Il mio cambiamento è dedicato a voi tutti che non smettete mai di credere nelle persone di Lorenzo Sciacca Ristretti Orizzonti, 11 febbraio 2016 L’8 febbraio si è tenuto presso la Casa di Reclusione di Padova il Seminario di formazione rivolto ai giornalisti che Ristretti Orizzonti organizza ogni anno, in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti del Veneto, ma più che un seminario è stata una grande lezione di comunicazione e confronto. Da ogni intervento ho tratto interessantissimi spunti su cui riflettere, ma non posso non dare precedenza alla presenza di tre persone a mio dire fantastiche, Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, statista ucciso dalle Brigate Rosse, Grazia Grena, ex appartenente alla lotta armata e Adolfo Ceretti, ordinario di Criminologia all’Università Milano-Bicocca. Assieme hanno portato l’esperienza della mediazione penale tra vittime di terrorismo e ex appartenenti alla lotta armata, una mediazione raccontata magistralmente in un testo a cura di Guido Bertagna, Claudia Mazzucato e Adolfo Ceretti dal titolo "Il libro dell’incontro". Adolfo Ceretti non poteva usare parole migliori di queste, "ascoltare l’indicibile", ascoltare quello che solitamente non si osa dire, ascoltare le parole di persone che hanno segnato la storia del nostro Paese, ma soprattutto che hanno segnato la vita di molte altre persone senza mai affrontare gli sguardi delle proprie vittime e ascoltare le loro urla di dolore interminabile. Avere la verità processuale e ottenere tutto dalla giustizia penale fa veramente sentire appagata una vittima di reato? Questa è la riflessione che con un gran senso di umiltà propone Agnese Moro. Lei dalla giustizia penale ha ottenuto "tutto", la verità processuale di quell’evento drammatico che ha segnato il percorso della sua vita è stata resa, ma c’era qualcosa che ancora mancava, il confronto con i suoi carnefici per poter esprimere l’urlo che teneva dentro di sé contro quei volti nei quali si legge la consapevolezza di ciò che hanno commesso. Grazia Grena, con gli occhi a tratti lucidi, con grande umiltà ammette che prima di questo incontro sentiva di essersi "lavata", di aver saldato il suo debito: aveva pagato la sua pena, si era fatta una famiglia, aveva ottenuto la riabilitazione a pieno titolo nella società; era convinta di aver fatto i conti con quelli che erano stati i suoi errori, ma anche lei sentiva che qualcosa non quadrava nella sua coscienza. Ebbene, il coraggio di questa donna l’ha portata a quell’incontro definito da lei "fatale" che le ha messo davanti la lunga strada che ancora doveva percorrere per provare a trovare una riappacificazione per le sue colpe, che forse, a suo dire, non potrà mai trovare. Grazia Grena ancora non aveva mai incontrato gli sguardi delle sue vittime, quindi il loro dolore, ma quello che lei definisce il regalo immenso che le ha donato il Gruppo che ha partecipato al percorso, è stato l’essere ascoltata, e questo non vuol dire negare ciò che si è fatto, il peso di quei gesti tragici rimarrà in eterno, ma si spegne l’odio, il rancore. Mi chiedo come possa una parte della società non capire quanto l’incontro con l’altro può aiutare a riprendere a vivere, a riprendere in mano la propria vita. Non significa lavarsi la coscienza, è il contrario, il peso aumenta per un carnefice quando ascolta le sue vittime, ma è giusto portare questo peso, lo dobbiamo a quelle persone cui abbiamo segnato la vita e forse loro, le vittime, potranno riprendere a vivere liberandosi di quel sentimento che con gli anni distrugge qualsiasi essere umano, l’odio. Grazie, grazie e ancora grazie per averci reso partecipi di questo percorso straordinario che avete affrontato ripercorrendo il passato e rivivendo i dolori da una parte e le colpe dall’altra. Grazie alle persone che come Adolfo Ceretti credono in una giustizia che ripara la lacerazione che inevitabilmente un reato crea nei confronti della società: è per merito di persone come voi che oggi metto in discussione 20 anni di vita trascorsi nel male senza aver avuto mai considerazione dell’Altro. Grazie, la ricostruzione di me stesso sarà sempre dedicata a voi tutti che non smettete mai di credere nelle persone. Il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma: "il mio mandato? Inizia dagli hotspot" di Eleonora Camilli Redattore Sociale, 11 febbraio 2016 Intervista al primo Garante nazionale dei detenuti. Istituita dal ministero della Giustizia, la nuova figura inizierà a lavorare nelle prossime settimane "dagli anelli più deboli della catena". Palma: la questione della massiccia detenzione dei migranti è la più urgente. "Comincerò il mio mandato dagli anelli più deboli della catena". Dopo aver fondato l’associazione Antigone e aver visitato i luoghi di detenzione di tutta l’Ue, come presidente del Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti del Consiglio d’Europa, Mauro Palma è da pochi giorni il primo Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Sarà suo compito, quindi, tutelare non solo le persone che vivono nelle carceri italiane ma anche coloro che sono in custodia nei luoghi di polizia, che vivono nei Centri di identificazione ed espulsione, o nelle strutture sanitarie in seguito a trattamenti sanitari obbligatori e a misure di sicurezza psichiatriche (Opg e Rems). Ed è proprio da queste ultime strutture che il Garante ha intenzione di iniziare a vigilare, come ci spiega in questa intervista. Lei è il primo Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, istituito in Italia. Quali saranno le priorità del suo mandato? "La fase iniziale sarà prodromica all’attività diretta. Cercheremo di far conoscere l’istituzione anche per stabilire un rapporto. La nostra attività, di monitoraggio e di analisi, è totalmente indipendente, noi facciamo visite non annunciate nei luoghi. Ma è necessario anche che l’interlocutore si senta riconosciuto e rispettato nel suo lavoro, e che capisca che questo non aiuta soltanto le persone che stanno dentro ma anche il sistema nel suo complesso, a essere più rispettoso de i diritti delle persone. Dopo la fase iniziale, del farsi conoscere, seguirà una fase di coordinamento delle realtà dei garanti regionali che già esistono. Inizialmente nel nostro mandato ci rivolgeremo di più a quelle regioni dove la figura del garante non esiste. Questa è una priorità geografica. Da un punto di vista tematico, invece, la prima cosa da esaminare è la questione massiccia della detenzione migranti, un’area su cui dobbiamo intervenire con una certa urgenza. Cioè sui cosiddetti hotspot, che vengono richiesti dall’Unione europea. Su questi centri bisogna capire e vedere. Alcuni sono in Sicilia, una regione dove non c’è il garante: in questo caso dunque urgenza geografica e urgenza tematica coincidono". Negli hotspot, diverse violazioni sono state denunciate dalle associazione, in particolare riguardo alla procedura e all’informativa. Vi concentrerete su questo? "Sì, andremo a verificare se è stato negato l’accesso ai tre diritti fondamentali che devono essere sempre presenti. Innanzitutto, quando una persona è privata libertà è in una posizione giuridica che prevede la presenza di un magistrato, non può essere solo trattenuto. C’è poi il diritto a comprendere, dove è stato collocato e perché, il soggetto deve cioè capire la procedura, quindi va adeguatamente informato. Il terzo aspetto discende da questa informazione e cioè al soggetto deve essere data la possibilità, nel concreto, di fare richiesta per essere riconosciuto come rifugiato. Oltre a questo, non deve essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti, o addirittura a violenza. Questi diritti, nella foga degli alti numeri delle persone che arrivano, spesso non sono realmente tutelati. Dopo aver insediato l’ufficio, quindi, cominceremo a muoverci in coordinamento con i garanti regionali per coprire tutto il territorio nazionale, e in particolare le zone che attualmente non sono coperte. E iniziare la funzione di garanzia dagli anelli più deboli della catena". Oltre agli hotspot, l’altra questione aperta riguarda gli Opg, che dovevano essere chiusi già da un anno. Ci sono ancora quattro strutture superstiti, andrete a visitarle? "Sì, gli opg non sono ancora stati tutti chiusi: in alcune regioni non sono state ancora attivate le Rems, e così le persone sono rimaste negli ospedali psichiatrici giudiziari. È una detenzione che non ha base legale. Sono rimaste circa 170 persone negli Opg ma mi auguro che nel tempo in cui noi ci insedieremo, diciamo quindici giorni circa, una soluzione sia stata trovata. Dopodiché ritengo che anche le Rems vadano visitate". Nella sua lunga carriera, lei si è sempre occupato di detenzione e diritti umani. Uno dei suoi ultimi incarichi è stato quello di presidente della Commissione ministeriale sul sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani. Un tema di cui oggi si parla molto poco. Ma qual è lo stato di salute della carceri italiane? "Come speso succede in Italia la situazione carceraria è a macchia di leopardo. Risente positivamente dell’aver superato la questione più stringente della crisi numerica. Quando c’è stata la sentenza Torreggiani avevamo quasi 67mila persone in carcere e 45 mila posti. Adesso abbiamo 52.500 persone in carcere e solo 49mila posti. Questo vuol dire che abbiamo molto avvicinato questi due numeri ma essi non coincidono ancora. Anzi, nella realtà le persone presenti dovrebbero essere meno della capienza teorica. Per intenderci, se ho 100 posti a un femminile e 70 donne dentro, non è che se ho l’esigenza di trovare un posto a 30 detenuti maschi li posso mettere lì. Se un sistema ha capienza 100 deve avere detenuti 95. Quindi ci siamo molto avvicinati ma c’è ancora molto da fare. Possiamo però anche dichiarare una certa soddisfazione perché la situazione è meno pressante per chi vi opera e il sistema è più sicuro per la comunità esterna. Inoltre quando avevamo 67 mila detenuti avevamo 19 mila persone in misura alternativa, oggi con 52.500 persone detenute quelle in misura alternativa sono 32 mila. L’area del controllo non è tanto cambiata, ma all’interno dell’area del controllo è cambiato il rapporto tra detenzione e misure alternative. Dal punto di vista, invece, della qualità della vita all’interno del carcere, e cioè del come si vive, il discorso è ancora molto insoddisfacente. Cerchiamo ora di intervenire su questo, il ministero della Giustizia ha investito molto sugli Stati generali dell’esecuzione penale, un’operazione che non va sottovalutata perché ha fatto discutere in 18 tavoli almeno 200 persone, tutte con provenienze molte diverse, dal giuristi al magistrato al volontario. Persone che generalmente stanno dentro i propri steccati e che invece hanno dovuto trovare un linguaggio comune. Dover dialogare è il primo passo per quell’approccio diverso che si deve avere sulla vita detentiva. Non ci può essere più la divisione manichea tra i supposti buoni e i supposti cattivi. Questa operazione degli Stati generali non è la soluzione ma la premessa per cercare soluzioni e cambiare la vita in carcere. Solo così cambia anche la qualità". A proposto degli Stati generali, tra le proposte che sono emerse con più forza c’è l’implementazione del lavoro dei detenuti e l’incentivo all’utilizzo delle misure alternative. Lei condivide l’idea che bisogna partire da questi due aspetti per migliorare la vita delle persone in carcere? "La questione relativa all’esecuzione panale esterna è secondo me un punto essenziale ma bisogna trovare le risorse. Un conto è dichiarare la sua centralità, un conto è che nello stanziamento in bilancio questa centralità si riproduca. Come dicevo, i 67 mila detenuti e 19 mila alternativi di qualche anno fa sono diventati oggi 52 mila detenuti e 32 mila misure alternative. Ma non credo che gli stanziamenti in bilancio abbiano seguito questo spostamento. Le misure alternative richiedono un investimento, che è un investimento decisivo: se si investe nel sociale, in un sociale ricco dal punto di vista delle possibilità offerte, poi saranno meno dispendiosi sia il carcere che l’area delle marginalità. Bisogna molto spingere su questo tema ma con stanziamenti adeguati. Anche sulla questione del lavoro sono pienamente d’accordo, a patto che sia veramente lavoro. Su questo la Corte costituzionale è stata sempre molto chiara: il lavoro in quanto tale ha una sua fisionomia, dei diritti e doveri da rispettare. Dobbiamo, invece, stare molto attenti all’idea che si può riassumere nella frase ‘purché i detenuti facciano qualcosà, che sembra rassicurare l’opinione pubblica, ma non serve niente. Il lavoro deve essere pensato perché salvi una continuità anche quando si esce. Lo dico brutalmente: piantiamola con la tanta ceramica in carcere, non è che poi diventano tutti ceramisti. Non è una terapia, non deve servire a tenere le persone impegnate ma dobbiamo costruire qualcosa che dia strumenti per essere pienamente soggetti. Dobbiamo passare da un modello di detenzione infantilizzante, in cui è l’amministrazione che ti propone tutto e ti viene solo chiesto di aderire, a situazioni responsabilizzanti in cui ti viene chiesto di metterti in gioco". Depenalizzazione: una goccia nel mare di Valter Vecellio lindro.it, 11 febbraio 2016 I provvedimenti adottati avranno effetti limitati, resta il problema della riforma complessiva della Giustizia. La domanda è secca, non consente di ciurlare nel manico: Ministro, chiede puntuto "Il Foglio", è finita l’emergenza giustizia? Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando non si sottrae: "Su molti aspetti l’emergenza non c’è più. Cito due casi. Il primo riguarda il tema della custodia cautelare, a proposito di ingranaggi che rendono possibile il processo mediatico, il secondo riguarda il sovraffollamento carcerario. Nel giro di due anni siamo passati da 11.500 persone in attesa di primo giudizio, in custodia cautelare, a circa 8.500 in attesa di giudizio. Sono numeri che si possono ancora migliorare ma sono numeri che si spiegano grazie a una serie di riforme che Governo e Parlamento hanno fatto in materia di custodia cautelare". Le carceri: "Nel 2012, a fronte di una capienza carceraria di circa 47 mila unità, vi era una popolazione carceraria che ammontava a circa 65 mila unità. Quattro anni dopo, una capienza leggermente superiore, pari a circa 50 mila unità, siamo arrivati ad avere 52 mila detenuti: abbiamo portato da 20 mila a 40 mila le pene eseguite all’esterno del carcere, e l’emergenza non c’è più". Orlando poi riconosce che c’è ancora molto da lavorare sulle modalità dell’esecuzione della pena, sulla finalità riabilitativa. Assicura di non avere preclusioni ideologiche per quel che riguarda l’indulto, ma ci tiene a chiarire che se l’indulto lo si invoca per "questioni legate al sovraffollamento oggi possiamo dire che quel tema non esiste più". Il Ministro Orlando sa bene che con questa risposta in buona misura elude la questione che già due anni fa posta dal Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano nell’unico, solenne, messaggio inviato al Parlamento: quella dell’obbligo di una riforma complessiva della Giustizia per far uscire lo Stato italiano dalla condizione di illegalità certificata da decine di condanne da parte delle giurisdizioni nazionali e internazionali. Riforme che necessariamente richiedono tempo, per essere realizzate con scienza e coscienza; per questo, secondo Napolitano erano necessari provvedimenti di indulto e amnistia. Indulto per decongestionare la situazione nelle carceri; amnistia per sgomberare le scrivanie dei magistrati da migliaia di fascicoli relativi a provvedimenti destinati inevitabilmente ad andare al macero per via della prescrizione. Con la differenza che l’amnistia consentirebbe di almeno regolare una situazione che oggi è allo stato brado, è un’amnistia di fatto indiscriminata e incontrollata, affidata, al massimo, al buon senso delle procure; e mille esempi di cronaca documentano che non sempre questo buon senso c’è (per non parlare del senso buono). Ad ogni modo, una risposta al Ministro Orlando viene da un’accurata inchiesta de "Il Sole 24 Ore": "Una goccia nel mare degli oltre tre milioni di cause penali pendenti e delle altrettante che ogni anno arrivano in tribunale. L’effetto delle nuove misure di depenalizzazione saranno contenuti". Questa, in sintesi, la conclusione dell’inchiesta. Effetti limitati, comunque non immediati. È una depenalizzazione a metà, dicono concordi i magistrati, perplessi per il fatto che nel pacchetto dei provvedimenti non rientri la depenalizzazione del reato di clandestinità; a parte la discutibile legittimità (è sanzionabile il fare, non l’essere), si tratta di un reato, commenta Alberto Candi, reggente della Procura Generale di Bologna "completamente inutile e molto dispendioso". Quanto alle carceri, se da una parte la situazione in generale presenta i miglioramenti citati dal Ministro, per avere un quadro più esaustivo, bisogna anche scendere al dettaglio. Lombardia, per esempio: il sovraffollamento registrato è del 27 per cento, circa cinque volte più grave della media nazionale. Dove la capienza è di 220 detenuti al massimo, come a Como, ce ne sono stipati 400; è l’83 per cento in più della regolamentare capienza. Se i posti disponibili nelle diciotto carceri lombarde è di poco più di 6.000 posti e i detenuti sono 1.700, qualcosa non va: 397 detenuti invece che 239 a Vigevano; 604 detenuti invece che 403 a Monza; 536 detenuti invece che 330 a Bergamo; e così a Brescia (60 per cento in più), Lodi e a Busto Arsizio (44 per cento in più), 41 per cento in più a Opera; 30 per cento a Brescia; 15 per cento a Cremona; e così via. Per trovare una situazione ottimale occorre andare nel carcere di Bollate: 1.096 detenuti per 1.242 posti disponibili; ma non durerà molto, è da credere. Ma c’è anche un altro carcere possibile. Bisogna andare a Napoli. Una delegazione guidata dal radicale Emilio Quintieri e composta da avvocati dell’associazione Giuristi Vesuviani, dopo aver compiuto un’ispezione nei penitenziari di Poggioreale e Secondigliano, dà atto dell’impegno dei direttori degli istituti di pena di perseguire risultati importanti e significativi: "Abbiamo visitato i reparti di media e alta sorveglianza e devo riconoscere che la situazione registrata è decisamente migliore rispetto al passato". Sono 1.928 i detenuti reclusi nella Casa circondariale di Poggioreale (a fronte dei 3.000 dell’ultimo censimento), che da fine mese potranno usufruire anche di nuove attività sportive. Si tratta di palestre in fase di allestimento previste per ogni reparto di ogni padiglione. In due casi, i padiglioni Livorno e Firenze, le palestre sono già attive grazie a una donazione effettuata dalla Chiesa Valdese. Quanto al regime detentivo a circa 500 reclusi è concessa la modalità di regime aperto: celle con porte spalancate fino a sera. Il problema del sovraffollamento, però, si registra anche qui: a Poggioreale, a fronte di una capienza regolamentare di 1.640 posti, sono ristretti 1.928 detenuti; a Secondigliano, la capienza è di 897 posti; i detenuti sono 1.303. Ospedali Psichiatrici Giudiziari, per finire. La Federazione dei Collegi degli Infermieri (Ipsavi), lancia l’allarme; in sostanza si sentono mandati allo sbaraglio nelle Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria (Rems). Barbara Mangiacavalli, Presidente della Federazione denuncia che "i nostri professionisti sono di fatto mandati allo sbaraglio, senza formazione specifica né tutele contrattuali o di legge che prevedano misure preventive e cautelative del danno". Eppure, aggiunge, "su di loro, come sui medici al lavoro nelle Rems, ricade la massima parte del lavoro di assistenza". Le Aziende sanitarie, spiega, "hanno reclutato nuovo personale, non tutte però hanno provveduto a formarlo. Si tratta soprattutto di infermieri e altri operatori alla prima esperienza lavorativa o privi di esperienza in ambito psichiatrico e penitenziario. Infatti molte Regioni e aziende pur di rispettare la tempistica dettata dalle norme hanno disatteso quanto indicato dal decreto, che già prevedeva l’obbligo formativo da parte delle Asl con il supporto del ministero della Giustizia, per il personale dedicato per le Rems". Le tutele quindi mancano perché mancherebbe una formazione adeguata ma anche un contratto che le preveda: "Con il passaggio dall’amministrazione penitenziaria al servizio sanitario nazionale dell’assistenza agli ex internati, è stato messo tutto nelle mani del personale del servizio sanitario che nel suo contratto collettivo non ha alcuna previsione per questo tipo di casistica". Va cambiata, dice Mangiacavalli "la formazione, oggi ancora legata a vecchi schemi che non permettono di attuare quel nuovo modello di organizzazione manageriale e clinica proprio di situazioni patologiche gravi emergenti e di cronicità". Se ne dovrà riparlare. Alla giustizia manca una riforma organica e complessiva di Mirella Casiello (Presidente dell’Organismo unitario dell’avvocatura) Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2016 Il Paese chiede una giustizia efficiente. Purtroppo, siamo ancora lontani dall’obiettivo e la conseguenza è la crescente sfiducia dell’opinione pubblica nei confronti della nostra macchina giudiziaria. Anche il 2016 è cominciato con la rituale, e stanca, cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario e un lungo elenco di criticità. Infatti, anche considerando l’approvazione di provvedimenti che segnano una certa discontinuità, continua a mancare un passaggio, il più importante: una riforma complessiva e organica del settore. In questo contesto confuso ed emergenziale, Governo e Parlamento (il riferimento non è solo a quelli attuali) hanno scelto, spesso, scorciatoie "populiste" e, condizionati dall’opinione pubblica, hanno contrapposto gli interessi dei cittadini a quelli delle imprese, con una costante e preoccupante attenzione del legislatore a interventi volti a costituire corsie preferenziali per queste ultime. Lo dimostrano i cospicui, e continui, aumenti del contributo unificato. Questa situazione ha aperto, però, anche nuove prospettive all’avvocatura e consentito una diversa declinazione del servizio giustizia verso forme di risoluzione delle controversie extragiudiziali. Molti i provvedimenti in questa direzione, ma anche in questo caso le scelte governative mancano di una complessiva elaborazione e di una proposta effettivamente centrata sulla professionalità dell’avvocato, che consenta di percorrere strade alternative a quella statale. In questo senso vogliamo sottolineare la necessità che anche le fasce più deboli della popolazione possano godere di tutela rapida e di qualità, garantendo loro il patrocinio a spese dello Stato. Altro banco di prova è l’elaborazione di un intervento organico sul processo civile, non basato su ulteriori filtri ai danni dei cittadini. In questa direzione, l’Oua presentato un pacchetto di emendamenti al Ddl delega "Berruti" per correggere alcuni aspetti di un provvedimento ancora una volta parziale e che, oltretutto, presenta alcune criticità, tra le quali non si può non segnalare la mancata istituzione delle sezioni specializzate per famiglia e minori, col superamento degli attuali tribunali per i minorenni e il rischio di ampliare a dismisura il rito sommario. Quanto al penale, si giudica positivo, pur con alcune criticità, il recente decreto depenalizzazioni, anche se restano inevasi interventi urgenti e complessivi su alcuni nodi irrisolti come quelli sul reato di immigrazione clandestina, la cui vigente normativa si è rilevata inadeguata. Infine, un’osservazione sugli innumerevoli problemi di una categoria indebolita dalla crisi: tutte le istituzioni forensi, Oua, Cnf, Ordini, ma anche diverse realtà emergenti e di base, hanno posto in più occasioni il problema di tutelare adeguatamente l’avvocatura, soprattutto nei settori più giovani, a partire dagli equi compensi coi grandi committenti (imprese, enti pubblici, banche). In questo senso, sono positive le iniziative messe in campo rispetto alla più complessiva partita della nuova legislazione sul lavoro autonomo, ma non basta: nell’immediato riteniamo urgente pretendere che, alla liquidazione degli onorari, i magistrati tengano conto della professionalità degli avvocati: il nostro lavoro, al pari di ogni altro, va remunerato in maniera dignitosa, come da Costituzione. Il Dap "emergenza sovraffollamento superata, il 95% dei detenuti è in custodia aperta" Ansa, 11 febbraio 2016 "Se l’Italia calcolasse i numeri di posti detentivi regolamentari disponibili in maniera conforme agli indici medi internazionali, fruirebbe di un numero di posti regolamentari superiore al numero di detenuti presenti". È quanto afferma il Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in una nota in risposta a una serie di "recenti e reiterati articoli di stampa - specifica la nota - che riportano nei titoli l’allarme sovraffollamento delle carceri". "Con i miglioramenti apportati nell’ultimo anno - aggiunge il Dap - il 95% dei detenuti è in "custodia aperta" e trascorre tra le otto e le dieci ore in spazi comuni, fuori dalle camere di pernottamento, impegnati in attività trattamentali e di sostegno. La custodia aperta progressivamente si sta estendendo anche ai detenuti dell’alta sicurezza". Il Dipartimento chiarisce, inoltre, che "i risarcimenti agli ex detenuti che si sono appellati alla Cedu", la Corte di Strasburgo. "per trattamento inumano e degradante sono risalenti nel tempo, quando effettivamente sussisteva il problema del sovraffollamento ormai definitivamente superato". "Per quanto riguarda le cause promosse da ex detenuti per periodi detentivi passati - aggiunge il Dap - dai dati in possesso del Dipartimento si evince che, dei 1617 ricorsi presentati, non risultano ancora esaminati dalla magistratura ordinaria 1.276 ricorsi, solo 126 sono stati accolti mentre 215 sono stati rigettati o comunque non accolti per motivi procedurali". Per il Dap, quindi, "il trend si intende esaurito. Inoltre, dal rapporto annuale per il 2015 della Cedu-Strasburgo 28 gennaio 2016 - è emerso come il numero dei ricorsi italiani sia pari all’11,6% del totale dei casi pendenti alla Corte di Strasburgo per i 47 Stati membri del Consiglio d’Europa e che un numero così basso di ricorsi italiani non si registrava dal 2009. Le condanne riguardanti l’Italia sono state appena 20 a fronte di un totale complessivo per tutti gli Stati membri di 692". Il Sappe: "l’Amministrazione penitenziaria finge di non vedere sul sovraffollamento" Comunicato Sappe, 11 febbraio 2016 "L’Amministrazione Penitenziaria si ostina a tranquillizzare l’opinione pubblica sull’allarme sovraffollamento delle carceri del nostro Paese, ma in realtà smentisce se stessa. I dati sulle presenze in carcere ci dicono infatti che al 31 gennaio scorso erano fisicamente in uno dei 195 penitenziari italiani ben 52.475 detenuti, comunque 3mila in più alla capienza regolamentare fissata proprio dal Dap in 49.480 posti (conteggiando tra questi anche sezioni detentive chiuse e in ristrutturazione. E i detenuti presenti fisicamente in carcere a fine gennaio 2016 sono comunque di più di quanti ve ne erano alla fine dello scorso luglio 2015, e cioè 52.144. Come si fa dunque a sostenere che il sovraffollamento "non sussiste", come dice il Dap?". È quello che sostiene Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, commentando un comunicato stampa dell’Amministrazione Penitenziaria. "Se è vero che il 95% dei detenuti sta fuori dalle celle tra le 8 e le 10 ore al giorno, è altrettanto vero che non tutti sono impegnati in attività lavorative e che anzi trascorrono il giorno a non far nulla. Ed è grave che sia aumentano il numero degli eventi critici nelle carceri da quando sono stati introdotti vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto. Solamente in questi ultimi dieci giorni si sono infatti contati l’incendio di una cella e un suicidio sventato dalla Polizia Penitenziaria a Cremona, un agente ferito a Reggio Emilia, un altro poliziotto aggredito a Tolmezzo, una evasione sventata a Forlì, un detenuto che si è ustionato consapevolmente con olio bollente a Mantova, droga intercettata in tempo nel carcere di Arghillà, un’altra tentata evasione sventata dai poliziotti penitenziari a Secondigliano", aggiunge il leader nazionale dei Baschi Azzurri. Che sollecita un intervento del Ministro della Giustizia Andrea Orlando su un fatto specifico: "Uno scandalo. È intendimento del Dap promuovere al grado superiore per meriti eccezionali (!) alcuni poliziotti penitenziari del Ministero che avrebbero acquisito i dati dalle carceri sugli effetti della nota sentenza Torreggiani. Il Dap, che già tempo fa si rese responsabile di un’altra promozione beffa - venne promosso al grado superiore un archivista del Dap senza alcun compito operativo, anziché premiare chi lavora tutti i giorni in prima linea in carcere tra mille difficoltà e grande professionalità, vorrebbe dare la promozione a chi ha solamente raccolto dei dati! Una cosa che lascia senza parole e rispetto alla quale sollecito un intervento del Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Le promozioni per meriti straordinari ed eccezionali siano conferite a chi se le merita in carcere per compiti operativi, non a chi compie ordinarie mansioni d’ufficio al Ministero". Chiusura degli Opg, per le regioni inadempienti in arrivo Commissario e sanzioni Redattore Sociale, 11 febbraio 2016 Ancora 170 internati negli Opg in 8 regioni. Per 5 o 6 di queste arriverà il Commissario unico, che sarà nominato a breve. Intanto a Brescia l’Irccs, che è uno dei Rems lombardi, organizza un seminario su violenza e disturbi mentali per preparare gli operatori. E presenta uno studio. Gli Opg sono stati chiusi, almeno in teoria, ma non tutte le regioni stanno osservando la tabella di marcia: sarebbero 170 ancora gli internati negli Opg, secondo il primo e neoeletto Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, intervistato da Redattore sociale. E 8 sono le regioni inadempimenti: Veneto, Piemonte, Toscana, Abruzzo, Lazio, Campania, Calabria e Puglia. Su 5 o 6 di queste vigilerà ora il Commissario unico che sarà nominato in uno dei prossimi Consigli dei ministri, col compito di sanare i ritardi e le inadempienze e rendere effettivo il superamento degli Opg. L’annuncio ufficiale è arrivato dal sottosegretario della Salute con le deleghe agli Opg, Vito De Filippo: "Un solo commissario, come prevede la legge, con un ampio mandato e con l’obiettivo di rispettare la riforma prevista dalla legge 81 del 2014". Per le regioni più "indisciplinate" sono quindi in arrivo commissariamento e sanzioni. Intanto, però, funzionano a dovere i Rems, che (sempre in teoria) dovrebbero sostituire queste strutture? E gli operatori che lavorano in queste strutture sono preparati a prendere in carico e affrontare le esigenze di questi pazienti, soprattutto le loro manifestazioni di violenza, quasi sempre all’origine del loro ricovero? Sono alcune delle domande a cui, da oggi fino a venerdì, cercherà di rispondere il seminario di formazione su "Il rischio violenza nei disturbi mentali gravi: prevenzione, valutazione e gestione", in corso a Brescia, presso il Centro San Giovanni di Dio Irccs Fatebenefratelli. L’iniziativa, destinata a 35 psicologi e psichiatri, ha lo scopo principale di fornire le conoscenze per valutare e trattare persone con una storia di comportamenti violenti o a rischio di violenza, attualmente affidati ai Dipartimenti di salute mentale. In Lombardia, il centro Sacro Cuore - Fatebenefratelli di San Colombano al Lambro e il Centro S. Ambrogio - Fatebenefratelli di Cernusco Sul Naviglio sono entrambe strutture che accolgono persone dimesse da Opg. "Tale impegno fa pienamente parte della nostra missione - commenta fra Marco Fabello, direttore generale dell’Irccs Fatebenefratelli di Brescia. Nella società dell’efficienza e della competizione, non c’è infatti nessuno di più ‘lontanò di un malato di mente che ha compiuto un crimine e che ha violato le regole della società. Ed è per questo che l’assistenza a questi pazienti qualifica e dà senso al nostro operato". Un’assistenza "certamente complessa - precisa Fabello - in quanto si tratta di persone prive di rete sociale con la necessità di ricostruire un tessuto socio relazionale partendo spesso da zero. Tuttavia, se trattate adeguatamente e reinserite in quella rete, queste persone cessano di compiere reati, che sono talvolta secondari al loro stato di abbandono oltre che alla loro psicopatologia". Durante il corso, verranno presentati i risultati del progetto "Violence risk and mental disorders" (Viormed), finanziato i con i fondi del 5 per mille versato dai cittadini all’Irccs Fatebenefratelli. Si tratta, spiegano i promotori, del "primo studio sistematico di coorte su pazienti con storia di violenza condotto in Italia". I dati completi della ricerca saranno presentati nel mese di aprile, mentre alcuni temi e risultati saranno giù discussi durante il seminario. Stati generali carceri: per le donne detenute un ufficio specifico del Dap e più permessi di Teresa Valiani Redattore Sociale, 11 febbraio 2016 Permessi per gli eventi quotidiani legati ai figli e alloggi sicuri per non perdere i domiciliari: le proposte degli esperti della giustizia, che vanno oltre la questione della maternità in carcere. "Hanno spesso un passato di violenze e abusi". Permessi concessi non solo per gravi situazioni familiari ma anche per eventi quotidiani, allo scopo di rinsaldare i legami affettivi e consentire una maggiore responsabilizzazione e partecipazione alla vita dei figli. Apertura presso il Dap (il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) di un ufficio specifico per le donne detenute. Obbligo per l’istituzione pubblica di reperire un alloggio se la sua assenza preclude la detenzione domiciliare. Quando si parla di donne e carcere si pensa subito alla detenuta-madre ma "la questione della detenzione femminile non può esaurirsi nell’analisi della maternità in carcere". Gli esperti del tavolo 3 degli Stati generali sull’esecuzione penale, coordinati da Tamar Pitch, docente dell’Università degli studi di Perugia, centrano la questione femminile spostando la prospettiva su un piano molto più ampio rispetto alla maternità, che abbraccia la vita in carcere, il problema della formazione professionale, della territorialità della pena, della salute fisica e psichica, dell’affettività e della sessualità, dell’istruzione e delle attività ricreative e sportive. "Non sono i bisogni della "personalità" a dover essere soddisfatti, ma quelli della persona - si legge nel rapporto conclusivo dei lavori del Tavolo - che significa in primo luogo avere come perno i diritti individuali e passare decisamente dal paradigma medico-terapeutico ad un paradigma risocializzante e responsabilizzante". Le proposte. "Riteniamo prioritaria e indispensabile l’istituzione presso il Dap di un Ufficio detenute di pari dignità amministrativa di quello dei detenuti". Così come è "importante sottolineare l’esigenza di una consistente decarcerizzazione. Se, come rilevato, molte delle donne recluse hanno un passato di violenze e abusi alle spalle, la detenzione non fa che aggiungersi come ulteriore violenza a quelle già passate, e aggravare situazioni familiari già precarie". Territorialità e parità di risorse. I reparti femminili di carceri maschili sono ancor più carenti di risorse delle carceri femminili. Dal momento che il principio della territorialità della pena deve essere salvaguardato, dove già non si faccia, dovrebbe vigere il principio della condivisione delle risorse offerte ai maschi. Le donne dovrebbero poter partecipare ad alcune attività (corsi di istruzione e formazione, attività ricreative) assieme agli uomini. I corsi di formazione e le attività lavorative non dovrebbero in alcun modo limitarsi a materie considerate tipiche del femminile (cucito, cucina). Detenute straniere. Un’attenzione specifica dovrebbe essere data alle donne straniere: ci dovrebbero essere mediatrici culturali e il regolamento interno dovrebbe essere redatto e fatto conoscere nelle lingue di appartenenza. Gli ambienti. "È del tutto evidente - sostengono gli esperti - che stiamo proponendo un regime il più aperto possibile in cui il tempo passato nelle camere sia limitato alle ore notturne. Significa disporre di ambienti adeguati e confortevoli (luoghi esterni alle camere per cucinare e mangiare, ecc.). La cura personale. "La cura dell’igiene personale e degli ambienti è, se non altro per ragioni storiche e culturali, più importante per le donne che per gli uomini: la previsione di bidet in ogni bagno attiguo alle camere, se attuata, sarebbe un passo importante. Le docce dovrebbero essere sempre accessibili e dovrebbe essere previsto che le detenute possano dotarsi di tutti gli strumenti e accessori necessari per l’igiene propria e degli ambienti". Salute. "È necessario disporre periodici screening relativi alla prevenzione di malattie femminili (cancro alla mammella, all’utero, ecc.). Questo servizio è già attivo in molte carceri e costituisce per molte donne la prima occasione di sperimentazione della medicina preventiva. Gli screening dovrebbero essere periodici e non saltuari o occasionali. Il consultorio di zona, con cui il carcere dovrebbe stringere una convenzione, potrebbe provvedere a corsi di educazione sessuale e sanitaria specifica. Molte detenute hanno un passato di violenze e maltrattamenti familiari e sessuali: un’attenzione a questi problemi è necessaria e dovrebbe essere affidata a personale specializzato". L’affettività e la sessualità. "I rapporti con i familiari, i e le partner, e in generale il contesto di affetti va tutelato il più possibile. Per quanto riguarda le donne in particolare, è noto che sono, in generale, molto più degli uomini, le custodi delle reti affettive e familiari che rischiano di disfarsi in loro assenza. È dunque indispensabile che si faccia tutto il possibile per incrementarne i rapporti". Bisognerebbe "dare la possibilità a chi non sia soggetta a censura sulla corrispondenza di comunicare telefonicamente senza limiti di tempo, magari solo in determinate fasce orarie, corrispondenti all’apertura delle celle (c’è su questo un disegno di legge delega pendente), libero accesso alla posta elettronica per chi non ha censura sulla corrispondenza, libero accesso a internet e all’uso di Skype o Facetime, a chi non ha censura sulla posta e non è soggetta a misure cautelari. Genitorialità. Le regole che tutelano la genitorialità consentono "al genitore di effettuare visite, anche in ospedale, al figlio minore che versi in pericolo di vita o in gravi condizioni di salute". Gli esperti propongono "di disciplinare le situazioni caratterizzate da urgenza e temporaneità" e, sempre per tutelare i rapporti familiari e genitoriali, di ampliare la possibilità di concedere permessi non solo per eventi familiari di particolare gravità, ma anche per momenti fondamentali della vita dei figli (battesimo, laurea, matrimonio, ecc.) o per far visita a familiari affetti da gravi patologie o infermi. La maternità e il carcere. I bambini in carcere non ci dovrebbero stare. Ci sono norme che avrebbero dovuto porre un definitivo rimedio a questo problema, tuttavia in Italia sono detenute ancora 33 madri con 35 figli minori ristretti in carcere. "Ciò è dovuto non solo alla mancanza di Icam e di case famiglia protette, ma anche alla riluttanza del magistrato competente di disporre per la detenzione domiciliare (ciò che riguarda anche le madri con figli fino a 10 anni) in assenza di un domicilio "sicuro". Per questo il Tavolo ritiene "che sia obbligo delle istituzioni responsabili reperire tale domicilio: per esempio, comunità che già ospitano madri in difficoltà con i figli. Non è del resto detto che i cosiddetti "campi nomadi" (la maternità in carcere riguarda ad oggi soprattutto donne Rom e Sinti) siano sempre da escludere quale domicilio". "Alle gestanti e alle madri detenute deve essere assicurata la presenza di ginecologi e ostetrici. La Asl competente deve assicurare un corso di preparazione al parto per le gestanti. Al momento del parto in ospedale, dove la donna è accompagnata dalla polizia penitenziaria, dovrebbero poter assistere, con il consenso della madre detenuta, volontarie formate o specializzate, fornite in convenzione dalle Asl". Le attività. "Dovrebbero riguardare sia lo studio e la formazione che la ricreazione e lo sport. Il carcere potrebbe in questo modo supplire a mancanze che molte donne hanno sperimentato nella vita da libere. Le commissioni di detenute potrebbero raccogliere istanze, bisogni, proposte relative al reparto o "comunità" di appartenenza e potrebbero organizzare iniziative di vario genere in collaborazione con organizzazioni e associazioni esterne". In carcere le donne sono meno del 5 per cento, 42 le mamme con 46 bimbi Hanno in prevalenza tra i 30 e i 50 anni, sono per due terzi italiane, la maggior parte coniugate o conviventi, livello di istruzione basso o inesistente. Ecco la situazione detentiva femminile fotografata dagli Stati generali. Le detenute ristrette nelle carceri e nelle sezioni femminili, secondo i dati presi in esame dal Tavolo e forniti dal ministero al 31 dicembre 2014, sono 2.122 (oggi salite di 4 unità), meno del 5 per cento della popolazione detenuta, 1387 delle quali definitive. Le straniere sono 789, la grande maggioranza delle quali provenienti dall’Europa dell’est, in particolare dall’ex Jugoslavia e dalla Romania (212). Mentre un numero consistente sono latino-americane. I reati. Quasi il 50 per cento sono reati contro il patrimonio, seguono quelli sugli stupefacenti e i reati contro la persona. Le straniere sono detenute per reati contro il patrimonio (342), droga (254), contro la persona (249), prostituzione (81 sulle 91 ristrette). In particolare: il furto è il reato contro il patrimonio di gran lunga più frequente (438 su 1037); seguono la rapina (331) e l’estorsione (104). 41 bis. 53 donne sono detenute in massima sicurezza. 504 sono in carcere per violazione della legge sugli stupefacenti. Tra i reati contro la persona, prevalgono le lesioni volontarie (168), l’omicidio volontario (157) e la violenza privata (138). Durata delle pene. Su 1387 definitive, 449 hanno pene che vanno da zero a 3 anni (ben 97 scontano pene da 0 a 1 anno), 364 da 3 a 5 anni; 390 scontano pene da 5 a 10 anni; 227 da 10 a 20; 42 oltre i 20; 21 sono ergastolane. 377 hanno pene residue sotto l’anno. Da una ricognizione fatta sul campione composto dalle detenute di Rebibbia, questa situazione appare in gran parte dovuta alla recidiva, ma anche alla difficoltà di reperire un domicilio ritenuto "sicuro". Le detenute madri. Sono 33 con 35 minori di 3 anni (salite oggi a quota 42 con 46 minori al seguito). Autolesionismo. Gli atti registrati sono 362, i tentati suicidi 57, i decessi 1. Non si registrano evasioni o mancati rientri dai permessi. Lavoro. 691 detenute lavorano per l’amministrazione penitenziaria, 191 per altro. Caratteristiche sociali. Le classi di età più numerose sono quelle dai 30 ai 39 anni (595) e 40- 50 anni (654), dunque adulte. Ma ci sono anche 118 donne recluse dai 18 ai 24 anni, ben 361 dai 50 ai 60, e 141 dai 60 anni in su, 18 delle quali hanno oltre 70 anni. Coniugate (617) e conviventi (278) formano il gruppo più consistente (circa il 42 per cento), seguito dalle nubili (620, 29,22 per cento). Le altre sono vedove, divorziate e separate, ma per ben 233 (11 per cento) il dato non è stato rilevato Istruzione. A fronte di un 30 per cento (632) di "non rilevato", 215 (circa il 10 per cento) sono analfabete o prive di qualsiasi titolo di studio. Hanno la licenza elementare 349 (16, 45 per cento), la media inferiore 670 (31,57 per cento), il diploma di scuola professionale 22, il diploma di scuola media superiore 190 (9 per cento) e la laurea 44 (2,07 per cento).Dunque, si tratta di persone che hanno perlopiù un livello di istruzione basso o inesistente, una maggioranza delle quali sposata o convivente e giovane adulta o adulta. Le carceri. Gli istituti penitenziari esclusivamente femminili sono 5 (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli, Venezia Giudecca), mentre 52 sono i reparti femminili all’interno di penitenziari maschili: che comporta una notevole dispersione sul territorio e aggrava la situazione di scarsità di risorse trattamentali da sempre denunciata per la detenzione femminile. La legge 62 del 21 aprile 2011 ha previsto la realizzazione di istituti a custodia attenuata (Icam) e di case famiglia protette per le madri detenute con bambini. Risultano operativi 3 Icam: Milano, Venezia Giudecca, Cagliari (ai quali si è aggiunto nel frattempo quello di Torino). Una casa famiglia protetta è in corso di istituzione a Roma. Dipendenti e fornitori scatenati, ministero della Giustizia paralizzato dalle cause giudiziarie di Franco Bechis Libero, 11 febbraio 2016 È un paradosso, ma il ministero della Giustizia è paralizzato dalla giustizia. Il povero titolare, Andrea Orlando, ha un diavolo per capello e i suoi travet passano gran parte del loro tempo ad affrontare cause di ogni genere che arrivano in via Arenula e che nel 2015 hanno raggiunto il record storico. Procedimenti di risarcimento danni per malagiustizia, decreti ingiuntivi dei fornitori perché non vengono pagate le spese, cause di lavoro e procedimenti disciplinari nei confronti di dipendenti del ministero (fra cui ci sono tutti i magistrati italiani), ricorsi contro cartelle di Equitalia per il pagamento di spese di giustizia che vedono quasi sempre soccombente il ministero, contenziosi con l’Unione Europea, ricorsi sugli esiti degli esami di Stato per l’avvocatura e le libere professioni. C’è solo l’imbarazzo della scelta, e Orlando più che ministro della Giustizia si è sentito l’anno passato una sorta di ministro della Difesa, perennemente sulle barricate. Per altro non particolarmente efficaci, visto che il ministero da quelle cause prende botte da orbi. L’anno nero per la giustizia al ministero della Giustizia è stato svelato proprio da Orlando nella sua relazione annuale appena inviata in Parlamento. Che inizia esultando per quel che avviene lontano da via Arenula: nel 2015 si è ridotta la voglia di litigare degli italiani, e la cause civili per la prima volta dopo molti anni si sono ridotte: "4,5 milioni, 4,2 milioni al netto del contenzioso di volontaria giurisdizione, ossia ben 370 mila cause in meno rispetto al 2014, così tornando ad un volume di pendenze che non si registrava dal lontano 2002". Ma le buone notizie finiscono li, e da quel confine ci si sposta in quel tempio delle cause perse che è diventato il ministero di via Arenula. Primo fianco debole - Primo fianco debole, quello della legge Pinto e dei risarcimenti dovuti dopo essere stati condannati per l’eccessiva lunghezza dei processi o per l’ingiusta detenzione. Qui il ministero è indietro non di poco con i pagamenti, e fioccano i decreti ingiuntivi. "Alla data del 30 giugno 2015", confessa Orlando, "l’arretrato ammontava a complessivi euro 451.633.735,96. Peraltro, i ritardi nel pagamento degli indennizzi hanno portato negli anni alla creazione di ulteriori filoni di contenzioso, in costante aumento (procedure esecutive, giudizi di ottemperanza, ricorsi alla Corte Edu), con l’aggravio di spese ulteriori, anche molto consistenti". Fornitori - Secondo capitolo, quello storicamente claudicante dei pagamento die fornitori di apparecchi per le intercettazioni. Anche qui il ministero è indietro, perché ogni anno calcola male la spesa degli uffici giudiziari e non stanzia i fondi necessari: "Sono pervenuti 87 nuovi ricorsi per decreti ingiuntivi, in parte causati dal mancato pagamento delle spese connesse all’attività di noleggio di apparecchiature per intercettazioni telefoniche". Pioggia pure di ricorsi a cartelle esattoriali per spese di giustizia. Vengono da cittadini comuni, che spesso vincono la loro battaglia contro il caro-giustizia: "Il tema delle spese processuali è fonte di notevole contenzioso sia sotto il profilo di ricorsi al Tar sia in tema di opposizione a cartella esattoriale. Si registrano 347 nuove opposizioni a cartella intervenute nel corso del 2015, a fronte di 275 del 2014, sia innanzi al giudice ordinario sia innanzi alla commissione tributaria. Si tratta di un dato in aumento di circa il 23% rispetto all’anno precedente". A questo contenzioso se ne aggiunge un alno, per l’opposizione alla liquidazione dei compensi previsti per le spese di giustizia, e anche qui siamo in grande aumento di cause, "già evidenziato nella relazione 2012 (322 ricorsi a fronte di 82 nel 2011), ha trovato conferma anche nel 2013 con ben 1,185 nuovi ricorsi, e nel 2014 con 1.033 ricorsi. Nel 2015, con 1.321 ricorsi, si è registrato un ulteriore incremento del 30% rispetto all’anno precedente". Il personale - Ulteriore capitolo quello del risarcimento danni causati da personale non di magistratura intervenuto nel processo: "Nel 2015 si sono registrate in totale 56 nuove cause (a fronte di 36 nel 2014) che vedono il Ministero della giustizia legittimato passivo innanzi al giudice ordinario in ordine ad asseriti danni per il comportamento del cancelliere, dell’ufficiale giudiziario, del consulente tecnico o del perito, sempre in relazione al principio di responsabilità diretta dei funzionari e dei dipendenti dello Stato ex art. 28 della Costituzione; 210 cause (a fronte di 130 nel 2014) classificate come "altro contenzioso" di vario genere. Risulta evidente anche qui un notevole incremento rispetto ai dati del 2014". Unica beffa arriva per il cittadino dal solito capitolo dolente, quello della responsabilità civile dei magistrati. Matteo Renzi ha fatto la sua riforma, e il primo risultato è che non è servita a nulla, qualche fuoco di artificio, ma nessun risultato concreto. Sono state 75 le cause avviate nel 2015, contro le 35 dell’anno precedente. Quindi sono raddoppiate. Risultato? Quello storico è risibile: "La percentuale delle condanne, sinora, è stata insignificante (pari allo 0,01%)". Dopo la riforma anche peggio: "Nel corso del 2015 non si è registrato alcun caso di condanna". Sezione disciplinare del Csm, bisogna riflettere bene su come giudicare i giudici di Renato Balduzzi Avvenire, 11 febbraio 2016 Intervenendo a Genova, a fine gennaio, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, accennai ad alcuni data sulla Sezione disciplinare del Csm, l’organismo interno (composto, secondo il modello costituzionale del Consiglio, da due terzi di componenti togati e un terzo di "laici", e presieduto da un non togato) cui spetta di adottare i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati ordinari: in questa consiliatura assistiamo, dissi, a un aumento quantitativo delle pronunce disciplinari e, nel merito, alla conferma che si tratta di una vera e propria giurisdizione, in quanto tale ne severa ne lassista, ma seria e attenta alla concretezza e alle peculiarità delle singole situazioni. Tale affermazione potrebbe stupire quanti, tra i lettori, vedano in quella disciplinare una giustizia m qualche misura "domestica" o "buonista", priva di quella "terzietà" propria dei giudici e portata a tutto assolvere e a tutto comprendere: poiché i componenti della Sezione disciplinare sono, come vuole la Costituzione, membri del Csm, essi sarebbero condizionati nell’imparzialità e nella serenità delle loro pronunce ogniqualvolta si occupino del medesimo magistrato che hanno promosso o valutato positivamente. Su questo assunto, sembra anzi che si voglia intervenire legislativamente componendo la futura sezione disciplinare con membri che non svolgano altre funzioni del Consiglio. Una tale proposta andrebbe attentamente ponderata, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale secondo cui il Consiglio è e resta unico titolare della funzione disciplinare, che come tale non sembrerebbe poter essere affidata a taluni consiglieri incaricati del suo svolgimento invia esclusiva (sent. n. 12 del 1971 e, da ultimo, sent. n. 262 del 2003). In altre parole, la partecipazione di un membro della sezione disciplinare alle altre funzioni consiliari non determina un’incompatibilità assoluta (in quanto ciò significherebbe negare la stessa attribuzione costituzionale della funzione disciplinare al Consiglio), ma eventualmente soltanto relativa, risolvibile in via organizzativa con le regole su astensioni e supplenze o con nuove ipotesi di incompatibilità (ad esempio, tra membro della Sezione e membro della prima commissione, competente sui trasferimenti "para disciplinari"). Studiare forme e modi per un più sereno ed efficace funzionamento della Sezione disciplinare (anche attraverso forme di pre-costituzione più stringenti) è certamente opera saggia: come giudicare i giudici è però oggetto delicato, su cui riflettere con molta attenzione. La post-camorra a Napoli: l’esercito non basta di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 11 febbraio 2016 Napoli è prigioniera di una contraddizione in apparenza misteriosa. Sconfitti e incarcerati i padrini storici e i capibastone della camorra, la capitale dei mali del Sud vive tuttavia una terrificante nuova stagione di delitti, faide, sparatorie proprio in mezzo ai cittadini che, semplicemente, chinano il capo tirando avanti, rassegnati e - come ha sottolineato amaro il questore Guido Marino - silenti. In una quotidianità dolente e sfaldata e, tuttavia, dall’apparenza immodificabile. È una sorta di dimensione post-camorrista quella che si coglie anche da recenti allarmi di magistrati del livello di Franco Roberti (su Repubblica) o Raffaele Cantone (sul Mattino): quasi tutti i clan sono messi in ginocchio da inchieste e pentiti, senza quattrini a causa dei sequestri di beni, con un soldato su due al carcere duro; e però di nuovi clan se ne contano più di cento, così tanti che viene da pensare a piccole paranze del muretto sotto casa. E di nuovi mammasantissima se ne annoverano decine, tutti ragazzini, talvolta bambini, taluni eredi di "nobiltà" criminale, altri carneadi in cerca d’affermazione, sospinti spesso dalle madri, vedove bianche della "cultura" camorrista o vestali della sottocultura del vicolo e della sopravvivenza. Più che la nuova camorra è la post-camorra, questa: mucillagine di malavita in una delle maggiori piazze europee nello spaccio di cocaina; feroci coriandoli di criminalità: ciò che sembra cogliere solo in parte Angelino Alfano, quando dice a Maria Latella su SkyTg24 che "serve l’esercito" per "far star zitte le pistole", provocando così il disappunto del sindaco de Magistris ("militarizzare non serve"). A noi, non ce ne voglia il primo cittadino napoletano, pare indiscutibile che lo Stato debba riprendere il controllo territoriale e che - nell’attesa del famoso esercito di maestri evocato da Gesualdo Bufalino per battere le cosche - sarà bene avere qualche legione di carabinieri (o, in mancanza, qualche reggimento di granatieri) in più per difendere la crescita di quei maestri e dei loro allievi. Tuttavia - e qui s’intravede il limite del ragionamento di Alfano - sembra emergere ormai anche un altro dato: la camorra è diventata "post" in termini di dimensione sociale diffusa, s’è radicata come metodo e abito mentale in tanti giovani napoletani non necessariamente, o almeno, non originariamente camorristi. Così, delle due, l’una. O i napoletani sono ontologicamente più portati a delinquere, oppure, come pare assai più ragionevole, soffrono del "bisogno" della camorra o, quantomeno, di una soluzione camorristica dei loro problemi nel senso in cui Gaetano Mosca spiegava la mafia ai primi del Novecento, "reputare segno di debolezza o di vigliaccheria ricorrere alla giustizia ufficiale" (noi oggi aggiungeremmo: e reputarlo inutile). Non è indispensabile ripercorrere la storia del Regno delle Due Sicilie e quella dell’Italia postunitaria per sapere che a Napoli di "giustizia ufficiale", come di lavoro "ufficiale" o di sanità "ufficiale" c’è sempre stata estrema scarsità. Da cui la facile rendita della camorra, che s’è sempre atteggiata a vero corpo intermedio, a soggetto terzo dispensatore d’opportunità e soluzioni: "Nui nun simmo giacubine/ nui nun simmo realiste/ ce chiammammo camurriste/ iammo ‘nc... a chillo e a chisto", ringhia un guaglione di mano a Eleonora Pimentel nella città che sta per essere espugnata dai sanfedisti e restituita al re Borbone. Tutti gli indicatori raccontano da sempre questo "mondo a parte". E questo pareva il ragionamento di Rosy Bindi, sbranata dai sacerdoti del politicamente corretto quando descrisse la camorra come "parte costitutiva" della società napoletana. Soldati? Ben vengano. Investimenti? Magari. Ma, ripreso il controllo delle strade, resteranno da ripulire i palazzi delle feste camorriste dove (dicono oggi i pentiti) l’"ospitata" d’un vip o d’una bellona da rotocalco valeva 25 mila euro. E rimarranno da bonificare i Palazzi del potere. Il consenso è inquinato, la società civile guasta (sicché quando Saviano chiede con slancio che Napoli "torni ai napoletani" non si capisce a quali napoletani si riferisca, visto che dai lazzari di Masaniello a quelli di Lauro, Napoli è sempre stata in mano ai napoletani peggiori). La cartina di tornasole delle nostre qualità istituzionali starebbe forse in un patto democratico. Una vera destra repubblicana e una vera sinistra riformista - se esistessero - dovrebbero porsi il problema di una legge speciale per Napoli (anche come simbolo del Sud in agonia) con provvedimenti che - derogando a federalismi contorti e localismi pelosi - toccassero con coraggio i centri decisionali della città mettendo sotto controllo più accorto i meccanismi di selezione delle classi dirigenti, la loro paralisi che produce mala economia. Sul porto qualcosa si sta muovendo e il caso è esemplare: la città ha perso centinaia di milioni per i veti incrociati di lobby che hanno impedito per anni l’elezione di un presidente e vanificato qualsiasi piano di sviluppo. Sarebbe una miniera d’oro, il porto, ma metà dei suoi edifici muore di degrado e oblio. Forse alla fine i misteri napoletani hanno tutti la stessa soluzione. Diffamatorio accusare i giudici di eversione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2016 Tribunale di Brescia - Ordinanza 10 febbraio 2016. Accusare i giudici di un uso politico della giustizia attribuendo loro comportamenti perseguibili sul piano penale, esula dal diritto di critica. E costa al giornalista una condanna per diffamazione. Il Giudice unico del tribunale di Brescia ha così condannato l’ex direttore del Corriere della Sera Piero Ostellino a pagare 140mila euro complessivi a due delle componenti del collegio giudicante sul "caso Ruby". In punta di diritto, l’ordinanza depositata ieri parte dalla considerazione per cui nella critica l’aspetto valutativo, fondato sull’interpretazione di fatti e comportamenti, non può essere ricondotto a canoni di verità oggettivi, che invece interessano il diritto di cronaca: "in materia di esercizio del diritto di critica la verità si traduce, pertanto, nel dovere di motivare scrupolosamente i giudizi emessi riportando in modo specifico gli elementi di fatto che, per il giornalista, li confermano". Nel giugno 2013, Ostellino, in due articoli pubblicati sul Corriere della Sera e in un altro apparso sul Foglio Quotidiano, aveva attaccato l’intero collegio, accusandolo di parzialità per avere espresso "un’ostilità antropologica di fondo, quasi ai confini del razzismo da parte di un establishment reazionario", di avere commesso veri e propri delitti come quello di eversione dell’ordine democratico: "con la sentenza - scriveva Ostellino - la rivoluzionaria eliminazione dell’avversario politico, è diventata ora un "fatto giuridico", cioè perfettamente legittimo e perfino legale". In aggiunta, nella ricostruzione del Giudice unico di Brescia, deve essere sottolineato il riferimento fatto negli articoli alla vita privata delle magistrate "dai costumi non sempre irreprensibili" e alla decisione di fare perseguire per falsa testimonianza alcuni dei testi pro Berlusconi. Tutti elementi di accusa, per l’ordinanza, assai gravi e che non avevano certo finalità di pubblico interesse. Dire che un giudice non è stato imparziale per una forma di pregiudizio personale e ha usato la propria funzione per raggiungere obiettivi rivoluzionari e quindi eversivi, corrisponde nei fatti a sostenere che quello stesso giudice era in evidente mala fede e aveva agito con la piena consapevolezza e volontà di danneggiare l’imputato. Si esce quindi dall’esercizio della critica su un provvedimento giudiziario per entrare invece nella contestazione alle magistrate di un fatto grave, che andava provato. Cosa non avvenuta sino a configurare quella che appare al Giudice bresciano una vera e propria aggressione. Condanna in contumacia impugnabile oltre i termini se non è provata la conoscenza di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2016 Corte di Cassazione - Sezione II penale - Sentenza 10 febbraio 2016 n. 5492. Più facile la rimessione in termini per l’impugnazione delle condanne in contumacia. A seguito della legge 60/2005, infatti, "la regolarità formale della notifica, se non effettuata a mani del condannato, non può, di per sé sola, essere considerata prova dell’effettiva conoscenza dell’atto da parte del destinatario". Ricade, dunque, sul giudice l’onere di rinvenirne la prova negli atti e, comunque, di fare "le verifiche necessarie ad accertare se il condannato abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento ed abbia volontariamente rinunciato a comparire". Sulla base di questa motivazione la Corte di cassazione, sentenza n. 5492 e ordinanza n. 5518, ha accolto la richiesta di rimessioni in termini di due cittadini stranieri - uno di origine cinese, l’altro algerino - entrambi condannati in contumacia, in quanto nel corso del procedimento si erano rispettivamente trasferiti in Francia e in Germania. Nel primo caso via era stata la rinuncia del mandato da parte del difensore di fiducia, motivata con l’impossibilità di comunicare con il cliente ormai residente all’estero. Per la Cassazione questo è un evento "idoneo" a far ritenere che l’imputato non abbia avuto effettiva conoscenza dell’esito del processo. Il giudice di secondo grado, invece, partendo dall’appello del domiciliatario, "aveva dato per presupposto l’adempimento dei doveri di informazione alla parte che incombono sul difensore". Nel secondo caso non essendoci nessun presso il domicilio, il plico venne depositato presso l’ufficio postale ma mai ritirato, per cui al decimo giorno fu restituito al mittente per compiuta giacenza. Mentre da altra documentazione risultava che in quel periodo l’imputato era fuori Italia, essendo stato anche cancellato dall’Ufficio anagrafe del comune di Bologna per irreperibilità nel censimento. In generale, dunque, chiarisce la Corte, non è sufficiente accertare la regolarità formale della notifica per dedurne che l’interessato abbia avuto effettiva conoscenza del provvedimento. In particolar modo quando sia avvenuta presso il domiciliatario, per cui è certo che l’imputato non l’abbia ricevuta personalmente. In questi casi, infatti, il giudice "deve esaminare la prospettazione relativa alla mancanza di effettiva conoscenza dell’atto, considerato che l’articolo 175, comma 2, c.p.p. ha sostituito alla prova della non conoscenza del procedimento - che in passato doveva essere fornita dall’interessato - una sorta di presunzione iuris tantum di non conoscenza, ponendo, in tal modo, a carico del giudice l’onere di reperire agli atti l’eventuale prova positiva e, più in generale, di accertare se l’interessato abbia avuto effettiva conoscenza del provvedimento e abbia volontariamente e consapevolmente rinunciato a proporre impugnazione". Inoltre, la Cassazione ha disposto la scarcerazione del detenuto di origine cinese, che dopo l’arresto in Francia era stato estradato in Italia, in quanto "l’accoglimento della richiesta di restituzione nel termine per l’impugnazione di una sentenza di condanna contumaciale, comporta la caducazione automatica degli atti di esecuzione di detta sentenza, eventualmente compiuti". Resistenza a pubblico ufficiale configurabile solo se c’è intimidazione di Andrea A. Moramarco Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2016 Tribunale di Firenze - Sezione 2 penale - Sentenza 3 agosto 2015 n. 2359. Chi viaggia in treno senza biglietto non commette il reato di resistenza al pubblico ufficiale se, nel momento in cui i controllori chiedono l’esibizione dei documenti o le generalità, rivolge loro frasi del tipo "con tutti i delinquenti che ci sono, perdete tempo con me" o "chiamo un mio parente onorevole così vediamo cosa vi succede". Si tratta, infatti, di frasi che non possono qualificarsi come realmente intimidatorie, cioè nella specie non idonee a spingere gli agenti a non fare la multa. Pedinamento elettronico, il Gps è utilizzabile di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 5550/2016. Utilizzabili le prove raccolte attraverso il cosiddetto pedinamento elettronico, senza adottare le misure tecniche per assicurare la conservazione dei dati originali e impedirne l’alterazione. La Corte di cassazione, con la sentenza 5550, respinge il ricorso dei componenti di una squadra volanti condannata per interruzione di servizio, truffa e falso per aver lasciato sguarnita la zona a loro assegnata con i motivi più vari: dal ritorno in questura alla "pennichella". Ad inchiodare i ricorrenti alle loro responsabilità erano state le intercettazioni disposte all’interno delle auto e il Gps. Tutti avevano fatto ricorso contro la condanna sostenendo l’illecita utilizzazione delle prove acquisite in modo non corretto. Secondo i ricorrenti, il pedinamento elettronico doveva essere soggetto alle norme dettate dal codice di rito per le ispezioni e le perquisizioni (articoli 244 e 247) che, nel caso di acquisizione di materiale informatico, impongono la conservazione dei dati. Un’altra norma da rispettare invocata era l’articolo 360 sugli accertamenti tecnici non ripetibili. Per la Cassazione però il pedinamento satellitare non ha nulla a che fare con gli isituti citati e rientra nell’ordinaria attività di polizia giudiziaria. I suoi risultati sono supportati dalle dichiarazioni di chi ha effettuato o coordinato i pedinamenti. Si pone dunque solo un problema di attendibilità e non di utilizzabilità, che nel caso specifico non c’era stato. Nella mediazione il rifiuto va verbalizzato di Marco Marinaro Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2016 Tribunale di Roma, ordinanza 25 gennaio 2016. Il mediatore non è né un collaboratore del giudice né un suo ausiliario. Tuttavia, in ragione dello stretto collegamento tra mediazione e processo, il mediatore "deve trascrivere ogni circostanza - quand’anche consistente in dichiarazioni delle parti - utile a consentire (al giudice) le valutazioni di competenza, altrimenti impossibili, attinenti alla partecipazione (o meno) delle parti al procedimento di mediazione ed allo svolgimento dello stesso, come pure le circostanze che attengono al primo incontro informativo". Sono le conclusioni cui perviene il Tribunale di Roma (estensore Moriconi) con una interessante ordinanza del 25 gennaio 2016 le cui motivazioni sono volte a mettere in chiaro taluni aspetti problematici della verbalizzazione del primo incontro di mediazione ed in particolare della sua fase introduttiva che prelude e si conclude con la mancata prosecuzione del procedimento. La controversia sottoposta alla decisione del giudice capitolino nasce da una richiesta di risarcimento del danno cagionato nel corso di un trattamento estetico in esito alla quale, dopo una breve istruttoria, era stata motivatamente disposta la mediazione. Al primo incontro di mediazione entrambe le parti partecipavano personalmente e con l’assistenza dei rispettivi avvocati. Tuttavia, il mediatore che aveva inviato le parti ad esprimersi "sull’interesse a proseguire nella procedura di mediazione" registrava a verbale l’esito negativo del primo incontro in quanto a differenza della parte attrice, la convenuta non aveva manifestato il suo assenso all’avvio della mediazione vera e propria. Il Tribunale dopo aver precisato come la "fatidica domanda" che il mediatore deve porre dopo l’informativa per verificare la proseguibilità della procedura debba essere volta a verificarne la "possibilità" e non l’interesse, risolve taluni dubbi interpretativi sulla verbalizzazione del primo incontro. In primo luogo, i limiti normativi posti a tutela della riservatezza non valgono - per espressa disposizione di legge - "contro la volontà della parte dichiarante". Inoltre, la garanzia della riservatezza attiene "al solo contenuto sostanziale dell’incontro di mediazione, vale a dire al merito della lite". Per cui tutte le volte in cui le dichiarazioni delle parti attengono a circostanze relative "alle modalità di partecipazione delle parti alla mediazione e allo svolgimento (in senso procedimentale) della stessa, va predicata la assoluta liceità della verbalizzazione e dell’utilizzo da parte di chicchessia". Tale verbalizzazione appare necessaria per consentire al giudice di conoscere il contenuto della condotta delle parti sia per la declaratoria di improcedibilità sia per le sanzioni e per l’eventuale condanna risarcitoria per responsabilità processuale aggravata. Per assicurare la verifica della effettività della mediazione oltre alla risposta alla domanda del mediatore sulla prosecuzione sarà "necessario e doveroso che venga verbalizzata la ragione del rifiuto a proseguire nella mediazione vera e propria"; ma ciò "sempre che la parte dichiarante la esponga e chieda la relativa verbalizzazione". Il mediatore dunque se da un lato non è tenuto a richiedere la ragione della mancata prosecuzione dall’altro non potrà esimersi dalla relativa verbalizzazione ove richiesta dall’avente diritto, posto che ciascuna parte può esonerare il mediatore dall’obbligo di riservatezza in relazione alle sue dichiarazioni. Sardegna: Veneziano provveditore carceri "maggiore criticità la mancanza di direttori" di Manuel Scordo Ansa, 11 febbraio 2016 Ha 52 anni e ha già lavorato in Sardegna, in particolare a Sassari dopo gli arresti del 2000 per il maxi pestaggio al San Sebastiano, ma è stato anche a Reggio Calabria, Caltanissetta, Agrigento e Trapani quando erano in corso i grandi processi di mafia, avendo ricoperto l’incarico dal 2010 di responsabile di tutti gli istituti penitenziari della Sicilia. Da una settimana Maurizio Veneziano è il nuovo provveditore dell’Amministrazione penitenziaria della Sardegna. "Per me è un ritorno nell’Isola dopo l’esperienza di Sassari - conferma in un colloquio con l’Ansa - il mio ultimo incarico è stato quello di responsabile di tutti gli istituti siciliani. Chiaramente si tratta di realtà diverse: in Sicilia ho gestito 27 istituti, qui ne abbiamo 10, anche se la geografia è molto mutata". Ecco i numeri elencati da Veneziano: "A Sassari abbiamo 87 41 bis, mentre in tutte le carceri sarde ci sono 500 detenuti di Alta Sicurezza. Attualmente i reclusi sono 2.035 a fronte di 2.300 posti. Ristrutturando e ottimizzando i vari istituti si potranno raggiungere i 2.600 posti. Non c’è sovraffollamento - precisa il neo provveditore - rispettiamo quanto previsto dalla Corte Europea per i diritti dell’uomo". La maggiore criticità riguarda la mancanza di direttori. "Ne abbiamo cinque per dieci istituti - sottolinea Veneziano - ciò vuol dire che ogni direttore deve gestire due strutture e in caso di ferie anche tre. Credo che questa sia una criticità da risolvere: è fondamentale per il personale avere un interlocutore". Sul fronte degli organici di Polizia penitenziaria, il provveditore chiede tempo per analizzare nel dettaglio la situazione prima di lanciare eventuali allarmi. E anche sulle aggressioni agli agenti intende verificare i dati sul numero e le cause. "Credo comunque - spiega - che la grande professionalità e competenza del personale riesca a prevenire anche episodi di questo genere". Il nuovo provveditore si è posto già alcuni obiettivi. "Bisogna omogeneizzare la conduzione e l’organizzazione degli istituti - chiarisce Veneziano - il mio sarà un ruolo di guida e di indirizzo affinché ci sia uniformità, considerando sempre la diversità dei detenuti per taluni regimi aperti di sorveglianza dinamica. Senza dubbio il tempo della pena non deve essere un tempo perso, ma va messo a valore con il lavoro ai fini di una possibile rieducazione". Bologna: detenuto di 28 anni si impicca in cella, era in carcere da meno di tre giorni di Andreina Baccaro Corriere della Sera, 11 febbraio 2016 Arrestato lunedì, aveva già scontato una condanna a 8 mesi. Disposta l’autopsia. L’ossessione per una donna l’aveva portato a tornare in carcere tre giorni fa. Il 28enne rumeno che ieri pomeriggio si è tolto la vita alla Dozza era accusato di stalking nei confronti di una 31enne rumena. Era già stato in carcere per averla minacciata e perseguitata e aveva finito di scontare la pena a dicembre. Ma lunedì pomeriggio la donna, una ex prostituta di cui l’uomo era follemente invaghito e con la quale aveva avuto una relazione, ha chiamato la polizia dicendo che aveva ripreso a perseguitarla e che la aspettava fuori dal bar La Pioppa in via Marco Emilio Lepido. Nelle ultime settimane, ha detto lei alla polizia, l’uomo le aveva già telefonato chiedendole un risarcimento per averlo fatto finire in prigione e sembra avesse creato dei profili Facebook falsi a nome di lei e del figlio di 11 anni. Dopo l’arresto il 28enne è stato portato al carcere della Dozza, dove ieri mattina il gip ha disposto la custodia in carcere. Ma, rientrato nel reparto dove i nuovi arrivati aspettano di essere destinati a una cella, si è impiccato nel bagno. Inutili sono stati i tentativi di rianimarlo. Il pm Morena Plazzi ha aperto un fascicolo con l’ipotesi tecnica di istigazione al suicidio, per poter disporre l’autopsia. Il 28enne, Vasile Maciuca, non ha lasciato biglietti e a nessuno aveva dato l’impressione di volersi togliere la vita. "Non avrei mai immaginato potesse fare una cosa simile - racconta l’avvocato Antonio Mancino, legale del 28enne. Era tranquillo, gli avevo spiegato che avremmo pensato a una strategia difensiva o al patteggiamento". L’uomo sapeva che le contestazioni a suo carico erano gravi e aveva capito perché il giudice ne aveva disposto la custodia in carcere ma aveva dato la sua versione dei fatti. "Non ero in quel bar per minacciarla - avrebbe detto durante l’interrogatorio. È stato un caso, ho anche aspettato la polizia per spiegare le mie ragioni". Del fascicolo era titolare il pm Augusto Borghini. "Credo che il gesto sia da collegare al sentimento ossessivo che lo legava a questa donna", commenta l’avvocato. Di sicuro il 28enne negli ultimi anni aveva preso di mira quella ex prostituta che, dopo aver venduto il suo corpo anche a lui, aveva deciso di cambiare vita. Ma lui non l’aveva accettato. Nel 2014 aveva avuto una diffida ad avvicinarsi a lei, a maggio 2015 era stato condannato e arrestato per stalking. "Nel carcere di Bologna - ha commentato il segretario generale del Sappe Giovanni Battista Durante - i detenuti sono diminuiti di molto negli ultimi cinque anni, ma nonostante ciò permangono molti problemi legati alla carenza di personale di polizia penitenziaria e di altre figure professionali". Firenze: Santi Consolo (Dap) "tre milioni per curare subito il carcere di Sollicciano" di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 11 febbraio 2016 Il capo del ministero visita il carcere: grazie ai fondi docce in ogni cella, nuovo tetto, più spazi esterni e materassi. Una doccia in ogni cella, nuovi tetti impermeabili anti infiltrazioni, triplicazione dei passeggi esterni, nuova cucina e nuovi materassi. In arrivo profonde ristrutturazioni nel carcere di Sollicciano, uno degli istituti penitenziari più degradati d’Italia. Ad annunciarle Santi Consolo, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria italiana, al termine del lungo incontro di ieri pomeriggio nel carcere fiorentino, un importante sopralluogo con la nuova direttrice arrivato all’indomani delle ispezioni ministeriali dello scorso ottobre e del drammatico guasto al riscaldamento che, pochi giorni fa, ha lasciato al gelo centinaia di detenuti per quasi una settimana. Condizioni critiche, quelle all’interno di Sollicciano, per cui il ministero della Giustizia si è impegnato con uno stanziamento di 3 milioni di euro soltanto per il 2016, una grossa fetta dei 13 milioni di euro complessivi destinati a tutte le carceri italiane nello stesso anno. Tra i cambiamenti più importanti, è prevista l’installazione di una doccia in ogni cella. Una vera e propria rivoluzione, che consentirà a tutti i reclusi di lavarsi all’interno della cella, dove attualmente ci sono soltanto un piccolissimo lavandino e un wc. Ristrutturazione in vista anche per i tetti. Secondo quanto concordato durante l’incontro di ieri, saranno ristrutturate le coperture per una superficie totale di 6 mila metri quadrati, rendendo i tetti impermeabili alle infiltrazioni. Sono proprio le infiltrazioni a costituire uno dei più grandi problemi dell’istituto penitenziario fiorentino, una struttura degradata dall’umidità e dalla muffa in vari tratti di soffitti e pareti. Un lavoro, quello sui tetti, nel quale sono impegnati, oltre a tecnici specializzati, anche alcuni detenuti-lavoratori del carcere. Fra i progetti che riguardano le coperture, c’è anche quella di dotare i tetti di pannelli solari attraverso l’utilizzo di fondi europei. Cantieri presto aperti, come annunciato dal capo del Dap, anche per il risanamento degli intonaci e per l’ampliamento dei passeggi esterni, dove i detenuti possono incontrare i propri familiari e trascorrere qualche ora della giornata all’aperto. L’idea è quella di triplicare questi spazi, valorizzando ulteriormente anche le attività sportive del carcere come il rugby. In standby da molto tempo c’è anche la costruzione della seconda cucina, opera per cui sono già stati stanziati i fondi, ma i lavori non sono mai partiti. "Partiranno a breve", hanno assicurato i vertici del Dap dopo l’incontro. Oltre agli interventi per le aree detentive, sono previsti lavori anche per le aree riservate agli agenti penitenziari, tra cui il rifacimento dei servizi igienici obsoleti e la sostituzione della rubinetteria, oltre che la ristrutturazione della palestra. Sarà riqualificata anche la videosorveglianza (per scongiurare evasioni, come già accaduto in passato) e il meccanismo elettronico dell’apertura delle porte automatiche. Durante la visita, Santi Consolo ha incontrato anche alcuni detenuti, oltre alla nuova direttrice del carcere, i garanti dei reclusi e il cappellano di Sollicciano, Don Vincenzo Russo, che si è detto soddisfatto dell’esito della riunione: "Ho parlato a Consolo a nome dei detenuti e ho ottenuto risposte soddisfacenti, chiare e decise. Siamo fiduciosi e speriamo in un reale cambio di passo nel carcere fiorentino". Consolo si è soffermato a lungo anche nella sezione femminile, dove ha raccolto le lamentele delle detenute, che nei mesi scorsi avevano scritto una lettera in cui denunciavano la presenza di sporcizia e topi nelle celle. "Abbiamo già provveduto alla derattizzazione - ha detto il capo del Dap. E presto arriveranno nella sezione femminile 50 nuovi materassi". "La presenza di Consolo è stata un segnale importante per riprendere il discorso sulla radicale ristrutturazione di cui ha bisogno Sollicciano", commenta Eros Cruccolini, garante dei detenuti della Toscana. Milano: il Provveditore Fabozzi "a San Vittore detenuti psichiatrici in condizioni terribili" di Dario Paladini Redattore Sociale, 11 febbraio 2016 Ieri l’audizione a Palazzo Marino del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Aldo Fabozzi: "Reparto orrendo". "Non abbiamo più situazioni di sovraffollamento anche se la situazione continua ad essere critica". Il reparto psichiatrico del carcere di San Vittore è "orrendo". Lo sostiene Aldo Fabozzi, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, che questa mattina è stato ascoltato a Palazzo Marino dalla sottocommissione Carceri del Consiglio Comunale. "Mi riferisco agli aspetti strutturali, non certo al personale che ci lavora con grande dedizione". Sulla stessa lunghezza d’onda anche Alessandra Naldi, garante comunale dei diritti dei detenuti, che ha visitato il Centro di osservazione neuropsichiatrica di San Vittore (Conp) lunedì 1 febbraio: "Nell’ultima cella c’è il letto di contenzione -racconta- e aveva le lenzuola sporche di sangue non cambiate da giorni. Le condizioni di vita dei detenuti con problemi psichiatrici sono terribili". Situato al piano terra, il Conp è composto da 10 celle: ci lavorano uno psichiatra e gli agenti della polizia penitenziaria. I detenuti vengono tenuti sotto stretta sorveglianza per impedire suicidi o atti di autolesionismo. "Non ci sono particolari iniziative o progetti per i detenuti - aggiunge il garante, anche perché in quelle celle dovrebbero rimanerci il meno possibile". Il Conp è destinato alla chiusura, come ha annunciato lo stesso Fabozzi: "I lavori per l’apertura di un centro clinico nuovo nel carcere di Pavia sono ultimati - ha raccontato durante l’audizione in Commissione. A presto potremo trasferire lì i detenuti che hanno disturbi psichiatrici". San Vittore rimane il carcere che desta più preoccupazioni. Oggi sono rinchiuse 911 persone, di cui 654 imputati, mentre potrebbe ospitarne circa 840 (due raggi sono chiusi per restauri non ancora iniziati). Attualmente in Lombardia ci sono complessivamente 7.841 reclusi. "Non abbiamo più situazioni di sovraffollamento - ha sottolineato Fabozzi, anche se San Vittore continua ad essere una situazione critica e siamo costretti a spostare i detenuti in altre carceri della Lombardia e anche fuori regione. Negli ultimi mesi, inoltre, abbiamo notato un ritorno all’aumento degli ingressi, soprattutto a Milano, dovuto ad un incremento dei provvedimenti di custodia cautelare". All’audizione a Palazzo Marino era presente anche la direttrice del carcere di San Vittore, Gloria Manzelli, che pur non negando la situazione del Conp, ha illustrato anche i progressi avvenuti in questi anni nel resto del carcere. "Oggi il 95% dei detenuti è in reparti in cui abbiamo avviato la vigilanza dinamica e durante il giorno le celle sono aperte", ha spiegato. Verona: il detenuti sorveglieranno il Municipio, approvato dalla Giunta il nuovo progetto veronasera.it, 11 febbraio 2016 Dalle 7 alle 19 di domeniche e festivi, alcuni carcerati a fine pena ed in via di reinserimento sociale, aiuteranno al Polizia Municipale a sorvegliare Palazzo Barbieri. È stato approvato ieri, 10 febbraio, dalla Giunta comunale il progetto di pubblica utilità volto ad attivare un nuovo servizio di guardiania di Palazzo Barbieri nei giorni festivi avvalendosi della collaborazione di detenuti del Carcere di Montorio a fine pena ed in via di reinserimento sociale. Il progetto, illustrato dal Sindaco Flavio Tosi, sarà realizzato nell’ambito dell’accordo sottoscritto da Comune di Verona, Direzione della Casa Circondariale di Verona, Tribunale di Sorveglianza - Ufficio di Verona, Progetto Esodo Caritas Verona e Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale, finalizzato a promuovere attività lavorativa non remunerata, a favore della collettività, da parte di persone in esecuzione penale. "Soggetti a fine pena ed in via di reinserimento sociale - ha spiegato il Sindaco Tosi - saranno impiegati, in forma gratuita, per supportare la Polizia municipale nel servizio di sorveglianza di Palazzo Barbieri. Attualmente, la guardiania al Municipio nei giorni festivi è fornita esclusivamente da personale della Polizia municipale che, con l’impiego di detenuti, potrebbe essere parzialmente sollevato dal servizio e destinato a compiti più consoni al profilo ed alle esigenze della città. Un’operazione che non comporterà alcun aggravio di costi per il Comune, fornendo un servizio di pubblica utilità per la città". Il servizio, che sarà avviato per un periodo sperimentale di 6 mesi, prevede l’impiego in Municipio di alcuni detenuti per l’attività di guardiania, dalle ore 7 alle 19, delle domeniche e dei giorni festivi. Al progetto saranno destinati dalla Direzione del Carcere solo detenuti di sicura affidabilità che, per un corretto svolgimento del nuovo impiego, saranno inizialmente formati e seguiti da personale comunale. In qualsiasi caso di necessità, per tutta la durata del progetto, sarà comunque garantito da parte della Polizia municipale l’immediato intervento. Cuneo: carcere di Alba, ministro della Giustizia Orlando rassicura su prossima riapertura di Pietro Ramunno ideawebtv.it, 11 febbraio 2016 "Il carcere di Alba verrà restituito in condizioni di assoluta sicurezza all’uso penitenziario il più presto possibile". Questa, in sintesi, la risposta del Ministro della Giustizia Andrea Orlando all’interrogazione a risposta immediata sulle "Iniziative volte a garantire la bonifica e la messa in sicurezza del carcere di Alba "Giuseppe Montalto", in particolare a seguito dell’accertamento di alcuni casi di legionella" presentata durante il "question time" alla Camera nella giornata di oggi, mercoledì 10 febbraio, dai deputati albesi di Scelta Civica Giovanni Monchiero e Mariano Rabino. "Il 7 gennaio è iniziato lo sgombero del carcere di Alba, evento assolutamente singolare, specialmente per una struttura costruita pochi decenni fa, pensata con criteri particolarmente innovativi - ha esordito l’on. Monchiero. L’abbandono si è reso necessario a seguito di più episodi di legionellosi, invasione che non si è riusciti a contrastare perché, a quanto pare, il carcere non è attrezzato per produrre uno shock termico nelle tubature dell’impianto idrico. Ad Alba la cosa ha suscitato incredulità e una certa apprensione perché lo sgombero di un carcere può anche far pensare che il carcere non venga ristabilito. Quali sono le reali intenzioni del Ministero?". Ampie rassicurazioni sono arrivate dal titolare del Dicastero, che ha fugato le preoccupazioni circa la possibile mancata riapertura: "In seguito alla diagnosi di casi di affezione respiratoria da legionellosi, l’amministrazione penitenziaria ha avviato sin dall’immediatezza un piano finalizzato alla tutela della salute delle persone detenute e degli operatori impegnati a diverso titolo nella struttura. Il competente dipartimento ha disposto innanzitutto l’immediato trasferimento dei detenuti in altre strutture disponibili e promosso la mobilità temporanea del personale. Ulteriori iniziative hanno riguardato l’analisi delle operazioni necessarie a realizzare in tempi rapidi la bonifica e la sostituzione degli impianti, come prescritto dall’autorità sanitaria. Per questo è stato demandato alle competenti articolazioni ministeriali lo studio e l’elaborazione di progetti di ristrutturazione e adeguamento e sono già state formulate soluzioni di intervento. In particolare, considerata la priorità delle opere di sanificazione, l’amministrazione penitenziaria ha inserito i relativi interventi nel programma triennale 2016-2018. Nella consapevolezza della necessità di garantire nel modo più opportuno l’utilizzazione delle risorse necessarie, l’amministrazione ha avviato valutazioni tecniche di fattibilità per la predisposizione del progetto preliminare e l’individuazione delle modalità più utili a garantire la maggiore celerità nelle successive fasi di progettazione esecutiva, appalto, esecuzione e collaudo dei lavori affinché il carcere di Alba possa essere restituito in condizioni di assoluta sicurezza all’uso penitenziario il più presto possibile". A chiudere la pratica, la replica dell’on. Monchiero: "Siamo soddisfatti della risposta, anche se avremmo preferito avere una data presumibile di conclusione lavori perché non si tratta di interventi di ristrutturazione particolarmente complessi, ma semplicemente di rifare un impianto idrico e termico. Un intervento che potrebbe richiedere alcuni mesi e non certamente anni. Comunque, gli albesi si aspettano che il carcere venga restituito alla sua naturale funzione e di questo suo impegno la ringraziamo". Salerno: 14 agenti e 1 medico lavorano nel carcere di Sala Consilina, ma senza detenuti di Erminio Cioffi La Città di Salerno, 11 febbraio 2016 Da ottobre quattordici agenti con amministrativi e dottore coprono i turni in un penitenziario soppresso. Il carcere di Sala Consilina, almeno per il momento, non riaprirà. Ma la struttura è chiusa solo sulla carta: nella realtà è aperta tanto che in servizio ci sono ben 14 guardie carcerarie. Unico particolare: mancano i detenuti. Martedì pomeriggio il nuovo capitolo della surreale vicenda: la sezione distaccata del Tar di Salerno ha respinto la domanda cautelare presentata dal comune e dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lagonegro per ottenere la sospensione dell’efficacia del decreto del Ministero della Giustizia che il 27 ottobre scorso ha disposto la chiusura della casa circondariale di via Gioberti. Pontedera (Pi): il Garante, gli studenti e la situazione nelle carceri di Consuelo Conte quinewsvaldera.it, 11 febbraio 2016 Le classi terze e quarte dei licei Scientifico XXV Aprile e Montale hanno incontrato il garante dei diritti dei detenuti Corleone. "I diritti fondamentali non possono essere oggetto di esclusioni, nemmeno di un piccolo numero di persone, altrimenti si trasformano in privilegi". É quello che il dottor Franco Corleone, garante toscano dei diritti dei detenuti ha detto, insieme al professor Mauro Stampacchia, ai ragazzi delle classi terze e quarte del liceo classico ed economico-sociale di Pontedera durante l’incontro di questa mattina nella sala Carpi in via Valtriani in cui ha partecipato anche l’assessore alla cultura Liviana Canovai. Il tema trattato è stato quello della sensibilizzazione nei confronti della situazione carceraria sia sul piano nazionale che locale. I ragazzi hanno avuto la possibilità di confrontarsi con le dinamiche sociali e amministrative legate al sistema giudiziario. Si è parlato della recente scelta di chiudere gli Ospedali penitenziari giudiziari (Opg), della questione del sovraffollamento delle carceri, legato soprattutto ai crimini minori, delle proposte preventive di stampo sociale e dell’importanza della salvaguardia dell’individuo che passa anche da progetti per il reinserimento nella comunità. Quello che, anche attraverso un’analisi storica, il professor Stampacchia e il garante Corleone hanno voluto evidenziare è l’importanza di un giusto processo e del concetto di pena come reinserimento sociale e non di vendetta. Ai professori delle classi è strato rilasciata la relazione annuale del 2014 riguardo la situazione carceraria e altro materiale informativo così da continuare il lavoro di riflessione anche a scuola. Livorno: match di rugby dentro le Sughere, una nuova meta oltre le sbarre di Dario Serpan Il Tirreno, 11 febbraio 2016 Match di rugby dentro le Sughere: spettacolo e abbracci tra gli Old dei Lions e la squadra dei detenuti. Anche la palla ovale varca i confini del carcere Le Sughere di Livorno e per una giornata - evento porta in campo una partita vera. Un’amichevole ha segnato il debutto assoluto della squadra di rugby formata dai detenuti, che con sano senso dell’umorismo hanno scelto di chiamarsi Le Pecore Nere. Di fronte a loro è scesa in campo la formazione Old dei Lions Amaranto, ribattezzata i Rino…cerotti. Per tre mete a una si è imposta la squadra dei detenuti. La partita, disputata nella prima domenica di febbraio sul campo del carcere livornese, ha assunto un significato che va ben al di là di ogni aspetto prettamente tecnico-agonistico. Come da programma, i giocatori Old dei Lions, accompagnati dal presidente della società Mauro Fraddanni e da membri dell’associazione Amatori Rugby Toscana, si sono presentati alle 9 sul terreno da calcio de Le Sughere e hanno dapprima effettuato un allenamento congiunto con le Pecore Nere. La seduta si è conclusa con una partitella di 20’ a ranghi contrapposti, diretta dall’arbitro federale Marco Antonazzo. Ad onor del vero, nella circostanza, i Rino…Cerotti, presentatisi incompleti all’appuntamento, si sono fatti prestare qualche elemento dagli "antagonisti". Sfida vera fra formazioni con quindici elementi ciascuna, con il direttore di gara che ha interrotto il gioco quando necessario, spiegando ai giocatori i motivi dei suoi fischi. Al di là delle quattro mete globali viste nell’arco del match, non sono mancati placcaggi e mischie. Quando il pallone è uscito lateralmente, non sono state battute le touche: una piccola deroga al regolamento. Al termine, sempre sul campo, si è svolto un piccolo banchetto, uno speciale terzo tempo di classico stampo rugbistico. L’iniziativa è stata possibile grazie alla sensibilità della direzione della Casa circondariale livornese e degli stessi Lions, da sempre attenti a questioni legate al sociale. Dall’inizio della stagione agonistica 2014/15, grazie in particolare al lavoro degli instancabili ex giocatori Manrico Soriani e Michele Niccolai, all’interno de Le Sughere si svolgono ogni domenica mattina allenamenti riservati a una trentina di detenuti. Dopo un anno e mezzo di sedute, è stata dunque organizzata all’interno della struttura una partita vera. Dopo questo memorabile match l’iniziativa del rugby in carcere avrà ulteriori sviluppi nelle prossime settimane. Ecco i giocatori Old in campo contro Le Pecore Nere: Luca Baroni, Paolo Ciandri, Emiliano Marchi, Luigi Gori, Michele Niccolai, Manrico Soriani, Emanuele Bertolini, Franco Gorini, Alberto Pietra Caprina, Andrea Caputo. Libri: "Fine pena: ora", di Elvio Fassone. Un epistolario oltre le sbarre di Gianandrea Piccioli Il Manifesto, 11 febbraio 2016 "Fine pena: ora" di Elvio Fassone, pubblicato da Sellerio. Uno scambio di lettere durato ventisei anni fra il mafioso Salvatore M. e il giudice che emise la sentenza di condanna all’ergastolo. Torino 1985, inizia il maxiprocesso alla mafia catanese: 242 imputati, un centinaio in stato di detenzione, gli altri a piede libero. Presidente della Corte d’Assise: Elvio Fassone. Tra gli imputati in gabbia: Salvatore M. (nome di fantasia, personaggio reale), il più antagonista, il più spavaldo e provocatore di tutti. Fassone e Salvatore, un giudice serio, garantista, colto, severo e umano e un ventisettenne ribelle e capo, nato nella parte sbagliata della società ("A noi che siamo maledetti, o la tomba o la galera. Che vuole che ci aspetti, a chi nasce nel Bronx di Catania?"). Il confronto dura quanto il processo, circa due anni. Nel 1987 Fassone emette centotrenta condanne, di cui ventisei all’ergastolo. Tra queste ultime, quella a Salvatore M. Prima della sentenza, Salvatore dice al giudice: "Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo". Il giorno dopo la sentenza, Fassone scriverà a Salvatore e gli manderà un libro della sua biblioteca personale, Siddharta, sperando che il destinatario arrivi a leggere fino alle ultime pagine: "Mai un uomo, o un atto, è tutto samsara o tutto nirvana, mai un uomo è interamente santo o interamente peccatore". Nasce così un rapporto epistolare che durerà ventisei anni e di cui ci dà conto uno straordinario libro di uno dei due protagonisti della vicenda, il giudice, pubblicato da Sellerio: Fine pena: ora (pp. 224, euro 14), che fin dal titolo si contrappone alla formula di prammatica nei certificati dei condannati all’ergastolo "Fine pena: mai". E qui c’è subito il tema che percorre in profondità, come una vena sotterranea, tutto il testo: il tempo, e il suo scorrere pieno di possibilità per chi è libero e assolutamente vuoto per chi è in carcere condannato a vita; in carcere il tempo ha la sola funzione di consumarsi, dice il giudice, ha un senso solo: quello di essere passato, non sviluppa le potenzialità, perde la sua dimensione essenziale, che è quella del futuro. È proprio su questa mancanza di futuro che Fassone, nell’appendice al racconto, basa le sue proposte di riforma del sistema, invitando a tener conto della distanza tra il momento del delitto e il momento dell’individuo, rifacendosi anche a una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea che limita l’ergastolo a venticinque anni, previo riesame globale della personalità del condannato. Il libro evita le facili e demagogiche secche del giustizialismo e del garantismo, parole buone solo per alimentare uno dei dibattiti politici e intellettuali più bassi e umilianti della nostra storia non solo giornalistica e televisiva. Fassone non dimentica la ferita atroce che il delitto incide nelle vittime, nei loro cari, nel corpo sociale tutto: è rigoroso come un puritano secentesco, attento alla sicurezza sociale, ma è anche investito dal senso della giustizia e pensa che la pena abbia, debba avere una valenza riabilitativa. Come è richiesto anche dalla nostra Costituzione. Non sostiene delle tesi, cerca solo di far riflettere sulle sofferenze non necessarie che il sistema carcerario, anche solo per automatismi burocratici, infligge al colpevole. Ma tutto ciò affiora indirettamente, è un valore aggiunto del libro che avvince e commuove, invece, per l’intensità dei sentimenti che trasmette al lettore, pur nella sobrietà della scrittura o forse proprio per questa. Senza filosofemi si sfiora il grande tema del destino, o del caso, che governa le nostre sorti: da che parte si nasce, le possibilità offerte ad alcuni e negate ad altri, l’ambiente che plasma le personalità, il tornare al punto di partenza, come in un tragico gioco dell’oca, per circostanze assolutamente indipendenti dalla nostra volontà e spesso stupide o fortuite o prodotte all’insuperabile ottusità della burocrazia o dalla pigrizia e dalla paura di chi dovrebbe invece discriminare e valutare caso per caso. E soprattutto, nelle lettere del giudice e del suo condannato, emerge, proprio dall’abisso che separa i due, il senso dell’umanità allo stato puro, libero da ogni sovrastruttura. Non hanno paura l’uno dell’altro. Salvatore si affida, il giudice si fida. Memorabile, in proposito, la richiesta che, a processo ancora in corso, Salvatore fa di poter andare a salutare la madre morente, senza manette e con scorta in borghese, e il giudice acconsente e dà ordine alla scorta di restare sotto casa, senza entrare. E Salvatore torna, non scappa dal finestrino del bagno né si dilegua sui tetti, torna e quando il giudice passa accanto alla gabbia legge sulle sue labbra. "Sono tornato". La scommessa della fiducia è vinta da entrambi. La voglia di riscatto di Salvatore si manifesta in tutta la sua condotta, frequenta tutti i corsi che il carcere organizza, spera di usufruire dei permessi per buona condotta, e dopo ventiquattro anni di carcere, dopo che anche la sua Rosi non ha retto agli spostamenti, alle lunghe attese con le altre donne fuori dal carcere, ai colloqui fugaci, e in un ultimo straziante colloquio gli dice che non ce la fa più ad attenderlo a oltre quarant’anni, ottiene finalmente per un breve periodo anche la semilibertà e può lavorare fuori dal carcere, presso un floricultore. Ma il caso ancora una volta, lancia i dadi contrari. Salvatore non ha colpa, ma gli viene revocato l’art.21. Scrive Fassone: "Penso al bambino che costruisce un castello con le carte, ed è giunto al quarto piano, mai prima edificato, quand’ecco che passa un individuo e urta il tavolo per sbadataggine e tutto crolla. Il bambino piange, noi lo consoliamo, era solo un gioco, non è una tragedia, ora lo rifacciamo. È vero, ma la vita di chi è in galera da venticinque anni non è un gioco". Salvatore tenta il suicidio, viene salvato all’ultimo momento da una guardia. Ma la sua resistenza interiore si è spezzata: non spera più e di questo si sente quasi colpevole: "L’altra settimana ne ho combinata una delle mie: mi sono impiccato. Mi scusi". Il giudice viene eletto al Csm, diventa senatore, ora è in pensione. Migranti, Bruxelles accusa l’Italia: i rimpatri sono insufficienti di Mariolina Iossa Corriere della Sera, 11 febbraio 2016 Il rapporto della Commissione giudica troppo lenti i ricollocamenti. Critiche anche alla gestione degli hotspot e dei centri di accoglienza (due invece dei cinque previsti). I ricollocamenti procedono a rilento, i rimpatri di chi non ha diritto allo status di rifugiato pure, i due hotspot aperti, i centri di accoglienza per lo smistamento, funzionano bene ma ne erano previsti cinque e gli altri non sono ancora operativi. Sui migranti la Commissione europea bacchetta l’Italia, e nel rapporto sull’applicazione delle misure legate alla crisi dei rifugiati elenca tutte le inadempienze. Rimpatri insufficienti - "L’Italia ha eseguito oltre 14 mila rimpatri forzati di persone senza diritto di asilo nel 2015 e ha partecipato a 11 voli di Frontex congiunti di richiedenti asilo respinti da altri Stati membri", è detto nel rapporto della Commissione europea. E tuttavia "ciò resta insufficiente nel contesto di oltre 160mila arrivi nel 2015". In pratica, 14 mila rimpatri su 160 mila arrivi sono un numero troppo basso per poter portare a regime gli accordi europei. Non solo. L’Italia presenta anche "gravi carenze per quanto riguarda l’ospitalità pre-rimpatrio, con soli 420 posti disponibili rispetto ai 1252" previsti dalla Commissione europea, mentre "il sistema di ricezione è già largamente sufficiente". I ricollocamenti - Il rapporto della Commissione esplicita che "nonostante il fatto che il ricollocamento dall’Italia sia iniziato alcune settimane prima che in Grecia, è ancora molto al di sotto del tasso necessario a raggiungere l’obiettivo globale di ricollocare 39.600 persone che necessitano di protezione internazionale in due anni". Di fatto, ad oggi solo 279 richiedenti sono stati ricollocati, con 200 richieste in sospeso inviate ad altri Stati membri", anche se "sino ad oggi, solo 15 Stati membri hanno reso disponibili posti per il ricollocamento con la promessa di ricevere 966 persone". La situazione si fa sempre più preoccupante e siamo alle porte di una nuova stagione di arrivi a ondate. Il braccio di ferro tra Italia e Ue della scorsa estate, non ha visto vincitori per il momento. L’Ue poneva come condizione per la redistribuzione dei rifugiati in Europa che l’Italia aprisse cinque hotspot e accelerasse sui respingimenti e sui ricollocamenti, l’Italia pretendeva che l’Europa si adoperasse subito per la redistribuzione dei migranti. Gli hotspot - Lo sviluppo degli hotspot in Italia, dice il rapporto della Commissione, "è lento". È vero che "due sono pienamente operativi" (a Lampedusa e Pozzallo), un terzo (a Trapani) "sarà pienamente operativo quando gli ultimi lavori di ristrutturazione saranno completati". Ma poi ce ne sono almeno altri due da aprire, i lavori vanno urgentemente completati a Taranto. I piani per gli hotspot di Augusta e Porto Empedocle devono ancora essere ultimati: "una decisione che li riguardi - è scritto ancora nel rapporto - è essenziale alla luce del probabile aumento dei flussi migratori durante il periodo estivo". Il rischio che salti Schengen - A questo punto, con le due posizioni ancora distanti e la lentezza dell’Italia, c’è il rischio che salti Schengen. "Abbiamo già perso tempo" nel gestire la crisi dei rifugiati, e "questo è un fatto inaccettabile", soprattutto perché "quest’anno un numero significativo di migranti potrebbe tentate di nuovo di raggiungere l’Europa". Queste le parole del commissario Ue agli affari interni Dimitri Avramopoulos, che ha anche sottolineato che "quei migranti che hanno diritto alla protezione saranno protetti ma non spetta loro decidere in quale stato membro, mentre gli altri che non ne hanno diritto saranno rimpatriati". Lo si legge nel rapporto della Commissione europea sull’applicazione delle misure legate alla crisi dei rifugiati, nella parte dedicata all’Italia. La Grecia e il piano per non uscire da Schengen di Carlo Lania Il Manifesto, 11 febbraio 2016 La corsa di Atene in vista del vertice europeo sull’emergenza profughi. Se chiudesse la frontiera macedone centomila rifugiati resterebbero bloccati nel primo mese. Più di 60 mila arrivi a gennaio 2016 nelle isole dell’Egeo contro gli appena 1.600 di un anno fa. Accelerare la costruzione degli hotspots, aumentare il numero dei migranti identificati e rafforzare ulteriormente i controlli alle frontiere. L’ennesimo ultimatum che l’Unione europea si prepara a dare alla Grecia ha l’effetto di irritare ulteriormente il governo Tsipras. Nei giorni scorsi il ministro per l’Immigrazione Yannis Mouzalas ha parlato di un tentativo da parte di Bruxelles di "criminalizzare" il paese ellenico, del quale non si riconoscerebbero abbastanza gli sforzi compiuti per arginare il flusso di migranti in arrivo dalla Turchia. Gli scenari ipotizzati, conseguenza di una probabile chiusura definitiva del confine con la Macedonia, se non proprio catastrofici sarebbero a dir poco allarmanti, con centinaia di migliaia di rifugiati bloccati in Grecia nell’impossibilità di proseguire il loro viaggio lungo la rotta balcanica. Solo nella prima settimana di blocco della frontiera almeno 18 mila profughi si accalcherebbero al confine della Macedonia, mentre dopo un mese potrebbero essere 100.000 quelli presenti su tutto il territorio, 20 mila dei quali solo nelle isole dell’Egeo. "È un momento particolarmente difficile per il Paese", commenta preoccupata Alessandra Morelli, coordinatrice dell’Unhcr per le operazioni di emergenza nel paese ellenico. Proprio all’Alto commissariato Onu per i rifugiati Bruxelles ha chiesto di preparare un piano in grado di gestire la nuova emergenza umanitaria che si verificherebbe nel caso la situazione dovesse precipitare nel prossimo mese di maggio, quando l’Ue deciderà il destino della Grecia. "È dall’estate scorsa che stiamo dando una risposta umanitaria a Lesbo, Samos, Leros, Kos, tutte le isole sulle quali avviene la maggior parte degli sbarchi - prosegue Morelli -. In un anno, dal 1 gennaio 2015 al 1 gennaio 2016 sono arrivati in Grecia 927.772 rifugiati. Uomini, donne e bambini bisognosi di tutto, da vestiti asciutti all’assistenza medica e psicologica. L’85% del milione e più di profughi entrati in Europa ha attraversato il mar Egeo, sopravvivendo spesso a un naufragio, e con picchi di 8.000-9.000 arrivi al giorno. Per capire però quanto potrebbe accadere nei prossime settimane e mesi, e quindi che tipo di situazione Atene e la l’Europa potrebbero trovarsi di fronte, basta un dato; in tutto il mese di gennaio de 2015 ci furono in Grecia 1.694 sbarchi, contro i 60.502 registrati a gennaio di quest’anno. Un’impennata conseguenza del progressivo peggioramento della situazione in Siria, compresa la conquista di nuove parti di territorio da parte di Daesh. "Chi arriva oggi in Europa è ciò che resta della classe media siriana, spinta dalla disperazione dopo aver perso le speranze di poter tornare nelle proprie case. Nei campi profughi restano solo i poveri", spiega ancora Alessandra Morelli che insieme alla responsabile relazioni esterne dell’Unhcr in Grecia Carlotta Wolf monitora continuamente l’evolversi della situazione. Dietro quella che si annuncia come una crisi peggiore di quella vissuta l’anno scorso c’è anche il mancato processo di pace di Ginevra, fallito prima ancora di nascere, insieme a una crisi libica ancora senza sbocco. Una realtà che sia il governo greco, che l’Unhcr conoscono bene. E per affrontare la quale è già cominciata una corsa contro il tempo per reperire strutture in grado di accogliere una nuova ondata di migranti. Da settimane il ministro per l’Immigrazione Mouzalas, un medico con un trascorso di anni con "Medicin du monde", sta trattando con i sindaci dei comuni ellenici alla ricerca di posti dove alloggiare i migranti. In collaborazione con l’Unhcr per ora ne sarebbero stati trovati 3.000 a Idomeni, al confine con la Macedonia, 4.000 nel Pireo, altri 6.000 vicino Salonicco, a Sindos e infine tra i 1.500 e i 4.000 nell’Attika, spesso scontrandosi con le resistenze delle popolazioni locali. Numeri che però sembrano la classica goccia in mezzo rispetto al mare di posti letto che servirebbero. Per questo è stato deciso di allestire una task force della quale fanno parte oltre ai ministeri dell’Immigrazione, della Difesa e degli Interni, anche rappresentanti della Guardia costiera, dell’Unhcr e delle principali ong presenti in Grecia. E come avviene anche in Italia, si cercano strutture militari come ex caserme dismesse dove allestire punti di accoglienza con la possibilità per i profughi di ricevere anche un’adeguata assistenza medica. "La situazione è straordinaria e richiede una risposta straordinaria, ma anche improntata a una forte solidarietà verso persone che, non dimentichiamolo, stanno fuggendo da una guerra civile che dura ormai da anni", ricorda Morelli. Nel frattempo il governo greco prova anche a mettersi in paro con i "compiti" che Bruxelles gli chiede da mesi. Dei cinque hotspots previsti a Lesbo, Leros, Kos, Samos e Kios solo uno, quello di Lesbo è praticamente pronto. Per questo il 31 gennaio scorso è stato affidato al ministero della Difesa il compito di portare a termine entro la metà di febbraio, massimo per i primi di marzo, la realizzazione degli altri. Non senza problemi, come a Kos dove l’annuncio dell’imminente apertura di un hotspot ha provocato l’insurrezione degli abitanti. Con un’ulteriore accelerazione sulle procedure di identificazione dei migranti, anche se le statistiche dicono che già oggi il 78% d quanti arrivano i Grecia è schedato e negli archivi sono raccolte le sue impronte digitali. L’assurdo di questa situazione è che comunque la si metta, non è previsto un lieto fine. Se la Grecia non manterrà fede ai suoi impegni verrà tagliata fuori dall’area Schengen con tutte le conseguenze, politiche ma anche economiche che questa decisione comporterà. Se invece si metterà in regola, farà i compiti come chiede l’Unione europea, a pagare saranno le decine di migliaia di persone in fuga da un conflitto che non sembra avere soluzione. "Per questo è urgente creare le condizioni per permettere a chi scappa di arrivare in Europa attraverso vie legali e scure", insiste Alessandra Morelli. "Reinsediamenti e ricongiungimenti legali sono l’unica possibilità per strappare questa gente ai trafficanti. Altrimenti non ci resta che continuare a contare i morti". L’Europa verso una mini-Schengen di Alberto D’argenio La Repubblica, 11 febbraio 2016 Con la messa in mora della Grecia parte la procedura per prolungare di 2 anni da maggio il ripristino dei confini Le capitali del Nord potrebbero blindarsi verso il Sud. Uno scenario che penalizza l’Italia, contraria alle misure. L’Europa mette in mora la Grecia e lancia la procedura per prolungare, da maggio, la chiusura delle frontiere interne per due anni. Una scelta che mette a rischio Schengen, la stessa tenuta politica dell’Unione e che lascia insoddisfatti diversi governi, come quello italiano. Le raccomandazioni che impongono a Tsipras di bloccare il flusso dei profughi in arrivo dalla Turchia verso l’Europa del Nord sono state approvate ieri dagli ambasciatori dei Ventotto riuniti a Bruxelles. Domani il via libera definitivo da parte dei ministri delle Finanze. Ieri non c’è stato voto perché il rappresentante greco non lo ha richiesto. Diversi paesi, come l’Italia, si sarebbero astenuti o avrebbero votato contro, ma la posizione incerta della Spagna, senza governo da dicembre, non ha permesso di formare una minoranza di blocco che avrebbe disinnescato le raccomandazioni e l’avvio della procedura per sospendere Schengen. A maggio Austria, Francia, Germania, Svezia, Danimarca, Olanda e Norvegia non potranno più mantenere i controlli alle frontiere ripristinati a settembre. Ma grazie all’attivazione dell’articolo 19b di Schengen con le raccomandazioni alla Grecia, a maggio Bruxelles potrà permettere loro di mantenere i controlli per altri 24 mesi. Certo, nei prossimi tre mesi Tsipras potrebbe conformarsi alle prescrizioni Ue e disinnescare il rischio blocco, ma in pochi ci scommettono. Ora il timore dei governi mediterranei, compreso quello italiano, è che i paesi del Nord che già oggi hanno chiuso i valichi in caso di prolungamento del blocco decidano di sigillare le frontiere verso l’Europa del Sud, lasciando invece aperte quelle tra loro dando vita a una mini- Schengen. Un modo per bloccare il flusso dei migranti dalla Grecia e mettere al riparo leader come Angela Merkel che rischiano di essere travolti dall’ingresso incontrollato dei rifugiati oltretutto limitando i danni alle loro economie. Uno scenario che non piace all’Italia, che rischierebbe di trovarsi isolata all’esterno della libera circolazione subendo danni commerciali ed economici. Si aggiunge il rischio di essere travolti da una nuova ondata migratoria causata dalla chiusura della rotta balcanica: i profughi che oggi tramite Turchia, Grecia e Macedonia vanno a Nord, potrebbero cambiare strada tornando a partire dalla Libia o attraversando l’Egeo dalla Grecia all’Italia. Che oltretutto potrebbe trovarsi isolata rispetto agli altri paesi, lasciata sola nel gestire i nuovi arrivi. A Roma non piace nemmeno che nella bozza del summit del 18 febbraio non si parli di nuove regole per rendere permanenti ed efficaci le riallocazioni (modifica di Dublino). Se ne parlerà solo al successivo vertice di marzo, ma Renzi la prossima settimana insisterà a Bruxelles perché la Grecia non venga lasciata sola e si risolva la crisi tutti insieme. Ieri intanto la Commissione ha stimato che solo il ripristino permanente o a lungo termine dei controlli alle frontiere costerebbe tra i 5 e i 18 miliardi l’anno (solo il controllo dei passaporti costa 1,1 miliardi). Il turismo invece perderebbe dai 10 ai 20 miliardi. Bruxelles ha messo nel mirino i governi che non prendono i rifugiati sbarcati in Italia e Grecia come previsto dalle riallocazioni, ha lodato gli sforzi del governo italiano per affrontare l’emergenza anche se ha chiesto di completare gli hotspot, di aumentare i rimpatri di chi non ha diritto all’asilo e ha avviato il secondo step della procedura di infrazione per l’impossibilità di prendere la residenza nel nostro Paese per i rifugiati. Ha invece annunciato che il procedimento per la mancata presa delle impronte digitali sarà presto archiviato. Emma Bonino: "le torture di Assad che Roma non vuole vedere" di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 11 febbraio 2016 L’esponente radicale al confine turco-siriano: perché Camera e Senato non espongono quelle foto? Sono 53mila immagini che documentano gli orrori del regime di Damasco. Quando hai il corpo impegnato nella lotta contro il tumore, come è il caso di Emma Bonino per sua stessa ammissione, dopo mesi e mesi di chemio nell’altalenarsi di crisi e speranze, ogni viaggio, ogni incontro, ogni discorso, diventano estremamente affaticanti. Il fisico si rifiuta, ci sono vertigini, un grande sonno, l’affievolirsi dei sensi. Anche soltanto leggere un breve documento può trasformarsi in una missione impossibile. Eppure, ieri mattina Emma appariva più combattiva che mai nel cercare di capire la situazione dei disperati che fuggono verso la Turchia dai bombardamenti in Siria. Capire e denunciare. "Possibile che noi europei si faccia così poco? Qui si sta consumando una tragedia terrificante", ci ha detto con la parlantina di sempre nella lobby del suo hotel con la valigia in mano. Un foulard discretamente avvolto sul capo a nascondere gli effetti collaterali delle cure. Gli occhi luccicanti di passione, dietro le lenti spesse. Più spesse di pochi mesi fa? O è forse un’impressione? Posizione incomprensibile - Emma Bonino non le manda a dire. Hanno fatto molto rumore, dalla Turchia, le parole pronunciate in veste di membro della delegazione dell’European Council e di attivista-fondatrice dell’organizzazione non governativa "Non c’è Pace Senza Giustizia". "Da mesi vorremmo portare anche a Roma la ben nota sequenza di foto della cosiddetta Esposizione Caesar, che testimonia le terribili torture commesse in modo sistematico dal regime di Bashar Assad contro i detenuti in carcere. Ma sia il Senato che la Camera l’hanno rifiutata, vuoi per motivi di opportunità politica, vuoi perché considerate troppo crude", spiega. Emma ha uno scatto. "Mi sembra una posizione incomprensibile. È dal 2013 che quelle oltre 53.000 immagini che documentano le sofferenze di quasi 7.000 prigionieri fanno il giro del mondo. Sono state nei corridoi delle Nazioni Unite, nelle maggiori università americane e inglesi, al parlamento di Londra, a Bruxelles. Come è concepibile che invece noi italiani le si abbia rifiutate? Per Laura Boldrini non possono essere esposte alla Camera, offendono le nostre sensibilità. Ma sono vere, sono lo specchio di eventi reali. Se andiamo avanti a edulcorare i fatti in questo modo finiremo per creare nuove generazioni incapaci di confrontarsi con la durezza dell’universo che ci circonda". Scuole e ospedali nel mirino - Il tema è indubbiamente all’ordine del giorno. "Gli osservatori che lavorano in Siria, e riportano anche alla nostra organizzazione, raccontano degli effetti terrificanti dei bombardamenti russi sulla popolazione civile. Ci sono voci di massacri da parte delle truppe lealiste e delle milizie sciite>, continua l’esponente radicale. Le fanno eco i rappresentanti della sua organizzazione qui a Gaziantep. "Abbiamo testimonianze di scuole, cliniche e ospedali colpiti in modo ripetuto a nord di Aleppo. Nella cittadina di Azaz in meno di 24 ore sono stati presi di mira almeno cinque ospedali. I profughi scappano nel timore di massacri da parte dei fedelissimi di Bashar. Un fenomeno nuovo vede molti civili delle zone sunnite dove prima operavano le milizie ribelli che, di fronte alla chiusura dei confini turchi, scelgono di scappare nelle zone controllate da Isis, piuttosto che subire le vendette delle squadracce legate al regime di Damasco", sostiene Rami Nakhla, esponente locale di "Non c’è Pace Senza Giustizia". Incontrando ad Ankara il premier Ahmet Davutoglu, la delegazione europea si è sentita ripetere le ragioni del permanere della chiusura della frontiera, che comunque per le autorità turche resta "formalmente aperta". Dal confine con la Siria non lontano da Gaziantep gli aiuti umanitari affluiscono al campo di tende approntato a pochi metri dal filo spinato, in territorio siriano. E i casi di feriti più gravi hanno accesso agli ospedali turchi. Ma resta il timore che l’esodo sia solo agli inizi. La Siria cancellata dalla guerra: ucciso o ferito l’11,5% dei cittadini di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 11 febbraio 2016 I dati diffusi dal Syrian Centre for Policy Research parlano di 470mila morti, due volte l’ultima cifra rilasciata dall’Onu. L’aspettativa di vita è passata da 70 a 55 anni. La Siria praticamente non esiste più. Cinque anni di guerra hanno distrutto il Paese. Le infrastrutture sono state cancellate dai bombardamenti che hanno portato alla morte di 470mila persone, quasi il doppio dell’ultima cifra diffusa dalle Nazioni Unite quando ancora raccoglieva dati sul conflitto, 18 mesi fa. A dare la misura del la tragedia è il Syrian Centre for Policy Research (SCPR) che, in un rapporto diffuso in esclusiva dal Guardian, parla di 11,5% della popolazione uccisa o ferita da marzo 2011 quando esplose la guerra. I feriti sono 1.9 milioni. L’aspettativa di vita è passata dai 70 anni nel 2010 ai 55 nel 2015. Si stimano perdite economiche 255 miliardi di dollari (225 miliardi di euro). Le cifre - Secondo il Scpr 70 mila dei 470mila morti sono dovuti a mancanza di cibo, medicine, servizi medici, acqua potabile mentre il resto è vittima diretta degli scontri a fuoco e dei bombardamenti. "Il nostro metodo di ricerca è rigoroso - ha detto al Guardian Rabie Nasser - e siamo certi di questi dati. Le morti indirette saranno maggiori nel futuro. Pensiamo che le cifre delle Nazioni Unite siano grandemente sottostimate per mancanza di accesso alle fonti". A Monaco - Oggi venerdì 11 febbraio a Monaco i principali attori internazionali come Usa e Russia e regionali come Iran e Arabia Saudita faranno il punto della situazione. Secondo alcune indiscrezioni Mosca presenterà una proposta per iniziare un cessate il fuoco in Siria il 1° marzo. Egitto: il capo della polizia che indaga sulla morte di Giulio è già stato coinvolto in torture di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 11 febbraio 2016 Caso Regeni. Masry al-Youm: il telefono di Giulio era sotto controllo. Il giornale filogovernativo egiziano accredita la pista del sequestro mirato, non gli arresti di massa. Nel caso Regeni tutto è sbagliato, scorretto e tragico. Ogni notizia potrebbe confondere, depistare e mischiare le carte. Ma una cosa è certa: l’unica voce che in Egitto si è levata fin qui per confermare le torture che il dottorando italiano ha subito è il capo della procura di Giza, Ahmed Nagy. Invece il capo del pool investigativo della polizia che sta seguendo il caso, Khaled Shalaby, per intenderci l’ufficiale che aveva subito derubricato l’omicidio Regeni come un incidente stradale, è stato condannato in primo grado nel 2003 per tortura dal tribunale di Alessandria, secondo gli attivisti Mona Seif e Ahmed Ragab. Quindi un’ombra inquietante cade su tutte le indagini così come sull’effettiva collaborazione che le autorità egiziane possono fornire al team investigativo dei Ros che ha raggiunto l’Egitto da qualche giorno. Proprio nella città costiera i casi di sparizione forzata e tortura sono aumentati incredibilmente. In pochi giorni sarebbero almeno venti i casi di desaparecidos, secondo il sito indipendente Mada Masr che cita il Centro arabo africano per i diritti umani. Gli inquirenti italiani al Cairo possono fare veramente poco. "Il file di Giulio Regeni è già insabbiato", si mormora negli ambienti delle opposizioni. E non bisogna parlarne troppo, bisogna coprire e cancellare. Ieri l’ambasciatore egiziano a Roma, Amr Helmy, aveva rimandato al mittente ogni accusa di arresto da parte della polizia, aggiungendo che le autorità egiziane non sono cosi "naif" da uccidere un giovane italiano e gettare via il suo corpo proprio nel giorno della visita del Ministro Guidi al Cairo. Quando è stato ritrovato il cadavere il 3 febbraio era in corso nella capitale egiziana una missione economica italiana, subito interrotta. Fin qui non ci sono segni concreti però da parte italiana che la vicenda avrà effetti seri sulle relazioni bilaterali con il Cairo. I Ros sono stati in grado solo di smentire la pista della rapina e che nella riunione di qualche tempo fa a cui ha preso parte Giulio Regeni al Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati (Ctuws), come riportato nel suo reportage pubblicato sul manifesto, fossero stati presenti elementi deviati dei Servizi egiziani. Ma non è sufficiente una singola riunione per poter smentire l’infiltrazione degli apparati di sicurezza dello Stato all’interno dei sindacati indipendenti. È invece confermato dal quotidiano Masry al-Youm, giornale filogovernativo, che il cellulare scomparso di Giulio fosse intercettato. Gli investigatori egiziani hanno potuto ascoltare la voce del giovane in telefonate, avvenute prima del 25 gennaio. Secondo il giornale, 37 persone sarebbero già state arrestate perché sospettate dell’omicidio. Lo stesso quotidiano aveva diffuso ieri la notizia che Giulio fosse stato sequestrato nelle vicinanze della sua abitazione a Doqqi, dove per l’ultima volta sarebbe stata agganciata la cellula del suo cellulare, e non a Bab el-Louk nel centro del Cairo. Questa circostanza è difficile da confermare perché negli stessi giorni, a ridosso del quinto anniversario dalle rivolte del 2011, ben 5000 abitazioni sono state perquisite e decine di persone sono state prelevate in casa e arrestate. Secondo Al Youm, Giulio Regeni sarebbe stato torturato e ucciso in un appartamento del centro città. Tuttavia, queste notizie bombardate in maniera sistematica sembrano un ulteriore tentativo di confermare la pista dell’arresto mirato e di scartare invece l’ipotesi dell’arresto sommario avvenuto all’interno di un assembramento. Si tratta quindi di ricostruzioni ancora tutte da verificare. Sembra più in generale che con queste notizie di stampa si voglia allontanare il giovane da piazza Tahrir, come è stato fatto facendo ritrovare il cadavere a Giza, per escludere il movente dell’arresto sommario e accreditare la pista del prelevamento mirato di una "spia". Messico: torturata e uccisa la reporter Anabel Salazar di Geraldina Colotti Il Manifesto, 11 febbraio 2016 "Non si ammazza la verità uccidendo il giornalista". A Veracruz, in Messico, tornano le fiaccolate dopo la morte di Anabel Flores Salazar, cronista di "nera", rapita lunedì scorso nella sua abitazione di Orizaba da un gruppo di uomini armati. La procura ha confermato che il corpo abbandonato sul ciglio della strada, seminudo e con le mani legate, nel vicino stato di Puebla appartiene a lei. La giornalista, 32 anni, madre di due figli piccoli, lavorava come free lance per diversi giornali locali. La famiglia ha denunciato subito la scomparsa e ora rifiuta la versione diffusa dalla polizia, secondo la quale Anabel Flores avrebbe avuto contatti con la malavita: in particolare con un narcotrafficante chiamato El Pantera, ora in carcere, con cui sarebbe stata vista ad agosto del 2014. Non è, infatti, la prima volta che la tesi della polizia locale coincide con quella del governatore Javier Duarte, nel cui mirino finiscono spesso i giornalisti non addomesticati. E Duarte, ancora di recente, aveva invitato i reporter a "comportarsi bene", accusandoli di essere in combutta con i criminali. Da quando Duarte è stato eletto, nel 2010, sono stati uccisi almeno 15 giornalisti. Particolare scalpore ha suscitato, l’anno scorso, il massacro di Narvarte, a Città del Messico, in cui ha perso la vita il fotoreporter Ruben Espinosa, torturato insieme ad altre quattro attiviste. Espinosa, che aveva avuto forti contrasti con Duarte, era fuggito da Veracruz dopo essere stato picchiato e minacciato dalla polizia per aver documentato la repressione contro i maestri in sciopero. Veracruz è uno degli stati più pericolosi per i media, insieme a Tamaulipas, Guerrero, Chihuahua e Oaxaca. Il 21 gennaio, nella città di Santiago Laollaga, in Oaxaca (nel sud) è stato ammazzato Reinel Martinez Cerqueda, 43 anni, animatore di diversi programmi alla radio comunitaria "El Manantial". Con l’uccisione di Anabel, salgono a 108 i reporter assassinati in Messico dal 2000. Crimini che - secondo la Comision Nacional de Derechos Humanos (Cindh) - restano per l’89% impuniti. Cifre ufficiali del governo dicono che sono 27.000 le persone scomparse dal 2006 a oggi. Numeri parziali, secondo Amnesty International, che aggiunge almeno altri 12.000 casi dall’elezione dell’attuale presidente Enrique Peña Nieto, a dicembre del 2012. Il 26 settembre del 2014, ha avuto ripercussioni in tutto il mondo la vicenda dei 43 studenti normalistas di Ayotzinapa, attaccati dall’azione congiunta di polizia locale e narcotrafficanti, e da allora scomparsi. Secondo la versione ufficiale, la polizia avrebbe consegnato i ragazzi ai narcos dei Guerreros Unidos, che li avrebbero uccisi e bruciati nella discarica di Cocula, nel Guerrero. Una ricostruzione subito messa in dubbio dalle organizzazioni popolari e dalla logica, poiché sarebbe stato assai improbabile bruciare tutti quei corpi senza che se ne avesse sentore nel circondario. Ieri, l’Equipo Argentino de Antropologia Forense (Eaaf) ha consegnato il suo rapporto sui fatti: non vi sono prove che gli studenti siano stati inceneriti in quella discarica, le immagini via satellite lo escludono. Inoltre, i bossoli ritrovati corrispondono a 39 armi diverse, fra cui alcuni fucili d’assalto, e questo non concorda con le dichiarazioni dei pentiti: i loro capi - hanno confessato i narcos in prigione - quella notte gli avrebbero ordinato di usare solo armi corte. Gli arrestati per i fatti del Guerrero sono un centinaio (fra questi anche l’ex sindaco di Iguala e la moglie), ma nessuno, in Messico, prende per oro colato le confessioni dei detenuti, visto l’uso sistematico della tortura, denunciato costantemente dalle organizzazioni per i diritti umani. Ma a smentire questo e altri punti della ricostruzione governativa sui 43, è intervenuto, già a settembre scorso, il Gruppo interdisciplinare di esperti indipendenti, inviati dalla Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh), con un rapporto di oltre 500 pagine: il presunto rogo della discarica avrebbe richiesto almeno 30 tonnellate di legna e 60 ore. Inoltre, gli autobus prelevati dagli studenti sarebbero stati 5 e non 4, e su uno di questi avrebbe potuto trovarsi un grosso carico di cocaina o di denaro, essendo il Guerrero un importante snodo per il traffico di droga verso gli Usa. Inoltre ancora, durante l’attacco agli studenti, è stata appurata la presenza dell’esercito e dei servizi segreti, in costante contatto con il governatore locale, noto repressore. La Cidh ha perciò suggerito di indagare più in alto e nelle caserme, ma ha trovato le porte sbarrate. Regno Unito: i Vescovi premono per la riforma del sistema carcerario radiovaticana.va, 11 febbraio 2016 I vescovi dell’Inghilterra e del Galles salutano l’impegno annunciato dal premier David Cameron a riformare il sistema penitenziario britannico per migliorare la drammatica situazione di oltre 85 mila detenuti nel Paese. Un sistema carcerario al collasso - Le carceri britanniche, sovraffollate e con elevati tassi di violenza e suicidi, sono infatti al collasso per ammissione dello stesso primo ministro che ha parlato di uno "scandaloso fallimento" del sistema. Nel tentativo di migliorare questa situazione, ha quindi promesso una serie di riforme strutturali, che prevedono una maggiore autonomia ai direttori degli istituti e nuovi programmi di istruzione. L’obiettivo principale è permettere a chi è stato in prigione il reinserimento nel tessuto sociale e lavorativo in modo da evitare, come accade troppo spesso, che l’ex detenuto torni a delinquere dopo aver scontato la pena. Incoraggianti le misure annunciate dal governo - Misure giudicate "incoraggianti" da mons. Richard Moth, responsabile per la Pastorale carceraria nella Conferenza episcopale inglese e gallese (Cbcew) che le definisce "un primo passo verso quel ‘carcere buonò dove le persone sono trattate con dignità e alle quali viene data una opportunità di rifarsi una vita". "La prigione è già una punizione in sé, non un luogo dove le persone devono essere ulteriormente punite", ha dichiarato il presule. "È immorale continuare a detenere più di 85 mila persone senza offrire mezzi per sostenerli. Per rendere il sistema carcerario più efficace e umano - ha aggiunto - è necessaria una significativa riduzione della popolazione carceraria e la Chiesa è disposta a collaborare con il governo mettendo a disposizione la sua esperienza per raggiungere questo obiettivo". Obiettivo del governo creare migliori condizioni di detenzione - tra i progetti sul tavolo dell’esecutivo, quello di creare nuove prigioni che possano diventare un modello in tutto il mondo con migliori condizioni di detenzione e una serie di attività speciali per il recupero dei condannati. Uno dei problemi da affrontare è anche quello dei molti bambini, un centinaio nell’ultimo anno, che hanno vissuto in carcere con le madri detenute. Usa: Obama dovrebbe presentare piano chiusura Guantanámo al Congresso a fine mese Il Velino, 11 febbraio 2016 Si prevedono forti resistenze come in passato sul documento che "è una priorità, ma non è ancora pronto". L’opzione rimane quella di trasferire i detenuti in carceri americane. Nella proposta di bilancio presentata dal presidente Usa Barack Obama c’è un netto risparmio legato al trasferimento di terroristi recidivi dal carcere di Guantánamo a strutture penitenziarie negli Stati Uniti. Lo ha annunciato l’addetto stampa della Casa Bianca, Josh Earnest, durante una conferenza stampa. "È una priorità", ha sottolineato ricordando però che il piano per la chiusura del centro detentivo speciale a Cuba "non è ancora pronto". Le ragioni principali per cui verranno spostati i prigionieri sono due: la prima di carattere economico ed è legata al rapporto costi-benefici; la seconda, invece, è che i gruppi terroristici usano Guantánamo come argomento di peso nei reclutamenti. A seguito di ciò, Obama dovrebbe presentare il piano per la chiusura del carcere al Congresso alla fine del mese. Sulla questione sono previste forti resistenze, come avvenuto con le precedenti proposte di spostare i terroristi detenuti negli Usa. Attualmente, il penitenziario sull’isola caraibica ospita 91 prigionieri, dei quali dieci sono considerati a un livello di pericolosità massima. Tanto che l’amministrazione Obama ha fatto sapere che non verranno mai liberati. Tunisia: ministro Mansour "dicastero punta a migliorare situazione tribunali e carceri" Nova, 11 febbraio 2016 Le autorità tunisine puntano a varare nuovi programmi di cooperazione in tema di giustizia, migliorando la situazione dei tribunali e delle prigioni. Lo ha detto il ministro della Giustizia tunisino, Omar Mansour, a margine del suo incontro con l’ambasciatore degli Stati Uniti a Tunisi, Daniel Rubinstein. Il ministro ha detto che il suo dicastero: "Vuole migliorare la situazione dei tribunali tunisini e le condizioni delle carceri attraverso l’uso di pene alternative, garantendo l’applicazione di queste pene nel sistema giudiziario tunisino". Precisando le intenzioni del ministero, Mansour ha spiegato che gli esperti stanno cercando di individuare i mezzi efficaci per rafforzare i programmi di riabilitazione e di formazione nelle carceri e per promuovere nuove forme di detenzione. Il rappresentante di Washington, da parte sua, ha ribadito la volontà degli Stati uniti di continuare a sostenere gli sforzi della Tunisia nel suo processo di transizione democratica avviata dopo la rivoluzione del 2011. Marocco: Studio Università di Londra "19/o in classifica per numero detenuti al mondo" Ansa, 11 febbraio 2016 Nella classifica mondiale figura al 19/o posto. Con i suoi 76 mila detenuti il Marocco è tra i paesi a più alta densità di carcerati di tutto il pianeta. Uno studio dell’International Centre for Prison Studies, dell’Università di Londra dimostra come su una base di 34 milioni di abitanti l’indice marocchino balzi allo 0,22 per cento dei connazionali dietro le sbarre. Un’analisi a tappeto che classifica 223 paesi in tutto. Nel Maghreb, per esempio, l’Algeria con i suoi 60.220 detenuti si piazza al posto numero 30, mentre la Tunisia occupa il 57/o con 23.686; l’Egitto che ha 62 mila imprigionati e un’alta densità di popolazione ha un indice basso (0,07). La classifica è dominata dagli Usa che contano un numero impressionante di detenuti: 2 milioni e 217 mila. Seguono a ruota la Cina (1.657.812) e la Russia (646.085). L’Italia censisce 52.434 detenuti con un indice di 0,08 per cento. Secondo il rapporto che viene pubblicato ogni cinque anni, sulla base dei dati ufficiali diffusi paese per paese e su quelli dell’Onu, le carceri marocchine ospitano il 2,3 per cento di donne e un 2 per cento di minori. Il 42,3 per cento dei prigionieri è sotto il regime di carcerazione preventiva. Ma quel che inquieta è che le 77 prigioni del regno hanno una capacità complessiva di 40 mila posti. Il che porta a un tasso di presenze del 190 per cento. Un problema ben presente a Rabat, dove il Parlamento ha allo studio un progetto di legge che punta a riformare il Codice penale prevedendo pene alternative a quelle detentive, per delitti puniti con meno di due anni.