Mauro Palma nominato Garante nazionale dei diritti delle persone detenute di Ornella Favero (Presidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia) Ristretti Orizzonti, 12 febbraio 2016 Mauro Palma, il nuovo Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, è stato fondatore dell’Associazione Antigone, nonché componente prima e presidente dopo del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. Ma per le associazioni di volontariato che operano nell’ambito della Giustizia Mauro Palma è soprattutto, per ciò che ha a che fare con l’esecuzione penale, una delle persone più competenti, attente e generose nel mettere a disposizione di tutti le sue conoscenze. Dunque la sua nomina è una buona notizia: lo è per le persone detenute o private della libertà personale, per gli operatori e le associazioni che hanno a cuore la tutela della loro dignità e dei loro diritti, per la società nel suo complesso, perché quando le Istituzioni sanno mettere al posto giusto la persona più competente è una boccata di ossigeno per tutti. A Mauro Palma auguriamo di riuscire a svolgere al meglio l’incarico che gli è stato affidato. Da parte nostra, non solo siamo disponibili a collaborare, ma chiediamo anche di essere coinvolti dal nuovo Garante, perché solo lavorando insieme si può davvero cambiare la cultura del carcere e delle pene. Il Paese delle leggi in ostaggio di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 12 febbraio 2016 Nei rapporti tra magistratura e politica, come in altri ambiti, vince la corporazione. La prova di quanto sia difficile in Italia fare certe riforme è nei cassetti della commissione Giustizia della Camera. Lì, in attesa della seconda lettura parlamentare, è sepolta una legge approvata dal Senato quasi due anni fa: martedì 11 marzo 2014. Si tratta di un provvedimento in grado di toccare nervi sensibili, perché regolamenterebbe in modo ben più rigoroso di oggi il rapporto fra magistrati e politica. Stabilisce, per esempio, che il magistrato non si possa candidare dove ha esercitato nei cinque anni precedenti. E in ogni caso può farlo solo se è in aspettativa da almeno sei mesi. Ancora: i giudici non eletti non accedono per cinque anni a uffici della stessa circoscrizione elettorale. Mentre gli eletti non possono tornare a svolgere le funzioni ricoperte prima di candidarsi. Hanno solo facoltà di scelta fra Avvocatura statale, ministero della Giustizia o Corte d’appello, ma con l’inibizione territoriale quinquennale. Il minimo sindacale, insomma, in un Paese ammorbato dalle polemiche sull’uso politico dei tribunali. E che su questo esista una condivisione generale, lo stanno a dimostrare le 25 firme di senatori di centrodestra e centrosinistra al testo unificato della legge uscita dal Senato. Il che avrebbe lasciato supporre un percorso spedito anche alla Camera. Invece no. Il testo è arrivato a Montecitorio il 13 marzo 2014; l’esame è cominciato il 24 giugno successivo e da allora la commissione Giustizia si è riunita con quel provvedimento all’ordine del giorno soltanto quattro volte. L’ultima, il 16 dicembre 2015, nove mesi addirittura dopo la precedente riunione del 12 marzo. Da allora sono trascorsi altri due mesi e tutto tace. Tutto ciò dovrebbe far riflettere innanzitutto chi si ostina a difendere senza se e senza ma il bicameralismo perfetto come fosse l’estrema garanzia del sistema democratico e non invece, quale purtroppo spesso si è dimostrato, un comodo meccanismo per inceppare le riforme. Ma questa storia mette in luce un aspetto forse ancora più rilevante delle nostre "non regole" istituzionali. Presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, onorevole del Partito democratico, è infatti un magistrato. Vale a dire esponente di quella particolare sottocategoria, i giudici scesi in politica, colpita proprio dalla legge di cui stiamo parlando. Un dettaglio come tanti analoghi, nel nostro Parlamento, sempre liquidati con troppa sufficienza. Tanto è vero che nella medesima commissione Giustizia presieduta da un magistrato, siedono ben 26 avvocati (su 44 membri!) che potrebbero lì, in teoria, scrivere leggi a vantaggio dei propri assistiti. Come del resto già avvenuto in passato. Dettagli ritenuti insignificanti, che invece segnalano con fragore l’assenza di uno dei principi fondamentali della politica: l’opportunità di certe scelte. Nessuno può vietare a un giudice di candidarsi alle elezioni, ovvio. Sarebbe contro la Costituzione. Ma è opportuno che a un magistrato politico sia affidata la guida della commissione Giustizia? E che la maggioranza dei suoi membri sia composta da avvocati in attività? I cittadini non possono sapere se in casi come questo, frequentissimi, esistano reali conflitti d’interessi. Ma devono pretendere che ogni loro rappresentante sia al riparo dal pur minimo sospetto. Ecco perché la forma, certe volte, è anche sostanza. Tra brigatisti e magistrati vince l’ipocrisia di Luigi Ferrarella Sette - Corriere della Sera, 12 febbraio 2016 Il veto alla partecipazione di ex terroristi ai corsi della Scuola di magistratura deriva più da beghe interne che dal doveroso rispetto delle vittime. Al primo stormir online di protesta di alcune toghe e al primo tirar di giacchetta dall’alto del "Comitato di presidenza" del Csm (terna formata dal vicepresidente pd del Csm, dal neopresidente e dal procuratore generale della Cassazione), la Scuola della Magistratura ha subito annullato la sessione del corso "Giustizia riparativa ed alternative al processo e alla pena" nella quale, tra gli altri, giovedì scorso avrebbero dovuto intervenire due ex brigatisti che hanno finito di pagare i loro conti con la giustizia, Adriana Faranda e Franco Bonisoli. Una retromarcia che in miniatura contiene tante stonature. C’è lo scaricabarile: "Inopportuna" diventa adesso una iniziativa "interamente programmata e definita nei suoi particolari dal precedente direttivo" della Scuola, rimarca il comunicato di quello nuovo. C’è l’abdicare della didattica a influenze esterne: l’annullamento è tautologicamente motivato dal fatto che l’iniziativa sarebbe "ormai inevitabilmente condizionata dalle discussioni delle ultime ore, che hanno visto anche l’intervento del Comitato di presidenza del Csm". C’è l’ipocrisia: la sessione restava confermata con i soli professori Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato, ma senza più i protagonisti (alcuni familiari di vittime del terrorismo e appunto alcuni ex brigatisti) di quella "relazione dialogica" di cui il criminologo e la giurista erano stati "mediatori" insieme al gesuita Guido Bertagna in un percorso tenuto riservato per 10 anni, in parte accompagnato anche dal cardinale Carlo Maria Martini, e infine testimoniato nel volume Il libro dell’incontro. C’è il doppiopesismo: l’annullamento è dipeso dalla "presa d’atto delle posizioni" contrarie "espresse, anche con dolore, da numerosi magistrati e familiari delle vittime", che evidentemente contano più delle posizioni invece favorevoli di altri familiari di vittime con minore audience pubblica. E c’è anche odore di dinamiche più grezze: le geometrie correntizie alla vigilia delle prossime elezioni dell’Associazione nazionale magistrati, il mai sopito braccio di ferro tra Scuola e Csm su chi debba organizzare la formazione dei magistrati, la retorica populista che dopo l’annullamento induce al plauso politici di ogni schieramento. allarme inutile. È una unanimità che stupisce. Sia perché i due ex brigatisti non certo erano stati invitati a salire in cattedra per dare lezioni di terrorismo o letture reducistiche degli anni di piombo, ma per testimoniare il proprio versante di quella particolare esperienza di giustizia riparativa. Sia perché bisognerebbe sgombrare il campo dalla frusta retorica dell’"offesa alle vittime": a quel corso, infatti, a parlare con i due ex terroristi, ci sarebbero dovuti essere proprio Manlio Milani, presidente del comitato delle vittime della strage di Piazza della Loggia a Brescia nella quale nel 1974 perse la moglie, la figlia Sabina del sindacalista Guido Rossa ucciso dai terroristi nel 1979, e la figlia dello statista dc Aldo Moro rapito e ucciso dalle Br nel 1978, Agnese. Tre familiari che forse ora avrebbero tutti i titoli per sentirsi i veri offesi dalla superficialità di talune polemiche preventivamente indignate di ciò che censurano. Ignare, ad esempio, di cosa abbia rappresentato per il Sudafrica la "Commissione per la verità e la riconciliazione", tribunale straordinario che dopo la fine del regime dell’apartheid operò su una ferita nazionale mille volte più aperta e bruciante di quanto oggi possano essere gli anni di piombo; digiune dei testi della studiosa Silvia Cecchi, di Tomaso Epidendio e Giovanna Di Rosa (che per inciso sono magistrati), dei lavori dei professori Francesca Zanuso e Federico Reggio sulla giustizia dialogica, di quelli del filosofo Giuseppe Ferraro, dei libri di Luciano Eusebi, Ceretti e Mazzucato; e tanto delle tesi "eretiche" dell’ex pm Gherardo Colombo, quanto delle critiche teoriche (serrate ma sempre distanti anni luce dal banale argomento "allora perché non chiamiamo Riina a parlare di mafia ai magistrati?") mossegli dal professor Andrea Pugiotto. Una volta capito di cosa si tratta, si può ovviamente dissentire, criticare, bocciare. Ma senza aver paura di parlarne e di confrontarsi. Anche, e anzi a maggior ragione, in una Scuola della Magistratura. L’irrinunciabile autonomia della Scuola per magistrati di Valerio Onida (Ex presidente della Scuola superiore della magistratura) Corriere della Sera, 12 febbraio 2016 Come era forse prevedibile, la polemica nata nelle mailing list dei magistrati, e proseguita sui giornali, sull’incontro che avrebbe dovuto avere luogo presso la Scuola della Magistratura, nell’ambito di un corso sulla "giustizia riparativa" con le "testimonianze" (non lezioni) di tre familiari di vittime del terrorismo (Agnese Moro, Manlio Milani, Sabina Rossa) e di due ex terroristi dissociati e da tempo reinseriti nella società (Adriana Faranda e Franco Bonisoli), non ha prodotto solo lo spiacevole annullamento in extremis dell’incontro medesimo. Essa ha fatto levare voci, anche autorevoli (come quella di Luca Palamara, membro del Csm, sul Corriere dell’8 febbraio) che chiedono di eliminare o di ridurre l’autonomia della Scuola e di ricondurre la formazione dei magistrati direttamente sotto il controllo del Consiglio Superiore. Che la Scuola non fosse da tutti amata nell’ambito della magistratura era chiaro fin dall’inizio: nata nel 2006 da una legge promossa dall’allora Guardasigilli Castelli, con l’impronta "leghista" delle tre sedi previste (Nord, Centro e Sud, poi ridotte a una), rivisitata sotto il profilo normativo nel 2007 (Guardasigilli Mastella), e per cinque anni rimasta sulla carta, solo nel novembre 2011 - ministro della Giustizia Paola Severino - poté avviare la propria attività fra lo scetticismo generale, senza avere ancora né sedi, né personale, e solo dall’ottobre 2012 poté dare inizio ai propri corsi. Quattro anni di intensa attività hanno mostrato che non solo era possibile, ma era utile avere la Scuola. Il dialogo e la collaborazione con il Consiglio Superiore e con il ministro (gli organi a cui risalgono anche le nomine dei componenti del direttivo della Scuola) non sono mai mancati. Essa formula i propri programmi tenendo conto, come prevede la legge, delle linee programmatiche dettate dal Consiglio e dal ministro, ma è poi autonoma nella organizzazione dei corsi e nella scelta dei docenti, in un quadro di apertura e di pluralismo culturale e scientifico. In ognuno degli scorsi quattro anni cinque-seimila magistrati, di nuova nomina e già in servizio, si sono avvalsi della sua attività formativa: i partecipanti, ogni volta invitati ad esprimere le proprie valutazioni anonime, hanno espresso in genere largo apprezzamento sui contenuti dei corsi. Anche il corso in questione, per quanto ne so, ha visto largamente prevalenti le opinioni di magistrati partecipanti che dissentivano rispetto all’annullamento dell’incontro "incriminato". Discutere di "giustizia riparativa", in un contesto di grande serietà scientifica e culturale, con docenti autorevoli, e anche ascoltando testimonianze di chi da tempo ha condotto esperienze significative in questo campo, era ed è infatti pienamente conforme alle finalità della Scuola. L’autonomia di questa è necessaria: la formazione, iniziale e continua, dei magistrati è chiamata a fornire ad essi strumenti culturali e occasioni di confronto affinché nel "servizio giustizia" sia non solo garantita l’indipendenza del giudiziario dagli altri poteri, ma sia anche assicurata la necessaria apertura alla società e alle sue esigenze. Una formazione solo tecnico-giuridica, o solo autoreferenziale, "di categoria", non può servire allo scopo. La Costituzione ha voluto che la magistratura avesse un suo governo autonomo (il Csm) per sottrarla alle indebite influenze di altri poteri, ma non ha voluto che essa si costituisse come un "corpo separato": tale invece rischierebbe concretamente di essere se la formazione si chiudesse verso l’esterno e finisse per asservirsi strettamente a logiche di categoria o alle maggioranze "politiche" che si formano nel Consiglio Superiore. Intervista a Giovanni Maria Flick: "abolire reato di clandestinità ed ergastolo" di Patrizia Caiffa agenzia-sir.it, 12 febbraio 2016 Intervista sulla situazione in Italia e sull’atteggiamento dell’Europa nei confronti dei migranti con il presidente emerito della Corte Costituzionale. Abrogare il reato di clandestinità perché "inutile, dannoso" e supportato da una "giustificazione politica inaccettabile"; abolire l’ergastolo in quanto "ipocrisia e paradosso"; non utilizzare lo strumento emergenziale dell’amnistia per risolvere i problemi del carcere ma varare una buona legge delega, attualmente in discussione in Parlamento, per far sì che le pene detentive siano rispettose della dignità e dei diritti umani. È il parere di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, il quale ha incontrato nei giorni scorsi i detenuti della casa circondariale di Padova, tra cui l’ergastolano Carmelo Musumeci, che gli ha rivolto una lettera aperta chiedendo aiuto a favore dell’abolizione dell’ergastolo. Flick allarga il discorso al tema dei migranti, invitando l’Europa a istituire un "ministro dell’umanità" e ad applicare veramente la Convenzione europea dei diritti umani. Quando era ministro della Giustizia nel 1997 era favorevole all’ergastolo, ora ha cambiato idea? "Sì. Era vivo il ricordo del referendum in cui il popolo italiano aveva rifiutato l’abolizione e la Corte costituzionale ne aveva salvato la costituzionalità con una acrobazia giuridica: il "fine pena mai" sarebbe incostituzionale ma poiché chi è condannato per un lungo periodo di anni può ottenere la liberazione condizionale se ha mostrato segni di ravvedimento, la pena in pratica non è più eterna, quindi diventa costituzionale. In questi anni l’esperienza ha invece dimostrato che vi sono situazioni di ergastolo ostativo in cui non si possono ottenere permessi premi o liberazione condizionale che consentano il reinserimento in società. L’Ue ha riconosciuto la conformità dell’ergastolo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a patto che vi sia una revisione del comportamento della persona dopo 25 anni. In questo contesto e di fronte al numero elevato di ergastoli ostativi in Italia - oltre un migliaio - l’affermazione della Corte costituzionale rischia di diventare un paradosso e una ipocrisia: l’ergastolo è una pena incostituzionale nella sua proclamazione e diventa costituzionale nella sua esecuzione solo se c’è - per tutti - la possibilità di un percorso di ritorno alla libertà quando lo si meriti. Sarebbe bene eliminare questa ipocrisia nel quadro di una revisione del sistema sanzionatorio, evitando cioè che il semplice passaggio da ergastolo a pena detentiva, con la cumulabilità dei benefici, porti chi è stato condannato ad uscire dal carcere dopo sette o otto anni. Bisogna tenere conto delle vittime, della rivolta morale di fronte a certi delitti efferati, e affrontare il tema con molta calma e cautela". Come vede la situazione delle carceri oggi? "Il carcere è la discarica sociale delle persone escluse, come tossicodipendenti o migranti, perché accoglie chi è considerato un rifiuto dalla società, la "cultura dello scarto" di cui parla Papa Francesco. È anche lo specchio della civiltà di un Paese. Non ho mai trovato "carceri a cinque stelle", come dicono. Il carcere ha mantenuto, nonostante tutti gli sforzi, caratteristiche di violenza, di rigidità burocratica, di centralismo e di impermeabilità all’esterno. Abbiamo ancora troppi paradossi, nonostante sia all’esame delle Camere il disegno di legge per una revisione del sistema carcerario, che tocca tanti problemi, tra cui il diritto all’affettività, alla salute, alla formazione, al lavoro. C’è assoluta necessità di intervenire non solo per far fronte al sovraffollamento, che stiamo affrontando, ma per contrastare una scarsa cultura. L’articolo 27 della Costituzione dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, altrimenti è illecita, ma resta una pena. Un trattamento contrario al senso di umanità invece è un reato, tanto che i giudici (come in Germania o negli Usa, ora anche in Italia) spesso si chiedono se possono condannare persone mandandole in luoghi in cui non si rispetta l’umanità. Non basta solo costruire nuove carceri. Bisogna riempirle di personale formato, facendo maggiore ricorso alle misure alternative. Il carcere deve essere sempre l’extrema ratio. L’esperienza dimostra che con le misure alternative la recidiva è del 30%, mentre in carcere è del 70%". Il 6 novembre il Papa celebrerà il Giubileo dei carcerati. Si parla tanto della richiesta di un gesto di clemenza o di un’amnistia. Che ne pensa? "Non vedo le condizioni per un’amnistia, per diverse ragioni: tecnicamente e istituzionalmente non c’è una maggioranza politica sufficiente; la società è più orientata verso il concetto della "tolleranza zero"; non si tratta di rispondere a una emergenza con un’altra emergenza. La risposta a una eventuale domanda di amnistia dovrebbe essere una politica concreta per rendere più umano il carcere, levando gli automatismi e la burocratizzazione e assicurando condizioni di vivibilità. Ad esempio, facendo scontare la pena nel territorio dove vivono i parenti, con una maggiore presenza e formazione del volontariato, con maggiori rapporti con le realtà locali, per far capire a chi è dentro cosa c’è fuori e viceversa. La riforma del carcere prevista dalla legge delega dovrebbe essere uno dei primi obiettivi della riforma della giustizia. Sarà importante vedere quali saranno i contenuti: è questa la strada". C’è poi il dibattito sul reato di clandestinità. È favorevole o no all’abrogazione? "È un dibattito che mi sconcerta. È un reato inutile o addirittura dannoso perché impegna risorse, lavoro giudiziario, impedisce di poter acquisire elementi utili per le indagini e crea problemi. Molti di noi sono convinti che non sia punibile concettualmente il diritto alla fuga dalla fame, dalla guerra, dalla miseria. Ci sono una serie di problemi tecnici legati alla condizione del clandestino: non solo si punisce uno status ma anche una condotta che è espressione di un diritto fondamentale a emigrare. La punizione è inutile, non dà effetti, crea soltanto problemi. Non abrogare questa norma solo perché l’opinione pubblica non la capisce, o non è pronta, è una giustificazione politica inaccettabile in materia di scelte di fondo e di scelte penali. Mi fa pensare a una motivazione politica e non credo che le scelte di criminalizzazione o di depenalizzazione debbano rispondere a profili di questo tipo". L’Europa ha stilato la Convenzione europea dei diritti umani ma molti Paesi stanno chiudendo di fatto le porte ai migranti. Un altro drammatico paradosso? "L’Europa sta attraversando un fortissimo momento di crisi identitaria. Quello che sta succedendo è drammatico. Se Auschwitz è stato il cimitero dell’Europa oggi il cimitero dell’Europa è il Mediterraneo. Il rifiuto dell’accoglienza dei migranti e di studiare politiche comuni europee, scaricando solo sui Paesi di frontiera la responsabilità di gestirli, come avvenuto con il Regolamento di Dublino e con la creazione di nuove frontiere interne - fili spinati, muri, sospensione di Schengen - lascia fortemente preoccupati. L’Europa è nata per la pace e la libera circolazione, ma se quest’ultima viene finalizzata solo a una logica economica di mercato e non di rispetto dei diritti umani, non è più l’idea originaria a cui si pensava. L’Europa dovrebbe avere un "ministro dell’umanità" ed essere capace di applicare la Convenzione europea dei diritti umani e la Carta di Nizza per realizzare la dignità di tutti". Intervista a Mauro Palma, il primo Garante nazionale dei detenuti di Flavia Di Lena dazebaonews.it, 12 febbraio 2016 "L’organizzazione carceraria va ripensata un’ottica di sistema su come riorganizzare le risorse". Il professor Mauro Palma, oltre ad aver conseguito la Laurea in Matematica, ha ottenuto quella in Giurisprudenza honoris causa per le sue competenze nel campo della giustizia e dei diritti umani. Da sempre impegnato nella tutela dei diritti dei detenuti ed esperto in giustizia penale, è stato più volte rieletto Presidente del "Comitato europeo per la prevenzione della tortura" del Consiglio dell’Europa. Ad oggi, con la sua nomina a Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, arriva a compimento l’istituzione di una importante funzione di garanzia dell’area della privazione della libertà personale, prevista dalla legge n. 10 del 2014. Professore, Lei è il primo a ricoprire questo ruolo a livello nazionale. Come intende sviluppare il coordinamento a livello territoriale per superare le problematiche che si profilano? "A livello territoriale dobbiamo tener presente che vi sono realtà eterogenee: alcune regioni hanno già istituito un proprio garante, altre lo hanno istituito ma non nominato e altre ancora non lo hanno neppure istituito. Quindi, il primo compito del mio ufficio sarà quello di ricoprire il territorio nazionale, coordinando ciò che già esiste e facendo in modo da supplire il garante nelle regioni ove questi non sia operativo o sia manchevole. Dal punto di vista tematico, invece, ci sono urgenze diverse: il carcere sicuramente è un punto centrale della nostra attività, ma bisogna tener presente che esistono associazioni di volontariato che vi operano efficacemente. Il punto nevralgico oggi sono le Cie (centri di identificazione ed espulsione) dove c’è molta meno trasparenza e molta meno gente che entra. Quindi, tematicamente, è necessaria una grande attenzione alla questione degli immigrati". In Europa il compito di verificare le condizioni di detenzione durante il processo di esecuzione dell’arresto spetta al difensore, è una soluzione migliore rispetto a quella italiana? Dato che il difensore è colui che è più a stretto contatto con l’imputato? È auspicabile che venga adottata anche nel nostro ordinamento? "Dunque, questo è un problema degli stati membri dell’Ue, perché invece dentro l’Unione e specificamente nel Consiglio d’Europa, c’è già un organismo del tutto simmetrico alla figura del nostro garante, il "Comitato europeo per la prevenzione della tortura", che ha i suoi stessi poteri di monitoraggio, la stessa possibilità di visitare i luoghi senza annunciare, cosa molto utile per trovare i luoghi dove si annidano le criticità o gli ambienti dove c’è una cultura interna che può evolvere in violenza. Questo è un aspetto molto importante e costituisce il compito di sistema del garante, che in tal modo può guardare complessivamente quali sono le situazioni a rischio di maltrattamento. Sui casi dei singoli Stati membri è vero, esiste la necessità di allinearsi con la figura del difensore, ma è un compito che esula da quelli del garante, che deve invece intervenire sulle criticità in generale". Sono noti i casi di violenza su imputati e detenuti perpetrati dalle forze di polizia. Spesso è difficile far venire a galla la verità, pensiamo ai casi Cucchi e Aldrovandi. Come si può assicurare che tali eventi non si verifichino più? In effetti il rispetto della legge dovrebbe essere assicurato proprio dalle forze dell’ordine. "Puntualizziamo che questi casi, rispetto al grande lavoro che le forze dell’ordine svolgono, non sono numerosi, certo è che non devono assolutamente accadere. Il vero problema,ad ogni modo, è che questi sono casi che rimangono impuniti. Da un lato c’è un problema di prevenzione e, giustamente, il compito del garante sarà quello di prevenire. Questo lo si farà attraverso visite a sorpresa, indagini, volte a capire sia quali siano le regole che vengono date agli operatori, sia quale sia la loro formazione. Tenendo presente che l’effetto preventivo più incisivo si ha perseguendo penalmente questi reati. Perché se i loro autori non ne non rispondono, o perché passa il tempo, o perché non c’è reato, e addirittura fanno carriera, non c’è formazione che tenga". L’Italia è stata più volte sanzionata dall’Unione per il mancato rispetto delle condizioni di vivibilità delle carceri. Ai problemi strutturali, tuttavia, si cerca di ovviare senza affrontare direttamente quello del sovraffollamento: ad esempio vengono aggirati i parametri sugli spazi delle celle semplicemente aprendo le porte di queste e permettendo ai detenuti di trattenersi nei corridoi. In termini economici, quante risorse bisognerebbe stanziare per mettersi in linea con gli standard europei? "Le risorse ci sono, ma bisogna spenderle bene. Se si considera quanto l’Italia spende per ogni singolo detenuto si è nella fascia medio alta. Questo significa che i soldi vengono spesi male. Purtroppo, infatti, molte risorse confluiscono in progetti e progettini che non cambiano il sistema. Il problema non è il quantum delle risorse, ma di come queste vengono spese. Quindi uno dei compiti del garante sarà quello di ridefinire i bilanci e di dare indicazione sulle risorse. In parte è giusto rimediarne altre, però, ripeto, il problema non è la carenza di risorse ma lo spreco di queste". Quindi, in concreto, quali provvedimenti intende adottare? "Per esempio spostare in termini di bilancio le spese che si hanno complessivamente. Le risorse vengono assorbite dal fatto di avere tantissimi istituti, molti dei quali anche piccolissimi, che mantenere è costosissimo. Quindi, in primis, disporre istituti medio grandi. Pensiamo al fatto che a volte si hanno direttori anche solo per venti, venticinque detenuti, che prendono uno stipendio pari a quello di un direttore che ne ha invece mille. È chiaro che un sistema tale si deve razionalizzare, e lo si farà attraverso un ridimensionamento: imponendo un direttore ogni cento detenuti o aggregando più istituti. Questo è un primo criterio. Un altro è fare molto più ricorso alle tecnologie. Le tecnologie possono essere usate sia per facilitare la vita dei detenuti, si pensi ad un collegamento Skype con i figli, ma anche per altre situazioni, ad esempio la telemedicina. Con la telemedicina si può, per alcune analisi, fare un prelievo direttamente in istituto con personale infermieristico e averne telematicamente i risultati, risparmiando in questo modo sugli accompagnamenti, le cosiddette traduzioni, costose ed umilianti: portare un detenuto in ospedale è cosa degradante per la persona che viene condotta in manette ad attendere tra la gente. Quindi, in definitiva, va ripensata un’ottica di sistema su come riorganizzare le risorse". Oltre a problemi strutturali, ci si deve occupare della tutela dello sviluppo della personalità dei detenuti: la pena, come sappiamo, non è retributiva, il suo fine è il reinserimento della persona nella società. Il nostro ordinamento in che modo garantisce i diritti all’istruzione, formazione professionale, cultura, sport, socializzazione e rapporti con le famiglie e salute che la legge riconosce? "Dal punto di vista normativo questi diritti vengono garantiti, le norme ci sono. Dal punto di vista applicativo il discorso è un altro. Se viene tutelata l’istruzione di un detenuto, e poi non si concede la possibilità di trasferimento in un’altra città per seguire un corso di studi, allora di fatto questo diritto non lo si è tutelato. Quindi si deve agire più sul piano amministrativo che su quello normativo, sull’applicazione in concreto". In linea con quest’ottica applicativa, la direttiva 48/2013 tutela soggetti vulnerabili di cui l’Unione Europea si occupa in modo più incisivo dell’Italia. A 3 anni dal suo recepimento, a che punto siamo nell’attuazione? "Dunque, dobbiamo fare una distinzione tra due tipi di minori: se si parla di minori autori di reato l’Italia è all’avanguardia, nel senso che siamo uno dei paesi europei con il numero più basso di minori detenuti: ce ne sono meno di 300, mentre il resto è alloggiato in comunità, case famiglie o centri di recupero. Quindi da questo punto di vista bisogna continuare sulla stessa linea. Se si pensa invece ai minori intesi come figli dei detenuti, si è molto arretrati. Solo ultimamente si è cominciato ad avere la possibilità delle visite anche la domenica o il pomeriggio, cose banali ma importanti, perché, se il minore va a scuola e non gli viene fornita la possibilità di visitare il genitore di pomeriggio o di domenica, di fatto non si sta permettendo la relazione affettiva. È necessario poi intrattenere i minori quando vanno in visita, disporre assistenza psicologica per aiutarli a misurarsi con il carcere. In definitiva, diciamo che la questione del minore ha due aspetti: minore inteso come autore di reato, dove l’Italia ha un sistema efficiente, e minore inteso come parente, dove troviamo un sistema da implementare". Alcuni minori poi vivono in carcere fino a 3 anni con le madri… "Si, sono bambini che da 0 a 3 anni restano con la madre in carcere. In questo caso sono fiducioso che in tempi non lunghi la situazione si risolva, andando rapidamente verso le case famiglia. Attualmente, i bambini che non sono negli Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri) ma si trovano in carcere, sono 19, un numero esiguo, se si pensa che a Roma si potrebbe aprire una casa famiglia che ne ospiterà sette. Va da sé che questo numero andrà restringendosi ancora di più in futuro". Lavoro in carcere, torna il segno più di Antonio Maria Mira Avvenire, 12 febbraio 2016 Cresce il lavoro dei detenuti e crescono anche i fondi. E questo avviene mentre continua a calare la popolazione carceraria. Più occupazione, dunque, e pur se resta predominante quella destinata alla manutenzione degli istituti, le buone notizie riguardano anche i lavori più specializzati e quelli esterni al carcere. E più soldi, anche se sarebbero necessari molti di più. È quanto si legge nella "Relazione sullo svolgimento da parte dei detenuti di attività lavorative" relativa al 2015, inviata pochi giorni fa al Parlamento dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Secondo il documento, predisposto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, i detenuti lavoranti sono 14.570, rispetto ai 14.099 del 2014 e i 13.727 del 2013. E questo mentre la popolazione carceraria negli stessi anni è scesa dai 65.701 del 2013 ai 53.623 dello scorso anno. Crescono anche gli stanziamenti dopo anni di drastici tagli. I fondi assegnati erano stati 71,4 milioni nel 2006 (con quasi 60mila detenuti) per scendere via via fino ai 49,6 milioni del 2013 mentre la popolazione carceraria esplodeva. Lo stanziamento è tornato a crescere nel 2014 arrivando a quasi 55,4 milioni per arrivare ai 60,4 del 2015. Particolarmente importante e corposo l’aumento dei fondi per i detenuti che lavorano nelle officine gestite direttamente dall’amministrazione. Una vera controtendenza. Il budget, infatti, era passato dagli 11 milioni di euro del 2010 ai 9,3 del 2011 per precipitare ad appena 3,16 del 2012 con un taglio di più del 71% in due anni. Invece per l’esercizio finanziario 2015 la somma è arrivata a ben 13,5 milioni. Così anche i detenuti impiegati in queste attività sono aumentati passando dai 436 del 2013 ai 578 dell’anno scorso in 18 istituti penitenziari. Mentre i detenuti impiegati nella gestione quotidiana dei penitenziari (il lavoro meno qualificato) sono passati, grazie all’aumento dei fondi, da 9.645 del 2013 ai 9.698 del 2014 e ai 10.175 del 2015. Ancora più importante è il continuo incremento dei detenuti che lavorano per cooperative sociali e imprese (la cosiddetta Legge Smuraglia del 2000). Si è infatti passati da 644 detenuti assunti nel 2003 a ben 1.413, più del doppio. Dati che confermano l’interesse dei soggetti esterni al carcere, malgrado la cifra stanziata per gli incentivi prevista dalla legge in 10,14 milioni sia scesa nel 2015 a 9,8. Un parziale recupero c’è invece stato per i fondi destinati all’attività agricola che erano quasi 8 milioni nel 2010, scesi a 5,4 nel 2011 e addirittura ad appena 1,2 nel 2012, "impedendo - scrive il Dap - lo sviluppo di progettualità già in corso nei diversi tenimenti agricoli esistenti presso istituti penitenziari". Per fortuna nel 2013 si è risaliti a 5,4 milioni, per poi tornare a calare, pur di poco, lo scorso anno fino a 4,63. Comunque dando lavoro a 335 detenuti. Infine, di concerto col ministero delle Politiche agricole, anche per il 2015 si sono ottenuti i fondi comunitari "per la realizzazione di corsi professionali di apicoltura in 39 istituti penitenziari, coinvolgendo 605 corsisti da inserire poi, ove possibile, nella realtà lavorativa nazionale". Buoni risultati sicuramente anche se, ammette il Dap, "non vi è dubbio che nel corso degli ultimi anni le inadeguate risorse finanziarie non hanno consentito l’affermazione di una cultura del lavoro all’interno degli istituti penitenziari". Ma, sottolinea il Dipartimento, "proprio in questo particolare momento di difficoltà economica, comune a tutto il territorio nazionale, l’Amministrazione penitenziaria sta moltiplicando i suoi sforzi per contrastare la carenza di opportunità lavorative". E lo "sforzo maggiore" è quello "di far in modo che le persone detenute possano acquisire una adeguata professionalità. Solo l’acquisizione di capacità e competenze specifiche consentirà, a coloro che hanno commesso un reato, di introdursi in un mercato del lavoro che necessita sempre più di caratteristiche di specializzazione e flessibilità". Insomma, soldi spesi bene. Chiusura degli Opg: dal Veneto alla Puglia, il governo commissaria 6 regioni di Giulia Zaccariello Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2016 Gli ospedali psichiatrici dovrebbero essere chiusi almeno da aprile del 2015 e invece non solo esistono ancora ma ospitano ben 164 persone. Nominato il commissario Franco Corleone. Nella relazione presentata in Parlamento accuse a Calabria, Abruzzo, Piemonte, Veneto, Toscana e Puglia: "I ricoverati hanno presentato numerosi reclami, ritenendo l’esecuzione della misura di sicurezza violativa della legge". Troppi ritardi, proroghe ed errori. A nove mesi dal termine per la chiusura degli Opg, il governo commissaria le regioni che ancora non si sono attrezzate per trovare posto ai pazienti ricoverati negli ex manicomi criminali. Per legge infatti gli ospedali psichiatrici in questione dovrebbero essere chiusi almeno da aprile del 2015, e invece non solo esistono ancora ma ospitano ben 164 persone. Colpa delle regioni, che avrebbero dovuto occuparsi delle strutture sanitarie alternative, le cosiddette Rems, ma che ancora non l’hanno fatto. Sono sei in tutto quelle che presto saranno messe nelle mani di un commissario unico, indicato dal governo, con il compito di fare rispettare la legge e garantire il ricovero nelle Rems degli internati ancora senza un letto. Secondo una delibera del Consiglio dei ministri, pubblicata dal Sole 24 ore, il nome designato per il ruolo di commissario è quello di Franco Corleone, sottosegretario alla Giustizia e Garante dei detenuti. Dovrà promuovere, senza compenso o indennità, la completa attuazione della legge nelle regioni commissariate (Calabria, Abruzzo, Piemonte, Veneto, Toscana e Puglia) e sollecitare le altre a completare il percorso di superamento degli Opg, trovando posto nelle Rems ai pazienti provenienti dal proprio territorio. La nomina è stata poi presentata oggi in Conferenza delle Regioni e non ha avuto parere favorevole. "Ma il governo va avanti sulla sua strada", ha commentato il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo. "Il parere espresso oggi dalle Regioni non è vincolante, quindi a breve il Consiglio dei ministri deciderà". Prima del commissariamento, il ministero della Salute aveva fotografato la situazione degli ospedali psichiatrici e delle Rems, in una relazione annuale consegnata a gennaio al Parlamento. Dalle venti pagine esce un’immagine confusa, in cui le regioni, con ritardi e inadempienze, pesano sull’amministrazione penitenziaria, in termini di risorse economiche, umane e di mezzi. Ma non solo: violano anche i diritti di decine di persone, costrette ancora a dormire negli Opg. "I ricoverati ancora ospitati negli Opg - si legge - hanno presentato numerosi reclami, ritenendo l’esecuzione della misura di sicurezza violativa della legge con grave pregiudizio dei diritti". Anche per questo il 21 ottobre, otto regioni erano state diffidate e intimate a "garantire la presa in carico dei propri residenti ancora internati negli ex- opg e di quelli raggiunti da misure di sicurezza provvisoria, entro un termine stabilito per ciascuna di esse". Si tratta di Veneto, Piemonte, Toscana, Lazio, Abruzzo, Campania, Puglia, e Calabria. Nella relazione viene analizzato caso per caso. Alcune, come l’Abruzzo, non hanno ancora realizzato le Rems, mentre il Lazio ha solo individuato sedi provvisorie dove sistemare i pazienti. In altre, come Calabria e Puglia, sono stati fatti male i calcoli, e il numero dei posti letto si è rivelato inferiore a quello effettivamente necessario. Al 15 dicembre 2015 nei 4 ex manicomi ancora attivi, quello di Reggio Emilia, di Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto e Montelupo, risultavano 164 internati. Mentre 98 persone ritenute "destinatarie di una misura di sicurezza detentiva" sono ancora in libertà, dal momento che non possono entrare in Opg perché non è previsto più per legge, ma non trovano neanche posto nelle Rems. I pazienti trasferiti sono stati invece 455, ma alcuni, per mancanza di letti nella propria regione, sono stati ricoverati lontano, andando a sovraccaricare le Rems già esistenti. Queste strutture, viene specificato nella relazione, "a loro volta hanno avuto difficoltà ad accogliere i pazienti residenti nel territorio regionale di riferimento". Superamento degli Opg: le Regioni bocciano i commissariamenti, ma il Governo va avanti ilfarmacistaonline.it, 12 febbraio 2016 A rischio Calabria, Abruzzo, Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto. Non accolta dalla Conferenza Stato Regioni la richiesta della Conferenza dei Presidenti di sospendere i provvedimenti per gli enti locali inadempienti. La rabbia del Veneto: "Ci commissariano per adempienza. È barzelletta". Per il sottosegretario alla Salute, Vito De Filippo: "Il parere espresso oggi dalle Regioni non è vincolante, quindi a breve il Consiglio dei Ministri deciderà". Il Governo va avanti sulle procedure di commissariamento per 6 regioni che sono inadempienti rispetto alla legge che prevede la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Oggi la Conferenza Stato Regioni non ha accolto la richiesta formale della Conferenza dei Presidenti, riunitasi in mattinata, di sospendere l’annunciato commissariamento di alcune Regioni. Del resto la legge non prevede nessun veto possibile delle Regioni (Nel caso di mancata presentazione del programma, ovvero di mancato rispetto del termine di completamento del programma, il Consiglio dei Ministri, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, nomina commissario la stessa persona per tutte le regioni per le quali si rendono necessari gli interventi sostitutivi). Il termine per la chiusura degli Opg è scaduto il 1 marzo 2015, ma come rilevava l’ultima relazione al Parlamento le criticità sono ancora molte. Sulla questione è intervenuto il sottosegretario alla Salute, Vito De Filippo che ha spiegato: "La nomina del Commissario per le regioni inadempienti rispetto alla legge sugli ospedali psichiatrici giudiziari è stata portata oggi in Conferenza delle Regioni e non ha avuto parere favorevole. Ma il Governo va avanti sulla sua strada". A rischiare sono Calabria, Abruzzo, Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto. "Il parere espresso oggi dalle Regioni - specifica De Filippo - non è vincolante, quindi a breve il Consiglio dei Ministri deciderà". Rabbia dalla Regione Veneto, una di quelle per cui molto probabilmente si procederà al commissariamento. "Oggi in Conferenza Stato Regioni è nato un nuovo istituto giuridico: il commissariamento per adempienza. Se non ci fosse da piangere sarebbe una bella barzelletta. Invece è la realtà, sempre più schizofrenica". Ha detto l’Assessore alla Sanità della Regione del Veneto, Luca Coletto, commentando "con un amaro sorriso" la decisione, assunta oggi in Conferenza Stato-Regioni a Roma di non accogliere la richiesta formale della Conferenza dei Presidenti, riunitasi in mattinata, di sospendere l’annunciato commissariamento di alcune Regioni, tra le quali il Veneto, per non aver realizzato in tempo le Rems, strutture di accoglienza per i detenuti psichiatrici, dopo la decisione di chiudere gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg). "Una situazione che potrebbe richiamare la comicità triste di un Charlie Chaplin - incalza l’assessore - e la cui assurdità è testimoniata dalle date, almeno per quanto riguarda il Veneto, dove 16 letti di Rems sono attivi dal 21 gennaio scorso all’ex ospedale di Nogara e altri 16 verranno realizzati e attivati entro maggio, per un totale di 32 rispetto ai 23 malati psichici veneti interessati". "Le date sono le seguenti - snocciola Coletto - i fondi statali per realizzare una Rems nel Veneto sono stati autorizzati il 24 febbraio 2015; il provvedimento è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 3 marzo 2015; secondo la specifica legge nazionale (del 2012) le Rems avrebbero dovuto essere realizzate entro il 21 aprile 2015, in meno di 2 mesi!. È vero che i Veneti sono abituati a lavorare come muli e in fretta, ma in meno di due mesi ci sarebbe voluta fata turchina, non una procedura d’urgenza". "Se non avranno il coraggio di ammettere l’errore e non faranno marcia indietro - conclude Coletto - il futuro commissario sarà decisamente fortunato, perché non avrà niente da fare". Ad intervenire è stata anche la Regione Abruzzo che ha specificato come "ad oggi non è pervenuta comunicazione alla Regione sulla nomina di un commissario ad acta per l’attivazione della Rems. Ad ogni modo, al di là delle decisioni del Ministero, martedì scorso abbiamo comunicato al Ministero che il 4 aprile prossimo sarà attivata la struttura di Barete". Ha precisato l’assessore alla Programmazione sanitaria, Silvio Paolucci, rispondendo alle dichiarazioni del presidente della Commissione di Vigilanza Mauro Febbo. "La Rems di Barete - continua Paolucci - sarà dotata di 20 posti, di cui 3 riservati alle donne. È vero che abbiamo accumulato ritardi rispetto alle previsioni iniziali, ma ciò è dovuto esclusivamente alla grande piaga che affligge quasi ogni decisione della Sanità in Abruzzo: i continui ricorsi alla magistratura amministrativa. È bene ricordare, infatti, che subito dopo il nostro insediamento avevamo stabilito che la Rems sarebbe stata localizzata a Guardiagrele. Contro quella decisione, però, fu proposto ricorso al Tar e ciò ci ha fatto perdere molti mesi sul cronoprogramma che ci eravamo prefissati, decidendo infine di modificarlo per non attendere ulteriormente. Per quanto riguarda, infine, i 4 milioni e mezzo di euro destinati inizialmente alla realizzazione della Rems a Ripa Teatina, appena 10 giorni fa il Ministero ci ha comunicato l’autorizzazione alla completa rimodulazione del finanziamento, che potrà quindi essere utilizzato per nuovi investimenti nella nostra regione". Sport nelle carceri, firmato un Protocollo d’intesa tra Ministero della Giustizia e Uisp Agenparl, 12 febbraio 2016 È stato siglato a Roma il nuovo Protocollo d’intesa tra Ministero della Giustizia-Dap e l’Uisp per realizzare attività motorio-sportive nelle carceri italiane. Il Protocollo avrà durata triennale e si propone di intervenire "in favore dei soggetti in esecuzione di pena detentiva al fine di valorizzare la corporeità, favorire l’acquisizione di abilità motorie e sportive e contribuire all’abbattimento delle tensioni indotte dalla detenzione". Si tratta del quarto rinnovo di questo Protocollo che dal 1997 consente all’Uisp di intervenire negli istituti penitenziari italiani attraverso l’organizzazione di varie attività sportive, dal calcio alla pallavolo, dalla pre-pugilistica al tennis sino all’atletica con "Vivicittà" che ogni anno coinvolge una ventina di carceri italiane. "L’esperienza di questi anni ci dice che l’attività sportiva è un efficace strumento per trasmettere alla popolazione carceraria il rispetto delle regole e del vivere sociale, in vista di un futuro reinserimento", ha detto Roberto Piscitello, direttore generale detenuti e trattamento del Dap all’atto del rinnovo del Protocollo. Vincenzo Manco, presidente nazionale Uisp, si è detto particolarmente soddisfatto del riconoscimento da parte dell’amministrazione penitenziaria nei confronti dell’Uisp della primogenitura "dell’idea che attraverso proposte di sport sociale si possa costruire un collegamento tra attività sportiva e territorio, tra un dentro e un fuori con opportunità di riabilitazione sociale". Stretta sulle misure cautelari. Collaborazione infra-europea per il riconoscimento di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 12 febbraio 2016 Collaborazione infra-europea per l’applicazione delle misure cautelari penali. Per il controllo sugli imputati in attesa di giudizio, le autorità giudiziarie possono contare sull’operato delle omologhe di altro stato componente dell’unione. È questo l’effetto del decreto legislativo, definitivamente approvato dal consiglio dei ministri del 10 febbraio 2016, che recepisce la decisione quadro 2009/829/ Gai sul reciproco riconoscimento delle misure cautelari da parte dei paesi dell’Unione europea (Ue) nel corso di procedimenti penali. Il provvedimento introduce disposizioni comuni nel caso in cui una persona residente in uno stato sia sottoposta a procedimento penale in un altro stato europeo e sia necessario sorvegliarla in attesa del processo: lo stato in cui la persona è sottoposta ad una misura cautelare, diversa dal carcere e dagli arresti domiciliari, può trasmettere la decisione, che impone obblighi e prescrizioni, allo stato in cui la stessa ha la residenza legale e abituale, ai fi ni del relativo riconoscimento e della conseguente sorveglianza. L’obiettivo è assicurare l’imputato alla giustizia, ma anche, spiega il comunicato stampa del governo, di promuovere il ricorso a misure non detentive per le persone non residenti nello stato in cui ha luogo il procedimento, così da rafforzare il diritto alla libertà e la presunzione di innocenza e di migliorare la protezione delle vittime e della collettività. In mancanza del diritto uniforme ci sarebbero solo due alternative, tutte e due rischiose o per l’imputato o per la giustizia: detenzione cautelare o circolazione non sottoposta a controllo. La decisione quadro e il decreto legislativo in commento eliminano la disparità di trattamento tra coloro che risiedono e coloro che non risiedono nello stato del processo: la persona non residente nello stato del processo è esposta al rischio di essere posta in custodia cautelare in attesa di processo, mentre un residente non lo sarebbe. Con il decreto legislativo in commento una persona sottoposta a procedimento penale, ma non residente nello stato del processo, non riceve un trattamento peggiore di quello riservato alla persona sottoposta a procedimento penale ma residente. Le misure cautelari che rientrano nel campo di applicazione del provvedimento in esame sono sette: obbligo di comunicare la residenza, divieto di frequentare determinati luoghi, obbligo di rimanere in un dato luogo, eventualmente in determinate ore, restrizioni all’espatrio, obbligo di presentarsi in determinate ore all’autorità, obbligo di evitare contatti con persone coinvolte nel reato per cui si procede, divieto temporaneo di svolgere attività professionali determinate. Il decreto disciplina l’ipotesi di trasmissione all’estero di richieste delle autorità italiane o di ricevimento di richieste di altri stati europei. Nel primo caso, una volta trasmessa la richiesta, lo stato destinatario deve curare l’esecuzione e la sorveglianza sull’osservanza della misura. Il procedimento prevede l’invio del provvedimento, che dispone misure cautelari, al ministero della giustizia, che provvede all’inoltro all’autorità omologa dello stato europeo destinatario. Nel secondo caso è la corte di appello che deve decidere sul riconoscimento e sulla sorveglianza sulla misura cautelare. Per l’esecuzione in Italia bisogna controllare che il fatto, per cui vi è un procedimento, sia previsto come reato anche dalla legge italiana, salvo che per gravi reati, espressamente elencati, per i quali si deroga al principio della doppia punibilità. Il decreto legislativo elenca i casi tassativi in cui può essere rifiutato il riconoscimento delle misure cautelari. A questo proposito il provvedimento esclude la possibilità di rifiuto in materia di imposte, tasse, dogane e moneta, se la legislazione italiana non impone lo stesso tipo di tasse o di imposte o non contiene lo stesso tipo di disciplina tributaria, valutari o doganale. Le spese dell’esecuzione della sorveglianza sull’osservanza delle misure cautelari sono a carico dell’Italia. Blocco dei beni, nella Ue la rogatoria non serve più di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2016 Ne bis in idem, limiti al riconoscimento delle sentenze pronunciate in Stati membri in contumacia, squadre investigative comuni. E non solo. Sono ben 10 le decisioni quadro recepite in Italia dai decreti legislativi varati dal Consiglio dei ministri del 10 febbraio. Con un filo conduttore: allinearsi al quadro Ue in materia di cooperazione giudiziaria penale e colmare ritardi cronici nell’attuazione degli atti nella giustizia penale. Ritardi che hanno rallentato il dialogo diretto tra autorità giudiziarie. Uno sprint finale, che mette mano a norme interne, dovuto anche al rischio dell’apertura di procedure d’infrazione per i ritardi nel recepimento (in alcuni casi di oltre 10 anni). I decreti legislativi sono stati approvati in attuazione della delega contenuta legge di delegazione europea 2014. In primo piano, il pacchetto di misure funzionali a garantire la libera circolazione dei provvedimenti di altri Stati membri, nel segno del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie. Primo tra tutti, il decreto legislativo di recepimento della decisione quadro n. 2003/577 relativa all’esecuzione nell’Unione europea dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio. Con il nuovo atto, viene accantonato il tradizionale sistema delle rogatorie internazionali, a vantaggio del riconoscimento reciproco dei provvedimenti, senza la mediazione dell’autorità centrale. L’ambito di applicazione è limitato ai provvedimenti emessi a fini probatori o per la successiva confisca dei beni. Sul modello di successo del mandato di arresto europeo, viene meno il principio della doppia incriminazione, prevista solo in via eccezionale per alcune fattispecie. Con lo stesso impianto, via libera anche al recepimento della decisione quadro 2005/214 sul reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie, che permette allo Stato di residenza di riscuotere le sanzioni pecuniarie inflitte in via definitiva in un altro Paese Ue. Previsti la trasmissione diretta tra le autorità nazionali e l’utilizzo della rete giudiziaria europea. Col decreto legislativo relativo alla decisione quadro 2009/829/GAI sull’applicazione tra gli Stati membri del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare, sarà rafforzato il ricorso a misure non detentive anche per chi non risiede in Italia. Al bando, così, ogni forma di disparità di trattamento. Con la trasmissione diretta della decisione sulle misure cautelari allo Stato membro in cui risiede l’interessato, si dovrà indicare anche la tipologia di sorveglianza richiesta. Tra i decreti adottati, anche quello che recepisce la decisione quadro n. 2008/947 sull’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze e alle decisioni di sospensione condizionale in vista della sorveglianza delle misure di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive e la 2009/299 che modifica precedenti decisioni inclusa la 2005/214 sul mandato di arresto europeo. Un cambiamento funzionale a rafforzare i diritti processuali. Il decreto approvato modifica, per assicurare il pieno rispetto della decisione 2009/299, il Dlgs 161/2010 e il Dlgs 69/2005 sul mandato di arresto europeo. Spazio, poi, al ne bis in idem: nell’Unione europea vanno evitati procedimenti penali paralleli relativi alla stesso fatto e alla stessa persona. In questa direzione, grazie al recepimento della decisione n. 2009/948 sulla prevenzione e la risoluzione dei conflitti relativi all’esercizio della giurisdizione nei procedimenti penali, sarà attivato il sistema della soluzione concordata. Approvato in esame preliminare anche il decreto sulla decisione quadro 2008/675 sulla considerazione delle decisioni di condanna tra Stati membri. Arresto europeo: se il reato è cancellato lo straniero resta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 5749/2015. La depenalizzazione blocca la consegna dello straniero condannato per guida senza patente. La Corte di cassazione, con la sentenza 5749 depositata ieri, mette in pratica, per la prima volta, gli effetti del decreto legislativo 8/2016 in vigore dal 6 febbraio scorso. Ne beneficia un cittadino rumeno la cui consegna era richiesta dal Paese, nell’ambito del mandato d’arresto europeo, per il reato di guida senza patente commesso nel febbraio 2014. In prima battuta il suo legale chiede la possibilità di scontare la pena in Italia dove il suo assistito ha un lavoro e dove vivono la moglie e il fratello con la famiglia. La difesa però gioca anche la carta dell’effetto depenalizzazione, che avrebbe fatto venire meno il requisito della doppia punibilità, previsto dalla legge 69 del 2005. La norma - che allinea l’ordinamento interno alla decisione quadro 2002/584/Gai - con l’articolo 7 subordina la possibilità di dare esecuzione al mandato d’arresto europeo alla condizione che il fatto per il quale si richiede la consegna sia previsto come reato anche dalla legge nazionale. La Cassazione promuove la tesi, precisando che dal 6 febbraio scorso sono state depenalizzate le violazioni punite con la sola multa o con l’ammenda, fatta eccezione per alcune, ma tra queste non c’è la guida senza patente contemplata dall’articolo 116 del codice della strada. Su queste basi, concorda la Suprema corte, è esclusa la condizione della doppia punibilità. La Cassazione ricorda che la prevalente giurisprudenza per considerare integrato il requisito della doppia punibilità ritiene sufficiente che l’ordinamento interno contempli come reato il fatto nel momento in cui lo Stato di emissione richiede la consegna, mentre non è necessaria la rilevanza penale quando l’azione incriminata è stata commessa. Un principio che la Cassazione condivide ma la quale aggiunge un "tassello": la necessità di dare rilevanza, oltre che al momento della domanda, anche a quello della decisione, mentre resta ininfluente la data in cui è stato commesso il fatto. Un ragionamento diverso - concludono i giudici -porterebbe a un paradosso. Nel caso un soggetto sia in grado di dimostrare la stabile residenza in Italia, la consegna dovrebbe essere rifiutata, in base all’articolo 18 comma i lettera r) della legge 69/2005 che blocca il Mae per il cittadino italiano, allo stesso tempo però si dovrebbe disporre l’esecuzione della condanna in Italia, cosa impossibile vista la depenalizzazione della violazione. Da qui la conferma che per prendere atto del venire meno della doppia punibilità vale il momento della decisione. All’imputato sono revocati gli arresti domiciliari e viene ordinata l’immediata liberazione. Braccialetto elettronico ai detenuti domiciliari: decideranno le Sezioni unite di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 5799/2016. Saranno le Sezioni unite a dire l’ultima parola sulla legittimità o meno di subordinare la scarcerazione alla disponibilità del braccialetto elettronico. La Corte di cassazione, con l’ordinanza 5799 depositata ieri, prende atto di un deciso contrasto su un tema nel quale sono in gioco diritti di rilievo costituzionale e rimette gli atti al primo presidente per l’assegnazione alle Sezioni unite. Due gli orientamenti contrapposti. I fautori del primo ritengono, secondo un principio condiviso dalla sezione remittente, che l’adozione della cavigliera sia una modalità di esecuzione degli arresti domiciliari necessaria ed idonea a fronteggiare le esigenze cautelari. E il giudice può rifiutare la sostituzione della custodia in carcere per l’indisponibilità del dipositivo da parte della Polizia giudiziaria, senza per questo arrecare un vulnus ai principi costituzionali. L’impossibilità di concedere la scarcerazione senza controllo dipende, infatti, dall’intensità delle esigenze cautelari ed è pertanto "addebitabile" all’indagato. Non meno consistente l’orientamento secondo il quale la prescrizione del braccialetto elettronico, non riguarda un giudizio di adeguatezza della misura, che è già evidentemente stato positivo, ma la capacità dell’indagato di autolimitare la propria libertà di movimento. Per questo va considerato illegittimo il provvedimento con il quale il giudice, pur ritenendo idonea la misura, subordina la scarcerazione alla reperibilità del dispositivo elettronico, quando il detenuto deve invece essere controllo con i mezzi tradizionali. Alcoltest, anche lo sforamento decimale lega le mani al Gip di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 11 febbraio 2016 n. 5690. In caso di contestazione del reato di guida in stato di ebbrezza, anche se lo sforamento è minimo, nel caso di 0,02, qualora il Pm abbia chiesto il decreto penale di condanna, il Gip non ha alcun margine per assolvere l’imputato. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 11 febbraio 2016 n. 5690, accogliendo il ricorso della pubblica accusa e annullando la sentenza del tribunale di Asti favorevole al conducente. E ciò sia per una ragione di carattere procedurale che per la stringente cornice normativa e giurisprudenziale in materia di alcoltest. Sotto il primo aspetto, la Cassazione ha affermato che il giudice, chiamato a valutare la richiesta di emissione del decreto penale di condanna, può deliberare il proscioglimento "solo quando risulti evidente la prova positiva dell’innocenza dell’imputato, o risulti evidente che non possono essere acquisite prove della sua colpevolezza, mentre l’analoga sentenza è preclusa quando l’infondatezza dell’accusa dovrebbe essere affermata mediante un esame critico degli elementi prodotti a sostegno della richiesta ovvero sulla base di una valutazione di opportunità sul proficuo esercizio dell’azione penale o sulla inoffensività della condotta" (n. 3914/2013). Nel caso affrontato, infatti, "non ricorre quella mancanza assoluta della prova integrabile nelle fasi successive che sola può legittimare un proscioglimento adottato ex art. 129 cod. proc. pen. dal Gip investito della richiesta ex art. 459 cod. proc. pen.". Secondo il ragionamento del giudice delle indagini preliminari, invece, siccome l’indagato aveva un tasso alcolemico di poco superiore alla soglia penale di 0,80 (con un superamento di 0,05 e 0,02 nelle due prove) non si poteva essere certi dell’effettivo stato di alterazione del conducente. Del resto, per il Gip, lo sforamento poteva anche essere frutto della "ineliminabile imprecisione" dello strumento. Non solo, il Dm 196/1990 nel dettagliare le procedure di accertamento avrebbe stabilito una soglia di tolleranza del 4% - per concentrazioni tra 0,40 e 1m/g, applicando la quale si sarebbe tornati automaticamente sotto soglia. Per i giudici di legittimità però la valutazione del tribunale di merito non tiene conto del fatto che è onere della difesa fornire la prova contraria all’accertamento - difetti dello strumento, errore di metodologia nell’esecuzione, "non essendo affatto sufficiente congetturare la mancanza di omologazione del macchinario (n. 17463/2011) o il mancato deposito della documentazione attestante la regolarità dell’etilometro (n. 42084/2011), o prospettare dubbi non correlati a specifici elementi fattuali". Inoltre con riferimento ai decimali risultanti dalla misurazione, prosegue la sentenza, l’articolo 186 del C.d.S. non prevede in alcun punto che non se ne debba tener conto (n. 4967/2013). Infine, conclude la sentenza, la normativa di settore ha specificato l’obbligatorietà, per gli agenti di polizia, di effettuare almeno due verifiche ad intervallo di cinque minuti "e, tra i risultati ottenuti, di considerare rilevante quello col valore inferiore e che i due accertamenti non possono essere sostituiti dalla combinazione di un accertamento tecnico con un controllo sintomatico". Diffamazione online: responsabile il gestore del sito anche per i commenti L’Espresso, 12 febbraio 2016 Sono state pubblicate nei giorni scorsi le motivazioni della Sentenza con la quale il Tribunale di Belluno ha condannato Matteo Gracis, gestore del sito di informazione locale nuovocadore.it per diffamazione, per aver ritardato nella rimozione di un commento pubblicato da un proprio lettore, ritenuto lesivo dell’immagine dell’allora Onorevole Maurizio Paniz. La "colpa" di Gracis, secondo il Giudice, sarebbe quella di aver coscientemente atteso dieci giorni - dal 4 al 14 giugno 2011 - prima di procedere alla rimozione di un commento segnalatogli, dallo stesso Onorevole Paniz, come diffamatorio e pubblicato da un utente nel forum di discussione accessibile attraverso il sito da esso gestito. Più in particolare i fatti, riferiti nella Sentenza, raccontano che Gracis, ricevuta la segnalazione di Paniz mentre si trovava all’estero anziché procedere all’immediata rimozione del contenuto contestato si sarebbe limitato a riscontrare la mail dell’Onorevole, comunicandogli che sarebbe intervenuto al suo rientro in Italia. Tanto è bastato per far concludere al Giudice che "L’imputato, pur reso edotto della pubblicazione del commento, dei contenuti del commento, delle valutazioni e della percezione dello stesso da parte dell’Avv. Paniz…ha deciso di non operare direttamente e immediatamente con la modifica-cancellazione del commento, preferendo posticipare ogni iniziativa e decisione al suo rientro in Italia". "Ne consegue - continua il Giudice - che nel periodo dal 4 giugno al 14 giugno 2011, l’odierno imputato ha consentito la pubblicazione sul forum aperto sul sito web di sua proprietà di un commento della cui esistenza e portata diffamatoria era stato puntualmente reso edotto, con conseguente accettazione, decidendo di posticipare ogni intervento, che peraltro era oggettivamente possibile nell’immediatezza, al suo rientro in Italia, del rischio del verificarsi dell’evento lesivo rappresentato dalla lesione dell’onorabilità e della reputazione di Maurizio Paniz". Sulla portata effettivamente diffamatoria del commento in questione con il quale l’utente di nuovocadore.it, nella sostanza, contestava all’On. Paniz di abusare del proprio ruolo per fare leggi ad personam, ci sarebbe, probabilmente, tanto da dire perché, forse, in un Paese con ambizioni democratiche, specie chi siede in Parlamento, dovrebbe accettare di essere destinatario di critiche anche aspre e, talvolta, sopra le righe come, peraltro, nel confronto politico accade, ormai, quotidianamente persino nell’Aula di Montecitorio. Ma, in questa vicenda, il punto è un altro. Il punto è che il Giudice ha ritenuto il gestore di un sito internet - neppure una testata giornalistica o, comunque, un periodico online - responsabile di diffamazione non per ciò che ha scritto ma per ciò che ha consentito ad altri di pubblicare del tutto inconsapevolmente ed ha poi tardato dieci giorni a rimuovere. Come se, in buona sostanza, pubblicare un contenuto diffamatorio o consentire a terzi di pubblicare un contenuto che il presunto diffamato, segnala come diffamatorio fossero la stessa cosa. E d’altra parte che questa pericolosa equazione sia esattamente quella sulla quale è basata l’intera decisione lo dice, in modo inequivocabile - verrebbe da dire quasi confessorio - il capo d’imputazione contestato al gestore del sito: "aver pubblicato e/o fatto pubblicare sul proprio sito" una dichiarazione poi risultata diffamatoria. E qui che - a prescindere dalla vicenda specifica in relazione alla quale si può naturalmente condividere o non condividere la decisione del Giudice - occorre prendere atto la libertà di informazione, in Italia, è a rischio e che il quadro normativo sul quale riposa è troppo fragile per costituire un valido presidio di una libertà fondamentale che la stessa Corte Costituzionale ha più volte ribadito essere "pietra angolare della nostra democrazia". E mentre la Sentenza può piacere o non piacere, sull’insostenibile leggerezza dei presidi alla libertà di informazione nel nostro Paese è difficile non trovarsi d’accordo specie ad accostare le motivazioni appena rimbalzate dal Tribunale di Belluno con quelle della Sentenza dello scorso 2 febbraio, con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo ha messo nero su bianco che Viola i diritti dell’uomo chiamare il gestore di un sito internet a rispondere della eventuale diffamatorietà dei commenti postati dai lettori se non appena avuta notizia del loro carattere illecito ha provveduto a rimuoverli. Guai ora a voler discutere se un ritardo di dieci giorni da quando si riceve non già una comunicazione di una qualche Autorità che ordini la rimozione di un contenuto giudicato diffamatorio ma una semplice contestazione da parte di un interessato costituisca o meno un comportamento scusabile da parte di chi non ha scelto di fare, per mestiere, informazione ma che un ritardo di questo genere possa, addirittura, costare una condanna per diffamazione lascia davvero perplessi. E se la rimozione fosse avvenuta dopo tre giorni? O magari dopo un week end? Sarebbe stata comunque diffamazione? La legge, naturalmente, non lo dice e un bene prezioso come la libertà di informazione non può essere lasciata alla mercé delle interpretazioni dei Giudici. Non punibilità per particolare tenuità del fatto. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2016 Cause di non punibilità - Particolare tenuità del fatto - Giudizio di legittimità - Interlocuzione della persona offesa - Esclusione. Nel giudizio di legittimità, ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità della speciale tenuità del fatto di cui all’articolo 131 bis cod. pen., non è prevista l’interlocuzione della persona offesa. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 6 novembre 2015 n. 44683. Cause di non punibilità - Particolare tenuità del fatto - Applicabilità dell’articolo 131 bis cod. pen. nei procedimenti per reati di competenza del Giudice di Pace - Esclusione - Ragioni. La causa di esclusione della punibilità di cui all’articolo 131 bis cod. pen. non è applicabile ai procedimenti davanti al Giudice di Pace, poiché in questi si applica la disciplina prevista dall’articolo 34 del D.Lgs. n. 274/2000, da considerarsi norma speciale, e quindi prevalente, rispetto a quella dettata dal codice penale. • Corte cassazione, sezione Feriale, sentenza 24 settembre 2015 n. 38876. Cause di non punibilità - Particolare tenuità del fatto - Natura - Processi pendenti alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 28/2015 - Rilevabilità nel giudizio di cassazione - Condizioni. L’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’articolo 131-bis cod. pen., ha natura sostanziale ed è applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, ivi compresi quelli pendenti in sede di legittimità, nei quali la Suprema Corte può rilevare di ufficio ex articolo 609, comma secondo, cod. proc. pen. la sussistenza delle condizioni di applicabilità del predetto istituto, fondandosi su quanto emerge dalle risultanze processuali e dalla motivazione della decisione impugnata. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 8 giugno 2015 n. 24358. Cause di non punibilità - Particolare tenuità del fatto - Deducibilità nei processi pendenti alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 28/2015 - Rilevabilità nel giudizio di legittimità - Condizioni. L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’articolo 131-bis cod. pen., ha natura sostanziale ed è applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, ivi compresi quelli pendenti in sede di legittimità, nei quali la Suprema Corte può rilevare di ufficio ex articolo 609, comma secondo, cod. proc. pen. la sussistenza delle condizioni di applicabilità del predetto istituto, fondandosi su quanto emerge dalle risultanze processuali e dalla motivazione della decisione impugnata. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 27 maggio 2015 n. 22381. Cause di non punibilità - Particolare tenuità del fatto - Rilevabilità della questione nel giudizio di legittimità - Possibilità - Conseguenze. La questione relativa alla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’articolo 131-bis cod. pen., è rilevabile nel giudizio di legittimità, a norma dell’articolo 609, comma secondo, cod. proc. pen., se non è stato possibile proporla in appello, ma la prospettazione non implica necessariamente l’annullamento della sentenza impugnata dovendo la relativa richiesta essere rigettata ove non ricorrano le condizioni per l’applicabilità dell’istituto. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 22 maggio 2015 n. 21474. Misure di prevenzione, imposizione di una cauzione. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2016 Misure di prevenzione - Imposizione di una cauzione - Richiesta di rateizzazione - Rigetto - Impugnabilità - Ricorso per cassazione - Inammissibile. È inammissibile, in applicazione del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, il ricorso per cassazione avverso il rigetto dell’istanza di revoca della cauzione, trattandosi di provvedimento non impugnabile autonomamente, ma solo insieme all’appello avverso l’applicazione della misura di prevenzione personale. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 2 ottobre 2015 n. 39855 Misure di prevenzione - Mancato versamento della cauzione imposta ex articolo 3 bis L. 575/1965 - Funzione - Rafforzamento dell’obbligo connesso alla fattispecie - Assoggettabilità alle regole ordinarie in tema di colpevolezza in materia penale. In tema di misure di prevenzione, qualora l’imputato abbia dedotto l’impossibilità di versare la cauzione al momento della scadenza del termine per l’adempimento, deve essere verificata, anche nel processo penale, indipendentemente dalle verifiche compiute dal giudice della prevenzione al momento della determinazione della cauzione e dalla possibilità per l’interessato di chiedere, in ogni momento, in tutto o in parte, la revoca della cauzione. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 26 febbraio 2015 n. 8567 Misure di prevenzione - Reato di mancato versamento della cauzione - Deduzione dell’impossibilità economica ad adempiere - Ammissibilità - Condizioni. L’impossibilità economica di far fronte all’obbligo della cauzione imposta in sede di applicazione della misura di prevenzione personale è deducibile anche nel giudizio penale ai fini della responsabilità per il reato costituito dall’inosservanza di tale obbligo, ed incombe al giudice il dovere di accertare la reale condizione economica dell’imputato nel momento in cui si è verificata l’inottemperanza, quando quest’ultimo ha adempiuto all’onere di allegare circostanze idonee a rappresentare la sua situazione di impossidenza. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 1 agosto 2014 n. 34128 Misure di prevenzione - Provvedimento impositivo di cauzione - Impugnabilità - Esclusione. Il provvedimento con il quale il giudice della prevenzione impone una cauzione non è impugnabile. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 30 gennaio 2013 n. 4834 Lombardia: carceri sovraffollate, a Monza il 50% di detenuti in più di Roberto Magnani ilcittadinomb.it, 12 febbraio 2016 Il ministero della Giustizia ha reso noti i dati: le carceri lombarde sono sovraffollate e Monza conta il 50% di detenuti in più, piazzandosi al terzo posto in classifica dietro al Bassone di Como e Vigevano. Ha ottenuto poca cosa, un risarcimento di 1.568 euro, 7,91 euro al giorno, dal ministero della Giustizia, perché per 198 giorni è stato detenuto in una cella del carcere di San Vittore "con trattamento inumano e degradante". Lo ha stabilito la decima sezione civile del Tribunale di Milano accogliendo in parte il ricorso presentato dall’uomo - che si è appellato all’articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dell’uomo e delle libertà fondamentali - detenuto in una cella sovraffollata, con "spazio pro capite inferiore al limite minimo di 3 metri quadrati". È stato in cella dal 29 gennaio 2009 al 14 marzo 2010 prima a San Vittore, poi a Opera e di Bollate, a suo dire sempre in condizioni di detenzione "degradanti". I giudici hanno appurato che ciò è avvenuto solo a San Vittore dove è stato rinchiuso per circa sei mesi e mezzo. In particolare, nel suo ricorso, ha riferito di essere stato "ristretto in celle di dimensioni ridottissime, sempre in regime di condivisione con altri soggetti, il cui spazio disponibile era limitato ulteriormente dalla presenza di mobili ed arredi, oltre che scarsamente illuminate e riscaldate". In più, si legge sempre del provvedimento del giudice civile, tali "celle erano dotate di un piccolo bagno, privo di acqua calda ed assolutamente non igienico". Una sentenza che ha aperto un fronte rispetto alle condizioni delle 18 case circondariali lombarde, in relazione soprattutto al sovraffollamento. In complesso le strutture della regione potrebbero ospitare 6.132 detenuti, invece a fine gennaio erano 7.826, quasi 1.700 in più, il 27%, circa 5 volte peggio della media nazionale di sovraffollamento (5%). Ma, a dispetto di chi pensa che un carcere come San Vittore occuperà sicuramente il primo posto nella non edificante classifica, si deve ricredere. Nel distretto milanese, la cima della classifica è appannaggio del carcere comasco Bassone: dovrebbe ospitare al massimo 221 detenuti e invece a fine dicembre ce n’erano 404, quasi l’83% in più della capienza regolamentare. E Monza? Non se la passa bene: secondo i dati ufficiali del ministero della Giustizia, si piazza al terzo posto dopo Como e Vigevano (+ 66% con 397 detenuti per 239 posti). In via Sanquirico si tocca il +50% con 604 detenuti a fronte di 403 posti disponibili. A seguire Lodi e Busto Arsizio con il + 44%, Opera con il + 41% e un quasi dignitoso +16% di San Vittore (873 detenuti per 750 posti), + 8% di Voghera, + 4% di Pavia. Record positivo invece per Bollate che al 31 dicembre segnava un - 12% con 1.096 posti occupati sui 1.242 disponibili. I numeri sono emersi durante l’apertura dell’anno giudiziario, a Milano. Proprio nel distretto di milanese la situazione, come detto dal presidente vicaria della corte d’appello Marta Malacarne è ancora critica. Al di fuori del distretto, tuttavia, non va certo meglio: il carcere di Bergamo conta 536 detenuti su 330 posti (+62% di sovraffollamento) mentre i due penitenziari di Brescia si attestano sul +60%. Malacarne ha invece fatto un plauso alle cosiddette "celle aperte", una novità che ha portato più umanità negli istituti penitenziari dove è stato ampliato il numero di sezioni caratterizzate dal "patto trattamentale" con i soli detenuti definitivi. Si tratta di una sorta di patto: i detenuti si impegnano a comportarsi in maniera corretta e partecipativa e di contro sono autorizzati a permanere all’esterno della cella di appartenenza. Toscana: superamento Opg, collaborazione con l’Università di Pisa e l’Ausl Nord Ovest italpress, 12 febbraio 2016 Proseguono gli interventi programmati dalla Toscana per il superamento dell’Opg. Domani, venerdì 12 febbraio, dalle ore 15, nell’aula magna della Scuola Medica in Via Roma N. 67, a Pisa, si terrà un incontro tra la professoressa Liliana Dell’Osso, direttore dell’Unità operativa di Psichiatria Universitaria della Aou Pisana e il suo gruppo di lavoro con l’equipe della Rems-D Volterra. L’incontro rappresenta un importante elemento di collaborazione ed integrazione tra Servizio sanitario Universitario Pisano e Servizio sanitario territoriale dell’Azienda Usl Toscana Nord-Ovest (nel cui territorio è ubicata la Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive) di Volterra. L’incontro sarà focalizzato sulla descrizione delle caratteristiche organizzative e gestionali della Rems di Volterra, su alcuni casi clinici e su una discussione finale centrata sull’inquadramento clinico e sulla stesura del Programma terapeutico riabilitativo individualizzato residenziale per ciascun paziente. La psichiatria universitaria pisana e la Rems di Volterra costituiscono due realtà fortemente accomunate da un approccio innovativo al paziente psichiatrico, che trova nella ricerca scientifica il proprio fulcro euristico, formativo ed operativo. Fin dalle sue origini la clinica psichiatrica universitaria di Pisa si è caratterizzata per un lungimirante interesse verso le nuove prospettive offerte dalla psichiatria italiana e internazionale, rappresentando da sempre un importante punto di riferimento per tutta la comunità psichiatrica. Anche la psichiatria territoriale pisana si è resa in questi ultimi anni protagonista di un cambiamento radicale che ha portato ad una riorganizzazione completa dei Centri di salute mentale e del Servizio psichiatrico diagnosi e cura delle tre zone (Pisana, Val d’Era, Alta Val di Cecina), con importanti effetti sulla efficienza della prassi trattamentale. A questi importanti cambiamenti si è aggiunta la necessità di procedere al superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, con la nascita di una nuova modalità di presa in carico del paziente psichiatrico autore di reato. Volterra si è resa protagonista di questo cambiamento epocale, rendendosi disponibile ad ospitare la Comunità "Morel 3", struttura di secondo livello per pazienti psichiatrici autori di reato in licenza finale esperimento o in libertà vigilata (1 aprile 2015) e la Rems-D (1 dicembre 2015), destinata ad accogliere pazienti con misure di sicurezza detentive. La psichiatria universitaria pisana e la Rems-D Volterra costituiscono due realtà fortemente accomunate da un approccio innovativo al paziente psichiatrico, che trova nella ricerca scientifica il proprio fulcro euristico, formativo ed operativo. L’incontro di Pisa rappresenta pertanto il primo passo verso un’importante collaborazione tra la psichiatria universitaria e territoriale pisana (alla quale appartiene la Rems-D Volterra), che può consentire l’elaborazione di linee guida più moderne ed efficaci per il trattamento dei pazienti psichiatrici autori di reato, in un vivace scambio culturale volto al raggiungimento dell’eccellenza. Abruzzo: i Radicali "sulle carceri la Regione viola il Protocollo d’intesa con il Ministero" di Piergiorgio Stacchiottion cityrumors.it, 12 febbraio 2016 "Oltre alla mancata applicazione della legge che istituisce la figura del Garante dei detenuti, la Regione Abruzzo sta di fatto violando l’apposito Protocollo d’intesa firmato col Ministero della Giustizia, l’Anci Abruzzo e il Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila". Lo dichiarano Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi, e Maurizio Acerbo, membro della segreteria nazionale di Rifondazione Comunista. "Il Protocollo, risalente ormai al 16 ottobre 2014, prevede l’istituzione di un tavolo tecnico, presso il quale il Garante funge da primo strumento operativo; ma tale figura risulta ancora assente, con buona pace della situazione critica che affligge stabilmente i tribunali abruzzesi. Oltre 12.000 procedimenti iscritti nel 2015 al solo Ufficio del Magistrato di Sorveglianza di Pescara (un organico di 2 magistrati e 4 impiegati), che ne ha emesso un numero ancora maggiore: solo questo dato basterebbe a dare un’idea delle proporzioni insostenibili che il carico di lavoro sta assumendo", proseguono Di Nanna e Acerbo. "A tale proposito, occorre sottolineare che spetterebbe al Garante dei detenuti collaborare con gli uffici di sorveglianza, segnalare i casi più gravi, fungere da collegamento tra l’interno e l’esterno del mondo carcerario. Ad aggravare il quadro arriva la notizia che - come prevedibile - il Ministero procederà alla nomina di un commissario straordinario vista l’incapacità della Regione Abruzzo nel garantire un adeguata accoglienza dei pazienti abruzzesi attualmente reclusi negli Opg". "Purtroppo, il Consiglio regionale continua a rimandare l’elezione del Garante, nonostante la candidatura autorevole di Rita Bernardini che darebbe l’occasione di una larghissima convergenza delle forze politiche. Torniamo quindi a chiedere che si dia applicazione alla legge e che l’Abruzzo si doti di una figura di garanzia per i senza voce. Non è davvero comprensibile il boicottaggio di fatto nei confronti di una proposta come quella di Rita Bernardini, il cui profilo dovrebbe mettere d’accordo tutti". Bologna: la Garante regionale "detenuto suicida in carcere, serve sorveglianza a vista" bolognatoday.it, 12 febbraio 2016 Desi Bruno, figura di Garanzia regionale, ha incontrato oggi la direttrice della casa circondariale dopo che un giovane si è tolto la vita il giorno dopo la convalida del suo arresto: "Il momento che segue la convalida dell’arresto è il più critico. Non sempre l'intervento psicologico è dirimente, anzi, chi è davvero determinato spesso non cerca attenzioni". Il giovane, che aveva scontato una condanna per stalking di 8 mesi, terminata a dicembre 2015, un periodo durante il quale, secondo quanto riferito dalla direzione, "non aveva mai mostrato alcuna segnalazione di disagio, e un fitto rapporto con il mediatore culturale, per un totale di cinque incontri, lo dimostra- racconta Bruno-, anche se i detenuti autori di reati sessuali dovrebbero essere sottoposti a particolari interventi trattamentali". Dopo l'arresto convalidato lunedì scorso, per un nuovo episodio di stalking nei confronti di una connazionale 31enne, il giovane aveva incontrato la psicologa, e non sarebbe emerso nessun elemento di sofferenza particolare, "se non la sorpresa per il provvedimento che lo tratteneva in carcere. Dopo aver pranzato con il ristretto con cui condivideva una cella dell'infermeria, il ragazzo ha usufruito di solo metà delle sue ore d'aria, preferendo tornare in cella, dove mezz'ora dopo è stato trovato morto da un agente di polizia penitenziaria: da questo e da altri dettagli risulta evidente la premeditazione e la preparazione del gesto" dichiara la Garante Bruno. "Il momento che segue la convalida dell'arresto o dell'esecuzione della custodia cautelare è il più critico, perché vengono a mancare tutti i punti di riferimento"; per questo motivo, "tutti i destinatari di provvedimenti negativi sulla libertà dovrebbero essere sorvegliati a vista nei primi giorni di detenzione". Il ragazzo non era sorvegliato a vista perché secondo quanto riferito dalla direzione non c'erano stati elementi indicativi di una forte propensione al suicidio "ma la letteratura scientifica in materia ci insegna che non sempre l'intervento psicologico è dirimente, anzi, chi è davvero determinato spesso non cerca attenzioni. Anche per questo motivo le circolari del Dipartimento di amministrazione penitenziaria raccomandano la massima attenzione proprio nei primi giorni successivi alla convalida" conclude. "Da tempo siamo impegnati in una campagna di informazione che affidiamo alla forza delle immagini per documentare lo stato delle nostre prigioni e le infamanti condizioni di lavoro della polizia penitenziaria - ha scritto in una nota Domenico Malduzzi, coordinatore provinciale del sindacato di polizia penitenziaria Uil-Pa - nonostante questo da parte del Governo continua la propaganda che vuole risolti i problemi che portarono la Cedu a condannare l’Italia, mentre la realtà e che in carcere si muore ancora senza contare le aggressioni al Personale di Polizia Penitenziaria ultimamente in netto aumento. Alla Dozza di Bologna - conclude Maldarizzi - negli ultimi mesi la popolazione detenuta è in crescita, alla data odierna sono reclusi 760 detenuti ed il personale di Polizia Penitenziaria è sempre meno". Cuneo: siglata una Convenzione tra clinica San Michele e Asl Cn2 per il reparto "Rems" La Stampa, 12 febbraio 2016 È stata siglata la convenzione tra clinica San Michele e Asl Cn2 per il reparto "Rems" che da novembre dell’anno scorso accoglie i detenuti psichiatrici giudiziari piemontesi, come previsto dalla legge in materia. Il "contratto" che indica modalità, tempi e costi del servizio è stato definito sulla base di una determina della Regione Piemonte che ha in capo la gestione delle Rems: finalmente, dunque, le parti hanno trovato la quadra per formalizzare l’accordo. Tra le modifiche apportate e già annunciate, rispetto alla prima bozza di convenzione, che risale all’autunno del 2015, c’è il numero complessivo di pazienti, fissato a 18, senza che vi sia la possibilità di individuare altri 13 posti letto in un secondo reparto di cui, inizialmente, si ipotizzava l’apertura. Stralciata anche la clausola di proroga della convenzione che scadrà il 31 dicembre 2018, come previsto dalla condizione "temporanea" di sistemazione dei detenuti Rems. Del tutto nuova, invece, ma accompagnata da una precisa spiegazione, è la cifra individuata come retta giornaliera per ciascun paziente Rems: passa da 265 a 295 euro che la Regione, tramite le casse dell’Asl, è tenuta a pagare alla clinica privata in convenzione non disponendo di strutture pubbliche per i reparti Rems in Piemonte. "L’importo - precisano dall’Asl Cuneo2 - tiene conto delle spese forfettarie per farmaci e prestazioni diagnostiche e di quelle per la sorveglianza". Cifre che, se non incluse nella retta giornaliera, sarebbero state addebitate alle casse pubbliche in altra forma. Tra la casa di cura e l’Asl, però, restano alcuni contenziosi su pagamenti sospesi per prestazioni sanitarie riferite ad anni passati. La casa di cura, intanto, ha assunto tre vigilantes proprio per far fronte ai problemi di sicurezza, interna ed esterna, che si sono manifestati dopo l’attivazione del reparto che accoglie persone riconosciute responsabili, ma non condannabili, di reati anche violenti o indicate dai tribunali come "socialmente pericolose". È il caso, ad esempio, di Piergiacomo Azzalin, trentunenne fuggito dalla "San Michele", poco dopo il ricovero ed ora irreperibile. A questo episodio ha fatto seguito una seconda fuga, durata pochi minuti, mentre all’interno del reparto si sono verificate alcune colluttazioni che hanno richiesto l’intervento dei carabinieri. Altre misure "tecniche" e di controllo potenzieranno la sicurezza del reparto. "Auspichiamo - fanno sapere dalla San Michele - che quanto formalmente sottoscritto sia ora rispettato nei modi e nei tempi previsti". Trieste: il carcere del Coroneo intitolato agli agenti di custodia infoibati Il Piccolo, 12 febbraio 2016 Le carceri del Coroneo di Trieste saranno intitolate alla memoria del comandante Ernesto Mari e degli agenti di custodia in forza alle carceri giudiziarie Angiolo Bigazzi e Filippo Del Papa, che il 24 maggio del 1945 furono trucidati e infoibati nella cavità Plutone di Basovizza. A renderlo noto è Paolo Sardos Albertini, presidente della Lega Nazionale e del Comitato per i martiri delle foibe nel corso del suo intervento durante la commemorazione del Giorno del ricordo. Sardos Albertini ha espresso "soddisfazione per questa decisione, oltre che per la recente modifica alla legge con la quale sono stati ampliati i termini per la richiesta del riconoscimento ai familiari degli infoibati, in precedenza fissati in dieci anni". Presenti alla cerimonia della foiba di Basovizza, i rappresentanti delle Associazioni degli esuli. "Nel passato su queste pagine di storia si sono sentite molte inesattezze" ha affermato Renzo Codarin, presidente nazionale dell’Associazione Venezia Giulia e Dalmazia. "L’istituzione di questa giornata e il lavoro portato avanti nelle scuole ha consentito ai giovani di conoscere non solo la memoria ma la storia stessa del nostro Paese". Secondo Massimiliano Lacota, presidente Unione degli Istrani "molto è stato fatto in questi anni, ma bisogna guardare anche a tutto quello che c’è ancora da fare. Mi riferisco ad alcuni passaggi in particolare: ad esempio al fatto che gli esuli stanno ancora aspettando l’indennizzo e, laddove è possibile, la restituzione dei beni" mentre per Manuele Braico, presidente dell’Associazione delle comunità istriane "è importante conoscere la nostra storia e non dimenticare tutto quello che è accaduto sul confine orientale: una memoria che però va conservata non solo in occasione di questa giornata, ma durante tutto l’anno". Presenti alla commemorazione anche molti tra coloro che hanno vissuto in prima persona queste tragiche vicende. Come Erminia Dionis Bernobi, cugina di Norma Cossetto, la giovane studentessa barbaramente violentata e trucidata dai partigiani titini nel 1943. "Norma è diventata il simbolo di una tragedia che mi ha segnato profondamente" ricorda. "Un dolore - aggiunge Erminia - che ho tenuto dentro di me per tanti anni, perché di queste cose non si doveva parlare: è invece importante far conoscere ai giovani tutto quello che è accaduto in passato". Antonio Toffetti aveva appena undici anni quando ha vissuto la tragedia del padre infoibato. "L’unica cosa che possiamo fare è ricordare con forza e non dimenticare. Ma ai giovani dico che il ricordo e la memoria non devono mai essere accompagnati dal sentimento dell’odio". Infine, gli interventi del capogruppo del Partito democratico alla Camera dei deputati Ettore Rosato, per il quale "l’Italia esce dall’oblio per prendere consapevolezza di un passaggio drammatico e per troppo tempo ignorato della propria storia" e della deputata di Forza Italia Sandra Savino che ha posto l’accento sui "terribili crimini dei titini perpetrati a guerra conclusa: un eccidio tenuto a lungo nascosto e sottaciuto". Firenze: il Garante regionale dei detenuti a Solliccianino "ridefinire la sua mission" gonews.it, 12 febbraio 2016 Una struttura per la quale è necessario ridefinire un ruolo, rafforzare l’idea di un progetto. Questo è il giudizio espresso dal Garante regionale dei detenuti Franco Corleone, dopo la visita effettuata alla casa circondariale "Mario Gozzini" a Firenze, meglio conosciuta come "Solliccianino". Si tratta di un istituto a custodia attenuata, che ospita anche detenuti in regime di semilibertà. Attualmente i detenuti sono 74 (di cui 20 in semilibertà). Come ha spiegato Corleone "questo edificio presenta gli stessi problemi strutturali del vicino Sollicciano: celle fredde, senza acqua calda, senza docce, ascensori fuori uso". Ma il problema più grande, secondo il Garante, sta proprio nel fatto che non è chiaramente individuato il tipo di detenzione cui si vuole puntare, che il progetto originario si è un po’ perso. "È un carcere che, grazie al volontariato e alla Caritas, offre molte attività: ceramica, corsi scolastici, ci sono una biblioteca e una sala di musica - ha detto Corleone -. Ma il disagio dei detenuti si avverte. Occorre riflettere sul significato di un istituto come questo, che ha un senso solo se il suo utilizzo è diverso da quello di Sollicciano che sorge a pochi passi". Uilpa, uno dei peggiori luoghi di lavoro - In merito ai progetti per il miglioramento delle condizioni edilizie del carcere fiorentino di Sollicciano, "trovo inutile, ora, andare a puntare l’indice sui pesanti ritardi che si sono accumulati prima di avere la minima percezione dell’interesse dell’Amministrazione penitenziaria rispetto alla fatiscenza della struttura che, unita all’insalubrità dei luoghi di lavoro, si riverbera inevitabilmente sulle già difficilissime condizioni operative della polizia penitenziaria". Lo afferma il segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria Angelo Urso. "Da molti anni cerchiamo con ogni legittimo strumento - sottolinea in una nota - di sensibilizzare i vertici del Dap, l’opinione pubblica e la politica circa le criticità del sistema penitenziario che, pur registrando alcuni timidi passi in avanti per ciò che attiene alle condizioni detentive e ai livelli di sovraffollamento (che comunque persistono), continua ad essere uno dei peggiori luoghi di lavoro". Secondo Urso "ci saremmo aspettati che il Dap ed il suo capo Santi Consolo, avessero speso qualche parola di apprezzamento anche per le donne e gli uomini della polizia penitenziaria che, senza soluzione di continuità, sono stati e sono tuttora spesso l’unica testimonianza della presenza dello Stato in luoghi ove per il resto lo Stato sembra assolutamente assente". Pisa: Casa per detenuti, il Pd interviene a sostegno del progetto della Caritas Il Tirreno, 12 febbraio 2016 L’idea di creare una Casa per detenuti ed ex detenuti a Sant’Andrea è "meritoria". E "non vediamo come possa essere di alcuno ostacolo allo sviluppo sociale di Calci". Lo scrive il gruppo consiliare di centrosinistra per Calci. I dem, dopo le polemiche e i no del comitato di cittadini nato nella frazione per opporsi al progetto "Misericordia Tua", si schiera al fianco della Caritas e dell’Arcidiocesi. Nessun disagio per i residenti, dunque, anzi "la risocializzazione del detenuto è un concetto fondamentale dello stato di diritto e favorisce la convivenza democratica. L’art. 27 della Costituzione stabilisce che le pene "devono tendere alla rieducazione del condannato". Un principio "alla base della festa regionale toscana che ogni anno, il 30 novembre, ricorda la cancellazione della pena di morte e della tortura dall’ordinamento giuridico della Toscana". L’iniziativa della Arcidiocesi di Pisa e della Unità pastorale della Valgraziosa, scrive il gruppo, si muove in questo solco e "segue il principio del rispetto di ogni vita umana e dell’accoglienza del "diverso". Poi l’affondo contro Serenamente Calci, il comitato del no: "Molti ci paiono gli aspetti distorti nella vicenda, non poca la confusione nata dalla circolazione di informazioni errate. D’altra parte qualsiasi considerazione su un eventuale impatto economico della casa di accoglienza ci pare difficilmente sostenibile. Spetta invece alle autorità di pubblica sicurezza, quelle che avranno la responsabilità di autorizzare il progetto, verificare il rispetto degli aspetti legati alla sicurezza stessa. Siamo certi che lo faranno nel momento del rilascio delle autorizzazioni. Per queste ragioni, riteniamo che l’iniziativa della Arcidiocesi di Pisa e della Unità pastorale della Valgraziosa non ostacoli, ma favorisca lo sviluppo sociale del paese e faccia onore a Calci". Ancona: "alloggi fatiscenti", la protesta degli agenti di Polizia penitenziaria di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 12 febbraio 2016 Il sindacato della Polizia Penitenziaria Cosp ha chiesto che i pagamenti degli alloggi siano sospesi, ma il direttore del carcere di Montacuto ha risposto che non si può perché è un atto dovuto dell’amministrazione centrale. Agenti di Polizia Penitenziaria obbligati a pagarsi gli alloggi all’interno delle carceri dove prestano servizio e condizioni fatiscenti non solo delle caserme ma anche dell’area carceraria. Quello che era già emerso a metà gennaio da un approfondimento di Ancona Today, è scaturito oggi nel presidio di una decina di agenti della Polizia Penitenziaria appartenenti al Cosp (Coordinamento sindacale Penitenziario) davanti alla casa circondariale di Montacuto. A farsi portavoce della questione è stato il segretario generale nazionale del Cosp Domenico Mastrulli, che ha incontrato il direttore del carcere Santa Lebboroni. "Abbiamo nuovamente chiesto al direttore la sospensione del pagamento delle caserme - ha detto Mastrulli. Ma lei ci ha risposto che non è possibile fare altrimenti perché è un atto dovuto imposto dall’amministrazione centrale. Prendiamo atto e le contestiamo che la stessa legge impone il pagamento solo nel caso in cui vengano rispettate tutti i parametri di vivibilità". Già, perché è vero che la legge impone il pagamento di un forfettario agli agenti che usano le caserme, ma è pur vero che la stessa legge esonera gli agenti dal pagamento dove le condizioni di vivibilità siano inferiori a quelle di un albergo a 2 stelle. Dunque il punto della questione è: in che condizioni è il carcere di Montacuto? Molte parti di quelle stanze e parte dei corridoi hanno le mattonelle saltate, tubi che perdono, finestre spaccate, c’è umidità, muffa nelle stanze, a volte sprovviste anche di bidet. Non solo perché dopo la visita odierna del Cosp, Mastrulli parla anche di "plafoniere vecchissime, sistema antincendio fuori uso, un ascensore non funzionante da 5 anni, stanze non pitturate, muri lesionati, odore di muffa e intonaco cadente. Per cui bisogna intervenire subito". Non solo perché il sindacato punta anche il dito contro il sistema di immobilismo dei dirigenti penitenziari: "Secondo il Cosp il direttore delle carceri di Montacuto e Ascoli Piceno è datato nel tempo perché è lì da quasi 20 anni - ha concluso Mastrulli - Serve un’urgente rivisitazione per una mobilità dei dirigenti penitenziari, la cui cristallizzazione fa scemare la ricerca di rinnovamento e trasformazione". Il tutto in una già complicata situazione delle carceri, al punto da minare la serenità del lavoro della Polizia, come della garanzia di una corretta rieducazione della popolazione detenuta. Un fatto che arriverà anche all’attenzione del Ministero di Grazia e Giustizia proprio tramite una missiva del sindacato di polizia. Ma che arriverà anche ai vertici della politica nazionale perché il consigliere regionale del Movimento 5 Stelle Gianni Maggi, presente oggi insieme al sindacato, ha già fatto sapere che interesserà i colleghi del Parlamento. "I fondi non ci sono e le condizioni del carcere sono quelle che conosciamo tutti - ha detto Maggi - Ma le carceri sono da ristrutturare. Non ci sono solo problema degli alloggi e di disponibilità di divise. C’è anche il problema della sicurezza per cui, anche attraverso nostri parlamentari, faremo pressioni perché si affronti questo discorso". Trani: "torrone prodotto in carcere", come rifarsi una vita dietro le sbarre di Stefano Massaro traniviva.it, 12 febbraio 2016 Il carcere è il luogo deputato a scontare la propria pena per aver commesso un reato ma il carcere, nelle intenzioni della società, dovrebbe esser un modo anche per riscattarsi e reinserirsi dopo aver espiato la colpa. Cosa che non sempre, il nostro ordinamento e l’organizzazione carceraria, permettono sino in fondo. Ma una lettera di alcuni famigliari di detenuti nel carcere di Trani, tra cui alcuni andriesi, ci riconsegna una fiducia smisurata nella capacità della società e dei luoghi di detenzione, di creare importanti occasioni di riscatto. Un progetto nato nel periodo natalizio grazie alla felice intuizione di un detenuto e della direzione del carcere. "Noi familiari di tanti detenuti, siamo stati a dir poco felici di venire al colloquio per vedere i nostri mariti e figli, entrare nella sala con piatti contenenti pezzi di torrone. Una vera squisitezza. Non era mai successo prima di vedere una cosa del genere". La lettera, indirizzata proprio alla direzione del Carcere di Trani, ha come mittenti alcune famiglie di detenuti che hanno preso carta e penna ed hanno deciso di esprimere tutta la loro soddisfazione per questo progetto e per questa idea. "Quando ci hanno spiegato che era stato tutto creato da un gruppo di detenuti dopo l’idea di uno di loro - si legge nella lettera - non abbiamo potuto far altro che congratularci. Siamo stati davvero contenti di come un detenuto può esser capace di fare questo all’interno del carcere stesso. È stato davvero un lavoro straordinario". Un modo per tornare a vivere, un modo per riallacciare i fili di una vita che per tante situazioni può aver preso una strada sbagliata. Un laboratorio culinario, in sostanza, che ha prodotto dolciumi utilizzati proprio per accogliere i familiari nelle giornate natalizie: "Sappiamo che tutti possono metter in atto una loro creazione lavorativa anche all’interno del carcere - scrivono ancora nella lettera - e da questo nascono stimoli diversi, come quello di ricominciare e vivere una vita normale. Noi famiglie non possiamo che ringraziare la Direzione e tutta l’equipe, per aver dato la possibilità ai detenuti di creare questa bellissima iniziativa ma soprattutto per aver visto i nostri mariti o figli contenti anche stando in un contesto come quello del carcere. Questo ci ispira fiducia nel credere in loro e siamo certi che tutti possano metter in atto i loro doni anche se il dono più grande è riprendersi la loro vita reale e quella più importante, la famiglia. Possiamo davvero dire che realmente il carcere può far cambiare le persone". Pavia: donna cerca di consegnare hashish a detenuto, scatta l’arresto La Provincia Pavese, 12 febbraio 2016 Droga in carcere. Hashish e cocaina destinati a due detenuti sono stati intercettati, in due operazioni distinte, dagli agenti della polizia penitenziaria di Torre del Gallo. Una giovane è stata arrestata, e si trova ora ai domiciliari a Mortara, mentre cercava di far passare al fidanzato, recluso a Torre del Gallo, 60 grammi di hashish. Gli agenti si sono insospettiti perché, durante il colloquio con il detenuto, hanno notato che la donna cercava di passare qualcosa al compagno. Dalla perquisizione è spuntata la sostanza stupefacente. Poche ore dopo, gli agenti della polizia penitenziaria si sono trovati a fare i conti con un altro episodio: hanno scovato 400 grammi di hashish e 10 grammi di cocaina all’interno di un pacco postale destinato a un detenuto. La droga - quattro tavolette di fumo e una bustina con polvere bianca risulta positiva al test - è stata trovata in un doppio fondo del pacco: in alto conteneva indumenti e alimenti, mentre nel contenitore nascosto c’era sostanza stupefacente. "Droga destinata a un detenuto italiano - spiega Carlo Cataldo, segretario provinciale della Uil Polizia Penitenziaria - che, vista la quantità, molto probabilmente sarebbe diventata anche merce di scambio e spaccio tra i reclusi all’interno delle sezioni detentive". Le indagini per accertare la provenienza del pacco sono ancora in corso, ma gli agenti della penitenziaria avrebbero già verificato che il pacco sarebbe stato spedito all’insaputa del mittente. Le due operazioni della polizia penitenziaria sono state condotte, secondo i sindacati, in una situazione difficile a causa della carenza di organico. "In realtà non mi stupisce l’operazione effettuata dalla polizia penitenziaria di Pavia - commenta il segretario regionale della Uil, Gian Luigi Madonia. Più volte il personale di Pavia si è reso responsabile di operazioni ancor più brillanti, senza trovare elogi e risalti, a mio avviso dovuti per il particolare contesto in cui opera. Non si può nascondere infatti che Pavia soffre di una cronica carenza di organico, che caratterizza tutti i ruoli. E che anche la recente apertura del nuovo padiglione non ha prodotto gli effetti sperati in tema di adeguamento delle piante organiche. A breve l’istituto sarà interessato dall’apertura di un polo psichiatrico, che ospiterà soggetti particolari. L’amministrazione, centrale e regionale, non può quindi più fare finta di niente". Lecce: replica in carcere aperta ai media per "Happy Birthday Barbablù" di Dino Bortone viniesapori.net, 12 febbraio 2016 Oggi, venerdì 12 febbraio, giornalisti e operatori foto/video potranno assistere alla replica dello spettacolo "Happy Birthday Barbablù" messo in scena dagli attori/detenuti della Compagnia "Io Ci Provo", diretta dalla regista Paola Leone, all’interno della sezione maschile della Casa Circondariale "Borgo San Nicola" di Lecce. L’inizio dello spettacolo - riservato agli studenti e alle studentesse delle scuole superiori di Lecce - è previsto per le ore 10 (durata 50 minuti). Entro le 9.15/9.30 i giornalisti e gli operatori interessati dovranno presentarsi all’ingresso del carcere muniti del tesserino di iscrizione all’ordine. Dal 9 febbraio sono riprese, infatti, le attività del progetto nato nel 2011 con l’intento di sperimentare un teatro politico che si racconta e ci racconta la società attuale, promuovendo il teatro come forma artistica e culturale capace di realizzare la sua vocazione storica di luogo di costruzione e formazione di una cittadinanza attiva, capace di includere, promuovere e valorizzare le differenze. Durante tutto l’anno gli attori/detenuti saranno "Dentro e fuori dal carcere" con un’articolata programmazione di spettacoli, corsi, incontri e proiezioni. Punto di partenza di questo nuovo percorso saranno le scuole della provincia di Lecce. Sino al 13 febbraio, infatti, gli studenti delle scuole superiori abiteranno il teatro di "Borgo San Nicola" per assistere allo spettacolo "Happy Birthday Barbablù", ultima produzione della Compagnia che vede in scena gli attori-detenuti in una storia scritta a più mani. "Fino ad ora Io ci Provo ci aveva abituato alle sorprese come quella dell’apertura serale del carcere, ma questa volta supera di gran lunga l’immaginazione", sottolinea la regista Paola Leone. "È sicuramente la prima volta che il carcere di Lecce apre le porte a così tanti ospiti, in realtà forse l’unico carcere in Italia dove accedono così tante persone per vedere uno spettacolo di teatro. Questo è ancora più sorprendente se si tratta di ragazzi delle scuole superiori e se la compagnia di attori è nata in carcere". Segno di un percorso che vuole puntare sempre più a rafforzare il legame fra le sue attività e l’istituzione. "Questo risultato è il frutto di un buon lavoro tra le parti: Polizia Penitenziaria, Direzione del Carcere e l’associazione Io ci Provo", prosegue la regista. Forte è l’obiettivo della Compagnia teatrale di entrare in relazione con i luoghi d’istruzione, per sensibilizzare gli studenti e non solo, ad una cultura del rispetto per ciascun individuo, e stimolare l’immaginazione che produce nuova realtà possibile, quella dell’integrazione. Il legame con gli istituti scolastici è nato due anni fa, e da allora si è rafforzato sempre più, con progetti che hanno coinvolto gli studenti sia nelle loro scuole che all’interno della Casa Circondariale, con diversi incontri con gli attori-detenuti della compagnia, portatori della loro esperienza e del loro cambiamento attraverso il teatro e la cultura. Il Dentro che incontra il Fuori, che si nutrono vicendevolmente abbattendo qualsiasi barriera mentale e pregiudizio. Seguendo questo importantissimo obiettivo di congiunzione fra il mondo carcerario e la città libera. Nasce "Noi Ci Proviamo", altro momento fondamentale di formazione: il laboratorio teatrale si apre all’esterno, offrendo la possibilità ad attori ed allievi di assistere ad alcuni seminari teatrali intensivi che si terranno all’interno del carcere insieme alla compagnia di attori-detenuti. I seminari di approfondimento saranno condotti da importanti registi, attori e drammaturghi locali e nazionali che lavoreranno con la regista Paola Leone e con la compagnia. Il programma ospiterà Gigi Gherzi (dal 14 al 18 febbraio), Tonio De Nitto (24 Febbraio e 2 marzo), Carmine Paternoster (dal 21 al 23 marzo) e Silvia Lodi (dal 16 al 18 Maggio). Non solo seminari, ma anche una rassegna di spettacoli e proiezioni, sia dentro che fuori dal carcere: Gherzi sarà al Fondo Verri di Lecce il 18 Febbraio per la presentazione-spettacolo del suo libro "Atlante della città fertile". Gli abitanti della Casa Circondariale, invece, avranno l’opportunità di assistere agli spettacoli "Digiunando davanti al mare" di Giuseppe Semeraro e "Senza Voce" di Silvia Lodi e alla proiezione del documentario "Il Successore" di Mattia Epifani, recentemente vincitore del Premio Cipputi del Torino Film Festival. Non si fermeranno le nuove produzioni teatrali della compagnia "Io Ci Provo", che quest’anno lavorerà su Pasolini e sulle sue opere, in occasione dell’anno Pasoliniano indetto dall’Università del Salento in collaborazione con il professore Mimmo Pesare. Il primo studio del nuovo spettacolo della compagnia sarà aperto come ogni anno a studentesse e studenti, giornalisti e pubblico nel mese di giugno e poi andrà in scena ad ottobre al Teatro Paisiello. La Nato interviene nella crisi dei profughi di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 12 febbraio 2016 Crisi dei rifugiati. Per la prima volta, l’Alleanza atlantica in primo piano su questo fronte. Decisione veloce, di fronte alla paralisi Ue. La Turchia domina la strategia sui migranti. La Nato è pronta "a sostenere e partecipare a un’operazione navale di sorveglianza del Mar Egeo", ha dichiarato ieri il segretario alla Difesa Usa, Ashton Carter. Il segretario generale della Nato, Jean Stoltenberg ha precisato che il comandante delle forze alleate in Europa, Philip Breedlove, "sta ordinando al gruppo navale permanente di recarsi nel Mare Egeo senza tardare e iniziare l’attività di sorveglianza". La Germania ha difatti chiesto che l’operazione parta il più in fretta possibile. La Nato ha però precisato che "non si tratta di fermare o respingere le barche di rifugiati", ma, come ha affermato Carter, di avere come obiettivo di colpire "la rete criminale che sfrutta povera gente", un vero e proprio "traffico organizzato". E per il momento devono ancora essere definiti tutti i dettagli, a cominciare dalla messa in comune delle informazioni, tra comando Nato, paesi coinvolti e anche Frontex, che è già sul posto. Intanto, la Nato deve anche rispondere alla richiesta Usa di dispiegamento di Awacs a sostegno della coalizione anti-Daech. È la prima volta che la Nato si impegna ufficialmente in un’operazione che riguarda i rifugiati: finora, si era sempre rifiutata, facendo valere che l’Alleanza atlantica non ha il mandato di sorvegliare le frontiere o di lottare contro le organizzazioni criminali di passeurs, che riguardano il campo civile e di polizia, non militare. Ma mercoledì, i ministri della Difesa dei paesi Nato hanno dovuto esaminare una domanda presentata dalla Turchia, con l’appoggio della Germania, per venire in aiuto alle guardie costiere turche nella lotta contro l’immigrazione illegale in Europa. Questa domanda, avanzata ad Ankara da Angela Merkel dopo l’incontro con il primo ministro turco, Ahmet Davutoglu, aveva "sorpreso tutti", dicono alla sede Nato a Bruxelles. Ma il segretario generale, Jens Stoltenberg, aveva assicurato che di fronte alla "grave preoccupazione" per la crisi dei migranti, la Nato avrebbe "studiato molto seriamente la domanda della Turchia e di altri alleati" per vedere come l’Alleanza "può aiutarli a gestire la crisi". Alcune ore sono state trascorse a convincere la Grecia, anch’essa presa di sorpresa e molto irritata. Alexis Tsipras ha chiesto spiegazioni a Merkel. "Se riguarda i trafficanti - ha finito per dire la portavoce del governo greco, Olga Gerovassili - non vediamo la cosa negativamente". L’irruzione della Nato è un altro segnale dell’impotenza della Ue a far fronte alla crisi dei rifugiati. L’Europa si insabbia senza riuscire a decidere, mentre la Nato, in poche ore, organizza un intervento, che rischia di aumentare la temperatura in una zona calda, dove è all’opera un gioco di biliardo a più sponde, con la forte presenza russa. Le proposte di ridistribuzione dei profughi, fatte dalla Commissione, sono rimaste lettera morta, le frontiere si chiudono all’interno della Ue, una dopo l’altra (ieri, è arrivata una stretta dall’Austria), Schengen è ormai a rischio. L’idea di una missione militare europea al confine tra Grecia e Macedonia, studiata dai ministeri degli Esteri Ue qualche giorno fa, è stata scartata per l’opposizione di Grecia e Lussemburgo. La Ue continua a corteggiare la Turchia, chiudendo tutti e due gli occhi sullo stato della democrazia interna e sull’ambiguità di Ankara nella guerra civile in Siria. A giugno dovrebbe entrare in vigore un accordo per la "riammissione" dei rifugiati in Turchia, che la Commissione propone da settembre di considerare "paese sicuro" (come aveva proposto la Commissione già nel settembre scorso). La proposta è stata presentata dalla presidenza olandese del Consiglio Ue. "La domanda europea perché la Turchia apra le frontiere è il segno che la Ue è in preda al panico", ha commentato l’ambasciatore turco presso le istituzioni europee, Selim Yenel. La Turchia fa il suo gioco, che non è solo quello di chiedere contropartite a Bruxelles, come una liberalizzazione dei visti e aiuti finanziari (ci sono in ballo 3 miliardi, che non bastano però a Ankara). L’intervento della Nato è un mezzo, per la Turchia, di coinvolgere direttamente l’Alleanza atlantica nel conflitto con la Russia e i curdi in Siria. La Nato del resto ha già rafforzato il sostegno militare alla Turchia (che è nella Nato dal ‘52). Da una quindicina d’anni ha un dispiegamento navale nel Mediterraneo orientale. Oggi il gruppo nautico Nato ha 3 navi, sotto comando tedesco, al largo di Cipro. Per Stoltenberg, "nell’ideale" dovrebbero salire a 5-7. Per la Nato, il posizionamento è mirato nei confronti della Russia, che interviene in Siria a sostegno del regime, mentre nell’Europa dell’est si organizza il programma di "rassicurazione" contro Mosca (lanciato dopo l’annessione della Crimea, pensando all’Ucraina): dopo che la Polonia e i Baltici hanno chiesto un rafforzamento della presenza Nato all’est, gli Usa hanno previsto di aumentare la presenza e la Gran Bretagna invierà 5 navi nel Baltico e potrebbe dispiegare delle truppe ai confini tra la Russia e l’Est europeo. La Russia ha fatto filtrare una proposta di "tregua", con un possibile cessate il fuoco da marzo, avanzata dal vice-ministro Ghennadi Gatilov. Ne hanno discusso ieri a Monaco John Kerry e Serguei Lavrov. Gli occidentali ritengono che la Russia, con i bombardamenti su Aleppo, abbia fatto fallire le discussioni di Ginevra, sospese il 3 febbraio. Ma che ora potrebbero riprendere, anche prima del 25 febbraio, data evocata dall’emissario speciale Onu, Staffan de Mistura. Ma il fronte occidentale si prepara anche a un nuovo fallimento della diplomazia: il rappresentante speciale di Washington nella coalizione internazionale della lotta contro Daech, Brett McGurk, afferma che è necessario "anticipare", mentre Arabia saudita e Emirates potrebbero decidere un intervento a terra in Siria. Il Syrian Centre for Policy Research ha affermato ieri che i morti in Siria sono ormai 470mila. Per l’Alto commissario Onu per i diritti umani 320mila persone sono in stato d’assedio a Aleppo e 51mila sono in fuga Spiragli di tregua in Siria. Via libera agli aiuti umanitari di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 12 febbraio 2016 Passi in avanti al vertice di Monaco di Baviera. Si lavora per un cessate il fuoco entro una settimana La Nato invia le navi nell’Egeo. "Sono in missione per combattere i trafficanti di esseri umani", Segnali di tregua per la Siria. Ieri a Monaco l’incontro dei Paesi Sostenitori della Siria avrebbe portato ad un accordo per la fine delle ostilità entro una settimana e l’accesso degli aiuti umanitari in alcune zone del Paese entro questo weekend. Una giornata convulsa con lo scontro, in precedenza, tra la proposta russa di continuare le operazioni militari sino al cessate il fuoco, che Mosca voleva per il primo marzo, e invece l’urgenza Usa di imporre subito il cessate il fuoco. Washington, assieme agli alleati occidentali e il fronte arabo sunnita guidato da Riad, teme infatti che nelle prossime due settimane la nuova superiorità di Damasco riduca in briciole le formazioni della guerriglia non Isis, che dal 2011 lottano per defenestrare Assad. Ci sono stati colloqui anche tra l’Alto commissario Ue, Mogherini, e il ministro degli Esteri russo, Lavrov. Quella siriana rischia di trasformarsi da crisi umanitaria a catastrofe priva di controllo. Sono il brusco peggioramento delle violenze e la conseguente fuga massiccia di profughi causati dai bombardamenti russi in Siria che spingono la comunità internazionale e i Paesi coinvolti a reagire con misure eccezionali. Si muovono le flotte, le diplomazie picchiano i pugni sul tavolo. A mali estremi, estremi rimedi è dunque il principio che ha spinto ieri la Nato ad inviare in tutta fretta una squadra navale (tra 3 e 5 unità) nell’Egeo sotto comando tedesco. La richiesta era giunta con urgenza lunedì da Turchia, Grecia e Germania durante la riunione a Bruxelles dei ministri della Difesa dei Paesi alleati. Le navi sono già in partenza, le prime a muoversi sono quelle della Seconda Squadra ancorate a Cipro. I dettagli del loro mandato sono ancora in elaborazione, verranno definiti nelle prossime ore. "Non sarà una missione destinata a bloccare o rimandare indietro i battelli dei migranti. Servirà piuttosto a raccogliere informazioni critiche per la sorveglianza e combattere i trafficanti di esseri umani", ha specificato ieri il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Loro prima destinazione saranno i tratti di mare tra la costa turca e le isole greche di Lesbo e Kos, dove negli ultimi mesi più fitto è stato il traffico di migranti. L’agenzia profughi dell’Onu documenta che dal 1° gennaio sono già 75.000 quelli arrivati sulle coste greche, oltre il 45 per cento siriani, e tra loro almeno 400 sarebbero annegati. Una tipologia di intervento senza precedenti per la Nato, ovviamente legata al peggiorare della situazione in Siria, dove decine di migliaia di civili stanno confluendo verso la Turchia. "Potremmo arrivare a oltre 600.000 disperati se la Russia dovesse continuare a bombardare e provocare la caduta di Aleppo", ha esclamato ieri il presidente turco Erdogan. Secondo alcune interpretazioni, la missione Nato è però diversa da quella europea in corso al largo delle coste italiane, nella quale i guardiacoste accompagnano i migranti sulle nostre spiagge. In ogni caso, non ci saranno navi italiane nell’Egeo. "La nostra presenza non è stata neppure richiesta", ha specificato la ministra per la Difesa, Roberta Pinotti. Ma all’attivismo Nato non corrispondeva una simile unità d’intenti sul piano diplomatico. Fino ai segnali positivi di ieri dal vertice di Monaco di Baviera. L’ex Presidente israeliano Peres: "eliminare le ragioni del terrorismo, non i terroristi" di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 12 febbraio 2016 "È bene che arabi e israeliani capiscano di dover mettere fine alle guerre". "Non credo che in futuro Hamas esisterà". "Voi in Europa dovete combattere il terrorismo, ma non fatelo con i fucili. Non li sapete usare. Andate a uccidere le ragioni del terrore", è un consiglio che dà all’Italia e a suoi partner di Bruxelles Shimon Peres, israeliano che dopo aver attraversato con dinamismo persecuzioni, conflitti e speranze del secolo scorso esorta a spostare lo sguardo verso il futuro, a spingere in avanti la storia contemporanea. Premio Nobel nel 1994 per una pace tra Israele e palestinesi che sembrava vicina e poi è sfuggita, nato 92 anni fa in un pezzo di Polonia diventato in seguito Bielorussia, presidente di Israele fino al 2014 dopo essere stato in gioventù militante della formazione paramilitare Haganah e poi ministro, premier e leader dei laburisti, Peres ha una mente agile e lucida. Costruzione moderna - Di recente ha dovuto frequentare spesso cardiologi, il suo aspetto non ne dà mostra. Riceve nel palazzo della sua fondazione per la pace sulla spiaggia di Jaffa, Tel Aviv, progettato da Massimiliano Fuksas. Una costruzione moderna completata nel 2009 e oggi, all’esterno, resa opaca dalla salsedine come il processo di pace lo è stato dalla reazione chimica prodotta dal combinarsi del sanguinario integralismo islamico di Hamas sommato a una scarsa propensione ad accordi di una dura destra israeliana. L’incontro dovrebbe servire per un’intervista collettiva con sei giornalisti italiani. Diventa per lunghi tratti un monologo. Seduto su una sedia nel suo studio affacciato sul mare, alle sue spalle una sottile vetrata rivolta verso il bianco delle tombe di un cimitero arabo e cristiano, Peres espone la visione del mondo di un anziano che ha fiducia nei giovani, di un laburista che ripone speranze nelle grandi aziende, di un israeliano orgoglioso di esserlo che considera superabili i contrasti con i palestinesi. I negoziati - Ecco alcune delle sue tesi. "Ogni negoziato di pace - fa presente - non parte da una situazione di pace. L’errore compiuto spesso dalla gente è di credere che un processo di pace cominci come lieto fine. Parte invece da situazioni oscure. Certo oggi noi non abbiamo pace, ma un conflitto non è senza fine e molti nemici del passato sono diventati amici. È per esempio il caso dell’Egitto, il nostro più grande vicino, con il quale abbiamo un trattato di pace e che era passato nelle mani di uno che si riproponeva di attaccare Israele (l’ex presidente Mohammed Morsi, dei Fratelli musulmani, adesso in prigione, ndr). È il caso della Giordania. Ogni opzione crea un’opposizione e la pace richiede un processo creativo, occorre trovare una strada nuova per determinare soluzioni. Il Medio Oriente è in crisi, sono in corso guerre. È da tempo che in Medio Oriente la guerra è nei nostri pensieri, per difendere la propria terra, per estenderla e questo ha accentuato il nostro scetticismo e il nostro cinismo. Adesso però siamo anche in una nuova fase, la fase della scienza. L’umanità ha un’opzione: con la scienza puoi crescere senza armi, essere grande senza rendere piccoli altri". La scienza - Peres continua, niente pause: "Non siamo entrati in pieno nella nuova fase come potremmo e dovremmo. Israele vive sulla scienza, non sul terreno. Altri non investono abbastanza nelle nuove tecnologie. Gli imperi, che per secoli sono stati cause di guerre, sono scomparsi. E noi? Traiamone le conseguenze. La democrazia di oggi si basa sul fatto che le persone possono essere diverse tra loro. I gruppi dirigenti delle maggiori società sono formati da persone di etnie e origini diverse. Certo, la scienza non ferma la violenza. Perché è neutra: può servire al terrorismo o al contrario. A mio avviso il problema non è come uccidere terroristi, ma come uccidere le ragioni del terrore. Se uccidi terroristi non mi pare che il terrore finisca". Parole che non escono dalla bocca di un uomo estraneo a scontri militari, abituato a un’esistenza naif. Tra 1974 e 1977 Peres fu ministro della Difesa. Nel 1996, dopo attacchi terroristici contro Israele, ritenne necessaria una campagna aerea, ossia bombe, su Centro e Sud del Libano. A preoccuparlo è un’insufficiente attenzione su come sradicare le cause del terrorismo. I messaggi - Gli viene domandato perché il messaggio di fondamentalisti islamici che ammazzano attrae giovani. Risponde: "Perché chi fa il terrorista pensa: tu sei ricco, io povero, discriminato, non mi rispettano. Le guerre sono state artificiali, determinate dalle convenienze degli imperi. Adesso che gli imperi non ci sono più, in Siria siriani si combattono fra loro. Oggi la politica è in basso, la grande dimostrazione è in America. Quali storie hanno Donald Trump (repubblicano che punta a essere candidato presidente, conosciuto per posizioni estreme, ndr) e Bernie Sanders (aspirante candidato democratico del versante più a sinistra del partito, ndr)? Basano tutto sulla protesta. Da sola la protesta non risolve niente". Il discorso vira su diversi elementi, da sviluppare o rimuovere, che Peres considera essenziali per mettere le vicende del mondo nella direzione conveniente: "Le compagnie globali non provano a governare, ma a vendere. E devono essere elette ogni giorno dagli acquirenti. In Medio Oriente ci sono 400 milioni di arabi, il 65%o sotto i 25 anni. Il 65 per cento degli studenti sono donne. Il problema è che dopo l’università non sanno dove andare. Noi in Israele incoraggiamo gli studenti a creare le proprie energie, i loro affari. Lo sforzo mondiale che dovrebbe essere compiuto da governi e aziende è entrare nella nuova era e lasciarsi alle spalle quella passata. Quelli che ho esposto sono sogni, sì. Allora la gente dice: devi imparare il passato perché altrimenti non puoi andare avanti. Follia. Non sarebbe meglio commettere errori nuovi? È bene che arabi e israeliani capiscano di dover mettere fine alle guerre". Il dialogo - Viene domandato a Peres se per raggiungere la pace ritiene possibile discutere con Hamas. Risposta priva di esitazioni: "Non credo che in futuro Hamas esisterà. Hamas è protesta, e la protesta non porta a niente". Nel parlare di coloro che in Europa hanno paura dell’immigrazione, il saggio del progressismo israeliano muove obiezioni occidentali, più occidentali del vecchio continente: "L’America (nel senso di Stati Uniti, ndr) è la figlia dell’Europa. E ha creato una nuova America. Nata da proteste contro il governo delle religioni, ha consentito a ognuno di scegliere la sua. Perché la figlia ci è riuscita e la madre no?". Perché? "Perche l’America ha una storia piccola, poco più di 200 anni. Un bagaglio leggero. Lì non hanno avuto imperi. Di lingua ne hanno una. L’Europa 17, con migliaia di traduttori. Come fate? Siete matti? La madre è rimasta ancorata a vecchi errori. La storia si muove sempre, non si ripete. È un veicolo, va avanti. E dunque vai avanti". La ghigliottina - Come? "Robespierre usava la ghigliottina, Bill Gates non la usa e le cose vanno avanti. Abbiamo perso molto tempo. Il passato dell’Europa sta mettendo a rischio il futuro dell’Europa". Presidente, lo sa che quanto si prefigge non è facile? Peres sorride, alla domanda ne oppone un’altra: "Qualcuno disse a Voltaire: "La vita è molto difficile". Rispose: "Paragonata con che cosa?"". Un modo per affermate: quale sarebbe la scelta alternativa se non perseverare negli stessi errori? Per dare l’idea quanto i cambiamenti siano possibili, il presidente emerito di Israele fa notare trasformazioni avvenute che sono innegabili, comunque le si giudichi: "Guardate che cosa è successo alle nazioni più povere del mondo, Cina e India. Ognuna ha avuto due rivoluzioni. In Cina la prima la fece Mao Zedong, ma in 40 anni il Paese è diventato la seconda economia del mondo. È venuto un signore, Deng, che ha detto: ok, tenete gli slogan, però provvedete al mercato". Guardare a Occidente e a Oriente, insomma, comunque non camminare all’indietro. Non c’è dittatura che tenga, l’Italia vende armi per 32 milioni all’Egitto di Carmine Gazzanni lanotiziagiornale.it, 12 febbraio 2016 Una tragica morte, quella di Giulio Regeni, sulla quale ancora troppe sono le ombre. E il dubbio che il regime di al-Sisi stia facendo di tutto per non far emergere la verità, rende il quadro ancora più struggente. Certo: le autorità italiane - da Angelino Alfano a Paolo Gentiloni - hanno detto chiaramente che non si accetteranno altre frottole o rinvii da parte del regime egiziano. Ma, forse, sarebbe il caso di mettere perlomeno in dubbio il fitto commercio che il nostro Stato intrattiene con l’Egitto. Non è un caso che la Rete Italiana per il Disarmo ha chiesto, esplicitamente, al Governo di Matteo Renzi "di sospendere l’invio alle forze militari, agli apparati di sicurezza e alle forze dell’ordine dell’Egitto di ogni tipo di arma e di materiali che possano venire impiegati per la repressione interna". Già, perché secondo la denuncia dell’associazione pacifista il nostro Paese è l’unico in Europa (repetita iuvant: l’unico) che continua a vendere armi al regime, nonostante le pesanti violazioni dei diritti umani operati dalle autorità egiziane e nonostante la conseguente sospensione delle licenze di esportazione verso l’Egitto di armi e materiali utilizzabili a fini di repressione interna decretata nell’agosto del 2013 dal Consiglio dell’Unione europea. Ma, d’altronde, basterebbe anche il mero rispetto la legge che regolamenta il mercato d’armi (la n. 185 del 1990) che, a riguardo, è più che chiara: "l’esportazione ed il transito di materiali di armamento sono vietati verso i Paesi in stato di conflitto armato" in contrasto con le direttive Onu, "verso i Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione", verso i Paesi "responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani". E, invece, come si suole dire: pecunia non olet per il nostro Paese. E così, come denunciato da Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio sulle armi leggere (Opal) di Brescia, l’Italia non solo nel 2014 ha fornito le forze di polizia egiziane di 30mila pistole, ma nel 2015 ha inviato in Egitto altri 1.236 fucili a canna liscia. Proprio per non farsi mancare nulla. Insomma, l’Egitto si ricarica di armi e l’Italia gonfia i suoi portafogli. Nonostante nell’ultima relazione (2014) che fa il punto sul mercato di export armamentario italiano, si dica chiaramente che l’Europa ha applicato embarghi e restrizioni commerciali "nei confronti delle Corea del Nord, del Myanmar, della Siria, della Libia, del Libano, dell’Iran, dell’Egitto, della Somalia e della Tunisia", andando alle tabelle delle autorizzazioni alle esportazioni belliche, scopriamo che il nostro Paese ha concesso ben 21 autorizzazioni per la vendita di armi, per un valore complessivo pari a quasi 32 milioni di euro (per la precisione: 31.784.818,80 euro). Niente male, se si considera che in questa speciale classifica di fuoco, l’Egitto è il 19esimo Paese (su 79 totali) con cui l’Italia "ama" commerciare. Eppure la denuncia di Amnesty International sui crimini di al-Sisi (gli stessi che il nostro Giulio Regeni) denunciava, sono a dir poco impressionanti. Da quando il generale Al Sisi è salito al potere, le organizzazioni per i diritti umani hanno registrato centinaia di casi di sparizioni e oltre 1700 condanne a morte, quasi tutte ancora non eseguite. La tortura è praticata abitualmente nelle stazioni di polizia e nelle carceri, compresi i centri segreti di detenzione. La libertà d’espressione e manifestazione pacifica è pesantemente limitata e i difensori dei diritti umani e i giornalisti subiscono persecuzioni e processi irregolari. Magari si spara pure. E magari con armi made in Italy. Cannabis legale, i nonni all’avanguardia di Roberto Saviano L’Espresso, 12 febbraio 2016 Negli anni 40 l’Italia era il secondo produttore mondiale. Ma oggi nel nostro Paese vincono pregiudizi e disinformazione, anche nel governo. Non è la prima volta che invito chi mi legge ad ascoltare il notiziario antiproibizionista di Roberto Spagnoli su "Radio Radicale". Perché lo faccio? Perché tratta argomenti ignorati altrove, e i giornalisti che se ne occupano lavorano senza alcun pregiudizio ideologico, senza alcun preconcetto o condizionamento dettato da religioni o committenti. La libertà con cui Roberto Spagnoli affronta da anni il tema della legalizzazione delle droghe è immediatamente comprensibile a chiunque lo ascolti per un motivo molto semplice: Spagnoli cita fonti autorevolissime, spesso istituzionali. Questo cosa significa? Significa che una parte del Paese, quella che commissiona studi e prova a fare divulgazione, si pone realmente dei problemi e cerca davvero di trovare le soluzioni migliori, ad esempio sulla coltivazione della cannabis e sul suo uso terapeutico. Un esempio su tutti. Secondo una ricerca commissionata dalla Coldiretti, 2 italiani su 3 sono d’accordo alla coltivazione per uso terapeutico della cannabis. Si potrebbero destinare - ne parla Spagnoli su "Radio Radicale" - immediatamente 1.000 ettari ricavabili da serre in disuso alla coltivazione di cannabis; un’opportunità che potrebbe generare un giro di affari da un miliardo e mezzo di euro e produrre 10 mila posti di lavoro. Ovviamente questo per iniziare, perché poi si potrebbero trovare altri terreni e l’Italia potrebbe non rispondere solo alla domanda interna, ma esportare cannabis per uso terapeutico. Coldiretti ricorda che negli anni 40 l’Italia era il secondo produttore mondiale di cannabis sativa che veniva utilizzata soprattutto per uso tessile, edile e per la produzione della carta. Perché allora oggi c’è tanta difficoltà a comprendere che un mercato non solo non è eticamente sbagliato, ma porta anche crescita economica? Cosa ci è successo? Perché siamo meno aperti alla crescita e al cambiamento di quanto non lo fossero i nostri nonni e i loro genitori? Il Ministro Lorenzin, senza consultare le associazioni dei malati, ha fatto una cosa di una gravità inaudita: ha firmato un decreto che limita l’uso di farmaci cannabinoidi. Segno questo che le patologie di cui la cannabis terapeutica allevia i sintomi le sono totalmente sconosciute. Roberto Spagnoli ironizza sul fatto che Lorenzin pronunci "cannàbis" con l’accento sulla seconda "a", io potrei aggiungere che dopo il mio "Antitaliano" di due settimane fa sulla difficoltà di interrompere una gravidanza, questo settimanale ha ricevuto una lettera da parte del Ministero della Salute indirizzata al direttore de "l’Espresso" Dr. Giorgio Mulè (il direttore di "Panorama", ndr.). Tutto questo potrebbe, ma non fa ridere: non conoscere la cannabis e pretendere di poter legiferare, non conoscere la stampa e pretendere di dare risposte negando l’evidenza, danno la cifra di quanto, credenti o non, tocchi a noi cittadini trovare le strade per avere informazioni corrette. Perché l’esito dello studio commissionato da Coldiretti non ha fatto discutere il Governo? Si tratta di cannabis per uso terapeutico e non ricreativo; si tratta di posti di lavoro, niente di eticamente contrario ad alcuna religione conosciuta, eppure siamo sempre lì, fermi al terrore che la politica ha di perdere consenso, di inimicarsi quella parte di elettorato che permette alla propria spiritualità di plasmare anche la direzione del Paese, che dovrebbe essere laica. Proverò a spiegare perché opporre questioni morali o religiose alla legalizzazione di tutte le droghe in Italia oltre a essere anacronistico, oltre a essere frutto di disinformazione, è anche drammaticamente irresponsabile e pericoloso. A Napoli si spara quotidianamente: azioni dimostrative che a volte fanno vittime altre servono a terrorizzare. A Napoli si spara per il dominio sulle piazze di spaccio. Questo è l’unico motivo: da Ponticelli a Fuorigrotta, dal Centro Storico ai paesi limitrofi. Dal traffico di stupefacenti le organizzazioni criminali ricavano la parte maggiore dei loro guadagni, che poi investono in attività che sono concorrenti sleali di aziende legali che non possono contare su liquidità paragonabili, ma che devono fare i conti con le regole del mercato. Legalizzare le droghe, tutte e subito, è l’unico modo per togliere alle organizzazioni criminali il principale canale di guadagno. Da un colpo del genere, e ben assestato, non si riprenderebbero mai più. Questo governo deve avere il coraggio di proporre una legge ragionata, deve avere il coraggio di avviare un dibattito serio e costruttivo su questo tema che è di vitale importanza. Il Sud è alla deriva e a Napoli di questioni morali si muore, e non metaforicamente. Messico: scoppia la rivolta in carcere, almeno 50 morti e 70 feriti di Annalisa Grandi Corriere della Sera, 12 febbraio 2016 Decine di persone hanno perso la vita nel tentativo di ammutinamento avvenuto all’interno del penitenziario "Topo Chico" di Monterrey. Decine di persone sono rimaste uccise in una rivolta scoppiata all’interno di un carcere messicano, nel nordest del Paese. L’emittente Milenio Tv parla di almeno 50 morti, numerosi prigionieri sarebbero riusciti a fuggire. Una cinquantina i morti e almeno 70 i feriti il bilancio secondo il quotidiano "Reforma on-line". Fuori dal carcere le immagini delle tv locali mostrano la disperazione dei parenti dei detenuti, che aspettavano di far visita ai loro cari. Il governatore dello stato del Nuevo Leon su Twitter ha annunciato che la situazione è tornata sotto controllo intorno all’1.30 di notte ora locale. L’ammutinamento è avvenuto nel carcere di "Topo Chico" a Monterrey. La rivolta è solo l’ultima di una lunga serie scoppiate nelle carceri messicane negli ultimi anni. Il tutto alla vigilia della visita di Papa Francesco proprio in Messico: mercoledì 17 il Pontefice visiterà la prigione di Ciudad Juarez, una delle città con il più alto tasso di violenza al mondo. Stati Uniti: Washington vuole pagare gli ex detenuti perché non commettano reati di Petula Dvorak Washington Post, 12 febbraio 2016 Sembra una cosa assurda, ma ci sono dei precedenti promettenti. Sembrerebbe assurdo: pagare i criminali perché non commettano reati. La settimana scorsa, tuttavia, il consiglio comunale di Washington ha approvato all’unanimità un programma apparentemente folle: una mossa disperata per ridurre il tasso di criminalità della capitale americana, che permetterebbe di individuare i cinquanta giovani criminali più a rischio di recidiva pagandoli novemila dollari all’anno perché righino dritto. Sembra un romanzo distopico di Margaret Atwood e verrebbe da chiedersi se i membri del consiglio comunale di Washington non siano manipolati dalla mafia, perché la misura ha tutta l’aria di essere un ricatto. Magari il programma funziona anche retroattivamente, e allora avrei a disposizione circa 150 mila dollari per tutti gli anni in cui ho rispettato la legge. Probabilmente, però, dovrei prima commettere un reato per farmi pagare dal governo. E il prossimo passo potrebbero essere autovelox al contrario, che fanno arrivare assegni a casa quando non si supera il limite di velocità. La sindaco di Washington Muriel E. Bowser, del Partito Democratico, è una politica avveduta e ha già dichiarato di non sostenere il programma, che costerebbe circa cinque milioni di dollari per quattro anni. Il sindaco sa bene che l’idea si presenta in modo terribile. Al di là della facile ironia e dello sdegno, però, vale la pena analizzare meglio la proposta. Dopo una lunga e costante diminuzione del tasso di criminalità, durata diversi anni, nel 2015 a Washington ci sono stati 156 omicidi, un aumento del 54 per cento rispetto al 2014. Durante l’estate, quando le violenze hanno raggiunto la maggiore intensità, il capo della polizia di Washington Cathy Lanier ha detto che gran parte dei reati erano stati commessi da persone appena uscite dal carcere. "Le persone coinvolte in più di un omicidio hanno precedenti per lo stesso tipo di reato ed erano state da poco reinserite nella comunità", aveva detto Lanier durante una conferenza stampa ad agosto. "È un dato significativo e nuovo rispetto al passato". Da decenni il reinserimento degli ex detenuti è un tema controverso per le città: il richiamo del vecchio quartiere e dei rivali di una volta è forte, al contrario delle opportunità per cambiare la propria vita. Niente di nuovo, insomma. Quale sarebbe quindi la soluzione per gli ex criminali? Lavorare o andare a scuola? La vice procuratrice generale di Washington, Sally Quillian Yates, sostiene che negli ultimi dieci anni i finanziamenti al programma federale americano che ha prodotto i maggiori risultati in termini di occupazione e istruzione - il Federal Prison Industries (FPI) - sono stati dimezzati. Per le persone con precedenti penali, le opportunità scarseggiano. Negli ultimi mesi, nel frattempo, negli Stati Uniti sono stati liberati circa seimila detenuti, che si sono visti ridurre della metà la loro condanna per droga. Queste persone però non hanno ricevuto molto sostegno per reintegrarsi nelle loro comunità. Analizzando con alcuni ex criminali alcune procedure per il reinserimento, ho capito quali sono le difficoltà che devono affrontare. Gli appuntamenti con i responsabili della libertà vigilata si sovrappongono con i colloqui, i potenziali datori di lavoro non richiamano, un guasto alla metropolitana è sufficiente per sforare l’orario in cui bisogna tornare a casa. A Washington sono circa ottomila le persone reinserite in città dopo aver scontato la pena: circa la metà torna in carcere entro tre anni. La detenzione di queste persone costa ai contribuenti americani 30 mila dollari l’anno. Ogni omicidio da arma da fuoco ne costa invece 400 mila. Se la si guarda dal punto di vista del bilancio, pagare 9 mila dollari per far rigare dritto un ex criminale è un affare. Washington però non sta pensando di pagare un assegno agli ex detenuti solo perché si comportino bene: per ottenere i soldi bisogna seguire un programma intensivo di istruzione, assistenza psicologica e formazione professionale di circa nove mesi. Il programma è ispirato al modello di Richmond, una città della California vicino a San Francisco, che in passato era tra le prime dieci città americane per tasso di omicidi. Dopo aver avviato un programma simile, i reati legati alle armi da fuoco a Richmond sono diminuiti drasticamente. Certo, il merito potrebbe essere del nuovo capo della polizia, un uomo dichiaratamente gay e fuori dagli schemi che ha spinto per una maggiore presenza della polizia sul territorio, ha alzato un cartello con la scritta "Black Lives Matter" (uno degli slogan contro la violenza della polizia sui neri) e ha promosso percorsi di riabilitazione invece della detenzione. O potrebbe essere dovuto al cambiamento demografico e al generale calo del tasso di criminalità negli Stati Uniti. Forse però, l’inversione di tendenza è da attribuire al fatto che l’attenzione è stata finalmente concentrata sulle 68 persone individuate come quelle con maggiori probabilità di uccidere della città. Queste persone hanno partecipato al programma, mostrando di avere una "lunga lista di privazioni e di disfunzioni: alto tasso di disoccupazione, famiglie frammentate, istruzione inadeguata, e grave abuso di droghe", ha raccontato il fondatore del programma Devone E. Boggan in un editoriale sul New York Times. Poi qualcuno ha iniziato a chiedere a queste persone uno sforzo in più, portandole a visitare campus universitari e obbligandole a fare amicizia con i rivali. Per ogni mese in cui partecipavano agli incontri, ascoltavano i tutor e rimanevano fuori dai guai, ricevevano mille dollari. I soldi servivano a pagare l’affitto e comprarsi da mangiare. Ma è stata l’attenzione nei loro confronti, al loro futuro e al loro successo a far sì che queste persone tornassero e rigassero dritte. Un’attenzione al loro benessere che molti di loro non avevano mai ricevuto prima. Non ci sono frasi ad effetto con cui chiudere l’argomento: solo molto lavoro e qualche risultato. E anche se a prima vista il programma può sembrare terribile, vale la pena provarci. Svizzera: guardia carceraria si innamora di un detenuto siriano e scappa con lui di Annalisa Grandi Corriere della Sera, 12 febbraio 2016 Caccia a Hassan Kiko, accusato di stupro, e a Angela Magdici: i due sono scappati insieme dal carcere di Dietikon nel fine settimana. A quanto si è appreso, fra loro era nata una relazione. Lei l’ha aiutato a evadere. Allertato l’Interpol. Lui, in carcere per stupro. Lei, guardia carceraria. Sono scappati insieme dal penitenziario svizzero di Dietikon, nel Canton Zurigo. E forse potrebbero essere in Italia. L’allarme l’ha lanciato la polizia svizzera: in fuga dallo scorso fine settimana Hassan Kiko, 27enne siriano finito in carcere per stupro, e Angela Magdici, 32enne guardia carceraria. Una storia d’amore nata nel carcere di Dietikon, quella fra i due. Culminata con la fuga di entrambi dalla struttura penitenziaria. Diffuse le foto di entrambi: lui muscoloso e tatuato, lei appassionata di boxe. Hassan, siriano richiedente asilo, era arrivato in Svizzera nel 2010, e aveva iniziato a cercare lavoro come parrucchiere. Nel novembre 2014 però era stato arrestato con l’accusa di aver violentato una ragazzina di 15 anni. Condannato a 4 anni aveva presentato ricorso ed era in attesa della sentenza del processo d’appello. Angela Magdici invece lavorava nel penitenziario (aperto cinque anni fa) dal 2013. Sposata, con un 25enne. Almeno fino a qualche mese fa. "Aveva cominciato a leggere il Corono - ha raccontato il marito Vasili. La amavo, volevo dei figli. Ma quattro mesi fa se n’è andata, ha preso i soldi e dei mobili e si è trasferita da un’amica. Probabilmente le piacciono i criminali e io ero troppo buono per lei" ha detto. "Non sapevamo della storia" - Il direttore del penitenziario di Dietikon, Roland Zurkirchen ha fatto sapere di non aver mai avuto sospetti su una relazione fra lui e la secondina 32enne. La donna, questa la ricostruzione sempre della direzione carceraria, avrebbe aspettato che il collega in turno con lei si addormentasse per poi mettere in atto il piano di fuga. "Potrebbero essere in Italia" - "Pensiamo che i due abbiano lasciato la Svizzera e dunque abbiamo chiesto di estendere le ricerche con l’Interpol" ha detto la procuratrice Claudia Wiederkehr, che ha poi aggiunto "Non mi risulta che sia mai successa una cosa del genere qui". Il quotidiano svizzero "Blick", che riporta fonti vicine alle indagini, fa sapere che la polizia è convinta che i due potrebbero essere scappati o in Siria o in Italia.