L’emergenza giustizia che "non c’è più" e gli ergastolani senza scampo di Valter Vecellio articolo21.org, 14 febbraio 2016 Nei suoi interventi in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, e in interviste ai giornali il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha detto che su molti aspetti "l’emergenza giustizia non c’è più. Cito due casi. Il primo riguarda il tema della custodia cautelare, a proposito di ingranaggi che rendono possibile il processo mediatico, il secondo riguarda il sovraffollamento carcerario". Affermazione che vuol essere rassicurante, ma discutibile. È ben vero che nel giro di due anni si è passati da 11.500 persone in attesa di primo giudizio, in custodia cautelare, a circa 8.500; e per quel che riguarda le carceri, parola di ministro, "nel 2012, a fronte di una capienza carceraria di circa 47 mila unità, vi era una popolazione carceraria che ammontava a circa 65 mila unità. Quattro anni dopo, una capienza leggermente superiore, pari a circa 50 mila unità, siamo arrivati ad avere 52 mila detenuti: abbiamo portato da 20 mila a 40 mila le pene eseguite all’esterno del carcere, e l’emergenza non c’è più". Orlando poi assicura di non avere preclusioni ideologiche per quel che riguarda l’indulto, ma chiarisce che se l’indulto lo si invoca per "questioni legate al sovraffollamento oggi possiamo dire che quel tema non esiste più". Il Ministro sa bene che con questa risposta in buona misura elude la questione posta già due anni fa dal Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo unico messaggio inviato al Parlamento: quella dell’obbligo di una riforma complessiva della Giustizia per far uscire lo Stato italiano dalla condizione di illegalità certificata da decine di condanne da parte delle giurisdizioni nazionali e internazionali. Riforme che necessariamente richiedono tempo, per essere realizzate con scienza e coscienza; per questo, secondo Napolitano erano necessari provvedimenti di indulto e amnistia. Indulto per decongestionare la situazione nelle carceri; amnistia per "sgomberare" le scrivanie dei magistrati da migliaia di fascicoli relativi a provvedimenti destinati inevitabilmente ad andare al macero per via della prescrizione. Con la differenza che l’amnistia consentirebbe di almeno regolare una situazione che oggi è allo stato brado, è un’amnistia di fatto indiscriminata e incontrollata, affidata, al massimo, al buon senso delle procure; e mille esempi di cronaca documentano che non sempre questo buon senso c’è (per non parlare del senso buono). Ad ogni modo, una risposta al Ministro viene da un’accurata inchiesta de Il Sole 24 Ore: "Una goccia nel mare degli oltre tre milioni di cause penali pendenti e delle altrettante che ogni anno arrivano in tribunale. L’effetto delle nuove misure di depenalizzazione saranno contenuti". Questa, in sintesi, la conclusione dell’inchiesta. Effetti limitati, comunque non immediati. È una depenalizzazione a metà, dicono concordi i magistrati, perplessi per il fatto che nel pacchetto dei provvedimenti non rientri la depenalizzazione del reato di clandestinità; a parte la discutibile legittimità (è sanzionabile il fare, non l’essere), si tratta di un reato, commenta Alberto Candi, reggente della Procura Generale di Bologna "completamente inutile e molto dispendioso". Quanto alle carceri, se da una parte la situazione in generale presenta i miglioramenti citati dal Ministro, per avere un quadro più esaustivo, bisogna anche scendere al dettaglio. La Lombardia, per esempio: il sovraffollamento registrato è del 27 per cento, circa cinque volte più grave della media nazionale. Dove la capienza è di 220 detenuti al massimo, come a Como, ce ne sono stipati 400; è l’83 per cento in più della regolamentare capienza. Se i posti disponibili nelle diciotto carceri lombarde è di poco più di 6.000 posti e i detenuti sono 1.700, qualcosa non va: 397 detenuti invece che 239 a Vigevano; 604 detenuti invece che 403 a Monza; 536 detenuti invece che 330 a Bergamo; e così a Brescia (60 per cento in più), Lodi e a Busto Arsizio (44 per cento in più), 41 per cento in più a Opera; 30 per cento a Brescia; 15 per cento a Cremona; e così via. Per trovare una situazione ottimale occorre andare nel carcere di Bollate: 1.096 detenuti per 1.242 posti disponibili; ma non durerà molto, è da credere. C’è poi un aspetto specifico, ma estremamente significativo, quello dell’ergastolo. Battaglia, è da credere, impopolare; ma non per questo giusta e doverosa. Di ergastolo, e in particolare, quello ostativo, parla un libro prezioso, "Gli ergastolani senza scampo". Di Carmelo Musumeci e Andrea Pugiotto (Editoriale Scientifica, pagg.216. 16,50 euro). Testimonianza in corpore vili; e, insieme, inquadramento tecnico-giuridico, e politico nel senso alto e pieno del significato. Musumeci è un ergastolano, detenuto dal 1991. In cella comincia un percorso di "recupero" che lo porta dalla iniziale licenza elementare alla laurea in Giurisprudenza e alla specialistica in Diritto Penitenziario. Riscatto, e insieme una consapevolezza e una crescita personale e umana che lo trasforma, è indubbio che il Musumeci del 1991 è diverso, "altro" dal Musumeci del 2016. In questo caso si può dire che il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione ("Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato"), ha trovato pratica esecuzione. Pugiotto è un giurista, ordinario di diritto costituzionale all’università di Ferrara; da tempo si occupa delle dimensioni costituzionali del diritto punitivo, si tratti della pena di morte, dell’ergastolo, gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, i Centri di Prima Accoglienza. Il libro è impreziosito da una prefazione del presidente emerito della Corte Costituzionale Gaetano Silvestri; e da un’appendice del professor Davide Galliani. Libro prezioso fin dalle prime righe. Il professor Silvestri mette subito in chiaro: "In tempi di terrorismo internazionale e di perdurante aggressività delle organizzazioni criminali di stampo mafioso, affermare con la giusta decisione principi fondamentali in tema di umanità della pena può suscitare reazioni sfavorevoli, ma è più che mai necessario, sul piano etico e giuridico, per tener fede ai valori posti a base della nostra civiltà…". In sostanza: proprio in tempi di emergenza, di sbandamento e scoramento, ecco che bisogna tener alta e ferma la bandiera del diritto e della legge. Senza deroghe e concessioni securitarie, senza derive demagogiche e strumentali. Già questo concetto, valido per l’Italia ma non solo (e basterebbe ricordare cosa sta accadendo in Francia), dovrebbe costituire materia di riflessione, confronto, dibattito. Un libro, lo descrive bene, Silvestri, "utile a mantenere viva la nostra coscienza critica, perché non si smarrisca il senso della democrazia costituzionale, che dalla tutela dei diritti fondamentali trae la sua principale ragion d’essere". Cos’altro, e di meglio si può aggiungere? Leggetevi il lento, "pesante", opprimente scandire del tempo, delle ore e perfino dei minuti, della giornata dell’ergastolano Musumeci: "Fra pochi mesi compio sessant’anni. Ma è ormai da molti anni che non conto più i giorni, i mesi, gli anni. A che servirebbe? Sono solo giornate vuote e perse. Purtroppo, in carcere non c’è tempo. E senza tempo non c’è vita". Si entra nel cuore e nel vivo della questione: da una parte il precetto costituzionale che la pena deve tendere al recupero del detenuto, e vanno garantiti elementari presupposti di umanità; dall’altra l’esistenza dell’ergastolo ostativo: per cui un detenuto, per il solo fatto di essere stato condannato per uno dei reati previsti dall’art.4-bis dell’Ordinamento Penitenziario, si vede negata la speranza di poter riacquistare mai la sua libertà. Veniamo ai tredici capitoli (più la conclusione), di Pugiotto: con un linguaggio piano di chi sa esporre argomenti complessi in modo che diventino accessibili anche a chi non è "sacerdote" del diritto l’assurdità teorica e l’iniquità pratica dell’ergastolo ostativo: dal punto di vista dell’etica, del diritto, ma anche della mera convenienza. I saggi di Pugiotto dimostrano come non vi sia, dal punto di vista tecnico-formale, alcun ostacolo all’abolizione dell’ergastolo, e non solo quello ostativo. Il succo del discorso è in un capitoletto, "Mantra": "Il principale ostacolo a tali ragionevoli proposte di riforma, miranti al superamento dell’ergastolo senza scampo, non è di ordine giuridico. Va cercato altrove, nelle aspettative sociali verso una pena certa, dura, esclusivamente retributiva, possibilmente neutralizzatrice, da scontarsi fino all’ultimo giorno. È un mantra costituzionalmente stonato, perché la certezza della pena è un concetto flessibile, in ragione dell’incidenza del percorso trattamentale sulle modalità e sulla durata della pena stessa… Tuttavia, è in ragione di tale mantra che per molti (temo la maggioranza) il carcere a vita non fa problema, in nessuna delle sue declinazioni. A mali estremi, estremi rimedi, come usa dire. E se i condannati per reati efferati di criminalità organizzata sono sottoposti a un regime ostativo particolarmente severo, poco male: se lo sono meritati. È una tesi largamente diffusa e di facilissimo consenso. Non può, però, essere la tesi di uno Stato di diritto. Perché la pena dovuta è la pena giusta, e la pena giusta è solo la pena non contraria alla Costituzione". È bene fare tesoro delle parole del presidente Silvestri: "La dignità coincide con l’essenza stessa della persona, non si acquista per meriti e non si perde per demeriti, non è un ‘premio per i buonì e quindi non può essere tolta ai cattivi". Libro, questo "Gli ergastolani senza scampo", che ci si augura venga letto e non solo tra gli addetti ai lavori, che in teoria non dovrebbero averne bisogno (ma avendo sotto gli occhi quotidianamente non pochi "lavori" degli addetti, non è azzardato dire che si tratta di lettura anche per loro preziosa); è soprattutto nelle scuole, che andrebbe diffuso, e commentato e discusso. Dovrebbe esserci, più che una "buona scuola", una "scuola buona"; ma qui fatalmente si scivola in un altro, più complicato discorso. Inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti. "La prescrizione? È un fallimento" L’Arena, 14 febbraio 2016 "Chi governa la giustizia?". È il titolo del convegno che ha inaugurato l’anno giudiziario dei penalisti italiani. L’Unione delle Camere Penali Italiane ha scelto Verona per la cerimonia di inaugurazione, con un’intera giornata di dibattito sui temi della giustizia che ha visto confrontarsi magistrati, giudici, parlamentari e naturalmente avvocati, per discutere non solo dello stato dell’arte in Italia, ma anche della violazione dei diritti fondamentali in Turchia. "Il messaggio che noi penalisti vogliamo ribadire - ha detto il presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, Beniamino Migliucci - è l’importanza del nostro ruolo nella giustizia. E questo evento ne è l’occasione". "L’obiettivo - ha aggiunto - che perseguiamo da anni è quello della separazione delle carriere: magistrati inquirenti e magistrati giudicanti devono avere carriere separate". "La giustizia italiana - ha sottolineato il presidente della Camera Penale Veronese, Federico Lugoboni - non è in buono stato ed il compito di migliorarla spetta non solo all’avvocatura, ma anche alla magistratura e soprattutto alla politica". Quanto alle polemiche quotidiane sulle sentenze, l’avvocato Lugoboni ha concluso: "Preferiamo che dei processi si parli nelle aule di giustizia e non sui giornali". Durante il convegno è stato anche proiettato il video-racconto dal laboratorio teatrale nella carcere di Montorio, presenti il regista Renato Perina e alcuni detenuti in permesso premio. In chiusura "gli stati generali sull’esecuzione penale". "Ogni prescrizione rappresenta un fallimento dello Stato. Ma mai mancherò di ripetere che il problema non si può risolvere esclusivamente allungandone i termini". Lo ha scritto il ministro per gli Affari regionali e le autonomia, Enrico Costa, nella lettera inviata al presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, Beniamino Migliucci per l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani a Verona. "La prescrizione - ha spiegato Costa - è come un faro, un punto di riferimento, un campanello d’allarme per il giudice. Allontanare nel tempo questa scadenza può avere l’effetto quasi automatico di allungare i tempi dei processi". "Per evitare ciò - ha aggiunto - è necessario che ogni modifica normativa sia inserita in un quadro organico, così da rispondere a esigenze diverse: la ragionevole durata dei processi, la presunzione d’innocenza, il diritto di difendersi provando". Il ministro ha poi continuato sottolineando che "questione vada affrontata anche e inevitabilmente sul piano organizzativo. Ancora una volta sono i numeri a dimostrarlo e ad imporci una riflessione. Basta infatti osservare i dati sulla prescrizione per Circondario per renderci conto di una giustizia "a macchia di leopardo", con tribunali che, in presenza di condizioni sostanzialmente equivalenti, in termini di bacino d’utenza e piante organiche, operano e procedono a velocità diverse". Il pg Armando Spataro: "prescrizioni record colpa di leggi sbagliate e vuoti d’organico" di Liana Milella La Repubblica, 14 febbraio 2016 L’allarme del procuratore di Torino dopo i dati shock. "L’azione penale obbligatoria è a rischio". Leggi "cattive", come la ex-Cirielli, una "drammatica carenza di personale", ma anche scelte delle singole procure "ormai superate". Sulla mannaia della prescrizione ecco l’analisi impietosa del procuratore di Torino Armando Spataro che chiede subito "lo stop della prescrizione dopo il rinvio a giudizio". Torino risulta la prima città in Italia per numero di prescrizioni, ben 15.370. Come se lo spiega? "Sono diventato procuratore il 30 giugno 2014 e ho rilevato una situazione delicata per la pendenza di procedimenti sia per effetto di fattori generali, sia particolari, frutto di programmi organizzativi dell’ufficio fondati sui cosiddetti "criteri di priorità". Problemi generali? Quali sarebbero? "Parlo di gravi carenze strutturali, di leggi che fanno proliferare i reati, di quelle cattive come l’ex-Cirielli, ma anche di quelle che vorremmo approvate e che sono ancora lontane dal traguardo. C’è un problema drammatico, se si pensa che da 18 anni non si bandiscono concorsi, che molti impiegati e funzionari sono andati in pensione e ancor di più ne andranno nel 2017, una prospettiva tremenda. E sia ben chiaro che la mobilità da altre amministrazioni, a parte la lentezza delle procedure e la necessità di "tirocinio", non risolve assolutamente i problemi. Ad esempio, alla mia procura non è stata destinata neppure una persona". Quanti guasti sono venuti dalle leggi sbagliate sulla prescrizione? "I danni della ex-Cirielli (si chiama "ex" perché perfino l’ideatore ne volle prendere le distanze...) sono stati ben ricordati da Legnini ieri su "La Repubblica". Adesso è assolutamente necessario che il Parlamento approvi una legge che interrompa il decorso della prescrizione almeno dopo la sentenza di primo grado, anche se sarebbe meglio che ciò avvenisse dopo il rinvio a giudizio". Torniamo a Torino e a quel brutto primo posto in classifica... "È noto che la procura, anche quando esisteva quella presso la pretura, ha adottato per prima in Italia i "criteri di priorità". Lo hanno fatto vari procuratori, tra cui gli ultimi due, Maddalena e Caselli. Secondo quei criteri si dovevano trattare innanzitutto i processi che possiamo definire più gravi per varie ragioni. Questa scelta era certamente virtuosa quando è stata adottata, ma col tempo ha prodotto serie criticità, tra cui innanzitutto l’accumulo di processi inevitabilmente destinati alla prescrizione". Nel suo progetto organizzativa degli uffici del giugno 2015 è scritto che tra gennaio 2010 e dicembre 2014 la procura ha chiesto 43.162 archiviazioni per prescrizione. Un dato shock, non le pare? "L’accumulo di migliaia di processi destinati alla morte rischia di mettere in crisi il principio di obbligatorietà dell’azione penale, il quale non è la malattia da estirpare, ma il malato da guarire. E si tratta di un principio da difendere con le unghie e coi detti in quanto garanzia di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge". Ricorda singoli processi andati al macero che l’hanno colpita? "Sicuramente no, e ne è ovvia la ragione, in quanto i criteri di priorità non toccano certo i reati più gravi. Ma il magistrato non può ignorare il diritto delle parti offese dei cosiddetti "delitti di strada" e di quelli più comuni ad avere piena tutela. Peraltro proprio il Csm, sempre nel 2014, ha approvato un’importante risoluzione in cui dice che il rischio di prescrizione non può certo determinare la trattazione ritardata dei processi, ma deve piuttosto anticiparla". Questa storia delle priorità tanto osannata dalla politica appartiene al passato? "Oggi non abbiamo bisogno di altre priorità, al di fuori di quelle già previste per legge, anche perché sono state fatte scelte deflattive apprezzabili. Mi riferisco alla legge che ha cancellato il processo contro gli irreperibili, a quella che ha introdotto la cosiddetta particolare tenuità del fatto (con possibilità di archiviazione) e alla recente depenalizzazione di un consistente numero di reati". Legnini parla con entusiasmo delle cosiddette buone prassi da adottare negli uffici, lei ci crede? "Serve di sicuro una perfetta intesa tra tribunali e procure per organizzare il loro lavoro, così come chiede il Csm e come sta avvenendo da qualche mese a Torino". Stop alle intercettazioni sensibili, spetterà ai pm eliminare le conversazioni private di Andrea Rossi La Stampa, 14 febbraio 2016 La direttiva verrà sottoposta ad approvazione domani in un’assemblea a Palazzo di Giustizia. Martedì, salvo complicazioni, sarà varata e a quel punto la procura di Torino sarà la prima (e per ora anche unica) in Italia a disciplinare in maniera più stringente l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche. Saranno gli stessi magistrati ad espellere dal fascicolo, entro la chiusura delle indagini, tutte le conversazioni registrate e acquisite che non sono considerate rilevanti. La riforma voluta dal procuratore Armando Spataro prevede una sorta di doppio filtro: da un lato eliminare le intercettazioni telefoniche inutilizzabili, cioè tutte le conversazioni con sacerdoti, avvocati, consulenti tecnici, medici, parlamentari e via dicendo; in secondo luogo accantonare tutto ciò che non è rilevante nel procedimento e al tempo stesso contiene informazioni sensibili, che possono rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni o organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, lo stato di salute e la vita sessuale. Queste conversazioni verranno messe a disposizione degli avvocati difensori, che non potranno chiederne copia ma soltanto ascoltarle negli uffici della procura. Se riterranno che alcune possano rivelarsi utili al processo spetterà verosimilmente al giudice decidere se ammetterle o meno; altrimenti tutto questo materiale verrà distrutto. Tutela della privacy Attualmente con l’avviso di chiusura delle indagini vengono depositate (e quindi messe a disposizione delle parti) tutte le intercettazioni eccetto quelle inammissibili. Successivamente si dovrebbe tenere un’udienza filtro in cui decidere quali conversazioni ammettere al processo e quali escludere ma più spesso la prassi porta a operare questa selezione direttamente durante il processo. La svolta decisa da Spataro risponde alla volontà di tutelare maggiormente la riservatezza degli indagati ed evitare la diffusione di conversazioni prive di rilevanza nell’ambito dell’inchiesta ma fortemente sensibili. "Valutare determinati comportamenti o opinioni non è compito di un magistrato, ma semmai, soprattutto se si tratta di personaggi che rivestono un ruolo pubblico, del cittadino elettore", ha spiegato il procuratore ieri mattina durante un convegno a Palazzo di Giustizia dedicato alla giustizia penale e alle fonti della cronaca giudiziaria. Legge arenata La direttiva della procura di Torino arriva mentre la legge delega affidata al governo per regolamentare l’uso delle intercettazioni sembra essersi arenata. Un provvedimento che all’epoca lo stesso Spataro aveva giudicato pericoloso per il buon esito delle indagini. L’autoregolamentazione voluta dagli uffici torinesi, invece, incassa il sostegno degli avvocati: "È un tema su cui andava fatta riflessione e dal punto di vista processuale non si può che essere d’accordo e valutare positivamente un provvedimento di questo genere", riflette Luigi Chiappero, tra i relatori al convegno di ieri oltre che membro del Consiglio dell’ordine degli avvocati. Non mancano i possibili punti deboli: "Bisogna capire quanto questa nuova prassi non rischi di essere superata dal fatto che molte di queste telefonate vengono inserite nei provvedimenti di custodia cautelare e, quindi, già diffuse durante le indagini. In altre parole, se il filtro esercitato dai pubblici ministeri rispetto al materiale ricevuto dalla polizia giudiziaria sia efficace". Chiusura Opg. Franco Corleone è Commissario del Governo per le Regioni inadempienti Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2016 È Franco Corleone, già sottosegretario alla Giustizia e Garante dei detenuti, il nome designato dal Governo per il ruolo di commissario unico da designare nelle Regioni ancora non in regola sulla dismissione degli Ospedali psichiatrici giudiziari e la conseguente attivazione delle Rems, le strutture residenziali sanitarie gestite dalla sanità territoriale. Le regioni "sotto schiaffo", lo ricordiamo, sono: Calabria, Abruzzo, Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto. Sarà il Consiglio dei ministri a ratificare la decisione del commissariamento nelle sei Regioni, dove risiedono ancora 164 internati (5 donne). Una scelta fortemente sollecitata anche dal ministero della Salute, dopo gli infiniti ritardi accumulati nell’applicare la misura. Il nome di Franco Corleone compare nello schema di delibera del Consiglio dei ministri, all’esame della Conferenza Stato-Regioni. Primo compito del commissario unico, il cui incarico non comporterà nuovi oneri o spese, rientra il garantire la chiusura degli ex Opg e il tempestivo ricovero presso le Rems, previa realizzazione di "strutture comuni in cui ospitare i soggetti internati". Il ruolo di Corleone non si limiterà comunque alle sei regioni commissariate: dovrà infatti "sollecitare" tutte le regioni con Opg "perché procedano a una rapida e completa realizzazione dei programmi di loro competenza già in fase avanzata". Costituzione, democrazia e impegno dei cittadini di Agnese Moro La Stampa, 14 febbraio 2016 "Siamo un gruppo di persone che ha deciso di impegnarsi seriamente per rigenerare la vita civile, morale e sociale del Paese, a partire dalle nostre città. Arricchiti dalle esperienze vissute in questi anni nei percorsi di cittadinanza e legalità sulle orme di tanti testimoni del nostro tempo, ci siamo posti una domanda: cosa possiamo fare noi di concreto per inaugurare un nuovo rinascimento? La Democrazia ha bisogno di un supplemento d’anima e di persone oneste, che, vivendo i valori presenti nella nostra Costituzione, siano in grado di esercitare una cittadinanza attiva per il bene comune. Se ti senti anche tu responsabile del futuro di tutti, non rimanere spettatore passivo, ma diventa protagonista di una pagina di storia da scrivere insieme". Si presentano così gli aderenti alla associazione "Cittadini per Costituzione" (Facebook: Cittadinipercostituzione), nata a Vicenza l’11 settembre 2012 per iniziativa di Franco Venturella, pensionato, una vita nel mondo della scuola e tra i ragazzi. Vice presidente è Manuel Remonato, un giovane che, come tanti universitari o studenti delle superiori, ha accolto la proposta di riflessione, di conoscenza della realtà e di impegno. Con loro numerosi adulti, molti dei quali insegnanti, per condividere un cammino di crescita umana e sociale. Alla sezione di Vicenza si sono presto affiancate quelle di Schio, Valdagno e Bassano. Lavorano per l’educazione delle singole persone, approfondendo argomenti difficili (come i profitti crescenti delle industrie degli armamenti) o quelli di cui si parla molto, ma senza discuterne, come nel caso della violenza contro le donne. Fanno rete con altri cittadini attivi in ambiti come quelli della legalità e della pace, andandoli a conoscere lì dove essi lavorano. Tutto con la guida della Costituzione. L’articolo 27, comma 3 della Costituzione - "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" - è stato il filo conduttore del bel seminario rivolto ai giornalisti organizzato lunedì scorso dalla rivista Ristretti Orizzonti, www.ristretti.org, e dall’Ordine dei giornalisti del Veneto, nel carcere Due Palazzi di Padova. A confronto esperienze e studi per cercare le strade per attuare questo lungimirante, esigente e qualificante dettato costituzionale. Magistrati in politica e commissione Giustizia della Camera Corriere della Sera, 14 febbraio 2016 Nell’articolo "Il paese delle leggi in ostaggio" del 12 febbraio Sergio Rizzo accusa la commissione Giustizia della Camera di aver insabbiato la legge sui magistrati in politica licenziata da tempo dal Senato, e insinua il sospetto di un conflitto di interessi, visto che la commissione è presieduta da un magistrato, Donatella Ferranti, ed è a grande maggioranza composta da avvocati. La questione è mal posta: con questo ragionamento, un professore non potrebbe sedere in commissione Cultura, un sindacalista al Lavoro o un imprenditore in Attività produttive...con uno snaturamento della rappresentanza e un impoverimento del "sapere tecnico", essenziale nell’attività parlamentare. Questa legge, peraltro all’esame di due commissioni, Giustizia e Affari costituzionali, la faremo, e riguarderà anche le toghe che sono assessori o consiglieri negli enti locali. E che non ci sia conflitto di interessi è dimostrato dal fatto che la presidente - magistrato in aspettativa, al momento di candidarsi non esercitava più da 5 anni - ha investito me, né magistrato né avvocato, del ruolo di relatore. Se non è ancora stata approvata non è perché si stia con le mani in mano. In questi 2 anni abbiamo approvato ben 23 fra leggi e decreti, e altri 16 trasmessi al Senato. A questo enorme lavoro ha dato impulso la presidente con autorevolezza e competenza. In 2 anni abbiamo riformato la politica carceraria, varato nuove misure cautelari e pene alternative, i reati ambientali, il voto di scambio politico-mafioso, il falso in bilancio e l’anticorruzione, e introdotto la responsabilità civile dei magistrati (anche qui conflitto di interessi?). E Riforme rilevanti - cito solo il processo penale, la prescrizione, la tortura, la diffamazione, l’omofobia, la class action, la tutela dei segnalatori di reati - sono all’esame del Senato. Nessuno insabbia o rallenta. Se Rizzo vuol richiamare l’attenzione sul fatto che il bicameralismo paritario è un "lusso democratico" che non possiamo più permetterci, beh, non sarò io a dargli torto. Walter Verini, Capogruppo Pd in Commissione Giustizia alla Camera Vorrei ricordare a Verini che due anni sono il 40 per cento della durata di una legislatura. Non credo di essere il solo a considerare assolutamente inaccettabile che una legge approvata da un ramo del parlamento resti impantanata (se non piace il termine insabbiata, che comunque io non ho usato) in una commissione parlamentare per tutto questo tempo. Sono certo che la commissione giustizia in questi anni non se ne sia stata con le mani in mano: se così non fosse sarebbe assai grave. Ma questa non può essere una scusa. Ed è stupefacente che in questa lettera scritta proprio dal relatore di quella legge non ci sia una parola, dicasi una, di autocritica per un ritardo senza giustificazioni che rischia di compromettere l’approvazione di una legge non meno importante delle tante norme citate. Quanto al fatto che la presidenza di una commissione a cui è affidato il compito di condizionare le future carriere dei magistrati sia presieduta da un magistrato, ho posto una questione sacrosanta di opportunità, e niente altro. La stessa questione che non mancherò di porre con la medesima forza quando una legge restrittiva sui distacchi sindacali resterà incagliata per due anni in una commissione lavoro presieduta da un sindacalista. Ne può stare certo. Sergio Rizzo Sicilia: Apprendi (Antigone) "cambiare la norma sulla nomina del Garante dei detenuti" Ristretti Orizzonti, 14 febbraio 2016 Ieri si è svolto a Palermo il convegno sulla legge che dovrebbe istituire il reato di tortura. Il convegno è stato molto partecipato da un pubblico che è intervenuto al dibattito dopo le relazioni degli esperti di diritto e di medicina legale, che hanno più volte fatto riferimento all’art. 27 della Costituzione che recita: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Pino Apprendi: " In Sicilia bisogna cancellare la norma introdotta lo scorso anno che prevede che la carica di "Garante dei diritti dei detenuti" sia rivestita da un dirigente regionale. La stessa è illegittima perché il garante deve assolvere alla vigilanza anche sugli atti che la regione produce in materia. È impossibile, fra l’altro, che un dirigente regionale possa coniugare i carichi di lavoro e le responsabilità affidatagli, con il tempo occorrente per visitare tutte le carceri siciliane e ad ascoltare i detenuti. Sul sito ufficiale della Regione Siciliana risulta garante ancora il sen. Fleres anche se non lo è più da oltre 4 anni e, a proposito di sprechi, continuano a rimanere aperti due uffici, uno a Palermo con due dipendenti e uno a Catania con 6 dipendenti" . Molise: infermieri nelle carceri molisane, 51 ammessi a concorso per soli 9 posti primonumero.it, 14 febbraio 2016 Candidati in 322, ammessi in 51 per soli nove posti disponibili. È il risultato della prima scrematura della commissione costituita dall’Asrem che ha valutato i titoli in possesso di ogni candidato che ha presentato domanda da infermiere nella sanità penitenziaria. Delle 322 candidature presentate per un incarico di collaborazione di otto mesi sono stati 51 gli ammessi e 271 gli esclusi. Il progetto "Sanità penitenziaria e territorio" prevede assistenza infermieristica alle persone detenute nelle Case circondariali - riferisce l’Ansa - che potrà essere svolta anche in istituti diversi appartenenti al territorio di competenza dell’Asrem. L’impegno di lavoro varia da un minimo di 60 ore, ad un massimo di 200 mensili". Alba (Cn): incontro in Comune "ci vorranno settimane per risolvere il caso del carcere" targatocn.it, 14 febbraio 2016 La sala della Resistenza del Palazzo comunale di Alba ha ospitato ieri l’incontro sulla Casa di Reclusione "Giuseppe Montalto" della città chiusa dopo i casi di legionella di fine anno 2015. Al tavolo dei relatori, il Sindaco Maurizio Marello, il neo Ministro agli Affari regionali e alla Famiglia ed ex Sottosegretario alla Giustizia Enrico Costa, il Provveditore di Polizia Penitenziaria di Torino Luigi Pagano, il Garante regionale dei diritti dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà Bruno Mellano e l’euro deputato Alberto Cirio. Di fronte, il corpo di Polizia Penitenziaria del carcere albese insieme al Direttore della struttura Giuseppina Piscioneri rappresentati dall’avvocato Roberto Ponzio ed il Garante comunale dei diritti dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà Alessandro Prandi. "Abbiamo voluto questo incontro con il Ministro e il Provveditore - ha spiegato il Sindaco Maurizio Marello introducendo l’evento - per affrontare il problema della Casa di Reclusione ed avere garanzie sui tempi di riapertura perché serpeggia anche la preoccupazione che possa non riaprire. All’interno ci sono 120 agenti che vi lavorano da molti anni. Qui ad Alba hanno messo su casa e famiglia. Chiediamo risposte. Grazie". "Non abbiamo mai preso in considerazione la chiusura della struttura - ha assicurato il Ministro Enrico Costa - Serve uno studio sulle attività operative da mettere in campo, sulla bonifica e sulla sostituzione degli impianti. Siamo ancora in fase di studio sugli interventi che dovrebbero essere definiti a fine mese. Poi bisogna individuare le risorse. La vicenda non si risolverà in poche settimane. Il mio impegno c’è e la scelta politica è di mantenere la struttura". "Non c’è mai passato per la testa di chiudere il carcere di Alba - ha affermato il Provveditore Luigi Pagano - Piuttosto si è parlato di un accorpamento del carcere di Fossano a quello di Alba. Il ministero ha bisogno di case di reclusione. Per quanto riguarda i tempi, il problema potrebbe anche essere risolto a breve. Entro febbraio dovrebbe essere definita la stima sull’impegno economico poi bisogna bandiere le gare e quindi i lavori potrebbero partire entro l’estate". Sappe: la chiusura del carcere di Alba è un grave danno "Mi sembra importante che dall’incontro di oggi che si è tenuto ad Alba tra il Sindaco, l’ex vice ministro della giustizia Enrico Costa, l’europarlamentare Alberto Cirio, presenti anche il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria Luigi Pagano ed il Garante dei Detenuti, sia emersa la volontà corale di riaprire con urgenza il carcere cittadino. Ne siamo convinti anche noi, fermo restando la necessità di urgentissimi lavori di bonifica". Lo dichiara Vicente Santilli, segretario regionale del Piemonte del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri. "Un carcere chiuso, seppur temporaneamente, significa il venir meno, sul territorio, di un presidio di legalità e sicurezza", prosegue. "Chiudere un carcere vuol dire interrompere ogni attività finalizzata alla rieducazione del reo. Vanno quindi fatti interventi per bonificare la struttura ma garantire la territorialità della pena, perché trasferire i detenuti un po’ in tutta la Regione e in tutta Italia comporta gravi disagi anche per i familiari dei ristretti stessi, che dovranno macinare chilometri per raggiungere e fare visita ai proprio cari. Le garanzie di stabilità devono essere assicurate anche agli Agenti di Polizia Penitenziaria, inviati qua e là in altri carceri. Per tutte queste ragioni, auspichiamo una rapida riapertura del carcere di Alba". Salerno: il caso di Sala Consilina, 14 agenti che fanno la guardia al carcere senza detenuti di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 14 febbraio 2016 "Ancora quindici giorni e il carcere sarà vuoto, vedrete, dentro non rimarrà più niente e nessuno", scommette Lino Bovenzi, da 33 anni medico della casa circondariale di Sala Consilina, Salerno, soppressa con tanto di decreto dal ministero della Giustizia il 27 ottobre scorso. La verità, però, è che sono passati più di tre mesi e dentro ci lavorano ancora 14 agenti e "stanno lì a guardare le mura", dice Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Perché i circa 20 detenuti ospiti della struttura da novembre scorso sono già stati tutti trasferiti in altri istituti di pena. Le guardie, invece, sono rimaste al loro posto e continuano a fare i turni di sorveglianza, 24 ore su 24, otto ore e due agenti per ogni turno. "Ma anche a Savona la stessa cosa - denuncia Capece - il carcere ligure è stato chiuso un mese fa, i 48 detenuti sono già altrove, ma il personale è ancora là, 60 agenti e 2 commissari praticamente inoperosi, mentre in Italia ci sono carceri con carenze d’organico, Salerno per esempio, dove ci vorrebbero almeno 100 agenti in più". A Sala Consilina, la polizia penitenziaria sorveglia le celle dove sono rimaste solo le brande: "È facile ironizzare - reagisce stizzito il dottor Bovenzi. In realtà, è tutto pronto: hanno quasi finito di fare l’inventario eppoi sul tetto ci sono le antenne del ponte radio interforze (carabinieri, polizia, guardia di finanza) da tutelare, insomma non è vero che gli agenti là dentro sono disoccupati. Non passano mica il tempo a giocare a carte...". Il sindaco di Sala Consilina, Francesco Cavallone, è ugualmente furibondo. Il Tar della Campania gli ha appena rigettato il ricorso che lui stesso aveva presentato contro la chiusura della casa circondariale: "La solita cosa all’italiana - si sfoga - il carcere non lo vogliono riaprire in nome della cosiddetta razionalizzazione amministrativa. Però intanto ci tengono dentro agenti e impiegati a fare niente. Io non ce l’ho con il personale, sia chiaro, non farei mai una denuncia alla Corte dei conti. Però dico: allora perché non cedere il bene demaniale al Comune? Così, noi potremmo fare la stessa cosa che abbiamo già fatto quando il tribunale di Sala è stato accorpato a Lagonegro. Nel tribunale dismesso abbiamo spostato il distretto sanitario, l’ufficio di collocamento". Lo stesso Capece, il segretario generale del Sappe, osserva che fare dei turni di 8 ore (con 2 ore di straordinario pagate, dunque) e poi ricevere pure l’indennità festiva e quella notturna per sorvegliare niente, rappresenta uno spreco di risorse incredibile: "Parliamo di circa 300 euro nette mensili per ogni agente - calcola Capece. Io capisco che la presenza del personale serve a scongiurare gli atti di vandalismo, i furti, le occupazioni abusive, ma io stesso ho parlato giusto due sere fa con uno degli agenti di Sala che mi ha confessato il suo disagio. Perché il ministero non convoca un tavolo con i sindacati? Ci sono altre sedi in cui potrebbero lavorare e rendersi utili: Salerno, Eboli, Vallo della Lucania. Il ministero, però, continua a ignorarci". Nuoro: carcere di Macomer, un anno tra degrado insetti e abbandono di Tito Giuseppe Tola La Nuova Sardegna, 14 febbraio 2016 Il ministero non ha accolto le varie proposte di riutilizzo. I sindacati continuano a chiederne la riapertura. Dalla chiusura è già passato un anno e nel carcere vuoto da mesi sono visibili i segni del degrado. Che la struttura è in abbandono lo si capisce già dall’esterno. Le erbacce sono cresciute un po dovunque, attorno si notano dei rifiuti e la catena con lucchetto che chiude il cancello presenta segni di ruggine, segno che non viene tolta da mesi e che da tempo nell’ex carcere non entra nessuno. La scorsa primavera era stata segnalata un’infestazione da insetti richiamati da avanzi di cibo abbandonati dai detenuti e mai ripuliti. Ora ci sono i topi, che hanno trovato un ambiente tranquillo per prolificare. Delle proposte avanzate dall’amministrazione comunale di Macomer per un riuso dei locali, che non possono avere altra destinazione se non quella carceraria, il ministero della Giustizia non ne ha accolto neppure una, o quanto meno non sono mai arrivate risposte. Trascorso un anno è difficile che ne arrivino. L’ultima proposta era quella di creare a Macomer una struttura per detenuti tossicodipendenti. Al degrado ancora recuperabile, intanto, subentrerà presto quello irreversibile creato dall’abbandono e dal vandalismo. Una struttura abbandonata, infatti, non può che finire in preda ai vandali. In pratica sta accadendo ciò che si temeva. Il carcere non è un edificio riciclabile se non demolendo tutto per costruire qualcosa di diverso, per cui non è ipotizzabile un impiego con destinazione molto diversa da quella per il quale era è costruito. Impensabile trasformarlo in un asilo, una scuola o altro. Ancora non si segnalano atti di vandalismo, ma con la partenza dei detenuti e del personale di custodia è rimasto il degrado. "Abbiamo avanzato proposte di riutilizzo fattibili e utili - dice il sindaco, Antonio Succu, - ma evidentemente non interessano. Dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non è arrivato un solo cenno di risposta. I sindacati hanno auspicato in più occasioni la riapertura del carcere di Macomer per far fronte alle situazioni ingestibili presenti e segnalate in altre parti d’Italia che derivano dalla detenzione di persone legate al terrorismo islamico, ma anche questa ipotesi è rimasta sulla carta". Per ristrutturare il carcere di Macomer negli anni scorsi è stato fatto un investimento di oltre un milione di euro. "Soldi buttati alle ortiche, un vero spreco - dice il sindaco Succu -, ma non sono solo questi. Per realizzare la struttura destinata al nucleo cinofili, trasferito altrove, sono stati spesi negli anni scorsi 200 mila euro. Soldi bruciati. Si è chiuso il carcere di Macomer con l’obiettivo di ridurre la spesa, mi chiedo dove è stato il risparmio. Io non l’ho ancora capito". Intanto il degrado avanza. La possibilità di riutilizzare il carcere è legata a una delle proposte avanzate dal comune di Macomer. "L’idea sarebbe quella di utilizzarlo per detenuti tossicodipendenti - conclude il sindaco di Macomer. Presso il Distretto sanitario di Macomer opera un servizio per il trattamento delle dipendenze che potrebbe fornire un supporto sanitario importante. Anche su questo non è mai arrivata risposta". Bergamo: uccise un ladro, i giudici lo assolvono anche in appello di Patrik Pozzi L’Eco di Bergamo, 14 febbraio 2016 Angelo Cerioli, 56 anni, è stato assolto per la seconda volta dall’accusa di omicidio. Il commerciante di macchine da giardino di Caravaggio, che il 25 novembre 2012 aveva ucciso con due colpi da pistola un ladro di nazionalità romena, Dimitru Baciu, mentre quest’ultimo stava compiendo un furto nel suo negozio, è stato riconosciuto innocente dalla corte d’Assise d’appello Brescia: i giudici hanno respinto l’appello presentato dal pm e dalle parti civili sulla sentenza di assoluzione emessa dal tribunale in primo grado. Esprime grande soddisfazione l’avvocato Davide Mancusi che, insieme al professor Angelo Giarda, si sono occupati della difesa di Cerioli. Soprattutto perché, a suo dire, "la sentenza della corte d’Assise di appello potrebbe mettere la parola fine a questa vicenda drammatica". Improbabile che ci possa essere anche un ricorso in Cassazione. Per saperlo bisognerà attendere 45 giorni, che scatteranno dopo che i giudici di Brescia avranno depositato le motivazioni della sentenza (hanno tempo 90 giorni). L’ipotesi è che ricalcheranno quelle della sentenza di primo grado, che avevano riconosciuto a Cerioli di avere agito per proteggere la sua famiglia e proprietà e di non aver sparato pensando che potesse uccidere. La notte del 25 novembre 2012 il commerciante di Caravaggio era stato svegliato da un ladro che, colpendo con una mazza la vetrina, stava cercando di introdursi nel suo negozio da cui poi sarebbe potuto accedere all’abitazione, che si trova al piano superiore. Dopo aver detto ai familiari di chiamare il 112, aveva impugnato una pistola regolarmente detenuta e sparato due colpi dalla finestra di casa. Come stabilito dal tribunale di primo grado, Cerioli, per intimorire il ladro aveva sparato in direzione opposta, verso il piazzale d’esposizione delle piscine dove ignorava che avrebbe potuto colpire Baciu, che in quel momento stava fuggendo: "La corte d’Assise d’appello - spiega ancora l’avvocato Mancusi - potrebbe anche motivare diversamente la sua sentenza. I fatti comunque sono chiari: Cerioli ha sparato unicamente per scongiurare il rischio che potesse accadere qualcosa alla sua famiglia". Benevento: teatro-carcere, le detenute diventano attrici grazie ad Exit Strategy ilquaderno.it, 14 febbraio 2016 Si terrà prossimo 23 febbraio la rappresentazione teatrale curata dall’associazione Exit Strategy. A recitare saranno le detenute della Casa Circondariale di Benevento. "Sorelle nell’aldiquà e nell’aldilà" è questo il titolo della pièce teatrale scritta e interpretata dalle detenute della Casa Circondariale di Benevento che verrà messa in scena il prossimo 23 febbraio alle 9,45, all’interno della stessa struttura. L’iniziativa nasce da un progetto curato da Alda Parrella e Chiara Vesce dell’associazione di promozione sociale "Exit Strategy" con la supervisione del regista e drammaturgo Peppe Fonzo. "È la storia di due sorelle legate da un filo indissolubile che le tiene unite al di là del bene e del male sfidando i tempi e i limiti terreni. Saranno vicine sempre e in ogni luogo cercando di prendere quel ‘trenò che porta alla speranza e che prima o poi arriva per tutti". Sanremo: al Festival la voce di un detenuto, poesia di Giuseppe Catalano letta da Garko di Alice Spagnolo riviera24.it, 14 febbraio 2016 La poesia come strumento per liberare l’uomo, anche da se stesso, dalla prigione e, soprattutto dalla sua prigione. Letta da Gabriel Garko, non senza qualche esitazione, la poesia "P.S. Post Scriptum" di Giuseppe Catalano, porta all’Ariston le parole di un detenuto. La poesia come strumento per liberare l’uomo, anche da se stesso, dalla prigione e, soprattutto dalla sua prigione. È Giuseppe Catalano, detenuto presso il carcere milanese di Opera, ad aver vinto l’ultima edizione di "Parole Liberate: oltre il muro del carcere". "Le sue parole aspettano un musicista che le trasformi in una canzone, fatevi avanti", ha dichiarato Carlo Conti, promuovendo l’iniziativa volta a superare le barriere e i pregiudizi e avvicinare così il carcere alla società civile. Un momento importante: la poesia entra nelle carceri e torna indietro fino a noi, perché la poesia non conosce muri né confini. Conti: i bambini non devono crescere in carcere Gabriel Garko legge sul palco dell’Ariston un testo di un detenuto del carcere milanese di Opera, Carlo Conti ne ha approfittato per lanciare un appello. "Ho visto in carcere i bambini con le mamme detenute. I più piccoli non devono pagare le colpe dei grandi: questo è un mio pensiero personale, perché li ho visti con i miei occhi". Un muro al Brennero per fermare i rifugiati "sarà pronto fra tre mesi" di Vladimiro Polchi La Repubblica, 14 febbraio 2016 L’annuncio di Vienna nel giorno del vertice fra Renzi e il premier austriaco. Ultimatum Ue alla Grecia. Una barriera per bloccare gli ingressi incontrollati. Una carreggiata della strada su cui far sfilare i rifugiati. Una serie di container per ospitare i gendarmi, incaricati di controllare i documenti di chi passa. L’Austria sceglie la linea dura e annuncia la "chiusura" del Brennero: la frontiera con l’Italia. Insomma, stando alla stampa austriaca, entro otto-dieci settimane al massimo al Brennero potrebbe nascere un nuovo "muro" per il controllo dei migranti. Che la situazione sia seria, lo conferma il ministro degli Esteri austriaco, Sebastian Kurz. Parlando in Macedonia, Kurz annuncia che il suo Paese ha quasi raggiunto il numero massimo di rifugiati che prevede di accogliere entro l’anno: il limite dei 37.500 migranti sarà raggiunto "entro un mese" e a quel punto Vienna chiuderà ai profughi le proprie frontiere. Lo studio della nuova barriera è stato realizzato dalla polizia del Tirolo e dai responsabili del confine di Spielfeld (tra Austria e Slovenia), dove già è presente un "muro". Le recinzioni con l’Italia saranno costruite per evitare la fuga incontrollata sia sull’autostrada che sui treni. Il capo della polizia del Tirolo, Helmut Tomac, aggiunge anche che "sarebbe importante negoziare con Roma per allestire una zona cuscinetto intermedia". In risposta, i tre governatori di Bolzano, Trento e Innsbruck annunciano una riunione d’urgenza per lunedì prossimo: "Un eventuale blocco - sostiene il governatore altoatesino Arno Kompatscher, che in serata ha ricevuto anche una telefonata di Renzi - sarebbe per noi un fatto estremamente negativo. La caduta delle barriere al Brennero era stata infatti una pietra miliare nella riunificazione delle parti separate del Tirolo". La notizia della possibile chiusura del confine cade nello stesso giorno in cui a Roma il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, incontra il cancelliere austriaco Werner Faymann. "Non crediamo che la solidarietà europea si verificherà dall’oggi al domani. Per questo - afferma Faymann - nel frattempo dobbiamo controllare i confini. L’anno scorso l’Austria ha accolto 90mila richiedenti asilo: circa l’1% degli abitanti. Adesso il nostro valore massimo è 37mila. Per i prossimi cinque anni accetteremo un numero pari all’1,5% della popolazione. Sui valichi di confine ci prepariamo così a controllare i migranti". Insomma, una parziale conferma dell’annunciata barriera. Altro fronte caldo è quello greco. Su Atene è piombato ieri l’ultimatum del Consiglio Ue: avrà tre mesi di tempo per sanare le "gravi carenze" riscontrate nella gestione delle frontiere esterne, attraverso le quali nel 2015 sono entrati 880mila migranti. Pena la possibilità per gli altri Paesi, soprattutto Germania e Austria, di ripristinare da metà maggio i controlli ai confini interni per un massimo di due anni. Nelle raccomandazioni adottate a Bruxelles si legge che, di fronte a flussi di migranti "senza precedenti, l’intero funzionamento dell’area Schengen è in serio pericolo. Le difficoltà affrontate dalla Grecia hanno un impatto sull’Ue nel suo insieme". Il rischio è che, con il ripristino dei controlli da parte di alcuni Stati, nasca la cosiddetta "mini-Schengen", che isolerebbe la Grecia dal resto dell’Unione. "L’Europa con i muri non esiste", è l’amara constatazione del premier greco, Alexis Tsipras, che durante l’incontro di ieri con la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha messo in guardia dai movimenti di estrema destra, che potrebbero rafforzarsi "se l’Unione non cambia marcia". Il business degli immigrati: campi-lager, coop indagate e Mafia capitale non muore mai di Adriano Scianca Libero, 14 febbraio 2016 Cibo scaduto, sporcizia e poca sicurezza: sequestrati 7 centri profughi in provincia di Avellino Nel Trevigiano una cooperativa vicina a Buzzi gestirà 200 clandestini. Non è cambiato nulla Con "buoni" così non c’è bisogno di "cattivi". Pensiamo solo alle cooperative rosse: pluri-pizzicate con le mani nella marmellata, conclamati centri affaristici senza eguali, eppure nessuno è riuscito a schiodarle dal business dell’immigrazione. E spesso si tratta delle stesse sigle coinvolte nelle inchieste recenti. Prendiamo la provincia di Avellino: 33 centri di accoglienza per richiedenti asilo in cui sono ospitati 1.080 migranti. Ma ne stanno già per arrivare altri trecento nei prossimi giorni. Alleluia. Di sicuro è quel che esclamano le coop, che si sfregano le mani al solo pensiero di tante "risorse" in arrivo. Risorse per il loro portafoglio, ovviamente. Soprattutto se poi, una volta presi i fondi per l’accoglienza, gli immigrati li lasci a loro stessi. Lo ha scoperto, ma è solo l’ennesimo caso, un blitz dei Carabinieri del Nas di Salerno, che ha portato al sequestro di sette centri per rifugiati nell’avellinese. La situazione trovata nelle strutture era da incubo: derrate alimentari in condizioni di pessima conservazione, stato igienico-sanitario raccapricciante, norme di sicurezza pressoché inesistenti. Insomma, prendo soldi per accudirti, poi chi si è visto si è visto, con buona pace delle pie intenzioni. L’inchiesta, coordinata dalla Procura del capoluogo irpino, ha fatto anche emergere gravi inadempienze dei titolari delle cooperative, indagati insieme a fornitori di beni e servizi, rispetto al capitolato d’appalto previsto dalla Prefettura di Avellino. I centri di accoglienza posti sotto sequestro sono quelli di Monteforte, Mercogliano, Serino e Pietrastornina. Oltre all’operazione dei Nas, va segnalata anche la decisione del Prefetto di Avellino, Carlo Sessa, che ha disposto la chiusura, in via amministrativa, di altri tre centri di accoglienza: due sempre a Monteforte, gestiti dalle cooperative "In Opera" e "Engel", uno a Ospedaletto d’Alpinolo, che ospita 60 richiedenti asilo, gestiti dalla cooperativa "In Opera". Ci sarebbe anche una società già coinvolta nell’inchiesta di Mafia Capitale fra quelle sulle quali sta indagando la Procura. Della cooperativa Engel, peraltro, non Salvini ma addirittura la Cgil, nei giorni scorsi, aveva detto: "Gli immigrati non vanno usati per fare business. Chiediamo la revoca immediata dell’appalto a questa cooperativa". Capito? Ma questo è il solito Sud casinista, si dirà. Benissimo, andiamo allora a Onè di Fonte, cittadina in provincia di Treviso, 3600 abitanti. E mille immigrati. Una situazione folle, esplosiva. Tant’è che, alla notizia che ne stiano per arrivare altri 228, è scattata la rivolta capeggiata non da un arruffapopolo brutto, sporco e cattivo, ma dalle suore del paese. Perché sì, va bene Papa Francesco, va bene la misericordia cristiana, ma trasformare un convento in un centro per rifugiati stipato fino all’inverosimile è qualcosa di difficilmente giustificabile anche con le più caritatevoli parabole del Vangelo. I profughi in arrivo, infatti, sono destinati ad occupare l’ex convento di Maria Bambina, affidato dalle religiose alla solita cordata di cooperative in cerca di affari sulla pelle dei fratelli migranti (e degli italiani). Tra queste spicca la Senis Hospesche, che ha a che fare anche con la gestione di quella perla di efficienza e trasparenza che è il Cara di Mineo. Le suore protestano: sui documenti per l’affitto della struttura si parla di "un’ospitalità massima di 50 persone". E invece ce ne stanno per mettere più di quattro volte tanto. Come se non bastasse, il sindaco della cittadina ha fatto notare che "Domus Caritatis", una delle due cooperative che hanno presentato il progetto per ospitare i profughi, "è stata coinvolta nell’inchiesta romana Mafia capitale. È vero che da allora la dirigenza è cambiata tutta, ma forse servirebbe un po’ di prudenza". Ma "prudenza" non è la parola che va per la maggiore, quando si tratta di immigrati. Suona molto meglio "fondi pubblici". O "giro d’affari". "Frutta più della droga", diceva il compagno Buzzi. E a questo punto, dopo aver fatto incazzare persino le suore, non è detto neanche che sia un business più morale. I Nas sequestrano 7 Centri d’accoglienza per migranti e spunta Mafia Capitale La Repubblica, 14 febbraio 2016 Carabinieri in azione nelle strutture che ospitano i richiedenti asilo per fare luce sulle condizioni igieniche. La cooperativa "In Opera" coinvolta nell’indagine romana sugli affari di Buzzi e Carminati. Derrate alimentari in condizioni di pessima conservazione; ambienti con seri problemi strutturali e di sicurezza; carenze anche vistose dal punto di vista igienico-sanitario: questa la situazione che i carabinieri dei Nas di Salerno, insieme ai militari delle Compagnie di Avellino e Baiano hanno riscontrato nel blitz, scattato in mattinata, che ha portato al sequestro di sette centri che in provincia di Avellino ospitano gli immigrati richiedenti asilo. L’inchiesta, coordinata dalla procura del capoluogo irpino, ha fatto anche emergere gravi inadempienze dei titolari delle cooperative, indagati insieme a fornitori di beni e servizi, rispetto al capitolato d’appalto previsto dalla prefettura di Avellino. E sulla vicenda si stende anche l’ombra di Mafia Capitale: "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C’hai idea? Il traffico di droga rende meno", diceva al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Massimo Carminati. I centri di accoglienza posti sotto sequestro dal Gip del Tribunale di Avellino, Fabrizio Ciccone, su richiesta del Procuratore capo, Rosario Cantelmo, sono quelli di Monteforte, Mercogliano, Serino e Pietrastornina. Il magistrato ha anche disposto il differimento del trasferimento degli ospiti delle strutture sequestrate, in attesa di trovare soluzioni alternative di concerto con la prefettura. Contestualmente all’operazione dei Nas, il Prefetto di Avellino, Carlo Sessa, ha disposto la chiusura, in via amministrativa, di altri tre centri di accoglienza: due a Monteforte, gestiti dalle cooperative "In Opera" e "Engel"; uno a Ospedaletto d’Alpinolo, che ospita 60 richiedenti asilo, gestiti dalla cooperativa "In Opera": ed è proprio quest’ultima la società coinvolta nell’inchiesta su Mafia Capitale. Sono complessivamente 33 i centri di accoglienza per i richiedenti asilo operanti in provincia di Avellino nei quali sono ospitati complessivamente 1.080 migranti, ai quali si aggiungeranno altri trecento in arrivo nei prossimi giorni. Siria: l’Onu fa i conti senza gli osti, la tregua è già morta di Chiara Cruciati Il Manifesto, 14 febbraio 2016 Siria. L’Arabia Saudita manda jet e truppe in Turchia, Ankara bombarda i kurdi del Pyd, le opposizioni non abbandonano le armi e la Russia continua i raid su Aleppo: la diplomazia mondiale illude ancora. Staffan de Mistura ha fatto i conti senza l’oste. Il problema è che gli osti sono troppi: tutti i protagonisti della crisi siriana. Si siedono al tavolo, si accordano sulla "cessazione delle ostilità", fanno contento l’inviato Onu per la Siria (l’unico che pare davvero interessato a porre fine al conflitto) e qualche ora dopo minacciano di allargare la guerra a tutta la regione. È durato poco l’entusiasmo, da subito freddino, per l’accordo siglato a Monaco sotto la supervisione di Stati uniti e Russia. Poche ore e i due fronti hanno promesso di darsi battaglia, se possibile con più intensità di prima. Già giovedì, poche ore prima dell’annuncio della cessazione delle ostilità, il presidente siriano Assad aveva chiarito di voler proseguire la lotta al terrorismo, dove con terrorismo intende gran parte delle attività delle opposizioni. A ruota ha fatto seguito la dichiarazione dell’Hnc, l’Alto Comitato per i negoziato, la federazione di gruppi anti-Assad che dovrebbe partecipare al negoziato di Ginevra: il gruppo ha rimandato la decisione sull’adesione alla tregua ai miliziani sul terreno. Che hanno deciso, fanno sapere dai microfoni della Bbc, di non voler abbandonare le armi. Tra i gruppi che hanno promesso di proseguire nell’attività militari ci sono l’Esercito Libero Siriano (braccio armato della Coalizione Nazionale), Ahrar al-Sham e Faylaq al-Sham. Lo scetticismo delle prime ore si è trasformato in un rigetto dell’accordo, perché - dicono - non è previsto l’allontanamento del presidente Assad. Come un coniglio bianco rispunta dal cilindro una precondizione che era stata accantonata, almeno nella prima fase di transizione prevista dalla risoluzione Onu di dicembre. Sauditi e turchi sul piede di guerra - Come i figliocci sul terreno, anche chi li finanzia non freme per cessare il fuoco. Se il fronte anti-Assad, l’asse sunnita guidato dai Saud, non pare nelle condizioni politiche e militari per un’operazione di terra, ne sventola comunque la minaccia per minare alle basi il dialogo promosso dall’Onu. Se il processo politico fallirà - ha detto ieri Adel al-Jubeir, ministro degli Esteri saudita - il presidente Assad sarà rimosso "con la forza". "Bashar al-Assad se ne andrà - ha aggiunto - Non ho dubbi. Faremo quanto possiamo per far funzionare la soluzione politica. Ma se non funzionerà, sarà a causa dell’ostinazione del regime siriano. In questo caso, è chiaro che non ci sarà altra opzione che la sua rimozione forzata". Riyadh si sta muovendo, una preparazione concretamente simbolica: ieri il ministro degli Esteri turco Çavusoglu ha dichiarato al quotidiano turco Yeni Safak (molto vicino al partito Akp del presidente Erdogan) che l’Arabia Saudita invierà nella base turca di Incirlik truppe e jet da guerra e che insieme potrebbero lanciare a breve un’operazione terrestre. Non una base qualsiasi: Incirlik è la stessa che i turchi hanno messo a disposizione sia della Nato che degli Stati uniti per le operazioni aeree anti-Isis in Siria e Iraq. Ovviamente Çavusoglu tiene a sottolineare che l’intervento avrebbe come target lo Stato Islamico, parole palesemente smentite da al-Jubeir quando prospetta l’uso della forza per rimuovere Assad. Così al fianco saudita subito corre la Turchia che in Siria si gioca molto, a partire dal controllo del proprio confine meridionale: al di là della frontiera il Partito di Unione Democratica (Pyd) sta ampliando le porzioni di territorio sotto il proprio controllo, ormai giunto fino al fiume Eufrate. L’avanzamento kurdo preoccupa Ankara che teme la nascita di un’entità autonoma kurda fisicamente contigua ai territori kurdi turchi e quindi in grado di "dialogare" stabilmente con i fratelli al di là della frontiera. Per questo ieri il premier Davutoglu ha prospettato un ampliamento della campagna militare in corso contro il Pkk nel nord dell’Iraq e nel sud della Turchia: "Se il Pyd rappresenterà una minaccia per la Turchia, l’esercito lo bombarderà". Ma i raid sono già iniziati: aerei turchi hanno colpito postazioni delle Ypg nella base aerea di Menagh, nella provincia di Aleppo, dicono fonti governative turche alla Reuters. I bombardamenti sono confermati dal Pyd che su Twitter pubblica le foto dei crateri. Damasco avanza sul terreno - Ad approfittare dello stallo è il governo siriano che, accanto alla controffensiva su Aleppo, ne potrebbe lanciare una parallela contro Raqqa, la "capitale" dello Stato Islamico. Ieri le truppe governative si sono portate a pochi km di distanza dai confini della provincia di Raqqa, facendo immaginare una prossima operazione da ovest, che si accompagnerebbe alla pressione esercitata dai kurdi da nord. Intanto torna a parlare Mosca che ieri avvertiva del pericolo di "guerra permanente" nel caso di intervento esterno. Mentre mostra scetticismo verso l’accordo appena siglato, la Russia continua con i raid intorno Aleppo. I bombardamenti hanno scatenato le stesse dinamiche precedenti all’accordo: Washington ha accusato Mosca di colpire "le opposizioni legittime", accusa ribadita dalla Francia e rispedita al mittente dalla Russia. Le stesse dinamiche che fanno immaginare che nulla cambierà nell’immediato. Il premier russo Medvedev parla di "nuova guerra fredda": "Ogni giorno veniamo accusati dalla Nato di essere la peggiore delle minacce". Ribatte il segretario generale Stoltenberg: "La retorica della Russia e l’esibizione della forza nucleare sono volte a intimidire i vicini, minando la stabilità dell’Europa". Le stesse dinamiche neocoloniali per mantenere un fragile status quo che lascia la Siria agonizzante. L’artiglieria turca spara sui curdi, la crisi siriana rischia l’escalation di Guido Olimpio Corriere della Sera, 14 febbraio 2016 L’azione di Ankara ha subito provocato una risposta da parte di Washington. Le manovre russe per ostacolare la Turchia nello scacchiere. Una crisi sempre più complicata e che rischia di estendersi. L’artiglieria turca ha bersagliato le posizioni dei ribelli curdi siriani YPG nella base di Menagh, postazione nel nord della Siria e non lontano dal confine. Un fuoco di sbarramento accompagnato da un severo monito del premier Davutoglu ai separatisti: dovete ritirarvi dal settore o vi colpiremo ancora. L’azione ha subito provocato una risposta da parte di Washington che ha invitato Ankara ad evitare altri interventi di questo tipo. L’avanzata dei curdi - I curdi, grazie all’appoggio aereo dei russi, hanno conquistato Menagh, un’installazione che era tenuta dai ribelli siriani. Un assalto che si inserisce in una campagna più vasta. A Ovest i guerriglieri YPG sfruttano l’avanzata del regime e sono partner di Mosca: i loro avversari sono di fatto gli oppositori di Assad e l’Isis. A Est, invece, si muovono in coordinamento con gli USA che hanno garantito la copertura aerea. In questa zona il nemico è lo Stato Islamico. Una situazione a dir poco ambigua, visto che Washington è, allo stesso tempo, al fianco dei separatisti e della Turchia. Ankara, invece, è determinata a bloccare i curdi ad ogni costo perché teme una saldatura con quelli che agiscono nel sud est (movimento PKK). I turchi evitano raid aerei - Già nei giorni scorsi i turchi avevano usato i cannoni a lunga gittata per contrastare il passo all’YPG. I generali di Ankara sono stati costretti ad usare queste armi in quanto, per ora, non vogliono rischiare i loro caccia. Un’incursione in territorio siriano provocherebbe la reazione dei russi. Un quadro davvero teso e in evoluzione. L’episodio si inserisce nei movimenti che la Turchia e l’Arabia Saudita stanno preparando. I due paesi si sono detti pronti ad un’azione più estesa, anche terrestre nella parte settentrionale della Siria. E - secondo molte indiscrezioni - Riad ha deciso di spostare jet e soldati nella base turca di Incirlik. I prossimi giorni potrebbero riservare brutte sorprese mentre nello stesso quadrante si affollano migliaia di profughi. Fonti egiziane al Nyt: Regeni "fu preso dalla polizia e scambiato per una spia" di Mariano Maugeri Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2016 Tre funzionari della sicurezza egiziana coinvolti nelle indagini affermano che Regeni "è stato preso" da alcuni agenti il 25 gennaio, giorno dell’anniversario della rivolta di Piazza Tahrir del 2011. Lo scrive il New York Times. Il ragazzo "ha reagito bruscamente, si è comportato come un duro", sostengono le fonti. Tutti e tre, intervistati separatamente - scrive il Nyt - dicono che Regeni aveva sollevato sospetti a causa di contatti trovati sul suo telefono di persone vicine ai Fratelli Musulmani e al movimento 6 Aprile, considerati nemici dello Stato. Chi ha fermato Regeni "ha pensato fosse una spia" aggiungono le fonti. Emergono intanto nuovi particolari sulle torture inferte al giovane ricercatore italiano. Una fonte medico-legale ha rivelato all’agenzia Reuters - che precisa tuttavia di non essere in possesso del documento dei periti - che l’autopsia ha riscontrato sette costole rotte, segni di scosse elettriche sui genitali, lesioni traumatiche e tagli inferti con lame affilate su tutto il corpo, lividi e abrasioni e anche un’emorragia cerebrale. L’esito dell’autopsia è stato secretato dalla Procura generale del Cairo. "Diversi testimoni - prosegue il New York Times - dicono che intorno alle 7 di sera due agenti in borghese davano la caccia ad alcuni giovani nelle strade". Un ulteriore testimone, che ha chiesto l’anonimato, racconta che i due agenti "hanno fermato l’italiano". "Uno gli ha perquisito lo zaino, mentre l’altro gli ha controllato il passaporto. Quindi lo hanno portato via". Secondo questa ulteriore testimonianza, "uno dei due agenti era già stato visto nel quartiere in diverse precedenti occasioni, e aveva fatto domande ad alcune persone su Regeni". Tornando alla testimonianza dei tre funzionari della sicurezza invece, il New York Times ricorda che Regeni stava conducendo ricerche sui sindacati indipendenti in Egitto. Ma, dice uno dei tre funzionari al Nyt, gli agenti "pensavano fosse una spia: dopo tutto - si chiede - chi viene in Egitto a studiare i sindacati?". La sera del 25 gennaio, quinto anniversario della rivolta contro Hosni Mubarak, la polizia egiziana era massicciamente nelle strade del Cairo per assicurarsi che non ci fossero manifestazioni celebrative: gli uomini delle forze di sicurezza fermavano e perquisivano i ragazzi. Un testimone ha raccontato di aver visto due uomini in abiti borghesi fermare il ragazzo italiano nel quartiere di Dokki, intorno alle 19, proprio l’ora in cui risalgono gli ultimi contati del giovane con l’esterno: camminava in strada, a pochi isolati dal suo appartamento. Uno dei due agenti in borghese gli perquisì la borsa, mentre l’ altro gli controllava il passaporto. Poi i due si portarono via Regeni. Il testimone ha aggiunto che uno dei due era già stato visto nella zona e aveva chiesto informazioni sul ricercatore italiano. Le domande al Cairo sul caso di Giulio Regeni di Sergio Romano Corriere della Sera, 14 febbraio 2016 Non sapremo mai con esattezza che cosa sia realmente accaduto al giovane Giulio Regeni quando è stato fermato dalla polizia egiziana il 25 gennaio. Il governo del Cairo continuerà a dichiararsi addolorato per la tragica morte di un cittadino italiano e prometterà che le indagini saranno indipendenti e scrupolose. Ma se le cose sono andate come è lecito supporre, il nome dei veri responsabili rimarrà un segreto di Stato e le circostanze della morte difficilmente ricostruibili. Nella prospettiva del Cairo la riparazione di un atto ingiusto e crudele è molto meno importante, in questo momento, della efficacia del dispositivo di sicurezza con cui il Paese si difende dai jihadisti dell’Isis e dalla fazione radicale della Fratellanza musulmano. E sappiamo che non vi è purtroppo un forte sistema di sicurezza, in un Paese minacciato dal terrorismo islamista, se il governo non lascia ai suoi servizi di polizia un certo margine di libertà. Possiamo indubbiamente deplorare i mezzi con cui il maresciallo Al Sisi ha conquistato il potere e la brutalità con cui impedisce alla stampa di fare il suo lavoro. Ma dubito che un governo straniero possa persuaderlo, in questo momento, a modificare i suoi metodi. Che cosa sarebbe successo se avessimo preteso di spiegare al governo britannico quali erano i metodi accettabili per la lotta contro il terrorismo dell’Ira (Irish Republican Army). Che cosa sarebbe successo se le democrazie europee, dopo gli attentati alle Torri Gemelle, avessero detto al governo americano che i metodi della Cia erano intollerabili, che Guantanamo era un orrendo lager, che non era giusto rapire un imam nelle strade di una delle nostre città per trasferirlo in un Paese (spesso, guarda caso, l’Egitto) dove sarebbe stato torturato? È probabile che in quel momento e in quelle circostanze la risposta britannica e quella americana sarebbero state meno educate di quella ipocrita, ma cortese, con cui il Cairo reagisce alle nostre sollecitazioni. Resta naturalmente la misura a cui i governi ricorrono quando vogliono dimostrare rabbia e sdegno per il comportamento di uno Stato straniero: l’interruzione dei rapporti diplomatici. Ma una tale via d’uscita non avrebbe altro risultato fuor che quello di privarci dei nostri abituali contatti con uno dei maggiori protagonisti dalla regione. Saremmo meno informati su ciò che accade in Medio Oriente e perderemmo il capitale di amicizia che l’Italia ha costruito con quel Paese nel corso degli anni. Occorre riconoscere che siamo in una situazione difficile e imbarazzante. Non possiamo restare indifferenti di fronte a ciò è accaduto in una via del Cairo qualche giorno fa. Ma non possiamo neppure dimenticare che l’Egitto sta combattendo contro un mostro responsabile, tra l’altro della distruzione di un aereo russo pieno di turisti nel cielo di Sharm el Sheikh il 31 ottobre dell’anno scorso e dei massacri di Parigi nello scorso novembre, che si sta difendendo da una organizzazione terroristica che considera Roma uno suoi prossimi obiettivi. Piaccia o no, l’Egitto, in questo momento, è un alleato, non un nemico. Questo non significa che i metodi del governo egiziano debbano essere necessariamente condonati. Oggi più che mai abbiamo il diritto di dire al Cairo che non si vince una guerra, sia pure contro il peggiore e il più crudele dei nemici, senza il sostegno dalla pubblica opinione. È una legge democratica a cui neppure l’Egitto può sottrarsi. Caso Regeni. Il Cairo blocca la diffusione di autopsia e tabulati telefonici di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 14 febbraio 2016 Egitto. Nell’indagine sulla morte di Giulio Regeni, sono stati sottovalutati i rischi che correva. La procura di Giza ha bloccato la diffusione dei documenti inerenti l’autopsia egiziana di Giulio Regeni. In altre parole, il team investigativo italiano al Cairo ha le mani legate e non può fare niente di concreto. Non ha i tabulati telefonici né gli atti dell’autopsia. Le parole del premier Matteo Renzi, sulla diffidenza che innescherebbe in Italia la mancata collaborazione egiziana, suonano come fuochi fatui alle orecchie del ministero dell’Interno egiziano che continua sistematicamente a depistare le indagini. "Tra poche ore arriverà il capro espiatorio", sono le voci che ci arrivano dalla Fratellanza musulmana egiziana. Come a dire, tra poco verrà annunciata la testa che pagherà per l’assassinio senza ottenere la verità dei fatti. Una delle risposte di questa che non è né una "spy story" né l’uccisione di un giovane "per le sue idee" è nelle parole del ministro dell’Interno Ghaffar: "lo tratteremo come un egiziano". E Giulio è stato trattato proprio come un egiziano in tutto e per tutto. Sono state sottovalutate le conseguenze della sua scomparsa da parte dell’ambasciata italiana che non ha avvertito i media come se Giulio fosse un desaparecido egiziano qualsiasi. Ma Giulio era uno straniero giovane e uno studioso impegnato: identikit perfetto da colpire. E poi Giulio Regeni stava per essere ucciso due volte: dall’incidente stradale alla spia, tutte le hanno provate per depistare. Ora il New York Times cita testimoni non meglio definiti che si sono recati all’ambasciata italiana per dichiarazioni spontanee sul prelevamento di Giulio, sotto la sua casa, da parte di uomini in borghese. E poi salta fuori l’alterco con la polizia dopo l’arresto a cui Giulio avrebbe reagito in modo brusco, il block notes con i nomi di uomini della Fratellanza e delle opposizioni. Come se tutte queste cose, come se lo stigma della spia, o addirittura dell’opposizione all’arresto, giustificasse la sua uccisione agli occhi dell’opinione pubblica egiziana. Ma a noi non basteranno mai queste illazioni. E per i maniaci del complotto, la diffusione di queste voci a puro scopo di accreditare la vendetta della polizia contro al-Sisi neppure è una ricostruzione ragionevole, come ha spiegato puntualmente Wael Abbas in un’intervista al manifesto. E poi si sono aggiunti tutti i vicini di casa che improvvisamente non vedono l’ora di parlare, di raccontare di pedinamenti ed intercettazioni. Da dove vengono, chi le alimenta queste voci? Giulio era uno straniero giovane che partecipava a riunioni sindacali. Per questo è stato torturato e ucciso e ora nessuno straniero potrà più recarsi come prima in Egitto. Sono rientrati in Italia per timore il suo amico e docente, Gennaro Gervasio, e Francesca Paci, giornalista de La Stampa. Noi siamo rimasti a raccontare la tragedia di Giulio dall’Italia. Al-Sisi per ora ha ottenuto il suo obiettivo. Ma in nome di Giulio, questo non succederà mai. Il Papa in Messico: narcotraffico metastasi che divora di Carlo Marroni Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2016 La Chiesa non può e non deve sottovalutare "la sfida etica e anti-civica che il narcotraffico rappresenta per l’intera società messicana". Parole molto dure quelle pronunciate da Papa Francesco nell’incontro con i vescovi nella Cattedrale di Città del Messico, davanti alla quale era atteso da 80 mila persone: "Le proporzioni del fenomeno, la complessità delle sue cause, l’immensità della sua estensione come metastasi che divora, la gravità della violenza che disgrega e delle sue sconvolte connessioni, non permettono a noi, Pastori della Chiesa, di rifugiarci in condanne generiche". Alla chiesa messicana il Papa ha chiesto "un coraggio profetico e un serio e qualificato progetto pastorale per contribuire, gradualmente, a tessere quella delicata rete umana, senza la quale tutti saremmo fin dall’inizio distrutti da tale insidiosa minaccia". Insomma, un impegno missionario che deve venire prima di tutto. E ai vescovi dice: basta guerre di potere e intrighi di carriera. "Non c’è bisogno di vescovi principi, bensì di una comunità di testimoni del Signore" ha detto ai 176 presuli, che governano 110 milioni di fedeli. "Solamente una coraggiosa conversione pastorale delle nostre comunità può cercare, generare e nutrire i discepoli odierni di Gesù". "Pertanto - ha affermato - è necessario per i nostri Pastori superare la tentazione della distanza e del clericalismo, della freddezza e dell’indifferenza, del comportamento trionfale e dell’autoreferenzialità". "Guadalupe - ha ricordato il Papa - ci insegna che Dio è familiare nel suo volto, che la prossimità e la condiscendenza possono fare più della forza". "L’esperienza ci dimostra - ha detto Papa Francesco nell’incontro con le autorità e la società civile a Città del Messico, nel palazzo presidenziale - che ogni volta che cerchiamo la via del privilegio o dei benefici per pochi a scapito del bene di tutti, presto o tardi la vita sociale si trasforma in un terreno fertile per la corruzione, il narcotraffico, l’esclusione delle culture diverse, la violenza e persino per il traffico di persone, il sequestro e la morte, che causano sofferenza e che frenano lo sviluppo". Una folla immensa ha accompagnato il lungo trasferimento di Francesco dalla nunziatura al palazzo. "Un futuro ricco di speranza - ha aggiunto - si forgia in un presente fatto di uomini e donne giusti, onesti, capaci di impegnarsi per il bene comune, quel "bene comune" che in questo secolo ventunesimo non è molto apprezzato. L’esperienza ci dimostra che ogni volta che cerchiamo la via del privilegio o dei benefici per pochi a scapito del bene di tutti, presto o tardi la vita sociale si trasforma in un terreno fertile per la corruzione, il narcotraffico, l’esclusione delle culture diverse, la violenza e persino per il traffico di persone, il sequestro e la morte, che causano sofferenza e che frenano lo sviluppo", ha detto Francesco. "Il popolo messicano ha rafforzato la sua esperienza con un’identità che è stata forgiata in momenti ardui e difficili della sua storia da grandi testimonianze di cittadini che hanno compreso che, per poter superare le situazioni nate dalla chiusura dell’individualismo, era necessario l’accordo delle istituzioni politiche, sociali e del mercato e di tutti gli uomini e le donne impegnati nella ricerca del bene comune e nella promozione della dignità della persona". Egitto: prigionieri tentano fuga di massa da un carcere a Giza, un morto e 18 feriti Nova, 14 febbraio 2016 È di detenuto morto e 18 feriti il bilancio di una serie di scontri avvenuti questo pomeriggio nel penitenziario di Hawandeyya, nel governatorato di Giza, dove la polizia ha di bloccare un tentativo di fuga di massa da parte di ben 109 i prigionieri. Lo riferisce il quotidiano egiziano "al Ahram". Per bloccare l’evasione la polizia ha esploso gas lacrimogeni, ma nella calca un detenuto è rimasto ucciso. Secondo una prima indagine l’uomo non è stato ucciso da un proiettile vagante o intenzionalmente, ma dopo essere stato calpestato dalla massa di prigionieri in fuga. Al momento non è chiaro se i prigionieri detenuti nel carcere siano stati condannati per reati politici o per crimini. Turchia: 15mila curdi scendono in piazza a Strasburgo per chiedere liberazione di Ocalan Askanews, 14 febbraio 2016 Manifestanti al grido "abbasso regime fascista" di Ankara. In Francia, quasi 15.000 curdi secondo gli organizzatori e la polizia, si sono riuniti oggi a Strasburgo, per chiedere come fanno ogni anno il rilascio del loro leader storico, Abdullah Öcalan, detenuto in Turchia dal febbraio 1999. L’anno scorso, circa 8.000 persone si erano riuniti per la stessa richiesta. Sventolando bandiere curde, i manifestanti, alcuni venuti dalla Germania, si sono diretti alla zona di Meinau dove, sotto una leggera pioggia, la manifestazione ha avuto inizio intorno alle 13. "Abbasso il regime fascista", hanno gridato due persone riferendosi al governo turco, mentre i giovani brandiva un enorme ritratto di Ocalan, ha detto un giornalista di France Press. Lo storico leader curdo sta scontando l’ergastolo nell’isola-prigione di Imrali nel nord-ovest della Turchia.