Intervista a Cosimo Maria Ferri "come migliorare le condizioni di vita dei reclusi" di Victor Ciuffa Specchio Economico, 13 febbraio 2016 "A causa delle drammatiche dimensioni che ha assunto, il sovraffollamento delle carceri esige soluzioni rapide, che impongono profondi mutamenti legislativi. Il problema del carcere e della sua funzione non può essere affrontato con il vecchio armamentario ideologico di discarica sociale, risalente agli anni 70, né con strumenti ispirati da considerazioni sociologiche. I vecchi pensieri non possono che condurre alle vecchie soluzioni che non hanno portato a nulla ma hanno contribuito ad aggravare il degrado della situazione carceraria". L’afferma il neo-sottosegretario alla Giustizia del Governo Cosimo Maria Ferri che, già magistrato a Carrara, è stato segretario nazionale di Magistratura Indipendente, una delle associazioni dei magistrati, e ha fatto parte del Consiglio Superiore della Magistratura, organo di autogoverno della categoria presieduto dal Capo dello Stato e, in veste di vicepresidente, attualmente, da Michele Vietti. In questa intervista il sottosegretario Ferri illustra i problemi di grande attualità che Governo e Parlamento devono affrontare: il sovraffollamento delle carceri e i frequenti episodi di violenza e maltrattamento delle donne. Domanda. Quali soluzioni il nuovo Governo potrebbe adottare per far fronte al sovraffollamento delle carceri? Risposta. Il problema ha molte cause e non può essere affrontato se non ampliando la ricettività degli istituti di pena, elevando gli standard detentivi secondo le raccomandazioni dell’Unione Europea, limitando il flusso in entrata e considerando come extrema ratio il ricorso alla detenzione in un sistema che avrà sempre meno risorse, cioè giudici, cancellieri ecc. La custodia cautelare in carcere deve avere lo scopo di neutralizzare una pericolosità non fronteggiabile in altri modi, ma comunque in condizioni conformi al senso di umanità. Alle misure attualmente in vigore occorre affiancare ulteriori forme di cautela quali la cauzione o misure interdittive. Tutto ciò senza indebolire il deterrente costituito dalla pena, perché lo Stato non può abdicare alla propria funzione di garantire la sicurezza e la tranquillità dei cittadini. In sostanza la pena detentiva deve essere riservata ai casi più gravi, ai delitti di allarme sociale; e deve essere certa ed effettiva. D. Attraverso quale strada ritiene che si possa giungere a ciò? R. Sviluppando un massiccio sfoltimento delle fattispecie di rilievo penale tramite un ampio ricorso a pene pecuniarie per reati di natura "bagatellare" come ingiuria e minaccia, e di scarso allarme sociale, come avviene in Germania; e attribuendo agli enti locali sia l’attuazione delle pene sia la destinazione del ricavato. È necessario sviluppare anche lo strumento dell’espulsione: il sovraffollamento è legato soprattutto all’alta percentuale di detenuti stranieri che, non avendo risorse all’esterno, non possono fruire di misure alternative. Non ha senso comminare una pena detentiva a soggetti dei quali difficilmente si può ipotizzare un reinserimento sociale nel territorio nazionale. D. Andrebbe fatto ricorso più spesso agli arresti domiciliari? R. Se considerata una soluzione per il sovraffollamento, la detenzione domiciliare è utopistica; presuppone infatti l’assenza di pericolosità e, prima di tutto, la disponibilità di un domicilio effettivo e idoneo. Quanti detenuti stranieri, quanti tossicodipendenti possono contare su una possibilità abitativa esterna? In tale prospettiva, come sanzione alternativa al carcere si dovrebbe estendere l’istituto dell’espulsione e rafforzare il coordinamento tra le Direzioni penitenziarie e gli organi di Pubblica Sicurezza incaricati di eseguire questa misura. D. Nel senso che sarà necessario anche snellire le procedure? R. La riduzione della popolazione carceraria può essere attuata anche sburocratizzando con una serie di interventi la fase dell’esecuzione penale e penitenziaria. Per facilitare il ricorso alle misure alternative, contemperando le esigenze di sicurezza dei cittadini con le finalità deflattive, vanno modificate le norme che limitano la possibilità del giudice di ammettere il detenuto a forme di espiazione della pena esterne al carcere. In casi di condanne di limitata entità, ad esempio entro i tre anni di pena, va ampliata la possibilità del giudice monocratico di applicare le misure alternative sia all’esito del procedimento di merito, sia in sede di esecuzione penale. D. Quindi pene detentive limitate potrebbero essere convertite in alternative anche durante l’espiazione? R. A tal fine la magistratura di sorveglianza andrebbe liberata da tutti i compiti di natura amministrativa che tuttora l’impegnano, rafforzandone il ruolo di giudice dei diritti in posizione di terzietà nei confronti dei detenuti e dell’Amministrazione penitenziaria, accrescendone l’efficacia nei tempi delle decisioni sulle misure alternative alla detenzione. Occorrerà pertanto rafforzare lo status professionale della magistratura di sorveglianza la cui attività - a differenza della giurisdizione di cognizione che si incentra in primo luogo sulla ricostruzione del fatto -, è caratterizzata principalmente dalla valutazione di quella che sarà la futura condotta del condannato. D. Quindi occorre riformare anche il ruolo della magistratura di sorveglianza? R. In un sistema in cui poco più di 150 giudici, su oltre 9 mila in organico, debbono occuparsi dell’esecuzione, in corso o sospesa, del 100 per cento delle infinitamente numerose sentenze penali, oltreché di numerosissime altre competenze, appare auspicabile un miglioramento dell’organizzazione strutturale, ferma nel tempo, della magistratura di sorveglianza. Va messa in grado di far fronte meglio ai propri impegni, che sono esponenzialmente aumentati, anche con il rafforzamento degli organici e la copertura dei posti vacanti dei magistrati e del personale di cancelleria. E il Consiglio Superiore della Magistratura deve promuovere, anche attraverso circolari, la diffusione di "buone prassi" organizzative e asseverare la legittimità di soluzioni già adottate in alcuni Uffici di sorveglianza, ad esempio in materia di rateizzazione della pena pecuniaria o di remissione del debito. D. E quando si tratta di imputati o condannati tossicodipendenti? R. Vanno attivate prassi organizzative e processuali dirette al loro aggancio da parte del Ser.T., in modo da favorire l’eventuale applicazione di una misura cautelare domiciliare presso comunità terapeutiche o strutture sanitarie, così realizzando l’esecuzione dell’eventuale pena nelle forme dell’affidamento terapeutico sulla base dell’articolo 94 del decreto presidenziale 309 del 1990. D. Che cosa propone relativamente alle condizioni detentive e di esecuzione della pena? R. Quale forma privilegiata di metodo rieducativo e agevolativo dell’accesso alle misure alternative alla detenzione, va sviluppato il volontariato da parte dei detenuti, ad esempio in occasione di calamità naturali o di svolgimento di progetti di tutela ambientale o dei beni culturali. Anche attraverso l’adozione delle necessarie modifiche procedurali, vanno assicurate la pronta ottemperanza delle decisioni della magistratura di sorveglianza da parte dell’Amministrazione penitenziaria, l’adeguatezza degli organici e le condizioni di impiego di quest’ultima, in particolare della Polizia penitenziaria e dell’area educativa. D. Mobbing, stalking, femminicidio. Si vanno introducendo nel Codice penale fattispecie di reati già in esso previsti, per di più con nomi stranieri. Non bastava un aggravamento delle pene? R. Lo stalking è definito in psichiatria un "comportamento ostinato e reiterato di persecuzione e molestia nei confronti di un’altra persona". L’articolo 612 bis del Codice penale individua il reato dello stalker o "molestatore assillante" sulla base di due elementi: la ripetitività del comportamento e il fatto di ingenerare un perdurante e grave stato di ansia, di paura nella persona offesa, di timore per l’incolumità propria o per quella di un congiunto, costringendo la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita. Per questo il reato di stalking è stato inserito tra i delitti contro la libertà morale. D. Trattandosi di un reato odioso e sempre più ricorrente, non andrebbe meglio definito? Esistono delle proposte in proposito? R. Si può ipotizzare un aumento di pena e prevedere la possibilità di ricorrere alle intercettazioni, che in questo reato sarebbero senz’altro utili. In particolare si potrebbe aumentare la pena-base prevista nel comma 1 dell’articolo 612 bis del Codice penale, portandola a un massimo edittale superiore ai cinque anni, in modo da far rientrare lo stalking nei reati di cui all’articolo 266 comma 1 lettera a) del Codice di procedura penale, per i quali le intercettazioni sono consentite "ratione poenae". Tra l’altro, portare la pena massima ad esempio a 6 anni magari elevando anche il minimo edittale, potrebbe giustificarsi con la legge 172 del 2012 che ha ratificato la Convenzione di Lanzarote con la quale è stata aumentata la pena del reato di maltrattamenti per certi versi affine a quello di stalking. D. Ci sono anche altre soluzioni? R. In caso di reato commesso contro il coniuge separato o divorziato, o in danno di persona già legata sentimentalmente allo stalker, si potrebbe aumentare l’incidenza dell’aggravante di cui al comma 2 dello stesso articolo 612 bis del Codice penale, trasformandola in aggravante ad effetto speciale; in tal modo, almeno in questi casi, la pena conseguente diverrebbe computabile per intero per raggiungere la soglia prevista per le intercettazioni. Un’altra ipotesi: inserire il delitto di atti persecutori fra quelli per i quali le intercettazioni sono comunque previste, a prescindere dalla pena. D. Spesso gli autori di molestie denunciati o condannati tornano a ripetere gli stessi atti. Che fare? R. Penso che, sempre nell’ottica di un giro di vite, si potrebbero introdurre: il divieto di bilanciamento dell’aggravante di cui all’articolo 612 bis comma 2 del Codice penale, sul modello di altre ipotesi aggravate per le quali il legislatore ha scelto di rendere non bilanciabile l’aggravante; il potere-dovere del giudice di disporre, anche d’ufficio, la custodia cautelare in carcere nel caso di violazione delle misure cautelari non custodiali, riferite ad ipotesi di atti persecutori, quali allontanamento dalla casa familiare e, soprattutto, divieto di avvicinamento, sul modello di quanto già previsto in caso di violazione delle prescrizioni connesse agli arresti domiciliari. A mio parere, questa opzione potrebbe essere efficace, perché sono frequenti i casi di stalker che trasgrediscono alle misure a loro carico; il rischio che commettano nuovi atti persecutori in costanza di misure è spesso sottovalutato. D. E nell’eventualità che la vittima sia minacciata e indotta dallo stalker a ritirare la denuncia? R. Accanto alle possibili modifiche alla legge sullo stalking consistenti in aumenti di pena in funzione preventiva, e cioè per consentire le intercettazioni, si pensa anche all’irritrattabilità della querela. Come nei reati sessuali, al fine di evitare ritorsioni da parte dello stalker dirette ad ottenerne la remissione da parte della vittima, si potrebbe stabilire che la querela non è ritrattabile. Occorre, infine, investire di più nella formazione e attuare campagne finalizzate ad incrementare la sensibilità culturale dei cittadini. Affinché il fenomeno non venga sottovalutato è necessaria, in questa ottica, la formazione nelle scuole, nelle imprese ed anche tra le forze di Polizia. Più che intervenire sulla repressione, il problema oggi è svolgere un’attività preventiva efficace e deterrente. Un ruolo determinante nel comprendere la gravità della situazione l’hanno le forze di Polizia. D. Ritiene opportuno l’impiego, per i responsabili di tali reati, del braccialetto elettronico? R. Sì, ma solo ai casi di stalking nei quali viene applicata una misura cautelare diversa dal carcere; in caso non solo di arresti domiciliari, ma anche di violazione del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, e dell’obbligo di allontanamento dalla casa familiare. Ad oggi non esistono dati su quante donne siano state aggredite dopo la scadenza di misure cautelari o la decadenza di provvedimenti restrittivi; i dati disponibili riguardano soltanto il numero dei procedimenti penali avviati che sono passati da circa 10 mila nel 2009 ad oltre 15 mila nel 2012, e di quelli definiti, pari a 4.500 circa nel 2009 e a quasi il triplo, cioè 13.100, nel 2012. D. Quali misure si stanno rivelando più efficaci? R. Posso dire con sicurezza che maggiore è il ricorso alle misure coercitive - dal divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla vittima fino al carcere -, maggiore è la possibilità che gli atti persecutori non si ripetano in seguito; e, se questo accade, le stesse misure possono essere nuovamente applicate e sensibilmente aggravate, così da liberare la vittima dal proprio persecutore. Posso assicurare che, su questo punto, la sensibilità dei magistrati è molto elevata, così come è costante l’aggiornamento professionale anche attraverso numerosi corsi organizzati sulla materia. D. È necessario accelerare l’esecuzione dei provvedimenti adottati dal giudice a carico degli stalker? R. Non credo necessario introdurre misure ad hoc; una volta che il giudice ha disposto la misura coercitiva, di norma questa viene sempre eseguita in tempi rapidissimi, nel giro di pochi giorni se non di poche ore. Eventuali ritardi sono dovuti solo all’elevatissimo numero di procedimenti che i giudici per le indagini preliminari si trovano ad affrontare, in carenza di organico; procedimenti spesso complessi, il cui studio approfondito richiede tempo. Per cercare di arginare questo fenomeno dilagante i ministri della Giustizia Anna Maria Cancellieri, dell’Interno Angelo Alfano e delle Pari Opportunità Josefa Idem stanno valutando l’ipotesi di istituire un gruppo di lavoro per esaminare il fenomeno stesso e per formulare eventuali proposte anche in ambito normativo. Chiusura degli Opg, la condizione dei pazienti nelle nuove Residenze di sicurezza di Maria Giovanna Faiella Corriere della Sera, 13 febbraio 2016 Presentati a Brescia i primi risultati del progetto Viormed sugli ex detenuti psichiatrici. La cura nelle Rems permette ai malati "violenti" di contenere l’aggressività. Dopo la chiusura degli Opg prevista entro il 31 marzo 2015, in base alla legge n.81 del 2014 "Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari" tutti i pazienti psichiatrici ancora detenuti dovevano essere trasferiti nelle Rems, Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, gestite dai Dipartimenti di salute mentale. Ma, a distanza di quasi un anno, che ne è stato dei pazienti ricoverati? E chi ha commesso atti di violenza e ha bisogno di cure rappresenta un pericolo per la collettività? Conclusioni preliminari - Secondo i risultati preliminari del primo studio di coorte su pazienti con storia di violenza condotto in Italia, "Viormed - Violence risk and mental disorders" - coordinato dallo psichiatra Giovanni de Girolamo, responsabile dell’Unità operativa di Psichiatria epidemiologica e valutativa all’Irccs Fatebenefratelli di Brescia -, un paziente con disturbi psichiatrici e storie di violenza alle spalle, sia che sia stato ricoverato in un Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) che in altri centri, se continua a essere curato in una struttura residenziale non manifesta comportamenti più aggressivi rispetto ai pazienti con diagnosi psichiatrica primaria, ovvero affetti dalle medesime patologie quali schizofrenia, disturbo dell’umore o disturbo della personalità. Aggressività, ma solo "a parole" - Nella prima fase dello studio, finanziata con il 5 per mille della ricerca dell’Irccs di Brescia, è stata esaminata l’aggressività nei pazienti ricoverati nelle strutture di psichiatria forense della Provincia Lombardo-Veneta dei Fatebenefratelli (Brescia, San Colombano al Lambro, Cernusco sul Naviglio, San Maurizio Canavese) e messa a confronto coi pazienti del gruppo di controllo, che avevano la medesima diagnosi ma senza storie pregresse di violenza verso terzi o verso se stessi. Ebbene, i risultati evidenziano solo una leggera tendenza a una maggiore aggressività a livello verbale nei pazienti con storie di violenza alle spalle, dimostrando l’utilità di un contesto protettivo come quello delle strutture residenziali. Nella seconda fase dello studio, finanziata dalla Regione Lombardia, sono stati coinvolti anche i Dipartimenti di salute mentale di Garbagnate, Legnano, Monza e Brescia per verificare i comportamenti dei pazienti trattati in ambulatorio: così sarà possibile confrontare i due regimi di cura. La riabilitazione - I Fatebenefratelli da tempo sono coinvolti nel percorso di cura e monitoraggio dei pazienti con misure di sicurezza e pericolosità sociale attenuata. In Lombardia, il centro Sacro Cuore-Fatebenefratelli di San Colombano al Lambro e il Centro S. Ambrogio-Fatebenefratelli di Cernusco sul Naviglio accolgono persone dimesse da Opg. "È un impegno che fa parte della nostra missione - dice fra Marco Fabello, direttore generale dell’Irccs Fatebenefratelli di Brescia. Nella società dell’efficienza e della competizione non c’è nessuno di più "lontano" di un malato di mente che ha compiuto un crimine e che ha violato le regole della società. La loro riabilitazione è certamente complessa perché sono persone prive di rete sociale che devono ricostruire un tessuto socio-relazionale, partendo spesso da zero - continua Fabello. Tuttavia, se trattate adeguatamente e reinserite in quella rete, queste persone cessano di compiere reati, talvolta secondari al loro stato di abbandono oltre che alla loro psicopatologia". Regioni inadempienti e commissariamento - Ma le Rems, dove secondo la Legge i pazienti psichiatrici devono essere curati, funzionano davvero e sono attrezzate a trattare efficacemente questi pazienti? La quarta Relazione del Governo sul superamento degli Opg, trasmessa al Parlamento lo scorso 22 gennaio, evidenzia che, al 15 dicembre, erano 455 i pazienti trasferiti nelle Rems per ricevere un trattamento e un’assistenza esclusivamente sanitaria a cura del Servizio sanitario regionale. Alcune Regioni non hanno ancora attivato le Rems, nonostante la diffida del Governo. La nomina del Commissario per quelle inadempienti non ha avuto parere favorevole nella Conferenza delle Regioni l’11 febbraio. Ma il Governo va avanti sulla sua strada. Intanto per 164 persone dietro le sbarre nei quattro Opg ancora aperti non è finito il calvario della detenzione. Il boom delle prescrizioni: "cancellati" 132mila processi di Liana Milella La Repubblica, 13 febbraio 2016 I dati del ministero evidenziano che in oltre 80mila casi il tempo massimo per arrivare a sentenza si esaurisce nella fase preliminare. Modifiche ancora bloccate dai veti di Ncd. Deceduti per prescrizione. Ben 132.296 processi nel 2014 negli uffici giudiziari italiani. Con un record nel record, visto che, rispetto al totale, 81.879 cadono prima ancora di arrivare al dibattimento. Come si dice tecnicamente, non superano la fase delle indagini preliminari. A leggerle in percentuale le cifre fanno colpo: nell’ultimo decennio sono finiti al macero il 9,2% dei processi. Ecco gli ultimi dati sulla prescrizione, in possesso di Repubblica, elaborati negli uffici del ministero della Giustizia. Il dossier si apre con il classico prospetto sull’andamento degli ultimi dieci anni, dal 2005, quando a dicembre, dal governo Berlusconi, fu approvata la legge ex Cirielli sulla prescrizione breve, alla fine del 2014. Il dato complessivo, "il totale dell’ultimo decennio", parla di 1.468.220 prescrizioni. Si parte con le 189.588 del 2005, per calare progressivamente alle 113.671 del 2012. Ma dal 2013 il trend cresce, 123.249 nel 2013, e siamo alle 132.296 di due anni fa. Dati disaggregati città per città su cui è inevitabile riflettere politicamente, visto che al Senato è in attesa da molti mesi una legge che cambia il sistema della prescrizione, legge già approvata alla Camera con un forte attrito all’interno della maggioranza tra Pd e Ncd, all’origine della frenata successiva che ha fatto arenare il ddl a palazzo Madama. Ma proprio i nuovi dati di via Arenula costringeranno il governo a fare una riflessione perché dimostrano, come vedremo, che due terzi dei processi soccombono subito, senza arrivare neppure al dibattimento, per cui si impone un interrogativo: ha senso allungare la prescrizione di tre anni, due in fase di Appello e uno in Cassazione, se tanto i processi si prescrivono prima? Ma guardiamo i dati. A partire da che cos’è la prescrizione, bestia nera dello scontro politico, visto che la destra vuole tenerla breve e la sinistra vorrebbe allungarla. Tecnicamente, la prescrizione è il tempo, stabilito per legge, concesso allo Stato per perseguire un reato ed esercitare l’azione penale. Se quel tempo si esaurisce non è più possibile indagare. I dati complessivi del 2014 confermano un trend simile a quello degli anni precedenti: il dato shock degli oltre 80mila fascicoli che si chiudono nella fase delle indagini preliminari, poi i 23.740 che non riescono a superare il giudizio di primo grado. Altri 24.304 "morti" durante il processo di appello. In Cassazione, dove la gestione delle prescrizioni è praticamente matematica, si chiudono solo 930 casi. Ma è il lungo elenco delle prescrizioni maturate tribunale per tribunale che svela quella che l’ex vice ministro della Giustizia Enrico Costa, fresco di nomina al dicastero degli Affari regionali e con delega alla Famiglia, definisce "una giustizia a macchia di leopardo". L’incidenza tra processi definiti e processi prescritti mette al primo posto Torino, con il 34,3 per cento. All’ultimo Bolzano con lo 0,4 per cento. Tra i poli opposti ecco Milano attestata l’11,1%, Bari con il 9,2%, Napoli ferma all’8,8%, Palermo al 6,3%, Catania al 5%, Firenze e Roma affiancate con 4%, Caltanissetta è al 3%, Gela al 2,1%, Napoli Nord all’1,7%, Aosta all’1,4%, l’Aquila all’1,3 per cento. Solo cinque città sono sotto lo "zero virgola". Oggi Costa, all’inaugurazione dell’anno giudiziario delle Unione delle Camere penali che si tiene a Verona, invierà una lettera proprio per denunciare l’alto tasso di prescrizioni. Un pallino il suo, che non contrasta con il suo passato forzista, perché la sua tesi è che la prescrizione non dipende dal fatto che sia lunga o corta, ma dall’organizzazione degli uffici. Dice Costa: "A livello nazionale la percentuale delle prescrizioni è pari all’8,6% rispetto al totale dei procedimenti definiti. Ma analizzando i dati tribunale per tribunale emergono performance, in positivo e in negativo, molto diverse tra loro, frutto di scelte organizzative non coincidenti". La sua tesi, di conseguenza, è che "non è risolutivo un mero allungamento dei termini di prescrizione, ma occorre intervenire sulla gestione degli uffici e sulla selezione nei ruoli dirigenziali di vere e proprie figure manageriali". Ne consegue che Costa, e con lui tutti gli alfaniani che esprimono da due settimane anche il presidente della commissione Giustizia del Senato - l’avvocato reggino Nico D’Ascola - dove "giace" la legge sulla prescrizione, vogliono fermare l’ipotesi del Guardasigilli Andrea Orlando, tre anni in più per ogni tipo di reato. La querelle è politica. Ovviamente coinvolge anche il Csm chiamato a decidere i capi degli uffici, alle prese proprio in questi giorni con la scelta del procuratore di Milano e con ben cinque procuratori aggiunti di Roma. Buoni manager e organizzatori oppure toghe famose come Francesco Greco a Milano, Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Rodolfo Sabelli a Roma? I conti si faranno adesso sulle statistiche. L’Italia "leopardata" in cui si mescolano Nord e Sud: la nordica Venezia ha il 23,7% di prescrizioni, Nocera Inferiore il 22,7. All’opposto, tra i migliori, ecco Verbania con l’1,7% seguita a ruota da Cosenza con l’1,6. Su queste tabelle si gioca la partita del dopo Cirielli. La mutazione genetica della criminalità urbana di Francesco Donato Perillo Corriere del Mezzogiorno, 13 febbraio 2016 Il bacino della nuova dilagante criminalità sono i giovanissimi. Come sostiene Raffaele Cantone, la camorra sta dimostrando la sua straordinaria duttilità, arruolando prima le donne e ora i ragazzini che si armano di pistola e occupano i territori lasciati scoperti dai boss in carcere. Non è un ricambio generazionale, ma una mutazione genetica della criminalità urbana: non vi sono più codici e regole di gestione dell’industria criminale, ma impulsività, improvvisazione, gusto della bravata, alimentati dalle rivalità di clan e dalla sicurezza dell’impunità della condizione minorile. Le gang dei minorenni sono un nemico imprevedibile e beffardo in una guerra asimmetrica che non può combattersi con l’esercito. Se le mafie organizzate si combattono con le forze dell’ordine e con la repressione, le bande minorili no. I minori ci appartengono, sono figli dei nostri quartieri. Abbassiamo l’età della punibilità penale e chiudiamo i ragazzi a Poggioreale piuttosto che a Nisida? Ne spunteranno altri, si moltiplicheranno come colonie di funghi velenosi dal letame delle periferie-dormitorio. La repressione è certamente un atto dovuto, ma è l’aspirina che interviene sul sintomo non sul male. I minori si curano con la speranza, offrendo loro la prospettiva di un’alternativa di vita diversa, quella che solo la cultura del lavoro può dare. Ma qui il lavoro non c’è, dunque mandiamo l’esercito? È questo l’alibi più grande della politica. Siamo in campagna elettorale e a destra e a sinistra non sentiamo un sufficiente impegno a combattere una guerra, che volentieri i candidati sindaco rimandano al Ministro degli Interni. Sì alla sicurezza, alla manutenzione delle strade, a migliorare i servizi, a fare di Napoli una città europea, ma non c’è la proposta di una gioiosa macchina da guerra per combattere l’emergenza minori. Eppure l’esperienza dei "Maestri di strada" abbatte ogni alibi: serve un grande piano per l’inclusione sociale e la cittadinanza attiva nei giovani a rischio di emarginazione. Serve riportarli a scuola, incontrandoli sul territorio nei loro spazi e costruendo relazioni e legami su di un terreno comune. Serve rimotivarli all’apprendimento non solo riportandoli a scuola, ma riformando i docenti alla responsabilità sociale, valorizzando la manualità e le competenze informali dei ragazzi, passando per i laboratori artigiani e di mestiere, abilitando contatti diretti con le tante microimprese del territorio. Serve anche un esercito di assistenti sociali e vigili urbani dedicati a battere casa per casa per denunciare i genitori che non riportano a scuola i figli. Difficile, utopistico? Cesare Moreno, "ò Mast", ama ripetere "siamo come alpinisti, l’asperità della roccia non è ostacolo ma punto di appoggio". Dunque yes we can, si può fare. Ma nei 2009, per motivi ignoti, le istituzioni hanno chiuso i finanziamenti al progetto Chance di Moreno. Nel programma elettorale del neo-sindaco della città metropolitana vorremmo leggere il sostegno istituzionale a un progetto come questo, l’annuncio di un piccolo piano Marshall per la costituzione di un esercito disarmato fatto di queste risorse. Carceri, Idv interroga Orlando su onerosità degli alloggi per la Polizia penitenziaria La Presse, 13 febbraio 2016 Un’interrogazione al ministro della Giustizia "sui criteri che stabiliscono l’onerosità delle unità abitative presso le caserme degli istituti penitenziari che interessa un elevatissimo numero di unità di personale della polizia penitenziaria" è stata presentata dai senatori Idv Alessandra Bencini e Maurizio Romani, su sollecitazione del responsabile del Laboratorio Sicurezza del partito, Aldo Di Giacomo. "A fondare la pretesa onerosa - si legge nell’atto - è l’utilizzo dell’unità abitativa dotata di bagno e assegnata a richiesta per uso esclusivo. Dette unità abitative sono individuate con provvedimento della direzione generale delle Risorse materiali, dei beni e dei servizi, ma rispetto a tale individuazione non si conosce l’attivazione di procedimenti che verifichino la conformità alle norme di settore circa l’adeguatezza ad essere classificate come unità abitative". "Altro nodo da sciogliere attiene alla contabilizzazione degli arretrati. È infatti interesse di chi scrive - prosegue l’interrogazione parlamentare - comprendere la legittimità dell’interpretazione della norma di riferimento attuata dall’amministrazione penitenziaria e se lo stato di inadeguatezza degli spazi adibiti a caserma dia comunque fondatezza alla pretesa economica da parte del Dap". È nullo il giudizio se l’imputato detenuto vuole partecipare ma non viene tradotto in aula di Valeria Bove (Magistrato) quotidianogiuridico.it, 13 febbraio 2016 Cassazione Penale, Sezione III, 1 febbraio 2016, n. 4077. La mancata traduzione all’udienza camerale d’appello, perché non disposta o perché non eseguita, dell’imputato detenuto, eventualmente "fuori distretto", che abbia tempestivamente manifestato in qualsiasi modo la volontà di comparire, determina la nullità assoluta ed insanabile del giudizio camerale e della relativa sentenza. È questo il principio ribadito nella pronuncia della terza sezione della Corte di cassazione n. 4077/2016 (dep. in data 01.02.2016), con la quale è stata annullata con rinvio la sentenza della Corte di appello pronunciata in assenza dell’imputato, detenuto fuori distretto, la cui traduzione non era stata eseguita, nonostante essa, a fronte di una tempestiva richiesta, fosse stata regolarmente autorizzata. Calabria: Radicali; su chiusura Opg Regione inadempiente, pronta nomina Commissario di Emilio Quintieri emilioquintieri.com, 13 febbraio 2016 Radicali e Magistratura di Sorveglianza bacchettano la Regione Calabria. La Regione Calabria, nei prossimi giorni, sarà una delle 6 Regioni d’Italia che sarà commissariata dal Governo Renzi per garantire il completamento del processo di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Lo sostiene l’esponente radicale Emilio Quintieri, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani, che da circa un anno sollecitava, inutilmente, la Regione Calabria a fare la sua parte per contribuire alla chiusura definitiva degli Opg mediante l’attivazione delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems). Nei mesi scorsi, il Presidente della Regione Calabria On. Mario Oliverio, era stato formalmente diffidato dal Consiglio dei Ministri, a garantire la presa in carico dei propri residenti internati negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e di quelli raggiunti da misure di sicurezza provvisorie. In quella occasione, sostiene il radicale Quintieri, avevo detto che sarebbe stata una ulteriore perdita di tempo perché la diffida sarebbe rimasta "lettera morta" e che, invece, il Governo doveva nominare subito un Commissario ad acta per interrompere l’inadempienza della Regione Calabria che, in tutti questi mesi, ha continuato a sperperare una enorme quantità di denaro pubblico sottoscrivendo una convenzione con la Regione Basilicata per ospitare nella Rems di Pisticci 5 internati provenienti dall’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto con un costo di circa 250 euro al giorno per ciascun ospite in base alle giornate di presenza registrate nonché un rimborso spese minimo, indipendentemente dalle presenze registrate, che da maggio a dicembre 2015, è stato quantificato in 152 mila euro. Tale convenzione, secondo quanto pattuito, si sarebbe rinnovata automaticamente e la Calabria per il 2016 oltre alle 250 euro al giorno per ciascun paziente avrebbe dovuto riconoscere alla Basilicata il rimborso spese di 228 mila euro. Allo stato, presso la Rems di Pisticci, sono ospitati 4 internati calabresi a spese della Regione mentre altri 3 sono ospitati nelle Rems di altre Regioni (1 a Palombara Sabina nel Lazio, 1 a Roccaromana in Campania e 1 a Naso in Sicilia). Presso l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, invece, sono ancora illegalmente internati, per la inadempienza della Regione Calabria, 14 cittadini calabresi (13 uomini ed 1 donna). Oltre a noi Radicali, prosegue Quintieri che nei giorni scorsi ha effettuato anche una visita ispettiva presso l’Opg di Aversa unitamente ad alcuni Giuristi, l’inadempienza della Regione Calabria, è stata pesantemente stigmatizzata anche dalla Magistratura di Sorveglianza ed in particolare modo dal Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro Dott.ssa Maria Antonietta Onorati. Il Giudice Onorati, infatti, in una nota inviata a varie Autorità dello Stato e della Regione, tra l’altro, ha denunciato che "la Regione Calabria continua a mantenere un silenzio assordante, sulla problematica dell’inserimento di soggetti giudiziari in strutture residenziali psichiatriche" sottolineando che "la risposta della Regione Calabria è stata, sinora, del tutto deludente. Non si è, infatti, ancora proceduto ad aprire le Rems di Girifalco (la cui apertura non è neppure in programma in tempi brevi) e Santa Sofia d’Epiro (la cui apertura viene rimandata di mese in mese), né si è provveduto, nonostante la riunione citata, a formulare quegli accordi con gli Uffici Esecuzione Penale Esterna e la Magistratura di Sorveglianza per la gestione della riforma, previsti dall’Art. 7 dell’Accordo tra il Governo, le Province Autonome di Trento e Bolzano e le Regioni del febbraio 2015". Il Governo, preso atto che la diffidata Regione Calabria non ha fornito (così come le Regioni Abruzzo, Piemonte, Toscana, Puglia e Veneto) attraverso le dichiarazioni rese e la documentazione presentata, garanzie sufficienti ad assicurare piena e immediata esecuzione ai programmi finalizzati a dare attuazione a livello nazionale alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ed in particolare al programma presentato dalla Regione Calabria ed approvato dal Ministro della Salute con Decreto del 09/10/2013, ha già predisposto un decreto che con molta probabilità - conclude il radicale Emilio Quintieri - sarà approvato dal prossimo Consiglio dei Ministri, col quale delibererà la nomina dell’On. Franco Corleone, già Sottosegretario di Stato alla Giustizia ed attuale Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Toscana, Commissario unico del Governo per provvedere in via sostitutiva in luogo della Calabria (e delle altre Regioni inadempienti), alla realizzazione dei programmi, al fin di garantire la chiusura degli ex Ospedali Psichiatrici Giudiziari e il tempestivo ricovero presso le competenti Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza delle persone ancora ivi internate e di quelle sottoposte a misura di sicurezza provvisoria. Marche: siglato Protocollo d’intesa tra Consorzio di bonifica e Provveditorato alle carceri viverepesaro.it, 13 febbraio 2016 Svolgeranno lavori di manutenzione idraulica e forestale dei corsi d’acqua. Ritrovare un ruolo nella società, rendersi nuovamente utile, anche mentre si sta scontando una pena in carcere. Per dare a tutti una possibilità di riabilitarsi e reinserirsi nel tessuto sociale, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per le Marche e il Consorzio di Bonifica hanno siglato un protocollo d’intesa che offre la possibilità ai detenuti ristretti negli istituti penitenziari delle Marche di reinserirsi e acquisire abilità e competenze professionali che favoriscano il loro progressivo reintegro nel tessuto sociale. A tale fine, il Consorzio di Bonifica delle Marche si è reso disponibile ad ospitare attraverso il Consorzio Marche Verdi (che raggruppa cooperative forestali che operano nel territorio regionale) dei detenuti che saranno coinvolti nell’ordinaria attività di manutenzione idraulica e forestale dei corsi d’acqua. Il progetto garantirà loro anche opportunità di acquisire delle conoscenze e competenze di cui avvalersi al termine dell’esecuzione della pena. Il protocollo d’intesa rientra nel progetto "Il lavoro penitenziario: una sfida per tutti", redatto dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per accrescere le competenze umane e professionali delle persone. Il protocollo appena siglato coinvolgerà ora le Direzioni degli Istituti penitenziari della Regione Marche che dovranno sottoscrivere accordi operativi con il Consorzio laddove vi siano le condizioni per sostenere l’inserimento in ambiente esterno di persone in esecuzione di pena. Lazio: Consigliere Cangemi "convegno sulle carceri per confronto operatori-istituzioni" Askanews, 13 febbraio 2016 Le criticità che affliggono gli istituti penitenziari di Roma e le possibili soluzioni. Sono i temi al centro dell’incontro "Garantire la giustizia - giusta pena e giusto reinserimento" che si svolgerà il 15 febbraio presso il Consiglio regionale del Lazio, promosso dal consigliere Giuseppe Cangemi, presidente della III Commissione, in collaborazione con l’associazione Gruppo Idee e "Dietro il Cancello", giornale della Casa Circondariale di Rebibbia nuovo Complesso. "Vogliamo accendere i riflettori sulle tante problematiche delle carceri romane dando voce a quanti ogni giorno vivono la realtà dei nostri istituti penitenziari" spiega Cangemi "al termine dell’incontro sarà redatto un documento da consegnare alla Giunta Zingaretti, evidenziando non solo le criticità ma anche le proposte per risolverle". I lavori moderati da Arturo Diaconale, direttore de L’Opinione e presidente dell’associazione Tribunale Dreyfus, saranno introdotti dai saluti del vice presidente della Regione Lazio, Massimiliano Smeriglio, e del vice presidente del Consiglio regionale del Lazio, Francesco Storace, e proseguiranno con gli interventi di Nino D’Ascola, presidente Commissione Giustizia del Senato; Massimo De Pascalis, vice capo Dap; Marta Bonafoni, consigliere regionale; Augusta Iannini, vice presidente Autorità Garante Privacy; Antonino Di Maio, sostituto Procuratore; Laura Alessandrelli, magistrato di Sorveglianza di Roma; Mauro Mariani, direttore Rebibbia Nuovo Complesso; Ida Del Grosso, direttrice reggente Rebibbia Femminile; Annunziata Passannante, direttrice Rebibbia Terza Casa; Roberto Rialti, commissario Polizia Penitenziaria; Maria Brucale, avvocato Camera penale di Roma. Conclude, Giuseppe Cangemi, presidente III commissione Consiglio regionale Lazio. Puglia: il Presidente del Consiglio regionale Loizzo visita il penitenziario di Bari Ansa, 13 febbraio 2016 Il presidente del Consiglio regionale pugliese, Mario Loizzo, ha visitato la casa circondariale di Bari dove, in compagnia del direttore generale dell’Asl Bari, Vito Montanaro, ha incontrato il direttore, Lidia de Leonardis e lo staff dirigente. È detto in una nota della Regione. Nel corso dell’incontro "sono state approfondite ulteriormente le esigenze dei servizi sanitari interni, le condizioni lavorative del personale carcerario e della salute di chi è ristretto nell’istituto di pena. La visita segue quella già realizzata qualche settimana fa, con l’impegno di garantire migliori servizi, tesi ad evitare ricoveri esterni e assicurare assistenza ai reclusi - con particolare attenzione alla sfera psichiatrica - in strutture sanitarie attrezzate nell’area di detenzione". "Insieme al garante per i detenuti Pietro Rossi - ha dichiarato Loizzo - stiamo provvedendo a dare risposte a criticità antiche e a situazioni che vanno affrontate con determinazione, consapevoli che la medicina penitenziaria è materia di assoluta complessità, che non va lasciata in condizioni di abbandono". "Le esigenze - prosegue la nota - possono essere riassunte in tre grandi sezioni, secondo il manager dell’Asl Bari: la ristrettezza degli ambienti che ospitano le strutture sanitarie intra-carcerarie, la necessità di sostituire attrezzature vetuste e tutti gli aspetti legati ai rapporti contrattuali col personale medico e paramedico impegnato". "La sanità penitenziaria. conclude - rientra nel servizio sanitario regionale, da qui la competenza dell’azienda barese della salute, già impegnata a rispondere alle necessità. All’ammodernamento delle apparecchiature si sta provvedendo nell’ambito dei programmazione dei finanziamenti 2014-2020 e viene dedicata attenzione anche alle risorse professionali. Si va verso la stabilizzazione di un organico in gran parte precario, ha fatto sapere il direttore generale Montanaro. Definito l’inventario di tutte le tipologie contrattuali, per disegnare una mappa dell’unità operativa, si andrà verso una struttura sanitaria stabile, a vantaggio del servizio e, naturalmente, per assicurare assistenza qualificata agli ospiti, a garanzia del loro diritto alla salute". Verbania: i Radicali effettuano sopralluogo in carcere "gestione ottimale dell’istituto" verbanonews.it, 13 febbraio 2016 Sono 59 i detenuti ospiti del carcere di Verbania, suddivisi in 3 sezioni: sex offender (11), ex-appartenenti alle forze dell’ordine (11), detenuti comuni (47). Sei oltre i 53 di capienza ma molto al di sotto degli 89 di tollerabilità. Gli agenti di polizia penitenziaria in organico sono 58, in pratica uno per ogni detenuto. Gli stranieri sono 17. In 10 lavorano dentro nella cucina del carcere, quattro alla pasticceria della "Banda Biscotti". Gli altri 3 lavorano all’esterno: nei comuni di Verbania e Cossogno, alla mensa sociale "Gattabuia" di villa Olimpia. Non è ancora partito il progetto di manutenzione dei boschi del Monte Rosso affidati dal comune di Verbania alla cooperativa "Comunità Verde" che prevedeva l’impiego, inizialmente di un detenuto, in prospettiva di 3 accanto a disoccupati di lunga durata. Questo lo "Stato dell’arte" della casa circondariale di pena in via Castelli rilevato, stamattina, dalla delegazione del Partito Radicale composta da Antonio Montani, Gianpiero Bonfantini, Augusto Verzetti, Giovani Pagani accompagnati dalla Garante dei diritti dei detenuti del comune di Verbania, Silvia Magistrini. "Una gestione ottimale - ha riconosciuto Montani - che si scontra con i limiti strutturali dell’edificio e il divieto di interagire tra le 3 sezioni esistenti, che diventeranno 4 dopo l’ultimazione della ristrutturazione interna al piano attualmente non utilizzato, destinato ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione". Già oggi è complesso gestire la rotazione dell’ora d’aria. Il cappellano del carcere, il venerdì e il sabato giorni in cui si celebrano le messe, è costretto a celebrare 3 volte per i detenuti che desiderano osservare il precetto religioso. Milano: "Vincerò le pulsioni" la rieducazione del pedofilo pentito di Piero Colaprico La Repubblica, 13 febbraio 2016 "Io sottoscritto Salvatore X (…) riconosco che la società ha paura degli autori di reati sessuali. M’impegno a far sì che la sicurezza della comunità sia la mia primaria priorità". È questo un patto chiaro: un contratto, tra un pedofilo, ex detenuto, e chi lo aiuta. L’ha firmato un uomo di mezza età, in attesa del giudizio d’appello per pedopornografia aggravata, convinto (e spaventato) di tornare in galera. In azienda i colleghi ignorano la sua storia. È riuscito a mimetizzarsi, nonostante sei mesi di carcere preventivo e la condanna in primo grado a circa sei anni. Alla fine del processo ha ascoltato il pubblico ministero domandare per lui l’arresto immediato in aula e il giudice riservarsi tre giorni per decidere: "In quei tre giorni avevo sul letto due cose. La valigia per il carcere e un sacchetto di plastica". Un sacchetto di plastica? "Per suicidarmi", risponde Salvatore. Siamo seduti l’uno di fronte all’altro in bar tra i grattacieli dell’Isola, che la pioggia rende lucidi come specchi. Dal tavolo accanto ci ascoltano senza perdere una battuta due psicologhe, Arianna e Chiara, e un sociologo, Domenico. L’intervista è totalmente libera, ma siamo "dentro" un esperimento terapeutico unico in Italia, che Salvatore inizia a raccontare così: "Sono un mostro, mi dicevo. "È la mia natura, sono nato in questo modo, e ora che faccio?". Ma a chi puoi confidare che provi pulsioni sessuali per i bambini?". Salvatore sceglie le parole: "Inevitabilmente, sin da giovane, ti isoli. A me sarebbe piaciuta una famiglia. Però vuoi figli? Cioè, il tuo è un desiderio legittimo? O si tratta di un espediente per avere sottomano…? Quindi, niente. E poi, le donne, non le vedo. La mia eccitazione va in una sola direzione. "Salvatore - mi dicevo - fisicamente tu non fai male a nessuno, ti vedi i filmati, trovi da solo soddisfazione immediata", finché quattro anni fa, alle 7 di mattina, la polizia postale ha buttato casa mia per aria e la sera stessa sono finito in cella d’isolamento. Anche le guardie trattano quelli come me da appestati. Ero all’inferno e quando ho sentito il mio avvocato parlare di una possibilità…". A Milano funziona il Centro italiano per la promozione della mediazione (C.i.p.m.), basato su un concetto chiaro: non può il diritto penale costituire l’unico collegamento tra chi causa un torto e chi lo subisce. Un criminologo, Paolo Giulini, che assieme alla collega Francesca Garbarino lavora da anni nella sezione speciale per gli autori di crimini sessuali del carcere di Bollate, ha studiato (ci sono testi in Canada e Belgio) un percorso di recupero: "Tutto è molto rigido, con scadenze e con incontri fissi. Ci sono i "Gruppi", dove - racconta Salvatore - incontro persone come me, i "mostri". Condividiamo le emozioni, ma anche i meccanismi che portano al reato, sentimenti e stress. Non ti senti più unico, un po’ aiuta… E poi c’è il "Circolo sostegno di responsabilità", dove, se così posso dire, l’attrazione sono io, nel senso che a loro - indica i tre giovani al tavolo vicino - per la prima volta posso raccontare le cose così come stanno. Sono libero di non scindermi tra il Salvatore pubblico, con la sua maschera, e il Salvatore privato. Niente farse. Perché a parte mia madre, l’unico che sa - ammette Salvatore - è un mio compagno di liceo. Quando sono uscito di cella l’ho chiamato: "Se vuoi ti spiego perché sono sparito". In ufficio no, non posso, sento i discorsi che si fanno, sul "buttare via la chiave", sulla "castrazione chimica". Alla castrazione ci avevo pensato più volte, anche se il pedofilo è come il tossicomane, siamo uguali nella dipendenza". Arrossisce, se spiega quanto le sue fantasie fossero ricorrenti e ossessive. Tentava di sedarle attraverso la stanchezza: "Facevo doppio lavoro, scoppiavo di fatica apposta, poi arrivava la domenica, e non resistevo più. Dovevo sfogarmi. No, non posso dire di essere guarito, ma di evitare con successo la replica di meccanismi sbagliati sì. Ancora fatico a entrare in empatia con le vittime, è il problema che sto affrontando. Ho soltanto scaricato film, mi ripeto sempre, ma è una falsificazione della realtà, le vittime ci sono, non sono virtuali, e ho contribuito anch’io. Il problema principale, la "primaria priorità", come da contratto, sta nel non rifare più quello che abbiamo fatto. Per questo vedere "l’altro" è importante. Ci vuole stomaco solo ad ascoltarmi, eh? Il suo articolo chi lo leggerà? Nessuno". Esistono dati scientifici sull’esperimento milanese: equiparando i comportamenti tra sessanta uomini che hanno frequentato un "circolo" e sessanta che non l’hanno frequentato, la recidiva sessuale per i primi si è dimezzata (l’8% invece del 16) e la recidiva con violenza ridotta di un terzo (18 contro 35%). Troppo poco, diranno i tifosi della castrazione. Guardando però Salvatore, che come da prassi paga il suo cappuccino e se ne va sotto la pioggia ad incontrare "il "Gruppo" degli altri mostri", viene non retoricamente da chiedersi: sarebbe meglio se, accanto al suo "braccio violento", la legge tentasse un metodo per aiutare i vari "Salvatore" a non restare soli con il peso delle tragedie inflitte e subite? Oppure le nostre città, i nostri figli, sono più sicuri se si dimenticano i "Salvatore" sotto chiave? Rispondere non è facile, ma a Milano stanno provando in silenzio a cercare una serratura. Sassari: nuova vita per l’ex carcere di San Sebastiano di Giovanni Bua La Nuova Sardegna, 13 febbraio 2016 Pronti dodici milioni di euro. Via libera al progetto di riconversione della struttura che diventerà una cittadella giudiziaria da 20mila metri quadrati. L’ufficialità, attesa a giorni, non è ancora arrivata. Ma ormai sembrerebbe fatta. L’agenzia del Demanio, proprietaria della struttura, avrebbe infatti messo sul piatto i finanziamenti necessari per il dare gambe al piano di riqualificazione dell’ex carcere di San Sebastiano. Circa dodici milioni che permetteranno di trasformare la fatiscente casa di reclusione ottocentesca nel sogno di magistrati e avvocati, ma anche di tantissimi utenti: un modernissimo polo giudiziario da quasi 20mila metri quadrati che in un’unica sede ospiterà la procura, il tribunale di sorveglianza, gli uffici del tribunale civile e penale, il giudice di pace, l’ufficio notificazioni, esecuzioni e protesti e soprattutto la sezione staccata della corte d’appello attualmente in via Budapest. Ma non basta: un’ala dell’ex carcere sarà destinata a luogo di incontro, di cultura e della memoria, una sorta di museo dedicato ai 150 anni della durissima vita dei detenuti. Un percorso ricco di emozioni di cui i sassaresi hanno avuto un potente assaggio nel marzo del 2014, quando San Sebastiano aprì le porte per la prima volta per "Giornate Fai di primavera" e venne letteralmente preso d’assalto da migliaia di visitatori che uscirono dalle sue mura colpiti al cuore. Ma oltre che la storia e la memoria, e il decoro urbano, a guadagnare dall’operazione saranno anche le casse dello Stato che risparmierà le locazioni passive degli uffici giudiziari periferici che è tenuto a rimborsare al Comune. Si tratta di quasi due milioni di euro che ogni anno vengono spesi per i canoni di affitto delle sedi sparse nella città: l’ufficio dei giudici di pace, la corte d’appello, il tribunale di sorveglianza. Spese che potranno essere totalmente tagliate con la nuova articolazione delle strutture messa nero su bianco nel protocollo d’intesa con il ministero della Giustizia, il ministero dei Beni e delle Attività culturali del turismo, il provveditorato alle Opere pubbliche, il Comune di Sassari e il consiglio forense sassarese nel momento dell’abbandono della struttura carceraria e del trasferimento a Bancali. Abbandono in tutti i sensi, con il già fatiscente compendio che rischiava, senza un serio progetto di riqualificazione, di cadere in pezzi, diventando da possibile volano di sviluppo del centro cittadino a cittadella del degrado. Ipotesi tenacemente contrastata sia dall’amministrazione comunale sassarese che dal ministero della giustizia, che hanno portato avanti, con non poca fatica, il progetto di riqualificazione e riutilizzo del vecchio carcere con una serie di incontri che hanno coinvolto anche i vertici dell’Agenzia del Demanio, tutti volti al recupero delle risorse indispensabili alla realizzazione della cittadella giudiziaria. Recupero che ora sembrerebbe essersi finalmente perfezionato. Si attende ora l’ufficialità, che potrebbe arrivare già la prossima settimana. Con il Demanio che chiarirà anche gli aspetti tecnici legati alla progettazione, che coinvolgerà sicuramente la Soprintendenza e il Provveditorato interregionale per le opere pubbliche per Lazio-Abruzzo e Sardegna, e all’esecuzione dei lavori che, una volta appaltati, si dovrebbero concludere in 24 mesi. Napoli: "Caffè sospeso", al Tribunale per i minorenni il bar è gestito dai ragazzi a rischio di Cristina Zagaria La Repubblica, 13 febbraio 2016 Il nuovo progetto dell’associazione "Gli Scugnizzi". Il primo cliente è stato per caso il questore Marino. "Un caffè sospeso... come le nostre vite". Cristian 21 anni, sorride, abbassa lo sguardo e serve il primo caffè della sua vita al questore di Napoli, Guido Marino, cliente "zero" di questo insolito bar. Siamo all’interno del Tribunale per i minorenni, ai Colli Aminei. Cristian, che sta ancora scontando una condanna, poggia la tazzina sul bancone. È il suo primo giorno di lavoro. E d’ora in poi tutti i giorni servirà caffè a poliziotti, carabinieri, magistrati, avvocati. Un mondo per lui lontanissimo, anzi "nemico", diventa familiare. Il questore Marino si è trovato per caso nel bar dopo l’inaugurazione della nuova stazione dei carabinieri intitolata a Gioacchino D’Anna, proprio accanto al Tribunale. I clienti successivi di Cristian sono il prefetto Gerarda Pantalone e il sindaco Luigi de Magistris. Un caffè sospeso, nel Tribunale per i minorenni di Napoli il bar sarà gestito dai ragazzi dell’area penale. Un bel plotone d’accoglienza per Cristian e per il nuovo progetto dell’associazione Scugnizzi. "Caffè sospeso" appunto, che prevede un tirocinio di tre mesi (con uno stipendio di 500 euro al mese) per i giovani a rischio dell’area penale campana. L’associazione ha ristrutturato la buvette del Tribunale per i minorenni e ha realizzato una scuola di barman. Il luogo certo non è neutro. Ma è questa la sfida, contaminare le due realtà, avvicinarle: i ragazzi che vengono dal mondo dell’illegalità imparano un lavoro nel tempio della legalità. "È un laboratorio - spiega Antonio Franco, presidente dell’associazione Scugnizzi - l’obiettivo è insegnare a questi ragazzi un lavoro e inserirli poi nel mercato vero". E il presidente del Tribunale per i minorenni, Maurizio Barruffo, aggiunge: "Questo bar è una palestra perfetta di integrazione. Noi con i ragazzi a rischio possiamo fare tutto quello che vogliamo, ma serve a poco se non c’è una prospettiva una volta estinta la pena. Qui si insegna a lavorare e diamo a questi ragazzi una carta concreta per giocarsi la loro chance, anche grazie all’aiuto delle forze buone napoletane". Il bar è stato ristrutturato grazie al centro di giustizia minorile (Cgm) e attrezzato da caffè Borbone e dalla Casolaro Hotellerie spa. "Dopo i primi tre mesi di start-up - spiega Giuseppe Centomani, dirigente del dipartimento per la giustizia minorile della Campania - i proventi dell’attività saranno interamente reinvestiti per il finanziamento del progetto stesso per garantire autonomia e continuità". Al bancone si alterneranno due ragazzi (o ragazze) in semi libertà, in casa famiglia o con una condanna da estinguere. I primi due sono Cristian, 21 anni, e Daniele 24, in divisa rossa e verde e barba appena fatta. Cristian presto diventerà papà e Daniele non vede l’ora di divettarlo. "Abbiamo sbagliato e pagato. Ora cerchiamo una nuova vita e il lavoro è il primo passo" dicono. "Dare uno stipendio anche se minimo a questi ragazzi - spiega Antonio Franco - vuol dir dimostrare loro che esiste davvero un modo onesto di portare i soldi alle loro famiglie". Un caffè costerà 60 centesimi. A guidare i futuri barman, il maestro Mario Alberino: "Prima di insegnare loro come funziona una macchina del caffè - spiega Mario - gli insegnerò a accogliere il cliente e a confrontarsi con le persone. È una scuola di vita quella dietro il bancone, che non può che fare bene a questi ragazzi". Cristian e Daniele lavorano impettiti e con il sorriso. Carabinieri e agenti penitenziari si alternano al bancone. Da lunedì ci saranno anche avvocati, magistrati, giudici. I due "Scugnizzi" dovranno davvero superare una prova non facile. Sveglia alle 6,30. Alle otto puntuali dietro al bancone, in divisa "Prima delle sette- spiegano con serenità - non possiamo uscire di casa... per il nostro regime. Ma avere delle regole, un orario, degli obblighi per noi è uno stimolo nuovo...". La giornata sarà lunga: otto ore di lavoro. "Questo non ci spaventa - dice Daniele - siamo pronti". Il caffè è ottimo, anche se un pò forte. "La macchina come si dice a Napoli deve ancora fare la faccia- spiega con un sorriso Mario - ma ci aspetta tanto lavoro, il caffè sarà perfetto". Fermo (Ap): i dirigenti del carcere a scuola per parlare di dignità, speranza e libertà informazione.tv, 13 febbraio 2016 Incontro all’Ipsia Ricci per i responsabili del carcere di Fermo, in occasione dell’uscita del nuovo numero dell’Altra Chiave news, periodico dei detenuti. I ragazzi ascoltano, partecipano, fanno domande. I ragazzi ci sono, quando gli argomenti da affrontare sono grandi e seri. C’erano gli studenti dell’Ipsia Ricci all’incontro con la direttrice del carcere di Fermo, Eleonora Consoli, e il responsabile dell’area trattamentale, Nicola Arbusti, un appuntamento organizzato in occasione dell’uscita dell’ultimo numero della rivista dei detenuti, L’Altra chiave news. La dirigente della scuola, Stefania Scatasta, ha parlato di un incontro del tutto significativo: "Raramente ho visto i miei ragazzi tanto attenti e partecipi, abbiamo voluto portare un momento di realtà e di riflessione tra i banchi, per discutere con loro di disagio, di sofferenza ma anche di speranza". La direttrice Consoli ha parlato della realtà fermana, una sessantina i detenuti nel carcere di Fermo, in passato ce ne sono stati anche 90: "Si sta facendo molto per rendere meno complicata la detenzione nelle carceri italiane, anche se le strutture non sempre consentono di organizzare grandi cose. Nella nostra realtà fermana parliamo di molti detenuti stranieri, circa il 40 per cento, di molte situazioni di disagio psichico, spesso conseguenti alla tossicodipendenza. È una struttura piccola che sta cercando di garantire dignità e un percorso di recupero adeguato ad ogni situazione". Arbusti ha ricordato i tanti momenti formativi che si organizzano, dal corso per piazzaioli a quello per addetti alla cucina, con l’associazione per la dieta mediterranea. E ancora, la scuola, lo stesso giornale dei detenuti, le collaborazioni con le amministrazioni comunali: "A breve partirà anche il progetto di lavori socialmente utili per due detenuti, in collaborazione con l’amministrazione fermana. Ci saranno due persone ormai a fine pena che saranno impegnate nella pulizia e nella cura di questa zona della città, attorno all’ospedale Murri". C’è stato il tempo anche per raccontare qualche storia, per ricordare le vicende di persone che dopo il carcere hanno con fatica ripreso la loro vita e hanno anche aiutato altri ex detenuti nella ricerca di un lavoro. I ragazzi hanno chiesto come funzionano i colloqui, se ci sono contrasti tra detenuti, quale clima si respira dietro le sbarre. L’idea è di avviare una collaborazione stabile con un gruppo di studenti, che possano in qualche modo integrare il lavoro della redazione dei detenuti de L’Altra chiave news. In lavorazione il prossimo numero che parlerà del rapporto dei detenuti con la fede religiosa, l’idea è di organizzare incontri a scuola per riflettere sull’argomento, invitando referenti religiosi e parlando di fede e detenzione. Torino: presentazione libro "Il cortile dietro le sbarre: il mio oratorio al Ferrante Aporti" Dire, 13 febbraio 2016 "Il cortile dietro le sbarre: il mio oratorio al Ferrante Aporti" è il titolo della biografia di don Domenico Ricca, salesiano, da oltre trentacinque anni cappellano dell’Istituto penale per minori torinese. Il volume, scritto dalla giornalista Marina Lomunno, redattrice del settimanale diocesano La voce del popolo e collaboratrice del quotidiano Avvenire, viene presentato lunedì 15 febbraio alle 17.30 all’Urp dell’Assemblea regionale, in via Arsenale 14, a Torino. All’evento - introdotto e moderato dal garante regionale per i detenuti Bruno Mellano - intervengono, con l’autrice, don Ricca, il procuratore dei minori del tribunale di Torino Anna Maria Baldelli e il direttore del Ferrante Aporti Gabriella Picco. "La preziosa esperienza di don Ricca, riassunta e raccontata nel libro - sottolinea Mellano - apre spiragli importanti sul mondo degli adolescenti, entra nel loro universo e aiuta a comprendere che i giovani ‘dietro le sbarrè non sono poi così diversi da quelli che frequentano gli oratori e i centri aggregativi della città". I diritti d’autore del volume, pubblicato dalla casa editrice Elledici, sono devoluti per finanziare borse di studio e di lavoro per il reinserimento dei ragazzi che attraversano l’esperienza del Ferrante Aporti. Pisa: la Casa di Reclusione di Volterra festeggia dieci anni di "Cene Galeotte" Vita, 13 febbraio 2016 Da marzo riprende un’esperienza unica che ha registrato finora oltre 13 mila presenze e ha anche portato alla nascita di un Istituto Alberghiero interno al carcere frequentato da ragazzi esterni e detenuti. Spegnerà il prossimo marzo le sue prime dieci candeline una delle iniziative benefiche più conosciute e attese a livello nazionale, un appuntamento unico che presso la Casa di Reclusione di Volterra (PI) vede detenuti e chef professionisti lavorare fianco a fianco per regalare al pubblico un ciclo di serate dalla fortissima valenza emotiva e sociale. Sono le Cene Galeotte, che riprenderanno dall’11 marzo per continuare fino al 12 agosto. Un successo crescente dimostrato dai numeri, con oltre 13mila visitatori che dalla "prima" di marzo 2006 hanno varcato le porte del carcere, vivendo in prima persona un progetto-modello votato al recupero sociale dei detenuti coinvolti. Un evento dall’anima anche benefica, con il ricavato (35 euro a persona) come sempre devoluto ai progetti umanitari sostenuti dalla Fondazione Il Cuore Si Scioglie Onlus, che dal 2000 vede impegnata Unicoop Firenze assieme al mondo del volontariato laico e cattolico. Ma non solo: l’esperienza delle Cene Galeotte ha infatti portato tre anni fa all’inaugurazione di un Istituto Alberghiero interno al carcere, che è ben presto diventato un punto di riferimento per i tanti ragazzi della zona, che lo frequentano quotidianamente facendo lezione assieme ai detenuti iscritti. Si rinnova dunque la possibilità di un’esperienza irripetibile per i visitatori, ma anche un momento vissuto con grandissimo coinvolgimento da parte dei detenuti, che grazie al percorso formativo in sala e cucina vanno acquisendo un bagaglio professionale che in ben sedici casi si è tradotto in vero impiego presso ristoranti locali, secondo l’art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere. La Fortezza Medicea che ospita la Casa di Reclusione aprirà alle ore 19.30 le porte per l’aperitivo, servito nel cortile interno sotto le antiche mura: a seguire la cena (ore 20.30), nella vecchia cappella dell’Istituto trasformata per l’occasione in sala ristorante con tanto di candele, camerieri/sommelier in divisa e, nel piatto, i menu preparati dai carcerati con l’aiuto - a titolo assolutamente gratuito - di chef professionisti. Il tutto accompagnato dai vini offerti da grandi aziende italiane. Il primo appuntamento dell’11 marzo vedrà cimentarsi ai fornelli con i cuochi detenuti lo chef Peter Brunel del ristorante Borgo San Jacopo di Firenze. Seguiranno Enrico Panero del Da Vinci Eataly di Firenze (15 aprile), il personal chef Giorgio Trovato (27 maggio), Christian Borchi dell’Antica Porta di Levante di Vicchio del Mugello (24 giugno) e Hiron Peiris dell’Osteria Hiron di Firenze (12 agosto). Sanremo (Im): questa sera al Festival le "Parole liberate… oltre il muro del carcere" sanremonews.it, 13 febbraio 2016 Un Premio per poeti della canzone riservato a persone detenute in carcere. Si intitola "P.s. Post Scriptum" e l’ha composta Giuseppe Catalano, detenuto presso il carcere milanese di Opera: è il testo vincitore dell’ultima edizione di "Parole liberate: oltre il muro del carcere", il Premio per poeti della canzone riservato alle persone detenute nelle carceri italiane, che sarà ospite della serata conclusiva del 66° Festival di Sanremo. In questo modo, Carlo Conti e gli autori del Festival promuoveranno l’idea dell’Associazione di Promozione Sociale Parole Liberate: chiedere ai detenuti non semplicemente di "scrivere una poesia", ma di divenire co-autori di una canzone. Ogni anno, infatti, la lirica vincitrice viene affidata a un "big" della musica italiana, perché la trasformi in canzone. Come è accaduto lo scorso anno con "Clown fail", scritta da Cristian Benko, in arte Lupetto - all’epoca detenuto nel carcere milanese di San Vittore - e musicata da Ron. In questo modo, sollecitando la creatività delle persone detenute con la combinazione tra parole e musica, "Parole liberate" vuole aprire un nuovo canale di comunicazione tra il carcere e la società civile: il detenuto viene invitato a esprimere i propri pensieri, le proprie emozioni, i propri problemi, portandoli "oltre il muro del carcere", mentre le persone "libere", grazie a una maggiore conoscenza della realtà penitenziaria e delle condizioni in cui si sconta la pena, superando barriere e pregiudizi possono comprendere come i detenuti non vadano considerati dei "diversi" persi per sempre, ma debbano essere aiutati, come vuole l’articolo 27 della Costituzione, a reinserirsi pienamente nella società, alla quale potranno dare un contributo questa volta positivo. "Parole liberate" nasce da un’idea dell’autore Duccio Parodi, sviluppata con il giornalista Michele De Lucia e con l’attore Riccardo Monopoli. L’iniziativa si svolge in collaborazione con il Premio Lunezia di Stefano De Martino, che lo ospita come Sezione speciale. Ciao Giulio. Restiamo umani, saremo ricercatori di verità e giustizia di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 13 febbraio 2016 Fiumicello (Flumisin) ieri era immobile nell’attesa dell’ultimo saluto a Giulio Regeni. Qui le vie si chiamano Primo maggio, Fratelli Rosselli, Antonio Gransci, Falcone e Borsellino. La centrale via Gramsci a un certo punto è stata bloccata per due ore per permettere l’afflusso. Lutto non solo cittadino ma di tutta la provincia di Udine che ha fermato per un’ora ogni attività. Questo è il paese originario e di vita di Giulio Regeni che ieri, dopo la straordinaria, partecipata e silenziosa cerimonia, è come se fosse tornato per stare assieme alla sua famiglia. A riattraversare i luoghi da dove partiva per le sue ricerche sul mondo. Un cielo livido, poca pioggia ma tanto freddo. Anche la rabbia sembrava fredda. Un piccolo squarcio di sole incredibile s’è intravisto a pochi minuti dall’inizio della cerimonia d’addio. Tanti, tantissimi dentro la palestra disposta per l’onoranza funebre. Tanti, tantissimi fuori. Tra il pianto e l’incredulità delle persone colpite al cuore da questa morte che ha squassato ogni casa. Noi c’eravamo, per testimoniare "di persona", così aveva chiesto del resto la famiglia perché tutti abbandonassero vessilli e simulacri per restare semplicemente umani. Per testimoniare il dolore che anche noi proviamo per la sua così crudele e tragica scomparsa. Perché sentiamo la perdita di Giulio come una ferita nostra, un delitto che, per tante ragioni, ci ha direttamente colpito. Fuori ancora nel freddo, arrivavano le parole dell’altoparlante di chi salutava Giulio Regeni dentro la palestra, frammiste all’aria aperta a quelle immediate e a mezza bocca di chi quasi ammutoliva e piangeva. Maledetti, nemmeno i nazisti si accanivano così contro un corpo inerme, contro un giovane innocente in cerca di verità e giustizia. Ma "per cambiare il mondo", hanno insistito ragazze e ragazzi accanto. Un lungo addio che ha voluto tracciare ancora una volta una strada di pace, con i rappresentanti della comunità musulmana e di quella ebraica uniti nella preghiera. Facendo sgombra la via del perdono e della riconciliazione, con la disperata compostezza della famiglia, con le parole, italiane e inglesi, di chi è venuto da vicino e da lontanissimo a salutarlo. E tanti giovani, mai così tanti e tutti uniti a dire: "Non è giusto". Addio Giulio, sarà impossibile dimenticarti. Faremo della ricerca della verità e della giustizia su questa giovane vita spezzata da crudeli assassini, una ragione in più per esistere e resistere. Con questa promessa, anche nell’amarezza dei malintesi che siamo sicuri di chiarire assieme, abbracciamo Claudio Regeni e Paola Deffendi, i genitori di Giulio, con tutta la famiglia. Restiamo umani. Caso Regeni, cronisti pedinati e fotografati. Il pressing della paura nelle strade del Cairo di Giuliano Foschini La Repubblica, 13 febbraio 2016 Il racconto. La presenza per nulla discreta di agenti egiziani che osservano e fotografano, per mettere pressione a giornalisti e testimoni. Il clima di tensione nella metropoli in cui è stato ucciso il giovane italiano. Giovedì pomeriggio. Un bar nella downtown del Cairo. Al tavolo con il cronista c’è un avvocato che da anni si batte per i diritti umani. Si parla dell’omicidio di Giulio Regeni e delle tante storie dei desaparecidos di questo paese: in mano ha un dossier e le sentenze che testimoniano le condanne di Khaled Shalaby, alla guida delle investigazioni sul caso Regeni, accusato di aver torturato un uomo in prigione. Al tavolo accanto tre persone guardano e scattano fotografie. Uno alto e magro, con le cuffiette sempre nelle orecchie, 30 anni non di più, una camicia bianca; l’altro più giovane, capelli molto neri e un marsupio; il terzo, 40 anni almeno, molto alto e una maglietta verde acceso. L’attivista li conosce. E li riconosce. Dice che sono agenti in borghese. Sorride e - mentre racconta il coprifuoco imposto al Cairo il 25 gennaio, anniversario degli scontri di piazza Tahrir e giorno della sparizione di Giulio - piazza al tavolo accanto una battuta riuscita: "Visto che scattate tutte queste foto, facciamo un selfie di gruppo?". È questa l’aria che si respira nell’Egitto di Al Sisi, Paese di falsi amici. Cronisti seguiti. Egiziani ma anche italiani molto impauriti. Lo racconta bene una ragazza, che lavora nel mondo della cooperazione, che spiega come, tra loro, gli italiani si siano dati un registro di comportamenti: "Se qualcuno non risponde per più di due ore a un messaggio, ci attiviamo per cercarlo. Abbiamo un numero diretto con un funzionario dell’ambasciata: siamo molto preoccupati", spiega. E dall’ambasciata non possono far altro che confermare: "La situazione è difficilissima - dice un alto funzionario. Abbiamo invitato tutti alla massima cautela, noi stiamo facendo il massimo ma più di così...". Per dire sono stati costretti in tutta fretta a mettere su un aereo i due testimoni chiave del caso Regeni, gli amici di Giulio, per portarli "al sicuro" in Italia. Oppure a stringersi in spallucce quando uno di quei tre egiziani seduti al caffè - quello in camicia - si ripresenterà qualche ora dopo nella hall dell’albergo dove alloggiano i cronisti italiani, a gironzolare attorno al tavolo in cui è seduto proprio un funzionario dell’ambasciata. L’egiziano non è solo. Alle spalle c’è un ragazzo con la maglia bianca e la barbetta incolta che fuma narghilè e scatta foto con l’Iphone. Mentre dopo poco si avvicina un signore distinto, alto, magro e baffetto bianco, che fa finta di ammirare come fosse un’opera d’arte il telo in plastica appeso sul muro accanto. E poi, prima di allontanarsi, si premura di controllare cosa ci sia sul tavolo. Una presenza, quella degli agenti (o chi per loro) egiziani, talmente evidente da essere quasi comica. Che ha una sola palese intenzione: mettere pressione. Ai testimoni. Ma, evidentemente, anche a chi prova a raccontare questa storia. Per dire, un bravissimo cronista americano che mercoledì, insieme con alcuni giornalisti italiani, aveva fatto domande nel condominio dove viveva Giulio raccogliendo testimonianze che si sono poi rivelate molto utili all’inchiesta, decide di cambiare programma per il weekend. "Vado via per qualche giorno dall’Egitto...", scrive. Come si fa a lavorare così? "È impossibile, capisco: ma in una situazione come questa non possiamo garantire nulla", spiega un funzionario dell’ambasciata dove, pure, in questi giorni stanno facendo il possibile. Proprio loro che, qualche giorno fa, brindavano all’Egitto Paese amico e a quel "vertice governativo che il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha annunciato di voler tenere" per usare le parole, al Cairo, del ministro Federica Guidi mentre un centinaio di imprenditori festeggiavano i loro nuovi affari con il governo egiziano. Lo stesso che, poche ore dopo, permetterà all’orrore di mangiare Giulio. Bambini soldato, lo scempio dei 23 Paesi del mondo che li mandano in guerra di Marta Rizzo La Repubblica, 13 febbraio 2016 I minori violati, sfruttati, drogati, armati, usati come kamikaze per combattere le guerre dei grandi sono oltre i dati Onu: 250.000, si ripete da anni, utilizzati come piccoli e maneggevoli strumenti di morte. Tra 2014 e 2015 sono stati coinvolti in conflitti ben oltre 1.300 minori. Focus di Archivio Disarmo sul caso Somalia. Si mobilitano tutte le Ong che combattono contro le guerre e contro lo sfruttamento di minorenni per vincerle, nella giornata internazionale delle Nazioni Unite sui bambini soldato. Va da sé che, con l’aumentare di conflitti e terrorismo, il numero ufficiale di 250.000 minori martorizzati è in difetto. L’Archivio Disarmo lo conferma, con un focus ancora inedito sulla Somalia, che l’Italia arma e addestra pur sapendo che oltre 5.000 dei suoi figli sono soldati. La situazione generale. Per "bambino soldato" s’intende ogni minorenne appartenente ad un gruppo armato, a prescindere da genere e ruolo svolto. Sono oltre 23 i paesi segnalati per l’uso di bambini nei conflitti, fra cui Afghanistan, Repubblica Centroafricana, DR Congo, Sud Sudan, Iraq, Mali, Myanmar, Somalia, Siria, Yemen, Nigeria, Filippine. Il 6 marzo del 2014 l’Onu ha lanciato la campagna Children, not soldiers per porre fine a questa pratica entro il 2016. L’ obiettivo è ancora più arduo considerando la situazione che interessa il Medio Oriente, con particolare riferimento al fenomeno dei tagliagole del sedicente stato islamico, o daesh, o is, che dir si voglia. Intanto, sono stati redatti 3 "protocolli opzionali" per combattere lo scempio: il Protocollo opzionale alla convenzione dei diritti del fanciullo concernente il coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati (Opac); il Protocollo Opzionale sulla vendita di bambini, la prostituzione minorile e la pornografia rappresentante minori (OPSC); il Protocollo Opzionale sulla procedura di presentazione di comunicazioni (Opac e Opsc). I tre sono stati approvati dall’Onu il 25 maggio 2000 ed entrati in vigore il 18 gennaio 2002 il secondo, il 12 febbraio il primo. Qualche numero. Nel 2013 sono stati più di 4.000 i minori usati in guerre, ma si valutano migliaia episodi analoghi, oltre quelli certificati. Tra il 2014 e il 2015, più di 1.300 bambini sono stati rapiti, formati per spiare il nemico, piazzare ordigni, trasportare armi, filmare attacchi, uccidere. Bambini, anche di 8 anni, indottrinati e istruiti sull’uso di armi e di tecniche militari. In DR del Congo, quasi 8.000 minori sono stati utilizzati dai gruppi armati, il 40% bambine, secondo l’ultimo rapporto Monusco (United Nations Organization Stabilization Mission in DR Congo), di Novembre 2015. In Sud Sudan, da inizio conflitto 2013, tra i 15.000 e i 16.000 minori sono stati assoldati, secondo Human Rights Watch, nel 2015. In Repubblica Centrafricana, i dati Unicef dicono che dal 2013 tra i 6.000 e i 10.000 bambini sono coinvolti nei combattimenti. In Iraq si consolida l’uso di bambini nella strategia dell’Is, come riporta l’ultimo rapporto Onu su infanzia e gruppi armati in Iraq, di novembre 2015. Nel nord della Nigeria, Boko Haram ha rapito oltre 500 ragazze per farne schiave sessuali, o usarle per compiere attacchi kamikaze, dal 2009. L’Archivio Disarmo sul caso Somalia. In questo contesto indecente, l’Archivio Disarmo ha stilato un focus sulla Somalia, le sue violenze e i legami che ha con l’Italia. Dopo la caduta del dittatore Siad Barre, nel 1991, il paese è sprofondato in una guerra civile violentissima. In assenza di autorità centrali, si è imposto il governo dei diversi clan che si sono scontrati tra loro. Nel 1995 l’Onu, incapace di far fronte alla situazione, ritira le proprie truppe. Gli anni successivi, caotici, hanno visto il coinvolgimento dell’esercito etiope e della comunità internazionale, l’emergere di istanze separatiste e la nascita del gruppo islamico estremista Al-Shabaab. Dal 2012 si è affermato un governo federale, per iniziare un processo di riconciliazione nazionale. Attualmente, l’Italia è impegnata nel Paese con diverse missioni civili e militari dell’Ue e una missione di addestramento. La più discussa è Eutm (European Union Training Mission). Le barbarie di Al Shabaab. Secondo il rapporto Onu Le sorte des enfant en temps de conflit armé del 2015, in Somalia ci sono stati 1.870 episodi di violenze a danno di minori (1.482 maschi e 250 femmine). Il dato è in calo rispetto al 2013, ma si è ridotto anche l’accesso alla verifica degli incidenti. È documentato, poi, il reclutamento e l’impiego di 819 bambini (779 maschi e 40 femmine) da parte di Al-Shabaab, esercito nazionale e milizie alleate. Particolarmente preoccupante è la diffusione crescente del reclutamento di bambini tra le milizie dei clan. 286 i bambini detenuti da forze governative, Al-Shabaab e altri gruppi armati. Sono stati documentati 340 "incidenti" che hanno causato l’uccisione e la menomazione di 520 bambini, perpetrati dalle forze governative, Al Shabaab e altri gruppi. È riportato, inoltre, che Al-Shabaab abbia compiuto esecuzioni di minori in pubblico, come misura intimidatoria. Violenze sessuali, rapimenti, reclutamenti. Un totale di 70 episodi documentati di violenze riguardanti 76 bambine e commessi da forze governative, Al-Shabaab e altri gruppi armati, nel 2015. Almeno 13 casi documentati di rapimenti hanno comportato stupri e matrimoni costretti. 17 scuole sono state oggetto di attacchi armati. Un totale di 133 bambini sono stati rapiti. Secondo l’Unicef potrebbero essere 5.000 i minori somali che combattono. Le gravi violazioni dei diritti umani sono riportate anche da Human Rights Watch, che chiede alle Nazioni Unite di stabilire una commissione investigativa sui crimini commessi nel paese. Il Governo di Mogadiscio, nel rapporto 2014-2015 di Amnesty International sulla Somalia, è ritenuto responsabile di gravi violazioni dei più elementari diritti umani. Le relazioni discutibili tra Italia e Somalia. Eutm Somalia è una missione di addestramento delle forze di sicurezza somale, lanciata nel 2010 per rafforzare il Governo di transizione. Dal 2014 la posizione di Mission Commander è affidata all’Italia. La missione ha addestrato circa 3.600 soldati e opera in stretta collaborazione con il Comando militare statunitense per l’Africa (Us Africom), e Amisom (African Union Mission in Somalia). Eutm comprende in sè due missioni Eu complementari: Eunavfor Somalia (Operazione Atalanta, contro la pirateria nelle coste somale) e Eucap Nestor (per lo sviluppo della sicurezza marittima nel Corno d’Africa e nell’Oceano Indiano occidentale). Per Eutm, l’Italia ha donato più volte equipaggiamenti alle forze somale. La missione comporta addestramenti periodici di forze somale in Italia ed è svolta anche dal personale dei Carabinieri a Gibuti, dov’ è inoltre presente la base logistica avanzata italiana per fornire supporti alle iniziative nazionali nell’area. "Missioni umanitarie, non accordi con la Somalia". Nel novembre 2015, infine, il Senato italiano ha approvato il Disegno di Ratifica ed esecuzione dell’accordo tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo federale della Repubblica di Somalia in materia di cooperazione nel settore della difesa, per favorire lo scambio e il commercio di armamenti con la Somalia. "Non sarebbe opportuno sospendere gli aiuti militari, e in particolare la missione italiana di addestramento di un esercito che utilizza bambini soldato? Non sarebbe opportuno intraprendere un’iniziativa umanitaria, della cooperazione allo sviluppo, per il recupero e il reinserimento degli ex bambini soldato alla vita civile, invece di supportare gli eserciti?", chiede Archivio Disarmo, nel report sui legami tra Italia e Somalia. Migranti, la solidarietà non scende in piazza di Filippo Miraglia (Vicepresidente Nazionale Arci) Il Manifesto, 13 febbraio 2016 La politica degli hot-spot, le navi militari di Ue e Nato: l’anticamera dei respingimenti. L’Unione europea è sempre più lontana dai valori di democrazia, solidarietà e giustizia. Il cinismo e l’egoismo sembrano caratterizzare le azioni promosse dai governi e dalle istituzioni europee. Alla tragedia che si sta compiendo sotto i nostri occhi, i governi rispondono con nuove misure di chiusura e mettendo in campo un apparato internazionale di guerra sempre più esplicito e ampio. Alla frontiera tra Turchia e Siria decine di migliaia di persone si affollano in cerca di salvezza dalle bombe russe e dall’accerchiamento del dittatore Bashar Al Assad. L’Europa, Angela Merkel in testa, chiede a Erdogan di fermarle e di farsi carico di quelle che riescono a passare. La Turchia ospita già 2,5 milioni di profughi, dovrebbe prenderne altri e fare da cane da guardia dell’Ue in cambio dei tre miliardi d’euro promessi. Nessun cenno alla questione kurda in questa trattativa, ai diritti umani calpestati in Turchia, tanto meno alla responsabilità di dare una risposta alle persone, e sono la quasi totalità, in fuga da morte certa. Intanto la Turchia usa l’esercito per bloccare i profughi e respingerli verso le zone di guerra. Nel mar Egeo ogni giorno muoiono decine di persone. Più di 400 dall’inizio dell’anno. L’Ue chiede alla Grecia di respingerne di più e di fermarne di più entro i propri confini. Minaccia il governo greco di estromissione dallo spazio di libera circolazione se non riesce a fermare i flussi di profughi verso il nord Europa. Il secondo ricatto che il governo greco subisce, dopo quello recente, e non ancora concluso, delle politiche di austerità. Ai greci si chiede di pattugliare l’Egeo facendo quello che i razzisti di casa nostra propongono da anni: respingere le persone in mare per dissuaderle dal partire. Decide di entrare in campo la Nato, tra gli applausi del governo italiano, per dare man forte a quella che è oramai una guerra contro i profughi. All’Italia, come alla Grecia, viene chiesto di accelerare l’apertura degli hot spot, sempre con l’obiettivo di impedire ai profughi sopravvissuti di arrivare nelle nostre città. Il discriminatorio sistema hot spot costruito intorno all’ipotesi di una politica di rimpatrio forzato di massa. Così l’Europa continua a chiedere ai due paesi di aumentare il numero dei rimpatri: i decreti vengono notificati e le persone lasciate per strada. Aumentano i costi, per gli enti locali, di un’accoglienza negata e non integrata, aumenta il lavoro della magistratura che deve farsi carico di tutti i ricorsi per il negato accesso alla procedura d’asilo. La Commissione europea risponde a queste violazioni del diritto avviando un dialogo con la maggior parte dei Paesi dai quali provengono i richiedenti asilo che raggiungono le nostre coste: si sta lavorando ad accordi con Gambia, Ghana, Senegal, Costa d’Avorio, Pakistan e Afghanistan. La risposta ancora una volta va nella direzione sbagliata, irresponsabile e criminale: permettere i rimpatri forzati nei Paesi da cui le persone fuggono, quasi sempre retti da dittature. La strategia: provare a fermarli lontano dai nostri confini, con ogni mezzo, soprattutto con l’esercito. Se riescono comunque a passare, provare a fermarli ai confini dell’Ue. Respingerli indietro con strumenti di guerra: le navi di Frontex e i mezzi della Nato. Quelli rimasti, decimarli con il sistema degli hot spot e provare a rimandarli in uno dei paesi cosiddetti "sicuri", inseriti in una lista che i governi europei stanno cercando di rendere operativa. Eppure i 400 morti del 2016, 10 al giorno, vanno attribuiti alla diretta responsabilità dei governi europei, che continuano a pianificare azioni volte solo a impedire ai profughi di mettersi in salvo. L’Europa della solidarietà e dei diritti deve scendere in piazza. Di fronte a questo scempio non possiamo più stare a guardare. La crisi dei rifugiati e le violenze a Calais di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 13 febbraio 2016 Dei migranti denunciano violenze, da parte della polizia e delle ronde. Il prefetto annuncia l’evacuazione della parte sud della "giungla". L’estrema destra soffia sul fuoco. Sprezzante e esasperato, il ministro degli Interni, Bernard Cazeneuve, qualche settimana fa aveva risposto all’organizzazione Human Rights Watch, che denunciava le violenze di cui sono vittime i migranti a Calais: "hanno solo da sporgere denuncia". Ieri, 9 migranti si sono rivolti al tribunale. Cinque hanno denunciato di aver subito violenze da parte di poliziotti, quattro da parte di aggressori in civile, che facevano parte di ronde auto-organizzate di abitanti. C’è una crescita esponenziale della violenza a Calais. Le segnalazioni si moltiplicano, da parte delle organizzazioni che seguono i migranti, come Médecins sans frontières e Médecins du Monde, attacchi in gruppo, uso di sbarre di ferro e di armi improprie, raids di picchiatori, ma anche interventi violenti della polizia. I feriti sono numerosi. Il video di un uomo che ha spianato il fucile contro un gruppo di migranti ha fatto di recente il giro del Web. L’uomo, un abitante di Calais, è stato denunciato e sarà difeso dall’avvocato Gilbert Collard, deputato Bleu Marine (Fronte nazionale). Il 12 maggio sarà processato un ex generale della Legione straniera, Christian Piquemal, che ha partecipato alla manifestazione illegale di Pegida France a Calais il 6 febbraio, contro la presenza dei migranti (due altri partecipanti, giudicati in direttissima, hanno preso 3 e 4 mesi di carcere per porto d’armi illegale). Sette persone sono state fermate questa settimana a Loon-Plage, vicino a Dunkerque, per aver ferito dei migranti curdi con delle sbarre di ferro. La sindaca di Calais, Natacha Bouchard (Les Républicains) continua a chiedere l’intervento dell’esercito. Il governo risponde con l’annuncio di una nuova evacuazione della "giungla": nei prossimi giorni, verrà evacuata la parte sud dell’accampamento, dove sopravvivono circa mille persone su 7 ettari. Sarà la seconda evacuazione forzata dall’inizio dell’anno. Il governo afferma che l’obiettivo è il trasferimento dei migranti verso le strutture messe a disposizione di recente, dei containers abitabili, oppure delle proposte in Centri di accoglienza, altrove in Francia, per coloro che intendono chiedere l’asilo in Francia. Ma la maggior parte delle persone che si trovano a Calais non vogliono restare in Francia e hanno l’intenzione di tentare il passaggio verso la Gran Bretagna. Londra non ne vuole sapere. Ha dato dei soldi alla Francia per costruire barricate di filo spinato (è stata anche inondata una zona, per rendere impossibile l’arrembaggio ai camion di trasporto merce), c’è una presenza sul posto di poliziotti britannici. La Francia, dopo aver chiuso nel 2002 il centro della Croce rossa di Sangatte, rifiuta di offrire delle condizioni di vita decente ai migranti che aspirano ad attraversare la Manica, per evitare di "attirare" altri candidati. Dopo gli interventi di evacuazione, secondo le autorità il numero delle persone che vivono nella "giungla" di Calais sarebbe stato ridotto da 6mila a 3.700. Ma le associazioni che lavorano con i migranti contestano questa cifra e parlano di almeno 4500 persone ancora sul posto. Per il prefetto, Fabienne Buccio, l’obiettivo è ridurre le presenze a 2mila persone, "un numero accettabile per la popolazione". Il Fronte nazionale e l’estrema destra soffiano sul fuoco, in una regione dove Marine Le Pen ha sfiorato la vittoria alla presidenza alle elezioni dello scorso dicembre. Con le evacuazioni forzate, il governo spera di limitare la visibilità dei bidonville. Nei fatti, i migranti cacciati dalla "giungla" che non ottengono una sistemazione momentanea nei containers si disseminano nella zona, in altri campi di fortuna. E la violenza cresce a Calais e dintorni, dove sono stati inviati 1700 agenti di polizia. "Cessazione delle ostilità"… ma senza i siriani di Chiara Cruciati Il Manifesto, 13 febbraio 2016 Siria. A Monaco Russia e Usa si accordano sulla tregua, ma opposizioni e governo non danno pieno appoggio. Una tregua appesa ad un filo: basterà il minimo pretesto per far saltare il negoziato. Nella tarda serata di giovedì Onu, Russia e Stati uniti hanno annunciato un risultato apparentemente storico per il popolo siriano: la cessazione delle ostilità tra una settimana. Ma le parole, diceva una nota pellicola italiana, sono importanti. Tanto più se pronunciate durante la conferenza stampa congiunta di due superpotenze al cospetto delle Nazioni Unite. Si noti: cessazione delle ostilità e non cessate il fuoco. La differenza non è esercizio retorico, ma concretezza, bombe, conflitto. In Siria la guerra non cesserà. Cosa dovrebbe cessare - nelle apparenti intenzioni internazionali - è lo scontro tra il governo di Damasco e i gruppi membri dell’Alto Comitato per i Negoziati, l’Hnc, ombrello delle opposizioni nato a dicembre a Riyadh. Ovviamente non cesserà la lotta contro i nemici comuni, lo Stato Islamico, il Fronte al-Nusra e la galassia di gruppi qaedisti che vi ruota intorno. La Russia ha già avvertito: i raid contro i jihadisti - ha sottolineato il ministro degli Esteri Lavrov - proseguiranno. Possibilmente, ha aggiunto, attraverso il coordinamento militare con la coalizione guidata dagli Stati uniti. Ma per ora i jet di Putin agiranno in solitaria come fatto finora. E qui sta l’inghippo: da settembre, quando l’esercito russo è entrato di prepotenza nel campo di battaglia siriano, l’Occidente e le opposizioni anti-Assad lo accusano di sfruttare la lotta all’Isis per bombardare i miliziani anti-governativi. Le operazioni militari anti-Isis continueranno, appendendo la tregua ad un filo fragilissimo: basterà poco per romperla, un pretesto, un raid di Mosca che secondo le opposizioni non ha avuto come target l’Isis per far saltare il tavolo. Per l’ennesima volta. Tra sette giorni, quindi, le ostilità dovrebbero interrompersi ma non è affatto detto che accada: a Monaco, dove si è riunito il Syria Support Group, di rappresentanti siriani non ce n’era traccia. C’erano i loro "portavoce", Mosca per Damasco e Washington per le opposizioni. Un fronte - quello anti-Assad - molto folto e diversificato, che vai dai salafiti di Ahrar al-Sham e Jaysh al-Islam ai moderati dell’Esercito Libero. Perché la tregua regga è necessario che tutti questi movimenti, dai più grandi ai più piccoli, da quelli legati a doppio filo al Golfo fino ai più "indipendenti", rispettino il volere della comunità internazionale. Un’impresa non da poco. A preoccupare sono in primo luogo le considerazioni dell’Hnc: le opposizioni non si fidano del nemico. "Se ne vedremo l’implementazione - aveva detto il portavoce Salim al-Muslat - ci vedremo presto a Ginevra". Ma l’Hnc ha presto raffreddato gli entusiasmi: "Il progetto di una tregua temporanea sarà esaminato con le fazioni ribelli sul terreno - il commento di George Sabra, tra i leader dell’Hnc - I ribelli in Siria sono quelli che devono decidere". E qua nascono i dubbi, palesati dai miliziani sul campo: l’accordo servirà alla Russia a coprire i raid contro noi opposizioni, dice un membro di Ahrar al-Sham al The Guardian. Dall’altra parte non c’è garanzia sul rispetto della tregua da parte dei ribelli nelle zone più calde, a cominciare da Aleppo, dove le opposizioni temono di essere spazzate via senza una reazione militare al governo. In secondo luogo preoccupano le parole del governo. Il presidente Assad non abbassa la guardia: giovedì, in un’intervista all’Afp, ha ribadito l’intenzione di riprendere il controllo dell’intera Siria e di continuare a combattere il terrorismo, categoria in cui inserisce buona parte delle opposizioni. Accanto alla cessazione delle ostilità è prevista l’apertura di corridoi umanitari per le comunità sotto assedio, sia da parte governativa che delle opposizioni. Nei prossimi giorni gli aiuti saranno consegnati nelle zone individuate dal Palazzo di Vetro: 18 città in cui risiedono 480mila civili. Un bilancio lontano da quello pubblicato pochi giorni fa da Siege Watch, progetto di The Syria Institute e Pax, secondo il quale i civili sotto assedio sono più del doppio: oltre un milione in 46 diverse comunità. Tra queste Deir Ezzor, Madaya, Zabadani, Fùa, Kefraya, Yarmouk, nomi ormai diventati familiari insieme alle immagini che da quei luoghi arrivano: bambini, anziani, donne e uomini ridotti a pelle e ossa per la mancanza cronica di cibo. Sullo sfondo della conferenza stampa di Ginevra resta Aleppo, la battaglia "finale" com’è stata definita. Considerata dal fronte anti-Assad la ragione del fallimento di Ginevra, la controffensiva (sostenuta da Hezbollah, pasdaran e russi) ha permesso a Damasco di rafforzarsi sia sul piano diplomatico che militare. Ad Aleppo si continua a combattere: le truppe del governo hanno circondato i quartieri che le opposizioni controllano dal 2012, mentre la fuga dei civili non si arresta. Secondo gli ultimi dati sarebbero 100mila i siriani arrivati nel campo profughi nato in pochi giorni al confine con la Turchia, al valico di frontiera di Bab al-Salama, drammaticamente chiuso. Della volatilità dell’accordo di Monaco ne sono consapevoli tutti. A partire dagli Stati uniti: giovedì il segretario di Stato Kerry lo ha detto senza mezzi termini, si tratta di "un accordo su carta". Per questo sarà creata una task force che monitorerà l’effettiva cessazione degli scontri e la consegna degli aiuti e che sarà composta da rappresentanti delle opposizioni e del governo. A supervisionare saranno Mosca, Washington e Palazzo di Vetro.