura sociale. Fermare Schengen vorrebbe dire uccidere il grande progetto iniziale; cioè la costruzione degli "stati uniti d’Europa". Fermare Schengen sarebbe la vittoria di una visione che credevamo ormai superata: quella secondo la quale ci si possa difendere costruendo castelli e barriere. Noi italiani lo sappiamo bene. Non lo diceva già il Principe di Machiavelli? Costruire nuovi castelli genera solo nuovi assedi. Non basta. Il paradosso è ancora più grave. Perché questa è la politica che pretende di fermare i corpi ma non i flussi illegali e finanziari ormai senza più alcun controllo. Che cosa ha reso possibile la creazione di un vero e proprio potere terroristico in Belgio? I finanziamenti che da Dubai, dall’Arabia Saudita, dal Medio Oriente più in generale sono arrivati attraverso i vari canali finanziari più scoperti. La Francia ha il Lussemburgo. La Germania ha il Liechtenstein. La Spagna ha Andorra. L’Italia ha San Marino. Tutto il mondo ha la Svizzera. Stiamo parlando di isole finanziarie che non solo attraggono - nella migliori delle ipotesi - evasori fiscali. Stiamo parlando di centri che attraggono nel cuore d’Europa strategie criminali e finanziarie: basti pensare alla vicenda recente del Chapo, il re dei trafficanti di droga che faceva riciclare in Svizzera montagne di narcodollari che poi finivano in una banca di Vaduz, nel Liechtenstein. E allora smettiamola di credere a chi vuole convincerci che l’Europa paga il prezzo che paga - le immigrazioni senza controllo, il terrore senza limiti - perché è troppo esposta. Non è vero: l’Europa paga un prezzo altissimo per la sua incapacità di gestire i flussi finanziari e il riciclaggio. La riflessione da fare è tutta qua: il problema sono i capitali, non gli esseri umani. Sono i capitali che circolano senza controllo a compromettere la sicurezza dell’economia pulita e la tenuta sociale. È il risiko della finanza a rendere sempre meno sicura l’Europa. Riusciranno mai a capirlo lì nelle stanze del Justus Lipsius? Noi in Libia saremo mai pronti? di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 15 febbraio 2016 L’accordo russo-americano per il cessate il fuoco in Siria era scritto sulla sabbia. I russi, grazie alla loro posizione di forza, continueranno ad aiutare, insieme agli iraniani, fino alla vittoria, il dittatore siriano nella lotta contro i "terroristi" (tutti gli oppositori armati del regime) e l’America, debole, ondeggiante e boccheggiante non sembra in grado di impedirlo. Anche l’impegno assunto con gli americani dalle potenze sunnite Turchia e Arabia Saudita di combattere lo Stato islamico (pure lui sunnita e con gli stessi nemici di turchi e sauditi) non è credibile. Lo Stato islamico è ancora lì a minacciarci (come ha ricordato il primo ministro francese Manuel Valls) e niente lascia pensare che possa essere neutralizzato in tempi brevi. In Italia, pare, non abbiamo ancora compreso che cosa significhi, per la nostra sicurezza, il declino politico-militare degli Stati Uniti, la loro perdita di influenza in Medio Oriente (e non soltanto). Un declino che, a giudicare dai primi risultati delle primarie presidenziali, potrebbe anche approfondirsi: i due candidati che al momento spopolano nelle primarie democratiche e repubblicane, Sanders e Trump, sono entrambi protezionisti e isolazionisti. Se anche, alla fine, come è possibile, a vincere le nomination saranno candidati di establishment anziché di protesta, è poco plausibile che quegli "umori" popolari non lascino alcuna traccia. E noi italiani, allora, che facciamo? Dal dopoguerra in poi ci siamo abituati a dipendere per la nostra sicurezza dall’America. Il vantaggio è la protezione di cui abbiamo goduto. Lo svantaggio è che non siamo stati in grado di sviluppare una adeguata "cultura della sicurezza": assomigliamo a quei ragazzini che, avendo avuto genitori troppo protettivi, non sono capaci di cavarsela da soli. Anche i "buoni sentimenti" pacifisti che abbiamo sviluppato (non solo la sanissima idea che bisogna fare di tutto per evitare le guerre ma anche l’idea malata che non ci si debba attrezzare per difendersi) sono un lusso che ci siamo potuti permettere grazie a quella protezione. Facciamo un esempio della nostra inadeguatezza di fronte ai nuovi pericoli. L’ennesima sentenza della magistratura ha dato ragione a mamme preoccupate e ambientalisti vari che cercano di impedire che il Muos, il sistema militare americano di comunicazioni satellitari entri in funzione a Niscemi, in Sicilia. Il Muos potrebbe essere uno strumento prezioso per anticipare eventuali attacchi missilistici ma c’è chi ipotizza che il suo funzionamento danneggerebbe la salute. Ma lo Stato islamico si è insediato sulla costa libica, a un passo da noi, e non gli mancherebbero i mezzi, se un giorno lo decidesse, per procurare alla salute danni assai più gravi. Continuiamo a dire che quando, con modi e tempi da stabilire, si interverrà apertamente in Libia a sostegno dei libici impegnati contro lo Stato islamico (ufficiosamente siamo già lì da un pezzo), all’Italia spetterà un ruolo di leadership. Una rivendicazione apparentemente ineccepibile: per la continuità dei nostri rapporti con la Libia e per la nostra esperienza. Ma pesa la difficoltà dell’Italia pubblica (politica e mediatica) ad affrontare con conoscenze e competenza le questioni della sicurezza. C’è da temere che, quando arriverà il momento dell’intervento, il governo non sia riuscito a preparare l’opinione pubblica, non l’abbia resa edotta dei pericoli che correremo se non verrà fermata la deriva libica. Se arriveremo a quell’appuntamento con una opinione pubblica impreparata, ci saranno forti contraccolpi nelle piazze e in Parlamento. Per qualcuno, il declino americano, se davvero diventasse irreversibile, non dovrebbe spaventarci. Non sarà forse l’Europa, un giorno, a provvedere alla nostra sicurezza? Qualunque cosa accada "un giorno", al momento, di questa Europa non v’è traccia. Ciò che accade intorno a noi, dovrebbe convincerci di quanto inconsistenti siano le giaculatorie sulla necessità di una "Europa politica", la quale, come è noto, viene sempre evocata solo quando si parla di euro e di banche. Si dimentica che le unificazioni politiche non si fanno col burro ma con i cannoni. Sono sempre state guerre e minacce geopolitiche a innescarle. Dal Medio Oriente arrivano venti di guerra e minacce per gli europei. Solo il giorno in cui questa diventasse, su richiesta dei governi, la prima preoccupazione dell’Unione, si potrebbe rivedere il giudizio sull’inutilità delle giaculatorie a favore dell’ Europa politica. Libia: la primavera che è diventata inverno di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 15 febbraio 2016 All’inizio sembrò tutto facile, semplice da comprendere e anche raccontare. Una rivoluzione in bianco e nero, senza troppe zone grigie. Addirittura, più che in Tunisia o Egitto, in Libia c’erano evidentemente i buoni e i cattivi. "Vogliamo libertà, eguaglianza, la fine della dittatura, la lotta alla corruzione nel circolo di potere attorno a Gheddafi, la scomparsa della polizia segreta che perseguita anche i nostri sogni. E vogliamo opportunità di lavoro, la possibilità di viaggiare quando e dove scegliamo noi. In poche parole, vogliamo essere, vivere come da voi in Europa", spiegava il 19 febbraio 2011 allegra, eccitata dall’idea di poter essere finalmente artefice di se stessa, Salwa Bughaighis, carismatica esponente del "comitato degli avvocati", che da due giorni cercava di dare un senso politico alle rivolte che infiammavano Bengasi. Un personaggio affascinante e tragico Salwa. Lei e il marito, Essam al-Ghariani, erano infaticabili. Intellettuali coraggiosi e generosi al servizio di ciò che ritenevano giusto, ragionevole e dunque necessario. Compilavano le liste dei giovani spariti nei carceri, rapiti dalle squadracce di Gheddafi per le strade, si impegnavano a stilare una progetto di leggi provvisorie per gestire il vuoto di potere generato dal caos, cercavano rapporti e aiuti internazionali. Nel contempo ricevevano i giornalisti stranieri, li ospitavano in casa. "Costruiamo la nuova Libia", dicevano sorridenti nonostante le infinite, lunghissime giornate (e nottate) di attività. Il 25 giugno 2014 una cellula si estremisti islamici ha ucciso Salwa di fronte a casa con più colpi di pistola mirati alla testa. Non piacevano le sue convinzioni laiche, i contatti con l’estero, la lotta contro il velo imposto alle donne, l’impegno per il ritorno allo spirito primo della rivoluzione. Essam invece è stato rapito. A Bengasi sono tutti convinti sia stato torturato e a sua volta assassinato. Vale la pena ricordarli Salwa e Essam. La loro parabola incarna più di altre la triste meteora della rivoluzione libica, che vede oggi tanti tra gli stessi ex attivisti dichiarare in modo contrito che "si stava meglio ai tempi di Gheddafi". Ma con una domanda: doveva per forza finire in questo modo? Le risposte possono essere molteplici, in una rosa che comprende il nuovo vento di scetticismo diffuso nei confronti dei valori democratici (così come esauriti nelle "primavere arabe") e la convinzione che in Medio Oriente siano necessari "uomini forti" per tenere a bada Isis, sino agli inguaribili ottimisti certi che "comunque nella storia ci sono sempre le controrivoluzioni e occorre tempo perché i cambiamenti si stabilizzino". Ciò che possiamo dire, per aver seguito gli avvenimenti di allora "dal campo", è che ben presto, sin dalle prime settimane euforiche e confuse dopo la fuga delle autorità da Bengasi, i "buoni" e "cattivi" sul palcoscenico libico iniziarono a confondersi e annacquarsi a vicenda. Gli argomenti in merito sono tanti. Ne citiamo alcuni. Primi tra tutti la violenza diffusa e gratuita, la stupidità litigiosa, l’incapacità di darsi un’efficiente struttura militare da parte delle varie brigate insurrezionali. I ribelli semplicemente erano predoni: al meglio bande tribali, al peggio criminali in cerca di bottino, facilmente influenzabili da qualsiasi ispirazione radicale, incapaci persino di pensare che tutte quelle munizioni sprecate sparando inutilmente in aria per festeggiare, o soltanto fare rumore, poi sarebbero mancate al momento dello scontro con il nemico. Ragazzini viziati, pronti a chiedere aiuto alla Nato quando si trovavano in pericolo, ma altrettanto proni a minacciare e invocare la vendetta di Allah se l’aiuto era considerato inefficiente e Gheddafi stava riguadagnando terreno. Così minacciavano con i mitra spianati noi giornalisti occidentali verso la metà di marzo, quando Gheddafi aveva finalmente racimolato le sue truppe (tanti mercenari tribali pagati a suon di petrodollari), che da Sirte marciavano verso oriente. "Siete alleati del dittatore, vi uccidiamo tutti!", gridavano. Il 19 marzo i jet francesi e britannici fermavano la colonna lealista alle porte di Bengasi causando decine e decine di morti. Se non ci fosse stata la Nato, la rivoluzione sarebbe finita quel giorno. I suoi dirigenti stavano già scappando verso l’Egitto. Fu però stupefacente il comportamento delle milizie ribelli. Invece di inseguire i nemici in rotta verso Ajdabia e i terminali petroliferi di Brega e Ras Lanuf (dove oggi si sta attestando Isis), si fermavano per lo sciacallaggio dei mezzi carbonizzati e i cadaveri riversi sull’asfalto. Fu poi necessario ancora l’intervento dei jet Nato per scacciare i resti delle colonne lealiste indietro verso occidente. Lo stesso avvenne durante l’assedio di Misurata e altri, compreso quello di Tripoli in agosto. E persino nei giorni finali dell’attacco su Sirte a metà ottobre. Il fronte lealista si era sfaldato. Ma i ribelli ancora non erano in grado di confrontarlo. A Sirte la grande maggioranza di loro era impegnata nel saccheggio delle abitazioni private. I pick up arrivavano carichi di munizioni e ripartivano portando via elettrodomestici, mobili, vestiti. Il linciaggio di Gheddafi non fu altro che la ripetizione particolarmente cruenta di quei comportamenti. E anche in quell’occasione, se i jet francesi non avessero tirato i missili destinati a fermare il convoglio del rais in fuga, probabilmente i ribelli se lo sarebbero lasciati scappare sotto il naso. Quello stesso giorno alcuni di loro fecero irruzione nel villaggio natale del rais, in segno di sfregio e offesa suprema estrassero i resti di sua madre e altri parenti seppelliti nel cimitero locale. Dopo marzo fu anche evidente anche la caducità intrinseca agli argomenti fondamentali della propaganda rivoluzionaria. Piacesse o meno, Gheddafi non era quella sorta di dittatore alieno, isolato e illegittimo che cercavano di presentare. Tutt’altro. In quattro decadi di governo aveva costruito un complicato sistema di equilibri tra tribù, gruppi di potere urbani e apparati amministrativi dello Stato in grado di elidersi a vicenda e garantiti unicamente dal loro rapporto di sottomissione diretta al rais. In buona sostanza, c’erano libici che ancora credevano in lui e temevano che la sua scomparsa potesse impoverirli. Così, quando le milizie ribelli cominciarono ad avvicinare Sirte, Tripoli, Bani Walid, e altre zone tribali lealiste tipo Tarhunah e le oasi del Fezzan come Kufrah e Sabha, la battaglia non fu più di liberazione nazionale, bensì vera e propria guerra civile. Ci furono fucilazioni, devastazioni, rapine, violenze di ogni tipo contro civili inermi. Emerse allora un’altra caratteristica della Libia moderna, così come definita dall’invasione italiana del 1911 sulle ceneri dell’antica amministrazione ottomana: le profonde differenze ancora ben vive tra Cirenaica arabo-islamica, Tripolitania mista tra élite laica urbana e identità berbera, oltre alle radici africane e addirittura sub-sahariane delle tribù Tuareg nel sud. I ribelli si sentivano protetti dalla superiorità bellica della Nato e non esitarono a prendere a calci quelle identità separate. Dopo aver liberato Misurata, attaccarono i centri urbani abitati da africani, non esitarono ad applicare la pulizia etnica tra i circa 100 mila residenti di Tawargha, procedettero con omicidi mirati, incendiarono le loro case, li obbligarono a fuggire in massa verso il Sahara. Nella tracotanza ebbra di vittorie, pagate tutto sommato a poco prezzo, i ribelli ebbero l’accortezza di non distruggere i pozzi e gli impianti energetici. Sia i filo-Gheddafi, che i combattenti della rivoluzione erano ben consapevoli che il futuro economico restava in quelle risorse. Ma fu uno dei pochi punti a loro favore. In seguito non seppero elaborare i compromessi e il patto sociale necessari per spartirsene i proventi. A pensarci bene, le ragioni sono in fondo le stesse che hanno minato l’intero iter della defenestrazione di Gheddafi: è stata una rivoluzione assistita dall’alto, garantita dall’ombrello Nato. È mancato quel processo di selezione naturale dei suoi dirigenti che, spesso in modo cruento e impietoso, accompagna i sommovimenti sociali di questo tipo. Il fatto che su praticamente tutti i fronti le brigate tribali e regionali non siano state sconfitte ha facilitato il fiorire di una pletora di interessi locali, spesso divergenti e persino incompatibili gli uni con gli altri. Ai tempi di Gheddafi il potere era fermamente nelle sue mani. Il verticismo restava totale, nonostante la sua propaganda dicesse esattamente l’opposto. Oggi la frammentazione delle milizie e del potere politico è disperante. E di questo "crollo dello Stato" approfitta Isis. Libia: una guerra che pare sempre più inevitabile di Paolo Valentino Corriere della Sera, 15 febbraio 2016 Passarono esattamente trenta giorni tra l’insurrezione di Bengasi del 17 febbraio 2011, data d’inizio della Rivoluzione contro il colonnello Gheddafi, e l’approvazione della Risoluzione dell’Onu 1973 sulla situazione in Libia, che fece da base legale ai raid francesi, lanciati il 19 marzo, prologo dell’intervento Nato cominciato alla fine del mese. Poche volte nella sua storia il Consiglio di Sicurezza aveva agito con tanta tempestività ed efficacia di fronte a una crisi internazionale. E poche volte, in nome del nobile proposito umanitario di fermare il massacro di una popolazione civile, una mobilitazione di intellettuali e politici era apparsa così determinata a cortocircuitare i lenti meccanismi burocratici della diplomazia internazionale. Campioni di una Francia che sembrava ritrovare le sue vocazioni universalistiche, il presidente Nicholas Sarkozy e il suo aedo di riferimento, il mediatico filosofo Bernard Henri-Levi, avevano letteralmente trascinato, con l’entusiastico appoggio del governo di Sua Maestà britannica, il fronte occidentale nell’avventura libica. Strappando anche il tacito avallo di una Russia, ancora nella fase post-pre-Putin della "ricreazione" di Dmitry Medvedev, che non se ne sarebbe mai pentita abbastanza. È perfino scontato oggi avanzare dubbi e perplessità sui veri motivi che mossero il governo di Parigi, forse non estraneo alle ragioni umanitarie, ma sicuramente allettato dalla prospettiva di riaprire la partita economica in un Paese, dove le aziende francesi toccavano da sempre poca palla e dovevano vedersela con presenze forti e radicate, in primis quella italiana. "Senza la Francia - disse pubblicamente Barack Obama, indicando Sarkozy al G20 di Nizza - questa guerra non si sarebbe mai potuta fare". Dove non fu mai chiaro se la lode nascondesse anche un velato rimprovero. Partita il 31 marzo la Operation Unified Protector, con l’Italia partner riluttante ma nondimeno decisivo con il 12 per cento delle sortite aeree dell’Alleanza, ci vollero comunque cinque mesi per spianare agli insorti la strada di Tripoli, conquistata in agosto. E altri due per aiutarli a chiudere i conti con Gheddafi, barbaramente massacrato in diretta il 20 ottobre a Sirte, dopo che il suo ultimo tentativo di fuga verso il deserto era stato bloccato dai missili dei caccia Rafale. Trascorse quasi un anno tra l’insediamento del Consiglio Nazionale Transitorio e le prime elezioni libere del luglio 2012, dopo 42 anni di dittatura. Ma la vittoria dell’Alleanza delle forze dei moderati laici, guidata da Mahmoud Jibril, avvenne in un Paese senza legge, già preda delle violenze delle milizie, gli ex ribelli che dopo la caduta del regime non intendevano deporre le armi. Era durata pochissimo la percezione di una effimera unità nazionale, mai veramente esistita in una società a struttura tribale che il colonnello controllava grazie a un divide et impera irrorato di denaro e privilegi. L’intervento occidentale era stato il detonatore del caos. Con il senno di poi, sembra quasi un miracolo che una parvenza di equilibrio abbia in qualche modo retto fino alla primavera del 2014. Certo, ci furono gravissimi episodi: l’attacco al consolato Usa di Bengasi e l’uccisione dell’ambasciatore Stevens, l’agguato al console italiano a Bengasi, Guido De Sanctis, gli attacchi ad altre ambasciate occidentali. Poi vennero gli assalti di bande di miliziani armati a diversi ministeri. Ma i punti di rottura furono due: il primo, nella primavera 2014, l’inizio dell’"operazione dignità" del gheddafiano generale Haftar, una vera e propria "guerra privata" per conto terzi (l’Egitto e gli Emirati Arabi) contro le milizie islamiche a Bengasi e nel resto della Cirenaica. Il secondo, nel giugno dello stesso anno, la sconfitta degli islamisti moderati nelle elezioni della Camera dei Rappresentanti, il nuovo Parlamento, che spinse questi nelle braccia degli integralisti, alleanza subito generosamente sostenuta e finanziata dai grandi burattinai regionali, Turchia, Qatar e Sudan. Fu il prologo della seconda guerra civile che ha spaccato e spacca in due la Libia, con un governo e un Parlamento riconosciuti dalla comunità internazionale costretti a insediarsi a Tobruk e i loro doppioni a tendenza filo-islamica acquartierati nella vecchia capitale. Nel frattempo, partiva da Derna, nell’Est, l’infiltrazione jihadista, una succursale libica di Daesh, che si è ormai incistata a Sirte e ha finito per mettere paura a tutti i contendenti. Cadde in questo scenario di macerie, violenza, odi e sospetti, la mediazione internazionale delle Nazioni Unite, mirata a far dialogare i due schieramenti (tre, tenendo conto degli islamisti autonomi di Misurata). Il primo inviato del Palazzo di Vetro fu un diplomatico libanese, Tarek Mitri. Nessuno se lo ricorda, tranne per l’accusa rivoltagli di essersi tropo preoccupato degli interessi dei Fratelli Musulmani, che controllano la fazione di Misurata. Poi toccò allo spagnolo Bernardino Leon, già braccio destro di José Luis Rodriguez Zapatero. Ban ki Moon lo scelse nonostante molte fazioni libiche avessero espresso una esplicita preferenza per Romano Prodi, indicazione non raccolta dal governo Renzi che non fece nulla per spingerne la candidatura, come ha raccontato al Corriere lo stesso Prodi. Leon, maratoneta e provetto suonatore di chitarra acustica jazz, sembrò all’inizio in grado di "improvvisare attorno a un tema", giusta la definizione di diplomazia data da Richard Holbrooke. Ebbe l’intuizione di usare il pericolo dell’Isis per puntare subito a un governo di unità nazionale. Ma si scontrò con la reciproca delegittimazione dei protagonisti, con una decisione della Corte Suprema che nel novembre 2014 dichiarò incostituzionali le elezioni, con l’irriducibilità delle cento milizie "tanto più piccole quanto più disponibili per denaro a ogni malefatta" e infine con la fretta di chiudere in bellezza il suo mandato nel novembre scorso: la sua lista dei ministri per un esecutivo di transizione venne infatti rigettata il 19 ottobre dal Parlamento di Tobruk. Pur di accelerare l’intesa, Leon aveva perfino cercato di forzare alcuni punti fermi della bozza di accordo concordata in luglio in Marocco. È uscito male, con un incarico molto ben retribuito presso l’Accademia di Studi Diplomatici degli Emirati Arabi, cioè uno dei grandi mestatori della crisi libica, che ha gettato ombre sulla sua terzietà. Quindi è stata la volta di Martin Kobler, diplomatico tedesco di riconosciuta abilità, che grazie all’intesa di dicembre firmata dalle delegazioni dei due Parlamenti, ha gettato le premesse per dar vita a un governo di unità nazionale. Il resto è storia di questi giorni. Le resistenze sono ancora forti. Robuste minoranze in ambedue gli schieramenti rifiutano di sottoscrivere la nuova e più snella lista dei ministri, messa a punto da Kobler, anche lui rimproverato da alcuni, come Emma Bonino, di fretta eccessiva. Sulla costa orientale, l’Isis continua a espandere la sua presenza. I Paesi europei e gli Stati Uniti si preparano da mesi a un intervento contro le postazioni jihadiste prima che sia troppo tardi. La finestra di tempo è molto stretta: "Non è immaginabile che passi la primavera senza intervenire in Libia", ha detto al Corriere il ministro della Difesa Roberta Pinotti. Ma anche i Paesi più decisi ad agire, Francia e USA, si rendono conto che se non si vogliono ripetere gli errori del 2011, ogni azione militare dovrà essere esplicitamente richiesta e definita da un governo legittimo e sovrano. L’Italia è candidata a guidare un’eventuale missione. Ma non è detto affatto detto che sarà di garanzia, protezione e formazione, come ci auguriamo. Potrebbe più semplicemente essere di guerra. Saremmo ancora in prima fila? L’ultima notte del Rais, di Marta Serafini Per chi è nato negli anni 80, Gheddafi era una presenza folcloristica. Un leader che si dava per scontato, nella sua ingombrante presenza. Diverso da Saddam, a qualcuno risultava anche simpatico per le sue stravaganze. Un dittatore sì ma che controllava risorse petrolifere immense e sul quale non era poi così urgente farsi troppe domande. La Libia d’altro canto stava diventando, al di là del petrolio, un luogo da visitare, dove fare i turisti per andare alla scoperta di un qualche passato coloniale di cui nemmeno noi eravamo né troppo fieri, né troppo informati. Certo, era chiaro a tutti che non si trattasse di una democrazia, ma pensare che quella scatola di sabbia potesse esploderci sotto i piedi era impensabile. Le notizie che arrivavano sul Paese erano filtrate, non c’erano i social media, e per sapere come effettivamente vivesse la popolazione l’unico modo era entrare passando il confine con la Tunisia. Ma già allora, all’inizio del duemila, Tripoli appariva a chi ci arrivava come un enorme cumulo di pattumiera maleodorante. Ghadames, oasi ricca di storia oggi minacciata dai miliziani di Al Baghdadi, mostrava già tutti i germi di un fondamentalismo tenuto sopito a suon di arresti e sparizioni. Criticare il rais in pubblico era severamente vietato, leggere il libro verde che definiva la donna impura durante il ciclo e proponeva un terza via tra democrazia e comunismo, era obbligatorio nelle scuole. Pensare dunque che tutto sarebbe rimasto uguale, era un’illusione in cui l’Europa si cullava pigramente mentre Muammar stringeva le mani dei nostri politici, desiderosi di tessere accordi con il pretesto di contrastare l’immigrazione. Ma l’inizio della caduta di quell’uomo era più vicino di quanto nel Vecchio Continente si potesse pensare. "La fine di Gheddafi prende il via il giorno in cui (siamo nel dicembre del 2007, ndr) installa la sua tenda beduina personale nel giardino dell’hotel de Marigny, la residenza degli ospiti d’onore dell’Eliseo, per un incontro con Nicolas Sarkozy". A raccontare "L’ultima notte del Rais" (edito in Italia da Sellerio) è Yasmina Khadra, pseudonimo femminile di Mohammed Moulessehoul, ex generale dell’esercito algerino che, dopo essere stato testimone diretto della sanguinosa guerra civile algerina, si è auto esiliato in Francia. Nel suo romanzo Khadra ripercorre le tappe fondamentali della vita di "un nipote di un poeta senza gloria, figlio di una famiglia povera di Sirte" diventato capitano di un esercito che in pochi anni avrebbe ordito un colpo di stato. "Quando Gheddafi incontra Sarkozy in ballo c’è un accordo da 10 miliardi di euro", continua Yasmina Khadra. A quell’epoca il presidente francese è deciso a diventare il principale sponsor del ritorno della Libia nel novero dei Paesi frequentabili e vuole far approfittare le imprese francesi dei rapporti privilegiati con Tripoli. Una parte dell’accordo prevede la costruzione in Libia di cinque centrali nucleari, mentre l’altra riguarda l’acquisto di 14 caccia "Rafale" e 35 elicotteri da combattimento di fabbricazione francese. "Gheddafi accetta le condizioni dell’accordo ma una volta tornato a casa non lo sottoscrive, firmando così la sua condanna a morte", è la sintesi di Khadra. Dovranno passare tre anni quando al mondo apparirà quel volto stravolto, coperto di sangue. Siamo nelle ultime pagine del romanzo di Yasmina Khadra. Un uomo paranoico che ha vissuto sul filo del rasoio per tutta la vita viene trascinato a forza dai ribelli che lo finiscono a bastonate come un cane, mentre gli appare ancora una volta fissa davanti agli occhi l’immagine del pittore olandese Vincent Van Gogh. "La sua scomparsa ha precipitato le persone e le loro istituzioni in un pozzo senza fondo", continua l’autore. "Ma nemmeno allora ci siamo più di tanto interessati a ciò che stava capitando a pochi chilometri da casa nostra. Abbiamo guardato distratti in televisione i bombardamenti della Nato. E, ancora una volta, abbiamo pensato che tutto sommato non era un gran problema". "Ora però paghiamo il prezzo di questo disinteresse e di questa stupida avventura: tutto il Mediterraneo è destabilizzato". Lo scotto più grande di questa partita è infatti la presenza di Isis diventato "una minaccia enorme soprattutto per l’Italia e per la Francia, oltre che per il Maghreb". Tutto cambia quando nell’ottobre del 2014 quando Isis proclama la sua provincia in Libia, alla ricerca di nuovi spazi fragili e instabili da attaccare e in cui installarsi, come un tumore che vaga alla ricerca di cellule da divorare. "Quell’arrivo però non avrebbe dovuto coglierci di sorpresa come invece ha fatto". Perché è il risultato di decisione prese ben prima dell’ultima notte del rais. La Libia è il risultato di uno "sbaglio storico dell’Occidente". Cui - secondo Yasmina Khadra - si può rimediare in un solo modo: "Non ci rimane che inviare le truppe di terra. Altrimenti come possiamo pensare di cacciare terroristi, liberare i territori contaminati e permettere alle persone di riprendere una vita normale?". Siria: Obama chiama Putin "basta bombe" di Alberto Flores D’Arcais La Repubblica, 15 febbraio 2016 Colloquio "distensivo" sulla Siria. Il senatore repubblicano McCain: "Quella dei russi è una trappola" Medvedev replica: "Assad legittimo presidente". Damasco: "La Turchia ci attacca". Ankara colpisce i curdi. Basta bombardamenti contro i ribelli "moderati" in Siria. In un clima da nuova "guerra fredda", con la Casa Bianca sempre più in difficoltà di fronte ai "muscoli" di Putin e alla ritrovata baldanza del dittatore Assad, Barack Obama sabato sera ha alzato il telefono chiamando direttamente il presidente russo: "Per discutere le decisioni e gli accordi" presi a Monaco l’11 febbraio, ma soprattutto per provare a fermare i caccia di Mosca. Invece di attaccare le postazioni dell’Is, l’offensiva russa (in appoggio alle truppe lealiste di Assad) ha come obiettivo i ribelli "moderati" (o ritenuti tali) e ha già avuto come conseguenza il massacro di civili nell’area di Aleppo e una massiccia ondata di profughi verso la Turchia. Ennesima dimostrazione, dicono i critici di Obama (e la maggioranza degli americani) di una strategia fallimentare sulla Siria. Il presidente ha enfatizzato "l’importanza che la Russia abbia un ruolo costruttivo", ponendo fine alla campagna aerea "contro le forze dell’opposizione moderata in Siria", rendendo "concreto e rapido" l’accesso umanitario alle zone assediate in Siria e avviando "una cessazione delle ostilità sull’insieme del territorio siriano". Il comunicato della Casa Bianca è di poche righe e si conclude con un "i due presidenti si sono messi d’accordo per restare in comunicazione in merito all’importante lavoro del Gruppo di sostegno per la Siria" - e nasconde la vera preoccupazione dell’amministrazione Usa su cosa fare nel caso il fragile cessate-il-fuoco non dovesse tenere. Il segretario di Stato Kerry si era spinto a minacciare Assad ("siamo pronti a far intervenire truppe di terra"), ma tutti sanno fin troppo bene che Obama farà di tutto per evitare di essere coinvolto in una nuova offensiva di terra nel suo ultimo anno di mandato. In questa situazione il dialogo con Putin diventa l’ultima possibilità che ha la Casa Bianca per non abbandonare la Siria in mano ai russi, ad Assad e a possibili interventi della Turchia e dell’Arabia Saudita. Un dialogo che John McCain - senatore repubblicano sconfitto da Obama nel 2008 - invita a rifiutare per non cadere nell’ennesima trappola del presidente russo. "L’accordo che abbiamo concluso a Monaco non servirà ad altro che a permettere l’ennesima aggressione militare russa". E quasi come una replica arrivano le parole del premier russo Medvedev: "Piaccia o non piaccia Assad è il legittimo presidente, se lo cacciamo la Siria finirà come la Libia". La Russia è sotto attacco da più fronti: ieri il ministro degli Esteri britannico Philip Hammond ha detto che "c’è solo un uomo sulla Terra che può mettere fine alla guerra civile in Siria con una sola telefonata e questo uomo è Putin", mentre diverse cancellerie ritengono che Mosca stia volutamente facendo crescere il flusso di profughi verso la Turchia da Aleppo per mettere pressione sull’Europa. Intanto, la Casa Bianca di Obama deve fare i conti anche con l’altro fronte caldo aperto da Turchia e Arabia Saudita, due suoi stretti alleati nella regione. I caccia di Ankara che bombardano le zone curde hanno provocato la reazione della Francia ("stop immediato ai bombardamenti") ma Ankara non ha intenzione di fermarli: secondo Damasco anzi, sarebbe responsabile anche dello sconfinamento di truppe di terra in Siria. E l’arrivo nella base turca di Incirlik degli aerei da guerra dell’Arabia Saudita che minaccia di inviare anche truppe di terra, rende tutto più complicato. Siria: Staffan De Mistura "domani partono gli aiuti umanitari alle città accerchiate" di Vincenzo Nigro La Repubblica, 15 febbraio 2016 L’inviato Onu De Mistura: "Vertice di Monaco determinante: ora lavoriamo per arrivare a una tregua". Il vertice, le riunioni di Monaco si sono chiuse sabato notte, l’inviato Onu Staffan De Mistura è rientrato a Ginevra, da dove sta negoziando un passo delicatissimo: la partenza dei convogli umanitari che devono entrare in Siria. "Noi stiamo facendo tutto il necessario, gli approntamenti del materiale e i contatti con le parti per far partire i convogli, che entro martedì al massimo partiranno per raggiungere città e villaggi siriani sotto assedio. Per ora Aleppo non è prevista, ma stiamo discutendo anche di questo, in quella città la situazione è complessa. Voglio intanto ringraziare John Kerry e Sergey Lavrov perché nonostante le grandi differenza fra Stati Uniti e Russia, nonostante quello che appare nelle dichiarazioni, nella "guerra di interviste", i due leader hanno dimostrato che hanno ben chiara la drammaticità della situazione in Siria. A Monaco sono stati seduti per ore, a negoziare con le delegazioni su cui hanno influenza, per convincere Iran o Arabia Saudita, Turchia o Qatar che bisogna ridurre la violenza, fare entrare gli aiuti in Siria e permettere poi di avviare veri negoziati politici. Kerry e Lavrov sanno di cosa parlano e sono in grado di onorare gli impegni. Perché poi c’è il terzo punto: avviare una cessazione della violenza, che apra la strada a una tregua generalizzata. Chi vuole la pace deve iniziare a dimostrarlo sul terreno". Ma come giudica le accuse che le parti si scambiano dopo l’accordo? "L’accordo di Monaco è un fatto nuovo, e va tenuto separato dalle dichiarazioni pubbliche, quelle per la tv e i giornali. Questa non è una "dichiarazione", una "invocazione di pace": sono impegni concreti che le parti hanno preso e che potranno essere misurati. Le parti che hanno firmato adesso devono "consegnare la merce". Non è la pace immediata in Siria, ma uno dei primi segnali seri che le cose possono cambiare. Da un punto di vista di tecnica negoziale quando abbiamo interrotto i colloqui indiretti di Ginevra a 2 giorni dall’inizio lo abbiamo fatto perché con il segretario generale dell’Onu avevamo concordato di non coprire colloqui messi in piedi per perdere tempo. Non faremo dei "negoziati sui negoziati". La nostra idea è che ogni passaggio debba essere avviato verificando che gli impegni presi siano stati rispettati. Per arrivare ai colloqui di Ginevra ci sono stati una risoluzione del Consiglio di sicurezza e più riunioni del format Vienna: era stato chiesto di attuare azioni nel settore degli aiuti e dei cessate- il-fuoco: era stato fatto a Ginevra e quanto abbiamo chiestoa Monaco". La Russia sta aiutando? "La Russia è uno fra i paesi più importanti ad aver preso impegni al tavolo di Monaco. Mosca ha molta influenza su Assad, sul governo siriano ed è presente militarmente sul teatro di guerra. Quindi se parliamo di "cessazione delle ostilità" anche Mosca deve dare il suo contributo: ma non soltanto Mosca, tutti devono farlo, e ognuno deve convincere i gruppi su cui ha influenza". Arabia Saudita e Turchia dicono di essere pronte a schierare truppe di terra, i ribelli dicono che mai tratteranno con Assad, lui invece dice che vuole riconquistare tutta la Siria… "C’è un’inevitabile foga declaratoria, fatta di proclami per il proprio pubblico e per gli avversari. E poi c’è la sostanza: verificheremo se i partner più importanti e decisivi saranno in grado di metter pressione sui più riottosi e far avanzare gli impegni sanciti dalla risoluzione 2254 e dallo statement di Monaco. In Siria qualcuno può vincere delle battaglie in più o in meno, ma non c’è una vittoria militare chiara e definita, perché lo scenario è così caotico e frammentato che bisogna iniziare a rimettere a posto i pezzi del disastro, non continuare a fare a pezzi un paese già devastato". Messico: nelle carceri che "scoppiano" il grande affare dei narcos di Virginia Negro La Repubblica, 15 febbraio 2016 La strage del carcere di Topo Chico, Nuevo Leon. Giusto alla vigilia del viaggio di Papa Francesco nel paese centroamericano, gli scontri tra i cartelli della droga provocano 49 morti dentro il reclusorio nella città di Monterrey. Alla vigilia della visita pontificia in Messico, lo stato di Nuevo Leon è stato teatro del più grande massacro della storia penitenziaria del paese. Il carcere di Topo Chico nella città di Monterrey si è trasformato nello scenario di una battaglia tra due carteles, Los Zetas e il cartel del Golfo, che ha mietuto 49 morti e 12 feriti. Nuevo Leon non è nuovo a queste vicende, già nel 2012 il numero dei morti nel reclusorio di Apodaca era arrivato a 44. Il Commissario nazionale della sicurezza, Renato Sales Heredia ha detto al quotidiano La Jornada che i fatti di Topo Chico hanno portato alla luce le mancanze dell’intero sistema penitenziario nazionale, dove il problema del sovraffollamento è enorme: 176 mila posti per 224 mila reclusi, secondo dati della Segreteria del Governo. Storie di violenza, vere e proprie guerre interne che negli ultimi 10 anni hanno fatto più di 300 vittime: nel 2012 nel carcere di Altamira, Tamaulipas, persero la vita in 13 per una rissa tra bande rivali; nel 2013 a Durango un tentativo di fuga terminò in una strage con 24 morti, e la lista è molto lunga…Un’istituzione, quella penitenziaria, che si converte in istanza delittuosa, in cui confluiscono ingiustizia, corruzione, disuguaglianza, disprezzo per la vita, e dove la criminalità si rinnova. Delitto e castigo: la mancata funzione rieducativa del sistema penitenziario. Eppure l’articolo 18 della Costituzione messicana è una delle pietre miliari del moderno diritto penale internazionale. Sulla carta i governi federali articolano il sistema penale sulla base di trattamenti tesi alla rieducazione del condannato. Le istituzioni sono obbligate a fornire al recluso l’educazione fino alla scuola dell’obbligo, un aiuto al reinserimento lavorativo e un accompagnamento spirituale. Dunque si parla di riabilitazione, e non di castigo. Purtroppo la realtà è un’altra, e troppo spesso le carceri sono luoghi in condizioni deplorevoli, avvolti da uno stigma sociale che non facilita un cambio. Sovraffollamento e poco personale specializzato. La piaga del sovraffollamento provoca un annichilamento degli spazi fisici necessari alla scolarizzazione, o alla possibilità di lavorare. Un problema che deriva dalla carenza di strutture adeguate, ma anche da un sistema giudiziario che prevede un uso smisurato dell’istituzione carceraria, quasi il 50 per cento della popolazione reclusa è in attesa della sentenza del processo (fonte Comisión Nacional de los Derechos Humanos, Cndh). Il direttore della Codhem, la Commissione dei Diritti Umani del Estado de Mexico, Baruch Delgado Carbajal, spiega come il sovraffollamento violenta i diritti umani dei carcerati e mette a rischio l’intero sistema penale. Ricorda inoltre come la direzione generale di prevenzione e inserimento sociale dello stato ha dovuto rinforzare i suoi protocolli di vigilanza dopo il caso della morte di un detenuto e la vendita di alcool in vari penitenziari. Un’ ulteriore questione è la mancanza di risorse tecniche, infatti il personale specializzato è pochissimo e il suo salario infimo. Nel caso di Topo Chico le guardie del reclusorio sono solo 250, mentre gli standard internazionali ne prevedono almeno 380: una per ogni dieci persone. Il sistema penitenziario e il crimine organizzato. Secondo il Cndh, urge rivedere quali delitti debbano implicare la pena carceraria, e mette in guardia sull’uso della prigione preventiva. Mentre, secondo l’analisi della Cndh, il carcere viene usato come strumento per fronteggiare la dilagante insicurezza senza distinguere i gradi di gravitá di un delitto. Il Centro Nazionale per I Diritti Umani avverte che sono necessarie misure per trasformare le prigioni in luoghi che rappresentino uno stato di diritto, e non in un caos regolato dallo stato d’eccezione. Purtroppo invece questi spazi si mostrano dei limbi dove può accadere davvero di tutto. È il caso di Piedras Negras, un penitenziario di Saltillo dove, secondo una ricerca della Procura Generale dello Stato, tra il 2008 e il 2011 più di 150 persone sono state uccise da cellule del crimine organizzato, trasformandosi da prigione a cimitero clandestino, utilizzato dai narcos per far scomparire di volta in volta i nemici. Chi sono le vittime della violenza? Paradossalmente, afferma la sociologa argentina Pilar Calveiro, la guerra al crimine organizzato ricorre ad una riorganizzazione giuridica e penitenziaria che porta ad aumentare invece che a diminuire il numero dei reclusi, e lo fa innalzando la pena dei delitti minori. In un contesto di estrema polarizzazione sociale ed economica come quello messicano, la violenza strutturale e repressiva istituzionale ricade in forma massiva sui più pregiudicati dall’iniquità distributiva: i poveri. Nel suo testo Violenza di Stato, l’accademica si chiede chi sia la popolazione carceraria se chi è a capo delle reti mafiose continua ad operare con successo. Secondo Calveiro sono i rei di delitti minori - a dimostrarlo una popolazione con un altissimo indice di recidività - insieme ad un’enorme massa ancora in attesa di giudizio. Come da manuale, sono dunque i più poveri a cadere dentro questo dispositivo, diventando vittime dei narcos, o perché utilizzati come bassa manovalanza criminale o perché minacciati dalle stesse bande e costretti a pagare un pizzo per non essere picchiati, sequestrati o uccisi. La realtà delle carceri femminili. Le realtà delle carceri femminili è differente: in una società altamente machista come la messicana, l’uomo continua ad essere il pater familias anche da galeotto e, grazie al giro di denaro prodotto dalle attività criminali all’interno delle case di reclusione - come la vendita di droga, l’estorsione etc. - spesso è in grado di continuare a mantenere economicamente la sua famiglia. Le carcerate invece spesso soffrono l’abbandono da parte dei familiari, che smettono avere contatti con loro; allo stesso tempo però nei reclusori femminili non ci sono lotte di potere del crimine organizzato. La storia "positiva" di Tzeltal, sposa a 13 anni. Questo permette di dare alla luce anche a storie "positive", come quello dell’indigena Tzeltal Juana, che, accusata dell’assassinio dello suocero, entrò in una prigione del Chiapas nel 2002, dove ha imparato a leggere e a scrivere, cosa che nella sua comunità d’origine le era stata negata in quanto donna. La storia di Tzeltal è quella di altre centinaia di indigene vittime di una violenza machista strutturale: sposa-bambina all’età di tredici anni, picchiata dal marito, che non ha mai denunciato perché le percosse sono cosi comuni da essere normalizzate, o addirittura naturalizzate. Dopo essere rimasta vedova, venne prima violentata e poi minacciata di morte dal suocero: la sua legittima difesa le sta costando 25 anni. Un progetto di alfabetizzazione e reinserimento lavorativo. Nel 2009 Tzeltal conobbe nel penitenziario di San Cristobal la sociologa spagnola Patricia Santos, che coordina da anni un progetto che ha permesso a 54 indigena di ottenere un diploma della Unicach, L’Università del Chiapas. Queste donne seguono un corso di alfabetizzazione, per poi assistere ad un programma scolastico di 13 mesi che prevede anche un reinserimento lavorativo. Per esempio, Lupita, un’indigena accusata dell’omicidio del marito, si occupa a tempo pieno della mensa universitaria della Facoltà di Scienze Sociali dell’università. Esperimenti che sono ancora oasi nel deserto, mentre lo stato di ingovernabilità delle carceri messicane mostra il volto di un paese che si affanna nel tentativo di recuperare un minimo di legalità, quando sempre più spesso sembra che a governare sia solo la legge del più forte. A seguito del nuovo modello previsto di apertura delle celle (minimo 8 ore), gli agenti sono costretti a rimanere all’interno della sezione o all’interno dello stesso gabbiotto, che però non offre nessuna via di fuga in caso di eventi critici. A questo punto ci domandiamo se un istituto di questa portata, con tipologie di detenuti vari (presenti anche i 41 bis), possa garantire sicurezza visiva nelle ore notturne, vista la mancanza di impianti di illuminazione. Quale sono poi i provvedimenti urgenti che l’amministrazione intende mettere in campo per risolvere un problema? E soprattutto quanto tempo bisogna aspettare perché si risolva il tutto?". Egitto: annullata condanna del poliziotto per la morte dell’attivista Shaimaa El-Sabbagh di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 15 febbraio 2016 Shaimaa El-Sabbagh era stata uccisa il 24 gennaio del 2015 mentre manifestava nei pressi di Piazza Tahrir alla vigilia del quarto anniversario della rivoluzione. Shaimaa El-Sabbagh è morta e non avrà giustizia. La Corte di Cassazione ha annullato la condanna a 15 anni di reclusione inflitta ad un agente di polizia riconosciuto colpevole della morte dell’attivista socialista disarmata, uccisa l’anno scorso durante un pacifico corte al Cairo e divenuta un’icona della repressione delle manifestazioni in Egitto. "Il nostro sangue non vale niente" si lamentano gli egiziani. Ma i giudici non hanno tenuto conto dell’indignazione che la loro decisione avrebbe provocato nel Paese hanno ordinato un nuovo processo presso un altro tribunale. Quel maledetto 24 gennaio 2015, alla vigilia del quarto anniversario della rivolta contro il regime di Hosni Mubarak, Shaimaa, 32 anni, si accascia all’improvviso mentre sfila tra i manifestanti, colpita da qualcosa. Un uomo cerca di sorreggerla, ha il volto terreo, non capisce quel che sia accadendo. Il corteo era stato organizzato dal Partito dell’Alleanza popolare socialista egiziana di cui la donna era una dei dirigenti e stava sfilando nei pressi di piazza Tahrir. Secondo l’Autorità di medicina legale Shaimaa è morta per proiettili di gomma sparati da otto metri di distanza che l’hanno raggiunta alla schiena procurandole un’emorragia interna, lesioni cardiache e polmonari. La condanna - Lo scorso marzo il luogotenente Yassin Hatem Salah Eddin è stato accusato di "azione che ha portato alla morte", una sorta del nostro omicidio preterintenzionale L’agente avrebbe colpito la donna, che ha lasciato un bimbo di 6 anni, mentre cercava di disperdere la protesta. Lo scorso giugno è stato condannato a 15 anni di carcere ma ha presentato ricorso vincendolo nel secondo grado di giudizio dell’ordinamento egiziano (la Cassazione). Figlia dell’Egitto - Il presidente al-Sisi, per calmare le accuse di repressione e violenza da parte delle forze di polizia, aveva definito Shaimaa "sua figlia" e "la figlia di tutto l’Egitto" promettendo che i killer sarebbero stati presi. La sua morte aveva messo in evidenza che la draconiana legge egiziana che limita il diritto a manifestare non colpisce solo i Fratelli musulmani, dichiarati terroristi, ma di fatto anche altre formazioni legittime. Dal luglio del 2013, quando il presidente Morsi è stato deposto, 100 poliziotti sono stati accusati di aver ucciso dei civili ma sono stati tutti prosciolti. Afghanistan: record di morti nel 2015, il 62% è causato da "elementi anti-governativi" di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 15 febbraio 2016 Il 2015 è stato l’anno più sanguinoso per i civili in Afghanistan; sono 11.002 le vittime di cui 3.545 morti, il 4% in più rispetto al 2014. I dati sono contenuti nel Rapporto annuale 2015 dell’Onu sulla Protezione dei civili nei conflitti armati. Nel 2009 la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan ha cominciato a contare il numero di afgani feriti o uccisi dopo la fine della missione della Nato. "Il male inflitto ai civili è inaccettabile - ha commentato Nicholas Haysom, rappresentante speciale dell’Onu nel Paese. Rivolgiamo un pressante appello a coloro che infliggono queste sofferenze al popolo afghano ad adottare misure concrete per proteggere la popolazione civile e a mettere un punto finale in questo 2016 alle uccisioni e alle menomazioni dei civili". Il documento, preparato dalla Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) in collaborazione con l’Ufficio per i Diritti umani dell’Onu, mostra che l’aumento dei combattimenti terrestri dentro o intorno ai centri abitati, insieme all’azione dei kamikaze e ad altri attacchi nelle principali città, sono state nel 2015 le cause principali delle vittime e dei feriti collegati al conflitto. Per quanto riguarda le responsabilità delle vittime, secondo il Rapporto il 62% è causato da "elementi anti-governativi" (ma con -10% rispetto all’anno precedente), il 17% da differenti forze filo-governative (in aumento rispetto al passato), mentre un altro 17% riguarda vittime di cui non è stato possibile attribuire la responsabilità. Il restante 4%, infine, è dovuto allo scoppio di residui bellici. "Il prezzo più alto lo pagano i bambini che vengono mutilati, la popolazione deve fare i conti con le sparizioni dei civili, il pianto dei genitori per i figli e dei figli per i genitori, le famiglie che si ritrovano senza i soldi per tirare avanti", ha commentato Haysom. Le donne sono quelle che pagano il tributo più alto, una vittima su due è di sesso femminile con una crescita del 37% rispetto al 2014. Turchia: da 17 anni nell’isola prigione, Ocalan oggi diventa "un curdo napoletano" di Francesco Romanetti Il Mattino, 15 febbraio 2016 Lo descriva in poche parole: chi è Abdullah Ocalan? "Un rivoluzionario e un uomo di pace, un combattente e un politico realista, un pensatore e un pragmatico. Ma soprattutto, da 17 anni, Ocalan è il prigioniero più prigioniero del mondo...". Carmine Malinconico, penalista, dal novembre del 1998 è l’avvocato napoletano di Abdullah Ocalan, detto "Apo", il leader curdo che in regime di isolamento assoluto sconta nell’isola di Imrali, in Turchia, una condanna all’ergastolo, dopo la commutazione della pena di morte in carcere a vita. "Apo" (lo zio in lingua curda) ha 65 anni ed è l’unico detenuto dell’isola-prigione. Ma da oggi Abdullah Ocalan sarà un po’ meno solo: il "prigioniero più prigioniero del mondo", diventerà cittadino onorario di Napoli. Stamattina a mezzogiorno, a Palazzo San Giacomo, sarà il sindaco De Magistris a consegnare l’onorificenza a Dilek Ocalan, nipote del leader curdo e parlamentare del Partito democratico del popolo (Hdp). Dalle 18, al Politeama, si terrà una serata di dibattiti e musica sulla resistenza curda. Ci sarannno lo stesso Luigi De Magistris, Dilek Ocalan e Nicola Quatrano (presidente Osservatorio Internazionale Diritti Umani). Poi il concerto, con 99Posse, Daniele Sepe, EZezi, Jovine, Franco Ricciardi, Granatino, Enzo Dong, ÒRom, Dario Sansone, Zerocalcare. Avvocato Malinconico, come ha conosciuto Ocalan? "Lo conobbi quando giunse in Italia, nel novembre del 98. Costretto a lasciare la Siria, dove si era rifugiato per sfuggire alla repressione turca, era stato prima a Mosca. Da lì era poi venuto in Italia, dove c’erano buone possibilità che ricevesse l’asilo politico. Allora primo ministro era D’Alema. Con Giuliano Pisapia, Arturo Salerni, Angelo Cutolo e altri avvocati, formammo un collegio di difesa. Eravamo tutti ottimisti, anche Ocalan, sulla concessione dell’asilo politico". Ma le cose andarono diversamente. Perché? "Furono le pressioni internazionali sul governo italiano, soprattutto da parte di Turchia e Usa, che spinsero Ocalan a lasciare l’Italia. Fu catturato in Kenia, in seguito ad un complotto, prelevato dai servizi segreti israeliani e consegnato ai turchi. Dal 15 febbraio del 1999 - esattamente 17 anni fa - Abdullah Ocalan vive in condizioni disumane, in totale isolamento. Ricordo che nel 2000, durante il primo processo che lo condannò a morte, a noi avvocati difensori non venne neanche concesso di andare ad Imrali e fummo confinati al porto di Bursa. Fu un processo farsa, del quale anche la Corte Europea di Giustizia chiese l’annullamento. Da mesi anche le visite degli avvocati gli sono negate". Rivoluzionario, uomo di pace: entrambe le cose? "Ocalan è un leader intelligente e realistico. Dal carcere, tra il 2002 ed il 2011, ha proclamato 7 volte il cessate-il-fuoco. Ma il governo turco di Erdogan ha preferito mostrar i muscoli". Come mai un’intesa di pace appare ancora irraggiungibile? "In Turchia i curdi sono quasi 25 milioni. Per anni non hanno goduto di alcun diritto e sono stati perseguitati. La resistenza armata del Pkk è stata lunga, la repressione sanguinosa. Ma è dal 2002 che Ocalan propone un processo di pacificazione. Ha abbandonato l’idea di uno stato curdo indipendente e chiede una democratizzazione di tutta la Turchia, dove tutte le etnìe e tutte le religioni possano convivere con pari diritti. Nel 2012 erano stati avviati negoziati, con delegazioni ufficiali che andavano a trattare con Ocalan a Imrali. Poi, da quando è scoppiata la guerra in Siria, l’irrigidimento di Erdogan ha fatto saltare ogni intesa". Erdogan unico responsabile del fallimento? "Sicuramente il principale. La sua scelta presidenzialista e autoritaria ha reso impossibile ogni trattativa, con la ripresa dei bombardamenti sulle basi dei curdi e il giro di vite contro la popolazione civile". Lei fa parte della Rete-Kurdistan: qual è l’ultimo messaggio die ha ricevuto da Ocalan? "Ocalan ha elaborato un pensiero politico che è la risposta alla barbarie dell’Isis e ad ogni forma di autoritarismo, di razzismo e di intolleranza. Il Pkk propugna oggi un confederalismo democratico, conforme di democrazia diretta che superano la stessa concezione dello stato. Ocalan ha capito inoltre che la parità di genere è uno strumento di liberazione decisivo: non solo in Turchia, ma per tutto il Medio Oriente. Aggiungo io: per tutto il mondo. Oggi le armi di Ocalan sono una visione ecologica, egualitaria e solidale perlina società futura e per un’economia basata su cooperazione e partecipazione popolare. L’idea è far nascere forme di autogoverno dal basso, come sta accadendo nel Rojave, dove le donne curde e gli uomini curdi che combattono contro l’Isis hanno dato vita ad un vero e proprio laboratorio politico-sociale. Il messaggio di Ocalan oggi è questo: superare la modernità del capitalismo attraverso la modernità della democrazia. Per questo il suo messaggio vale anche per noi, non solo per i curdi".