Opg, l’ora del commissariamento di Lucilla Vazza Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2016 Troppi ritardi: arriva il Commissario unico che dovrà garantire la dismissione degli ex manicomi giudiziari. Ritardi ingiustificati per 5 o 6 Regioni, restano ancora 164 internati. Troppi ritardi sulla riforma degli ospedali psichiatrici giudiziari, chiusi (in teoria) un anno fa. il Governo decide di nominare un Commissario sulla testa di 5 o 6 delle 8 Regioni inadempienti, che sono Veneto, Piemonte, Toscana. Abruzzo. Lazio. Campania. Calabria e Puglia. Ancora 164 detenuti sono internati in 5 Opg che dovrebbero essere stati dismessi e riconvertiti. La nomina arriverà in uno dei prossimi CdM, intanto il tavolo sul monitoraggio al ministero della Salute ha già calendarizzato incontri tecnici nei prossimi giorni per trovare la quadra e agevolare una nomina che soddisfi le aspettative di tutti (o almeno del Governo), E, mentre tutto scorre, le Regioni trovano in tempi record l’accordo con il Governo sul riparto delle risorse: la coperta è di 108.4 milioni netti (più risorse vincolate). Ora la parola passa al Parlamento. Restano le solite polemiche sui criteri di riparto con il Sud che chiede regole più attuali e le note dolenti sulla mobilità regionale. La sanzione per le Regioni in ritardo sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari era nell’aria da mesi e le voci di corridoio al ministero della Salute si rincorrevano da qualche settimana, dopo che erano partite le lettere di diffida alle 8 Regioni inadempienti: Veneto, Piemonte, Toscana, Abruzzo, Lazio, Campania, Calabria e Puglia. Poi lo ha annunciato ufficialmente il sottosegretario della Salute con le deleghe agli Opg, Vito De Filippo: "Un solo commissario, come prevede la legge, con un ampio mandato e con l’obiettivo di rispettare la riforma prevista dalla legge 81 del 2014". Saranno commissariate le 5 o 6 regioni messe peggio: di sicuro Toscana (che si trascina l’Umbria) e Veneto, ma anche Lazio (e dunque Abruzzo-Molise) e forse la Calabria. Il Governo ha messo in agenda questo importante impegno e la nomina del commissario arriverà in uno dei prossimi consigli dei ministri. "E ora che si nomini il commissario e che si faccia presto" è l’opinione di Stefano Cerconi, responsabile nazionale welfare Cgil e portavoce del comitato Stop Opg. Perché è tardi, è già passato un anno dalla scadenza di legge e bisogna andare avanti. Al momento, come spiega la recente Relazione trimestrale presentata dal tavolo di monitoraggio ci sono 164 internati ancora negli Opg perché le Regioni di provenienza non hanno attivato le Rems (residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria), né messo a punto i percorsi personalizzati di cura con i Centri di salute mentale di competenza territoriale. Gli Opg, ai sensi della legge 81, avrebbero dovuto essere "dismessi" lo scorso aprile. Il solco era già stato tracciato nel 2008 con la legge finanziaria e con il Dpcm 1° aprile che ha tolto la competenza della sanità penitenziaria al ministero della Giustizia per assegnarla Salute e, dunque, alle Asl. La filosofia che guidava il passaggio è chiara: un malato detenuto è un malato come gli altri e dunque deve rientrare nel circuito di cure del Ssn. Ma la legge 81 ha rappresentato anche qualcosa di ulteriormente importante. Perché è un ideale completamento della riforma Basaglia sui manicomi, e segue lo spirito di quella legge che tutto il mondo "civile" ha definito rivoluzionaria, abbatte i muri, ma non lascia il detenuto abbandonato a se stesso. "Lo spirito della legge è esattamente quello di non abbandonare nessuno, né in Opg con gli ergastoli bianchi, né tantomeno nel contesto sociale disinteressandosi di persone che hanno necessità di cure e sicurezza preferibilmente senza gabbie e muri", spiega Cecconi. Ora le regioni ritardatarie dovranno fere quello che non hanno fatto finora o che hanno fatto solo parzialmente. E non basta costruire le Rems per rispettare le nuove regole. "Quella delle Rems è una soluzione ponte, guai a trasformarle in "mini-manicomi", certamente più avanzati rispetto agli Opg, ma comunque luoghi di reclusione. I detenuti pericolosi ci sono, ma rappresentano un numero minimo, il resto sono persone da curare - avvisa Cecconi". E la legge 81 lo spiega con chiarezza: per ogni detenuto va fatto un piano terapeutico con i Dsm. Non sono tanti gli ex internati. Bisogna chiudere questa fase di limbo. E non mancano altri tipi di problemi organizzativi. Gli infermieri hanno già lanciato l’allarme: "Siamo mandati nelle Rems allo sbaraglio senza regole e formazione - spiega Barbara Mangiacavalli (Ipasvi). E senza contratto che preveda questo impegno". Il commissario, chiunque sarà, ha già pronte le sue belle gatte da pelare. Il ministro Alfano: "contro i baby camorristi abbassare subito l’età punibile" di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 10 febbraio 2016 La sicurezza, innanzitutto. Per Angelino Alfano non c’è altra priorità da onorare in uno dei momenti più difficili che vive la città di Napoli sotto la minaccia dei colpi di una camorra sempre più scatenata. Sono trascorsi cinque giorni da quando il ministro dell’Interno ha presieduto nel capoluogo campano il vertice in Prefettura con magistrati e forze dell’ordine per cercare di dare risposte alla escalation di violenze e omicidi. Ma il numero uno del Viminale resta in prima linea e rilancia le due proposte avanzate giovedì scorso. Per neutralizzare i clan sono necessarie due mosse: abbassare l’età imputabile e zittire le armi. Ma in una giornata come questa non si può non partire dalla soddisfazione per la cattura di un pericoloso latitante qual è Alessandro Giannelli, finito nella rete dei carabinieri lunedì sera mentre tentava di allontanarsi da Bagnoli. "L’azione dello Stato contro il crimine non conosce tregua - dice Alfano. Anche oggi forze dell’ordine e magistratura hanno messo a segno un’altra importante vittoria con due operazioni di alto livello investigativo. I carabinieri del comando provinciale di Napoli hanno catturato il pericoloso latitante Alessandro Giannelli. Nella seconda operazione polizia e Guardia di Finanza hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di esponenti di vertice, affiliati e prestanome del clan Moccia che operavano a Roma nel settore ortofrutticolo e caseario e proceduto anche al sequestro di beni per un valore di circa un milione di euro. Questo a dimostrazione che la "Squadra-Stato" lavora ogni giorno per assicurare alla giustizia chi delinque e che la sicurezza è una delle nostre priorità di questo Governo a garanzia dei cittadini onesti". Pensieri e parole già espressi la scorsa settimana in Prefettura, come detto. Ma il responsabile del Viminale oggi rilancia la sua ricetta per tagliare la testa a quell’Idra nera che è la camorra e, soprattutto, per restituire tranquillità e sicurezza alle decine di migliaia di persone oneste che sono costrette - in molti quartieri cittadini - a subire il coprifuoco imposto dalle cosche. Da Secondigliano al Vomero, da Bagnoli a Ponticelli passando per la Sanità e Miano, la cartina di Napoli assomiglia sempre più a una mappa di guerra. Il ministro dell’Interno ieri è tornato anche a ribadire di voler proporre l’abbassamento dell’età imputabile per i minori. "Il mondo è cambiato - dice intervenendo a Radio 1 Rai Alfano - Noi non possiamo credere che a 15,16,17 anni non si abbia la piena consapevolezza della gravità di possedere una pistola. Ecco perché ho proposto l’abbassamento dell’età punibile. Si chiama deterrenza, si deve avvertire la paura della reazione dello Stato. Alcuni di questi ragazzi commettono delitti efferati sotto l’effetto di stupefacenti, mentre altri vengono usati come "fondine da pistola": cioè gli adulti affidano loro armi confidando nella loro non punibilità". "Al tempo della conoscenza globale, di un livello altissimo di informazione che deriva dall’essere sempre connessi in internet - sono sempre parole del ministro - non mi si può venire a dire che se i ragazzi hanno una pistola, che spara e può uccidere, non sono in grado di capire cosa stanno facendo. Io faccio il ministro dell’Interno e devo garantire la sicurezza, devo intervenire mandando investigatori specializzati, rinforzando i reparti di prevenzione speciale, contribuendo affinché forze dell’ ordine e magistratura abbiano gli strumenti per indagare e arre -stare le persone. E se serve, anche favorendo una presenza maggiore dell’Esercito. Il presidio dell’Esercito spesso ha dato buoni risultati. Vedremo che effetto farà a Napoli ma secondo me sarà positivo". La consapevolezza di trovarsi di fronte a una criminalità organizzata che cambia pelle continuamente riorganizzando le proprie leve di boss, gregari e affiliati è forte. E ciò induce Alfano a dire che "al contrario della camorra, che ha strutture, schemi e gerarchie che abbiamo combattuto e in qualche misura sconfitto, quelle che dobbiamo affrontare adesso sono bande a base asimmetrica, bande di quartiere, senza schemi e scale gerarchiche. Proprio per questo dobbiamo essere durissimi, prima che si costituiscano in strutture consolidate, che prevalga in loro un senso di impunità". Per snellire la giustizia è necessario riattivare l’istituto della mediazione di Bruno Ferraro (Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione) Libero, 10 febbraio 2016 Ogni anno, con l’apertura dell’anno giudiziario presso le Corti di Appello e di Cassazione, si ripete il ritornello di una giustizia troppo lenta, i cui tempi sono ben al di sotto degli standard europei e non invogliano gli investitori stranieri a operare sul nostro territorio. Discorso analogo si fa sulla burocrazia, che fa perdere fino a cento giorni di lavoro all’anno, giorni sottratti all’attività di impresa. Nel 2010, con l’introduzione della mediazione obbligatoria, si tentò un deciso passo in avanti, allineandosi ai Paesi europei e americani che la praticano dagli anni Settanta con esiti positivi. Personalmente, sposando la cultura della mediazione, ne sottolineai l’utilità, la modernità, un’intrinseca superiorità rispetto alla stessa giurisdizione. Quest’ultima infatti risolve un contenzioso con pesanti costi ed enormi ritardi, mentre la mediazione restituisce alle parti un ruolo di protagonisti, aiutandole a trovare, con la collaborazione di un mediatore terzo, una soluzione equilibrata, che soddisfa entrambi i litiganti ed evita penosi strascichi giudiziari. L’obbligatorietà delle procedure di mediazione era necessaria per innescare un processo virtuoso che avrebbe trasformato una realtà di irriducibile contrapposizione facendo nascere nel nostro Paese quella cultura della mediazione che, altrove, si è ormai affermata. Sappiamo come è andata. L’ostilità della categoria forense è stata immediata, fondandosi su argomentazioni in gran parte strumentali: impreparazione dei mediatori, costi, durata delle procedure. A nulla è valso rimarcare l’esistenza di corsi di formazione e aggiornamento, la presenza di tariffe ministeriali, la vigilanza sugli organismi, la previsione di una durata molto contenuta rispetto ai tempi del tribunale. È intervenuta ad un certo punto la Corte Costituzionale che non dichiarò illegittima la mediazione ma che il governo, introducendo l’obbligatorietà, aveva violato la delega conferitagli dal Parlamento incorrendo in un eccesso. Molti organismi hanno chiuso per impossibilità di sostenere i costi (una sede, almeno due segretari, una fideiussione bancaria di notevole importo). Gli interventi successivi del legislatore sono stati meri palliativi. L’obbligatorietà è stata limitata a poche materie: condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con un altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, contratti bancari e contratti finanziari. La mancata partecipazione alla procedura non è stata adeguatamente sanzionata. L’obbligo per il legale di informare il cliente sulla possibilità della mediazione si risolve in una firma apposta in calce a un prestampato. Si è data la possibilità di far comparire innanzi al mediatore non le parti ma i loro legali: gli avvocati sono diventati mediatori di diritto, quindi esentati dall’obbligo di frequentare un corso di preparazione. E stata introdotta la cosiddetta negoziazione assistita, strumento con cui gli avvocati possono evitare la mediazione anticipandola attraverso libere trattative stragiudiziali. Il bilancio è sotto i nostri occhi. Crescono i giudizi, si allungano i tempi, aumentano i costi, la giustizia civile attraversa una crisi profonda. Quale speranza per uscire dalla "morta gora"? La speranza riposa nei giudici e nell’Europa. I primi possono ampliare gli spazi della mediazione delegata, assegnando alle parti un termine per effettuarla. L’Europa potrebbe e dovrebbe intervenire per sanzionare la sostanziale disapplicazione, da parte dell’Italia, dell’istituto. Ci pensi soprattutto il governo Renzi, se lo vuole, ad adottare le contromisure. Per essere, almeno in questo, veramente europei. La prima donna magistrato: "da 50 anni sfido i pregiudizi degli uomini" di Maria Corbi La Stampa, 10 febbraio 2016 Maria Gabriella Luccioli: "Qualcosa è cambiato, ma la barriera è ancora lì". E sulle quote rosa nel Csm: "Le elezioni sono già per quote". La magistratura al femminile esiste in Italia da 50 anni, e l’ultimo anno ha fatto segnare il sorpasso di genere: 51% di donne e 49 di uomini. Ma i ruoli direttivi restano preclusi e ci sono sacche in cui la presenza delle donne è ancora molto scarsa. Maria Gabriella Luccioli, classe 1940, pioniera delle donne in magistratura, è una delle magnifiche otto che per prime indossarono la toga nel 1965 dopo che, il 9 febbraio del 1963, il Parlamento approvò la legge che stabiliva la parità tra i sessi negli uffici pubblici e nelle professioni. Da allora sono passati cinquant’anni, le donne in magistratura hanno superato nei numeri gli uomini, ma c’è ancora molta strada fare, come ha ricordato il ministro della Giustizia Andrea Orlando sul nostro giornale. Ancora poche le donne sono chiamate a ruoli direttivi. Ad aprire la strada - ancora una volta - è stata Maria Gabriella Luccioli che fino a maggio è stata la prima presidente titolare di sezione della Cassazione. Allora, presidente Luccioli, le hanno fatto piacere le parole del ministro Orlando? "Molto. Il ministro ha detto cose che è difficile sentire da un uomo. L’argomento ha ancora molte vischiosità. Il tetto di cristallo è sempre lì". Quanto è resistente? "Abbastanza da non essere stato ancora infranto. In magistratura la percentuale delle donne chiamate a incarichi direttivi è ancora troppo bassa. Da poco sono state nominate due donne a capo della procura generale di Bari e di Genova. E siamo qui a parlarne. Se poi apriamo il capitolo Csm...". Apriamolo... "Tre sole donne e noi giudici togati ne abbiamo eletta una sola. Una sproporzione assoluta che rende difficile portare avanti una politica delle pari opportunità. Occorre riequilibrare la situazione cambiando le regole nell’elezione dei membri". Lei è quindi favorevole alle quote rosa... "Per il sistema elettorale del Csm le quote costituiscono un elemento essenziale". Lei è stata la prima donna candidata a diventare presidente della Cassazione, nel 2013. Poi le è stato preferito un uomo (Giulio Santacroce). "Non è una vicenda di cui parlo volentieri". Immagino. Otto associazioni femminili scrissero al Presidente della Repubblica sottolineando come fosse l’occasione giusta per dare "concretezza al processo da tempo in atto nella società civile e nelle istituzioni democratiche per la piena realizzazione della parità tra donne e uomini". Si è data una risposta sul perché non ce l’ha fatta? "Possono aver pesato tante cose. Certe sentenze, come quella Englaro, possono aver dato fastidio. Oppure non si è ancora pronti ad affidare la presidenza della Cassazione ad una donna. O il fatto che non ho mai chiesto niente a nessuno". O può aver pesato anche la sentenza, oggi molto attuale, in cui si sottolineava come un bambino possa crescere sereno anche con una coppia omosex. "Una sentenza troppo enfatizzata. Si trattava di verificare se la corte di Appello avesse correttamente affidato il bambino alla madre nonostante questa avesse una relazione omosessuale. E la mia decisione si basava sul fatto che il padre era violento e che non vi sono certezze scientifiche o dati di esperienza che provino come vivere in una famiglia omosex sia dannoso". Quando lei e le sue sette colleghe siete entrate per prime in magistratura quale era il clima? "Pessimo. Mi ricordo la diffidenza, il pregiudizio, la malcelata ostilità, il paternalismo. Percepivo il dovere di dare il massimo perché nessun errore mi sarebbe stato perdonato. Poi, mano a mano, mi sono affrancata da questo "costo in più" e ho acquisito la consapevolezza di dover creare un mio modo di essere giudice non appiattito sul modello maschile". Corte europea dei diritti umani: ok al lavoro in carcere anche oltre i 65 anni di Giovanni D’Agata corrierepl.it, 10 febbraio 2016 La Corte europea dei diritti umani oggi ha respinto il ricorso di un detenuto 69enne svizzero. L’uomo, avendo superato i 65 anni, voleva essere esentato dall’obbligo di lavorare all’interno del carcere di Regensdorf (Zh), in cui è recluso. La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha respinto il ricorso di un detenuto 69enne svizzero. L’uomo, avendo superato i 65 anni, voleva essere esentato dall’obbligo di lavorare all’interno del carcere di Regensdorf (Zh), in cui è recluso. La sentenza dei giudici, divulgata oggi, dà ragione al Tribunale federale svizzero, in quanto l’imposizione di lavorare anche per i carcerati che sono entrati in età pensionabile è un modo per ridurre gli effetti nocivi della detenzione. Si tratta delle prima volta che la Corte di Strasburgo si esprime su una questione simile. L’uomo, che compirà 70 anni nel 2016, denunciava una violazione del divieto ai lavori forzati, essendo costretto a lavorare tre ore al giorno e incorrendo in sanzioni in caso di rifiuto nonostante la sua età avanzata. I giudici hanno però rifiutato la sua richiesta, spiegando che "un lavoro adatto e ragionevole può contribuire all’organizzazione della giornata e a mantenere un’attività, obbiettivi importanti per il benessere del detenuto a lungo termine". Inoltre, precisano che lo svizzero è attualmente integrato in una divisione speciale del penitenziario, insieme ad altri reclusi che hanno raggiunto l’età pensionabile. In più le sue mansioni vengono remunerate. La Corte ha dunque confermato la prima sentenza del Tribunale federale, risalente al 2013. L’articolo 4 della Convenzione europea, che proibisce il lavoro forzato, non permette infatti di esigere un divieto assoluto per casi di questo tipo. A livello europeo la Svizzera non è la sola a imporre occupazioni ai carcerati più anziani. Secondo uno studio comparativo condotto in 28 Paesi, sedici Stati dispensano i carcerati in età pensionabile da ogni genere di lavoro. Negli altri dodici, invece, sono previste eccezioni in alcuni casi particolari, ma nel loro diritto interno non esiste un articolo che regoli esplicitamente la controversia. Il vescovo e il ladro ucciso a Chioggia "quel risarcimento è come un furto" Corriere della Sera, 10 febbraio 2016 Il prelato contro il giudice: il tabaccaio che ha sparato si difendeva da un’aggressione. Monsignor Adriano Tessarollo, per mestiere e per vocazione, fa il vescovo di Chioggia; crede nella giustizia divina e in quella degli uomini. Ma se la prima non ammette critiche, almeno per un ministro di Dio, le decisioni della seconda non hanno il dogma dell’infallibilità. E così, riflettendo sul caso del tabaccaio padovano Franco Birolo, condannato per aver ucciso un ladro entrato nel suo negozio, a 2 anni, 8 mesi e 325 mila euro di risarcimento, monsignor Tessarollo ha espresso ciò che meno ti aspetti da un pastore di anime: "Quello che il ladro non è riuscito a rubare da vivo, il giudice lo ha tolto, completando il furto alla famiglia. Si rischia di trasmettere il messaggio: violenti, scassinatori e ladri, continuate la vostra criminale attività". Parole scritte in un editoriale su "La nuova scintilla" settimanale della diocesi. La polemica - Apriti cielo, è il caso di dire: un vescovo che parla come un sindaco della Lega! "Ma per carità: è solo che io ascolto anche il comune sentire della gente e così è nata quella riflessione" replica monsignor Tessarollo, che nei modi e nel tono della voce non è certo un "pistolero"; anche se si narra che anni fa, da parroco, stese con un "diretto" un malintenzionato sorpreso a rubare in canonica. "Questo signor Birolo - prosegue - non è nemmeno mio parrocchiano. Ma ho letto della sua vicenda, di quella del benzinaio Stacchio, dell’altra col ladro che durante un furto è stato morso da un cane e fa causa al padrone del cane. Possibile che chi commette un reato si senta in diritto di arrivare a tanto?". "Il diritto a difendersi" - Un sentimento che ha portato il prelato, che è stato anche responsabile delle politiche per l’immigrazione nella Cei del Triveneto e oppositore delle sparate leghiste su crocifisso e Islam a scrivere sulla Nuova scintilla argomenti come questo: "Un padre di famiglia, un imprenditore, un lavoratore ha diritto di non vedere la sua casa violata, compromessa la sua attività, derubati i suoi beni, minacciata la quiete sua e dei suoi familiari. La vita delle persone non è solo fisica, ma un complesso di realtà tra cui la libertà, il progetto di vita, la sicurezza... basta che uno si presenti senza armi perché gli sia assicurata l’incolumità mentre lui viola i diritti degli altri? Si pensi a quanto baccano si sta facendo per i diritti civili non riconosciuti!...Abbiamo ancora a che fare con leggi scritte 40-30 anni fa in un certo clima culturale e politico: ci vuole coraggio a dirlo". "Una tassa a vita per essersi difeso" - Ma il Vangelo non dice "porgi l’altra guancia?"..."Le Sacre Scritture le conosco bene e vi dico che vanno contestualizzate. Quel tabaccaio non voleva far del male, ha avuto una reazione emotiva e non sarà contento di aver ammazzato. Ma dovrà pagare una tassa di mille euro al mese per 27 anni per essersi difeso. È una condanna che mette sottosopra la famiglia del derubato e un vitalizio per la famiglia del ladro!". Però così si corre il rischio di scatenare una corsa alle armi, alla vendetta. O no? "C’è chi mi ha chiamato "vescovo giustiziere" ma non ho incitato nessuno ad armarsi. La mia riflessione era rivolta alla giudice: volevo fare in modo che anche a lei arrivasse il "sentire" del popolo". Alla giudice Beatrice Bergamasco, autrice della sentenza, qualche eco del sentire popolare è arrivato, visto che è soggetta a tutela in seguito a minacce. Ma ieri ha ribadito il suo punto di vista con le motivazioni della condanna di Birolo: "Non ha mostrato ravvedimento e non ci sono i presupposti della legittima difesa". Per Equitalia recuperabili 51 miliardi sui mille "arretrati" di Marco Mobili Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2016 I crediti non riscossi che Equitalia può cercare di recuperare non vanno oltre i 51 miliardi di euro. Non più del 5% del carico totale lordo iniziale affidato al concessionario pubblico della riscossione e pari a 1.058 miliardi a fine 2015. Si tratta di un "mega-magazzino" in cui contabilmente sono registrati dal 2000 a oggi tutti i crediti che l’ente pubblico della riscossione è chiamato a recuperare. Ma che per essere cancellati richiedono procedure complesse, burocratiche e soprattutto lunghe nel tempo. Basti pensare, come ha evidenziato l’ad di Equitalia Ernesto Maria Ruffini in audizione ieri in commissione Finanze al Senato, che il 20,5% del carico totale è già stato "annullato dagli stessi enti creditori, in quanto ritenuto indebito" o per provvedimenti adottati dall’amministrazione in autotutela o per sentenze passate in giudicato. A chi come il senatore Franco Carraro (Fi) gli ha fatto notare che non è corretto nei confronti dei contribuenti conteggiare queste somme in quel 5% di ruoli "lavorabili", Ruffini non ha potuto che ammettere la poca chiarezza del dato, ma allo stesso tempo ha ricordato all’intera commissione che quel dato deve restare "in magazzino" perché "lo prevede espressamente la legge". I numeri in gioco - Di quei mille miliardi di ruoli restano allora 841 milioni di euro di cui però oltre un terzo sono difficilmente recuperabili: 138 miliardi sono dovuti da soggetti falliti, 78 miliardi da persone decedute e imprese cessate, 92 miliardi da nullatenenti. Per altri 28 miliardi, poi, la riscossione è sospesa: "residuano 506 miliardi, ha sottolineato Ruffini, di cui oltre il 60% (314 miliardi) corrispondono a posizioni per cui si sono tentate invano azioni esecutive". Al netto di altri 25 miliardi di rate per riscossioni dilazionate e di 81 miliardi di riscosso, il "mega-magazzino" di Equitalia si riduce a 85 miliardi, "di cui 34 miliardi sono ancora non lavorabili per norme a favore dei contribuenti". A conti fatti, Equitalia può mettere nel mirino la somma di 51 miliardi di euro. Le quote inesigibili - I motivi di tutto questo secondo Ruffini vanno prevalentemente imputati alle cosiddette "quote inesigibili" che "rappresentano la patologia estrema della riscossione mediante ruolo". Non solo. Esistono almeno altre due criticità. Una è l’intervallo temporale, ancora troppo lungo, tra gli accertamenti e l’avvio della riscossione di Equitalia. La seconda è l’impossibilità per l’ente della riscossione di poter utilizzare tutte le basi dati. Per questo Ruffini non ha perso l’occasione per sollecitare il legislatore affinché si possa trovare la strada per consentire anche a Equitalia di avere la disponibilità di dati e informazioni aggiornate su rapporti di lavoro dipendente e pensionistici così come di poter accedere "all’Archivio dei rapporti finanziari". Un passaggio fondamentale che "consentirebbe, ha detto Ruffini, di massimizzare l’efficacia dell’azione di riscossione, eliminando attività improduttive" e in qualche caso duplicate, ma soprattutto di avere un quadro reale e aggiornato "della consistenza dei rapporti che i debitori intrattengono con gli operatori finanziari". Le possibili soluzioni sono comunque in una semplificazione delle procedure con una maggiore spinta all’adempimento spontaneo, a una riduzione dei tempi dell’accertamento e del contenzioso. Solo dopo, ha detto Ruffini, si potrà "ridurre ai minimi termini" la riscossione coattiva. In sostanza, ha sottolineato l’ad, "tutti i malanni" della riscossione "sono in realtà, in buona parte, la mera manifestazione di quelli di tutta la macchina delle entrate tributarie". Più rateizzazioni - Per Ruffini ieri è stata l’occasione anche per aggiornare il dato annuale sulle rateizzazioni concesse ai debitori. Nel 2015 gli incassi da rateazione hanno rappresentato circa il 50% del totale degli incassi. Dal 2008 a oggi Equitalia ha gestito circa 5,6 milioni di istanze di rateizzazione, "per un valore di oltre 107 miliardi di euro". Nel corso del 2015 sono state presentate complessivamente 1.216.784 istanze di dilazione, per un totale di 22,7 miliardi di euro; al momento, ne sono state accolte 1.179.308 e respinte solo 28.189 per mancanza dei requisiti di legge, in linea con l’andamento dell’anno precedente. Accolta con favore, infine, da tutti i senatori l’ipotesi, anticipata ieri su queste pagine, di sospendere le ganasce fiscali per i debitori che ottengono la rateizzazione da Equitalia. Per il presidente della Commissione Finanze Mauro Maria Marino (Pd) si va nella giusta direzione e il legislatore può così valutare come migliorare ulteriormente l’efficienza dell’azione svolta da Equitalia e "la tutela nei confronti dei contribuenti in difficoltà". Svolta in Cassazione, non è reato coltivare due piante di canapa di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2016 Svolta giurisprudenziale nel reato di coltivazione di stupefacenti, quantomeno per l’ipotesi lieve (articolo 73 c.5 del Dpr 309/90). La Sesta sezione penale della Cassazione - sentenza 5254/16 depositata ieri - disinnesca la produzione "a uso domestico" rendendola di fatto non perseguibile per "inoffensività": qualcosa di diverso - e anche di più ampio - dalla stessa particolare tenuità del fatto introdotta con la legge 28 del marzo 2015. I giudici di legittimità hanno tracciato una nuova linea guida sulla valutazione della "piantagione domestica" partendo dal ricorso di una coppia di ventenni trentini, condannati per l’ipotesi lieve del Dpr 309/90 per aver coltivato in un armadietto-serra di casa due piante di canapa indiana, con il corredo di un essicatore per le foglie prodotte. Secondo la Corte d’appello, nonostante l’irrilevanza del quantitativo anche per il solo uso personale, il reato è comunque sempre punibile in quanto è "coltivazione" e poiché, nel caso specifico, il materiale sequestrato raggiungeva la "soglia drogante". La difesa dei due ragazzi aveva puntato a una pronuncia di incostituzionalità della norma che punisce sempre e comunque la coltivazione, alla luce della legge 28/2015 sulla particolare tenuità del fatto. I giudici della Sesta, tuttavia, hanno seguito un percorso argomentativo diverso, spingendosi anche oltre la "tenuità" che, per inciso, non elimina le pene accessorie per gli indagati. Rifacendosi alla nota sentenza della Consulta sulla assenza della soglia minima di punibilità nell’omesso versamento di contributi previdenziali (la decisione 139 del 2014), il relatore della Sesta rimarca come qui si versi, in sostanza, nella stessa situazione. E cioè, fatto tipico perfettamente realizzato (la coltivazione delle piante di canapa) ma con un grande dubbio circa la offensività in concreto della condotta perseguita che non lede - va da sé - il bene giuridico tutelato della "non proliferazione" della droga sul mercato. Proprio applicando questo principio, il giudice di merito "deve" sempre operare "una valutazione di sussistenza della offensività in concreto della condotta (...) atteso che il "principio di offensività" ha "rilievo costituzionale". Sotto questo profilo, le due piantine di canapa nell’armadietto equivalgono ai 24 euro di contributi che avevano indotto la Consulta ad affermare la non lesività penale di quella omissione. Interessante anche il corollario della motivazione, che pone una sorta di gerarchia tra il principio di offensività in concreto (articolo 49 del codice penale) e quello della particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis). Il giudice, scrive il relatore, prima di applicare eventualmente la nuova norma sulla non punibilità, deve valutare se il reato si sia effettivamente realizzato in tutti i suoi elementi, di cui la reale "offensività in concreto" è un cardine. Violenza sessuale, carcere preventivo anche per il reo confesso di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2016 No ai domiciliari per l’imputato di violenza sessuale grave anche dopo che ha confessato. L’entrata in vigore delle legge di riforma delle misure cautelari (n. 47/2015) che, per arginare il fenomeno delle "manette facili", ha previsto il carcere come extrema ratio non ha infatti toccato la duplice "presunzione relativa" prevista dall’articolo 275, comma 3, del Cpp con riferimento all’articolo 609 bis del codice penale. Per cui continua a presumersi sia la sussistenza delle esigenze cautelari (an) sia la loro tutelabilità con la sola misura della custodia in carcere (quomodo). Lo ha stabilito il tribunale di Lecce, Sezione riesame, con l’ordinanza 27 novembre 2015, rigettando il ricorso presentato da un cinquantenne accusato di violenza sessuale su di una minore di 11 anni. La difesa, puntando sulla "collaborazione" dell’indagato, aveva invece chiesto l’annullamento dell’ordinanza del Gip e, "ritenendo ormai affievolite le esigenze cautelari", gli arresti domiciliari con applicazione degli "strumenti elettronici di controllo". L’uomo, infatti, aveva confessato per filo e per segno cinque mesi di violenze sulla minore dettagliandone anche le modalità. Al contrario, secondo il giudice non era emerso né un pentimento né una effettiva collaborazione dal momento che l’indagato, da una parte, aveva sminuito la gravità dei fatti; dall’altra dichiarato un numero minore di incontri. In punto di diritto, chiarisce il tribunale, per quanto riguarda la violenza sessuale, anche dopo la riforma della custodia cautelare, il quadro normativo è identico a quello scaturito a seguito della sentenza della Corte costituzionale 265/2010, che, mutando da assoluta in relativa la presunzione precedentemente prevista in ordine alla tutelabilità delle esigenze cautelari con la sola misura massima della custodia in carcere, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del secondo e terzo periodo del terzo comma dell’articolo 275 del Cpp (nel testo antecedente all’entrata in vigore della L. 47/2015), nella parte in cui "nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure". E, prosegue l’ordinanza, nel caso affrontato, "in ragione della gravità e reiterazione per un lungo periodo dei fatti-reato posti in essere, nonché in considerazione della negativa personalità dell’indagato, non sussiste alcun elemento idoneo a superare la doppia presunzione relativa". Non solo, l’abitazione si trova proprio nelle vicinanze di quella della persona offesa mentre il comma 1 bis dell’articolo 284 del Cpp prevede che "il Giudice stabilisce il luogo degli arresti domiciliari in modo da assicurare le esigenze di tutela della persona offesa dal reato", sconsigliandone dunque l’applicazione "in tutte le ipotesi in cui l’abitazione di eventuale esecuzione della custodia domiciliare sia particolarmente vicina a quella di residenza della vittima". Infine, per quanto riguarda gli strumenti di controllo elettronici, precisa il tribunale, "se consentono una più celere verifica dell’ottemperanza all’obbligo di restare fisicamente all’interno della propria abitazione, non appaiono però in grado di svolgere alcun ruolo in riferimento a tutte le ulteriori prescrizioni associate alla misura della detenzione domiciliare (obbligo di non comunicare con soggetti non conviventi, ecc.): tutte prescrizioni la cui ottemperanza richiede necessariamente una capacità di autolimitazione dell’interessato". Sanzionati i ricorsi in Cassazione manifestamente infondati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2016 Corte di cassazione, Sesta sezione civile, ordinanza 9 febbraio 2016 n. 2584. Va sanzionato il ricorso che sostiene tesi manifestamente infondate. Deve pertanto essere superato l’orientamento della Cassazione per il quale "la mera infondatezza in iure delle tesi prospettate in sede di legittimità non può di per sé integrare gli estremi della responsabilità aggravata di cui all’articolo 96 del Codice di procedura civile". La necessità del cambiamento è la tesi chiave dell’ordinanza della Corte di cassazione n. 2584 depositata ieri. La Corte, quanto alle norme di riferimento, ricorda da una parte che al caso sottopostole era applicabile l’articolo 385, comma 4, del Codice di procedura; esso prevede la possibilità per il giudice, quando pronuncia sulle spese, di condannare la parte soccombente al pagamento di una somma determinata in via equitativa non superiore al doppio dei massimi tariffari, se individua gli estremi della colpa grave nella proposta del ricorso o nella resistenza allo stesso. Dall’altra parte, la sentenza avverte che la norma non è stata superata, ma il suo contenuto è ora tradotto nell’articolo 96, terzo comma, con la scomparsa del riferimento al limite massimo ma l’allargamento a una disposizione di carattere generale e non più riferita al solo perimetro dei giudizi di legittimità. La Cassazione sottolinea poi che il ricorso in questione contestava il verdetto di appello sostenendone l’erroneità per avere privilegiato alcune prove piuttosto che altre. Un motivo che confligge con il consolidato orientamento della Cassazione, secondo il quale in sede di legittimità non è possibile una diversa considerazione degli elementi probatori rispetto a quella dei giudici di merito. La sentenza depositata ieri mette allora in evidenza come la proposta di ricorsi dai contenuti così distanti dal diritto vivente e dalle interpretazioni delle Sezioni unite costituisce di per sè indice della mala fede o della colpa grave del ricorrente. Rilievo che chiama in causa la difesa, visto che, avverte la Corte, "qualsiasi professionista del diritto non poteva non avvedersi della totale carenza di fondamento del ricorso oggi in esame. Per i giudici della Sesta sezione va allora affermato un orientamento diverso rispetto a quello del recente passato che escludeva la responsabilità aggravata a carico di chi ha sostenuto tesi prive di fondamento. Un orientamento, quest’ultimo, non più coerente né con natura e la funzione del giudizio di legittimità né con il quadro ordinamentale. Infatti, nel tempo, il legislatore (la sentenza sottolinea gli interventi più significativi) ha via via rafforzato il ruolo della Cassazione come garante di un’interpretazione uniforme delle legge, ruolo che "resterebbe ovviamente frustrato se la Corte non fosse investita solo di ricorsi che meritino e rendano necessario il suo intervento". Inoltre, va tenuto conto di almeno tre altri principi: quello di ragionevole durata del processo, che esce compromesso se la Cassazione viene chiamata ad occuparsi di ricorsi privi di qualsiasi chance do accoglimento, distogliendola da quelli che, fondati o infondati richiedono un intervento correttivo. Il secondo principio è rappresentato dall’abuso del processo, mentre il terzo prevede che le norme processuali vanno interpretate in maniera tale da evitare spreco di energie giurisdizionali. La responsabilità delle toghe non è retroattiva di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2016 Corte di Cassazione - Sezione III civile - Sentenza 9 febbraio 2016 n. 2505. La nuova legge sulla responsabilità dei magistrati non è retroattiva. E l’impossibilità di applicare le norme introdotte dalla legge 18/2015 ai giudizi introdotti dopo la sua entrata in vigore non fa scattare una disparità di trattamento in contrasto con la Costituzione. La Corte di cassazione, con la sentenza 2505 depositata ieri, considera inammissibile la domanda di risarcimento per la responsabilità dei giudici avanzata da una società. L’azienda ricorrente era finita nel mirino dell’agenzia delle Entrate per la presunta partecipazione, quanto meno a titolo colposo, a una frode carosello. La contribuente aveva visto trionfare le sue ragioni solo davanti alla Commissione tributaria provinciale, mentre era risultata soccombente negli altri gradi di giudizio, Cassazione compresa. La società si era allora rivolta al Tribunale per ottenere il risarcimento del danno dallo Stato, previsto dalla legge sulla responsabilità dei magistrati allora in vigore (legge 117/1988), per colpa grave dei giudici ed errata interpretazione del diritto comunitario. Il Tribunale, dal canto suo, aveva dichiarato inammissibile il ricorso, con un decreto avallato dalla Corte d’appello. L’istanza non aveva superato il vaglio di ammissibilità previsto dalla vecchia legge. Secondo il ricorrente, però, la sopravvenuta abrogazione del filtro di ammissibilità in virtù dell’introduzione della legge 18/2015, comporterebbe per la Cassazione la necessità di restituire gli atti al Tribunale di Perugia per l’esame della questione nel merito. L’ulteriore richiesta è di sollevare una questione di illegittimità costituzionale nel caso si affermi l’inapplicabilità della nuova norma ai giudizi già pendenti. Conclusione che metterebbe in atto una evidente differenza di trattamento rispetto alle domande proposte dopo la riforma e quindi non più soggette alla "tagliola" dell’ammissibilità. Per la Cassazione entrambe le tesi sono infondate. La legge 18/2015 non contiene alcuna norma di diritto transitorio, e non ha efficacia retroattiva come previsto dal principio generale dettato dall’articolo 11 comma 1 del Codice civile. E i giudizi introdotti prima della data di entrata in vigore della legge (19 marzo 2015) restano soggetti al vaglio preliminare senza che il passaggio preventivo violi alcun precetto costituzionale. La Suprema corte ricorda che l’articolo 3 della Costituzione non consiste in un assoluto livellamento di posizioni anche eterogenee ed è inoltre facoltà del legislatore, il cui esercizio è insindacabile, disciplinare nel modo che ritiene più opportuno la successione di leggi nel tempo. Naturalmente é fatto salvo il limite della irragionevolezza manifesta e della lesione dell’affidamento incolpevole dei cittadini: profilo che, nel caso di specie manca. La Cassazione riconosce però un errore di diritto e un’insufficiente motivazione nel decreto impugnato, che non basta però a far dichiarare ammissibile la domanda di risarcimento perché comporta una valutazione di fatto. Veneto: l’ex governatore Galan sconterà la pena residua ai domiciliari di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 10 febbraio 2016 Il tribunale di Sorveglianza di Padova boccia l’affidamento ai servizi sociali, evitato il carcere per "motivi di salute". Giancarlo Galan non tornerà in carcere ma resterà in detenzione domiciliare fino al termine della pena, traguardo tagliato tra appena 9 mesi. Lo ha deciso il tribunale di Sorveglianza di Padova (presidente il giudice Giovanni Maria Pavarin) che ha bocciato l’istanza di affidamento in prova ai Servizi sociali presentata dalla difesa dell’ex governatore del Veneto nonché ex ministro e tuttora parlamentare della Repubblica italiana. E che ha pure respinto la richiesta di trasferire, di nuovo, in carcere l’ex "potentissimo" leader veneto di Forza Italia, arrestato il 22 luglio 2014 e finito nel tritacarne dell’inchiesta veneziana che ha svelato lo scandalo Mose, destinato a smascherare un sistema di mazzette distribuite come stipendi a politici e alti bucrocrati della Regione. Ieri mattina è stata depositata l’ordinanza, immediatamente notificata ai difensori, i penalisti Antonio Franchini e Niccolò Ghedini. Secondo la decisione del Tribunale, Galan dovrà continuare a scontare la condanna nella sua attuale abitazione, una villa a Bastia di Rovolon prestata dall’amico Sergio Viscioni dove vive con la moglie Sandra Persegato e la figlia. Vietato ogni contatto con l’esterno per mettere la parola "stop" a quella valanga di interviste rilasciate in tivù, on line o sulla carta stampata tramite le quali l’ex presidente del Veneto pontificava, lamentando di non essere stato interrogato dalla procura, mentre lui era pronto a fare i nomi dei cento imprenditori finanziatori della sua carriera politica, e non solo. Tanto da scatenare la diplomatica, eppure ferma, reazione del procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio: "Se l’onorevole Giancarlo Galan ha da raccontare fatti di rilevanza penale, le porte della procura sono aperte, come per tutti i cittadini". Un comportamento molto "sopra le righe" per un detenuto visto che i "domiciliari" sono una modalità per scontare la pena detentiva sia pure in forma più lieve. Un comportamento che ha pesato nella decisione finale dei giudici di Sorveglianza. Niente carcere, comunque: a giustificare la detenzione in casa ci sono le condizioni di salute di Galan, affetto da serie patologie croniche che necessitano di una terapia complessa, di sorveglianza medica, attività fisica e dieta, pur non esistendo un’incompatibilità assoluta con il carcere secondo i periti nominati dal tribunale. E in più c’è il risarcimento del danno avvenuto con la confisca di villa Rodella a Cinto Euganeo, di fatto concordata con lo Stato. Per la difesa il valore della dimora storica sarebbe di tre milioni e mezzo di euro, ben superiore ai 2 milioni e mezzo di euro di risarcimento indicato nella sentenza di patteggiamento. Tuttavia il "saccheggiamento" di villa Rodella prima della consegna allo Stato, con la sottrazione di water, lavandini e termosifoni, si è rivelata un boomerang per Galan. E ha inciso negativamente sulla concessione dell’affidamento in prova come risulta nell’ordinanza: sulla vicenda la procura di Rovigo ha aperto un’inchiesta. "Siamo dispiaciuti, ci aspettavamo l’affidamento in prova ai Servizi sociali" commenta l’avvocato Franchini, "Ma questa decisione non ci ferma: faremo ricorso per Cassazione. Almeno il tribunale di Sorveglianza ha respinto la richiesta della procura generale davvero eccessiva". Torino: l’ex di Prima Linea ritorna nel suo carcere, le agenti carcerarie si ribellano di Carlotta Rocci La Repubblica, 10 febbraio 2016 È Liviana Tosi, fu una delle leader del gruppo eversivo e detenuta per anni delle Vallette intitolato a una vittima del terrorismo. Le guardie più anziane: "Ci sputavano e insultavano". Lei: "Sono dispiaciuta. Ma il progetto cui lavoro all’interno ha forte valore sociale". Vorrebbe arredare l’asilo nido del carcere torinese delle Vallette intitolato a Lorusso e Cotugno dove è stata detenuta anni fa come ex esponente di Prima Linea. Qualche giorno fa, Liviana Tosi, detenuta a cavallo tra gli anni 80 e 90 è tornata al carcere torinese per un sopralluogo nella sezione femminile. Ma la sua visita ha sollevato polemiche. Ha fatto discutere la possibilità che un’esponente di spicco dell’organizzazione armata di estrema sinistra nata a metà anni 70 possa dare il suo contributo in un carcere dedicato proprio ad una delle vittime di Prima Linea come Giuseppe Lorusso, agente penitenziario ucciso proprio a Torino, il 19 gennaio del 1979 a 30 anni appena compiuti. Ed è successo anche altro. Durante la visita della donna, avvenuta nei giorni scorsi, le agenti presenti nella sezione femminile hanno protestato rumorosamente. "Le agenti più anziane hanno riconosciuto la persona e ricordano ancora epiteti e minacce rivolte loro in quegli anni", si legge in un comunicato diffuso dall’Osapp. E una guardia carceraria ha raccontato di più: "Lei e le altre non perdevano occasione per sputarci addosso e per insultarci. Io sono stata apostrofata più volte "cagna di Stato". Non posso dimenticarlo. Abbiamo chiesto all’educatore se si fosse reso conto di chi ci avesse portato. Ormai qui dentro entra chiunque, ma un’ex terrorista è davvero troppo. Questa gente ti terrorizzava anche solo a guardarla in faccia. Noi non l’abbiamo dimenticata, come hanno potuto farlo gli altri?". "Certo, i tempi cambiano e se lo scopo della pena è quello di reinserire produttivamente nella società civile chi ha commesso un reato, ciò deve valere anche per i terroristi - dice Leo Beneduci segretario generale Osapp - ma forse, è il caso di dirlo e non si tratta di incapacità di perdono, un limite prima o poi occorre che qualcuno lo metta". "La Tosi, in collaborazione con l’associazione Eta Beta opera da tempo in carcere", spiega il direttore dell’istituto penitenziario, Domenico Minervini. Il carcere ha dato il via a un progetto per creare un’area verde per i colloqui tra detenuti e i familiari, in particolare i bambini, nell’ambito del progetto Spazi Violenti. I pannelli che verranno realizzati saranno dedicati alle vittime del rogo scoppiato nel carcere nel 1989 quando morirono 11 persone, 9 detenute e due agenti. "Rispetto il dissenso e so che quelle del terrorismo sono pagine difficili conclude Minervini - Da tempo però lo Stato ha avviato percorsi di riappacificazione e superamento e la Tosi come molti altri hanno completato il loro percorso di reintegro nella società". "Sono rammaricata, dispiaciuta, molto triste soprattutto per non aver previsto un esito di questo tipo", commenta Liviana Tosi che definisce la vicenda "Una inutile polemica che vorrei fare tacere sul nascere". "Per me tra l’altro tornare alle Vallette non è facile - spiega ancora la donna - ma ho fatto una forzatura su me stessa soltanto perché il progetto ha un forte contenuto sociale e perché comunque la memoria ha sempre la sua importanza. Mi sono resa disponibile a seguire il progetto in collaborazione con tutti gli altri partners". Torino: l’ex pg Caselli "c’è differenza tra chi dà lezioni e chi si impegna nella società" di Paolo Griseri La Repubblica, 10 febbraio 2016 Un conto è il comportamento "di chi sale in cattedra a impartire lezioni", un altro "è la scelta meritoria e da sottoscrivere di chi decide di giungere al reinserimento attraverso attività socialmente utili". Ma anche in questo secondo caso "è sempre opportuna la preparazione di un incontro e di una visita. Soprattutto se avvengono in un luogo particolare come lo stesso carcere in cui un’ex detenuto ha trascorso gli anni della carcerazione". Così Giancarlo Caselli sulle polemiche nate dalla visita alle Vallette dell’ex terrorista di Prima Linea Liviana Tosi. Dottor Caselli, Torino è stata profondamente ferita dal terrorismo. Qual è il limite che un ex terrorista, sia pure in un percorso di riabilitazione, non deve superare? "Va premesso che le polemiche di queste settimane riguardano vicende diverse. Un conto è quel che stava per accadere a Roma dove due ex terroristi erano stati invitati a parlare alla scuola di magistratura sul ruolo riabilitativo della pena. Io penso che non sia opportuno far salire in cattedra chi ha ucciso e ha avuto un ruolo da protagonista nella follia del terrorismo. Anche perché, molto di frequente, in queste lezioni si sentono persone che hanno partecipato ad azioni armate, hanno ucciso e se la cavano dicendo che, sì, hanno sbagliato, ma perché i tempi non erano ancora maturi". È accaduto anche a Torino? "Anni fa era stato proposto anche a Torino un intervento analogo da parte di un noto esponente di quello che si era chiamato il partito armato. Ricordo ancora la reazione del compianto Maurizio Laudi di fronte a una proposta simile. Il progetto venne precipitosamente abbandonato. Io apprezzo tutti gli sforzi che vengono compiuti per arrivare al reinserimento sociale di chi ha partecipato al terrorismo. Ma non c’è scritto da nessuna parte che debba far parte di questo percorso anche il diritto a impartirci lezioni di vita". Perché il caso di Liviana Tosi è diverso? "Perché, se ho ben ricostruito la vicenda, qui siamo di fronte al caso di un’ex detenuta che svolge attività socialmente utili di reinserimento, come è il caso della creazione di un asilo nido". Come mai, allora, ci sono state reazioni tanto forti? "Perché è molto importante il contesto. Se quell’asilo nido è nello stesso carcere in cui l’ex detenuta ha trascorso gli anni di detenzione e dove possono esserci stati episodi di duro scontro gli agenti penitenziari, ecco che quella visita va preparata. Non dico che non si debba fare ma che prima di farla è necessario, a mio avviso, un momento di specifica e mirata riconciliazione". Liviana Tosi racconta di aver dovuto forzare se stessa per tornare nel suo ex carcere... "A maggior ragione, credo, dovrebbe comprendere lo sforzo che devono fare le agenti che ancora oggi, a tanti anni di distanza ricordano il periodo del terrorismo e il tributo di sangue pagato dagli agenti. Per questo dico che forse sarebbe stato opportuno preparare il terreno". Cagliari: Caligaris (Sdr); detenuto malato ritorna dietro sbarre per scontare 3 mesi Ristretti Orizzonti, 10 febbraio 2016 "L’improvviso e inatteso ritorno in carcere di un detenuto, che aveva ottenuto gli arresti domiciliari per le gravi condizioni di salute certificate dai Medici dell’Istituto, ha destato sconcerto e sgomento nell’uomo ancora sofferente e nella sua famiglia. Recluso nella Casa Circondariale di Cagliari ha sospeso l’assunzione del cibo e dei farmaci per protesta". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento a Giambattista Carrusci, 43 anni, cagliaritano, cardiopatico e diabetico, tornato in carcere per scontare 3 mesi di detenzione. "L’uomo - sottolinea - era stato dichiarato incompatibile dai medici del carcere di Cagliari-Uta in quanto già infartuato due volte e con 5 stent coronarici. Aveva quindi ottenuto di continuare a scontare la pena residua di circa un anno ai domiciliari. Dopo sei mesi tuttavia sottoposto alla visita di verifica di routine da un perito del Tribunale di Sorveglianza, è risultato in migliori condizioni di salute ed è tornato dietro le sbarre. Lo sconcerto però nasce dal fatto che Carrusci non solo ha rispettato alla lettera le prescrizioni imposte dalle misure della pena attenuata, ma deve scontare soltanto 90 giorni. Restano inoltre immutati nella sostanza i problemi di salute in quanto, essendo un cardiopatico, nel corso dei mesi trascorsi a casa è stato accudito dalla compagna e ha ridotto il disagio della vita carceraria traendone giovamento". "È giusto sottoporre a controllo semestrale chi fruisce delle pene alternative per motivi di salute - conclude la presidente di Sdr - tuttavia anche i periti dovrebbero forse tenere conto che le mutate condizioni ambientali e la vicinanza dei familiari di per sé favoriscono una ripresa del paziente-detenuto. Il buon senso sembra altresì suggerire che alcune patologie sono destinate a peggiorare nel breve periodo in ambienti, come il carcere, non idonei ad assistere persone ammalate. Carrusci, che ha accolto l’invito a sospendere la protesta, è un esempio emblematico di come talvolta una norma può essere assunta in automatismo generando maggiori problematiche di quelle che intenderebbe risolvere. In questo caso al detenuto, alla famiglia e agli operatori penitenziari". Nuoro: Caligaris (Sdr); appello per diritto allo studio del detenuto Marcello Dell’Anna Ristretti Orizzonti, 10 febbraio 2016 "L’esercizio del diritto allo studio è il più utile strumento di rieducazione per chi ha perso la libertà avendo infranto il patto sociale. Per alcuni come Marcello Dell’Anna, 45 anni, 27 dei quali trascorsi in carcere, ex esponente di spicco della Sacra Corona Unita, ristretto a Nuoro, declassificato nel mese di settembre 2015, con una condanna all’ergastolo rappresenta l’unica opportunità di crescita civile e culturale, impedirgliene l’utilizzo è una gravissima mancanza che le Istituzioni non possono tollerare". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che ha ricevuto una lettera-appello dal recluso peraltro laureato in Giurisprudenza, specializzato in Diritto Penitenziario e coordinatore due anni fa proprio a Badu e Carros di un corso di formazione". "Da quando mi sono iscritto (e sono trascorsi tre mesi) al corso di laurea in Lettere con indirizzo Filosofico del Dipartimento di Storia delle Scienze dell’Uomo, l’Ente Ersu - ha scritto Dell’Anna con amarezza nella lettera rivolta al Magnifico Rettore dell’Ateneo sassarese, ai docenti del Corso e all’Ersu - avrebbe dovuto fornirmi i libri di testo, mentre ad oggi non ho nulla su cui studiare. Ritengo che il diritto allo studio valga per tutte le persone, indipendentemente dal loro status. Una precipua attenzione poi dovrebbe essere prestata agli studenti più svantaggiati, soprattutto se poi questi sono particolarmente motivati nello studio. Nel mio caso, vorrei poter dimostrare alla società perbene che dentro al carcere c’è sempre "l’elemento imprevisto" che si "sgancia" dallo stereotipo immaginario collettivo e dimostra che decenni di prigionia possono cambiare e migliorare le persone". "A partire dall’Anno Accademico 2015-2016 anche i detenuti - rileva Dell’Anna nell’appello rivolto anche al Sindaco di Nuoro - sono tenuti a pagare nel mese di febbraio 2016 una tassa aggiuntiva di 140 euro proprio all’Ersu per fornire agli studenti vari servizi tra i quali anche i libri di testo. L’inerzia dell’Ente a farmi avere i libri, sebbene segnalati dall’area trattamentale del carcere di Nuoro, mi sta causando un grave pregiudizio sia dal punto di vista formativo sia dal punto di vista economico. Non poter sostenere gli esami mi ha procurato il "fuori corso" con la sicura perdita della borsa di studio nonché del premio scolastico e di rendimento previsti dall’ordinamento penitenziario. Allora perché sborsare una tassa aggiuntiva quando il servizio non viene erogato? Chiedo pertanto di rimuovere gli ostacoli che violano il diritto allo studio e di istituire un ponte di collegamento tra la Facoltà e l’Area Educativa del carcere di Nuoro e assegnarmi se possibile un tutor. Invito quindi i docenti o neo laureati a contattare tramite email le Educatrici dell’Area Trattamentale dell’Istituto". "Dell’Anna - conclude la presidente di Sdr - nella nuova tesi di laurea vuole presentare le origini pratiche e psicologiche della devianza minorile attingendo in modo diretto alla propria esperienza di vita. L’auspicio è che al più presto vengano rimossi gli ostacoli e il detenuto possa realizzare il sogno di conseguire un’altra laurea con il massimo dei voti". Ferrara: grazie all’istruzione c’è un’altra vita dopo il carcere di Carolina Fiorini Estense.com, 10 febbraio 2016 I risultati dei corsi attivati lo scorso ottobre dall’Istituto Vergani Navarra. "Quando sei adulto impari a riflettere, capisci quanto sia importante l’istruzione, ne valorizzi la sua funzione, ed in carcere è ancora più importante. Per me è come una fabbrica d’informazioni che servono per sviluppare l’intelligenza e per aiutarci a formare una cultura più aperta, lasciando alle spalle il nostro passato oscuro. Io ho ventisei anni, spero di diplomarmi e che questo mi possa dare una rivincita, un riscatto. La vita mi ha insegnato che non è mai tardi per studiare, bisogna solo avere fiducia delle proprie capacità". È la testimonianza di un detenuto albanese della casa Circondariale di Ferrara, uno dei ventiquattro detenuti che hanno preso parte ai corsi attivati lo scorso ottobre dall’Istituto Vergani Navarra, relativamente al raggiungimento del diploma di qualifica di operatore enogastronomico ed operatore agrario. "La scuola ha un obiettivo formativo, di crescita della persona - spiega il sindaco Tiziano Tagliani, la città ha un rapporto costruttivo col carcere, e questa è un’iniziativa qualificata". Ferrara è una delle poche città italiane ad avere dei corsi triennali di formazione professionale all’interno delle carceri, un percorso innovativo che dall’idea di Don Bedin si prefigge di "dare delle opportunità ai detenuti realizzando dei corsi di qualifica che hanno valore di diploma e che possano dare loro un’opportunità di lavoro" afferma Roberta Monti, dirigente dell’istituto d’istruzione superiore Vergani Navarra; corsi di circa venti ore che coinvolgono diversi docenti (sei professori per l’indirizzo alberghiero, nove per l’indirizzo agrario), che insegnano sia le materie primarie, sia le materie specifiche per la qualifica professionale. "L’idea di un carcere diverso, un carcere che studia e che s’impegna. L’istruzione scolastica è uno degli elementi più importanti del trattamento penitenziario - afferma Carmela De Lorenzo, direttrice della casa Circondariale. Come recita l’articolo 27 della costituzione italiana, il trattamento deve tendere alla rieducazione e al reinserimento della persona detenuta". La creazione dei specifici corsi di qualifica "detta le condizioni per l’acquisizione di maggiori competenze e di strumenti spendibili una volta reinseriti nel mondo del lavoro", restituisce alla società un "uomo diverso e più consapevole che avrà effettuato un percorso utile per le scelte future di vita". Milano: da Bollate al galoppo oltre le sbarre con il progetto "Cavalli in carcere" di Roberta Rampini Il Giorno, 10 febbraio 2016 L’iniziativa ha l’obiettivo di insegnare un mestiere ai detenuti. Il fondatore Claudio Villa ha ricevuto il "Panettone d’oro": "Cerchiamo di dare una seconda occasione". I primi cavalli sono entrati in carcere nel 2007. Erano cinque, oggi sono ventiquattro. Il progetto "Cavalli in carcere" avviato all’interno della casa di reclusione Milano-Bollate, ancora oggi, è l’unico in Europa del suo genere. Il fondatore e presidente dell’Associazione Salto Oltre il Muro, Claudio Villa, sabato sera ha ricevuto il "Panettone d’oro" nell’ambito della XVII edizione del "Premio alla Virtù Civica" di Milano. "Questo riconoscimento mi ha sorpreso e l’ho dedicato a tutti gli amici, volontari e detenuti, con i quali ho condiviso il percorso - racconta Claudio, è stata un’opportunità per far conoscere il progetto che vive solo di volontariato. Per questo motivo abbiamo bisogno anche del sostegno di istituzioni e sponsor". Il progetto "Cavalli in carcere" è un’altra delle scommesse vinte dall’istituto di Bollate, all’avanguardia per le iniziative di reinserimento sociale e lavorativo. "In questi nove anni sono stati oltre duecento i detenuti che hanno seguito i corsi di formazione, insieme a docenti esperti in materia abbiamo insegnato loro una professione, maniscalco o artiere - spiega Villa -. Uno dei primi detenuti che ha fatto il corso da maniscalco adesso lavora in una realtà esterna come insegnante". Stalle, scuderia e maneggio sono stati costruiti con materiale di recupero preso dai cantieri confinanti con il carcere. Il progetto, come recita lo slogan, offre una seconda opportunità ai detenuti, ma anche ai cavalli. Nella scuderia, in questi anni, sono arrivati molti animali sequestrati alla criminalità organizzata, abusati, destinati al macello o a fine carriera. "È una seconda opportunità - aggiunge Claudio -, il rapporto tra detenuto e cavallo è molto forte perché entrambi vivono la privazione della libertà: i primi perché hanno commesso qualcosa contro la società, i secondi invece spesso sono rinchiusi senza colpe". Ancora oggi quella nel carcere di Bollate è l’unica scuderia dietro le sbarre in tutta Europa: "I detenuti devono anche pulire il letame, dare da mangiare ai cavalli. Eccetto un poliziotto e il sottoscritto, sono loro che mandano avanti l’attività", precisa Villa. Venerdì scorso nella scuderia è tornata per la seconda volta suor Pauline Quinn, la religiosa americana ha voluto confrontare il suo progetto di rieducazione dei detenuti grazie ai cani con l’iniziativa "Cavalli in carcere". Savona: Melis (M5S) "impensabile realizzare il nuovo carcere nella scuola penitenziaria" targatocn.it, 10 febbraio 2016 "Oltre ad essere un fiore all’occhiello cittadino, la scuola penitenziaria non sarebbe minimamente in grado di rilevare le esigenze di un carcere come quello di Savona". "Impensabile realizzare un carcere dentro la scuola penitenziaria di Cairo Montenotte". Così Andrea Melis, portavoce del Movimento 5 Stelle in Regione Liguria, risponde alla proposta del sindaco di Cairo Montenotte, Fulvio Briano, di trasferire lì il penitenziario recentemente chiuso a Savona. "Era sotto gli occhi di tutti come il carcere savonese di Sant’Agistino non fosse più nella condizioni di andare avanti - spiega Melis - Ma, prima di un intervento così brutale, quantomeno sarebbe stato necessario disporre di alcune celle per gestire gli arresti immediati ed evitare che i trasporti fuori città lasciassero il territorio cittadino meno presidiato dalle forze dell’ordine, per di più con un ingente aumento di costi". Il portavoce pentastellato chiude poi le porte all’ipotesi di trasferimento in Valbormida ventilata dal sindaco Briano. "Si tratta di una proposta irricevibile, oltreché impraticabile - aggiunge Melis - Oltre ad essere un fiore all’occhiello cittadino, la scuola penitenziaria di Cairo Montenotte non sarebbe minimamente in grado di rilevare le esigenze di un carcere come quello di Savona. Spiace che simili boutade arrivino da chi, per primo, dovrebbe conoscere il proprio territorio e difendere le sue eccellenze. Anzi, rilanciamo chiedendo che si faccia un tavolo di confronto con tutti gli enti locali e le associazioni di categoria per trovare un’intesa al fine di valorizzare la struttura con ricadute economiche sul territorio". Venerdì 5 febbraio Melis è stato in visita proprio alla Scuola penitenziaria cairese, ricavandone diversi spunti per un suo utilizzo a beneficio della collettività. "Spesso si dice che non ci sono idee per utilizzare certi spazi, e invece qui le idee non mancano: c’è un teatro splendido, un’aula magna eccezionale, una palestra e molto altro ancora che potrebbe essere messo a disposizione dei cittadini. E chi dirige la Scuola sta facendo il possibile perché si possano attivare collaborazioni con strutture istituzionali e non. Un modo anche per abbattere i costi di manutenzione". Firenze: Opg di Montelupo; il viale passa al Comune e sulla chiusura si rimanda ancora Il Tirreno, 10 febbraio 2016 Il ministero ha ceduto le strade e i parcheggi intorno alla villa medicea dell’Ambrogiana Per gli internati quadro incerto: aprirà un altro reparto a Volterra ma non basta per tutti. Tra un mese ricorre il primo anniversario del ritardo nella chiusura dell’Opg che era stata fissata con una legge. E che aveva già avuto proroghe. In tutto siamo arrivati a tre anni. Tre anni in cui gli internati/pazienti stanno in un luogo in cui non dovrebbero stare. E non c’è ancora una data esatta di chiusura definitiva dell’ospedale psichiatrico. L’unica cosa certa è il passaggio (ufficializzato proprio in questi giorni) dell’area esterna alla villa medicea dell’Ambrogiana dal ministero di giustizia al Demanio e quindi all’amministrazione comunale. La Regione e la villa medicea. "La Regione non è affatto inadempiente riguardo al superamento dell’ospedale psichiatrico giudiziario". Così l’assessore alla sanità regionale Stefania Saccardi rimanda al mittente le accuse di coloro che hanno chiesto il commissariamento della Regione per non aver trasferito ancora i pazienti nelle residenze sanitarie così come ha stabilito la legge. "La Regione Toscana - chiarisce ancora l’assessore, ha scelto in primo luogo di favorire i percorsi territoriali terapeutico riabilitativi, e solo successivamente ha attivato la Rems a Volterra, con l’apertura di un primo reparto per 10 persone nel mese di dicembre 2015, al quale si andrà ad unire a breve un secondo reparto, consentendo la disponibilità complessiva di 28 posti entro la fine di febbraio 2016". E mette l’accento sui ritardi dell’amministrazione penitenziaria. "Occorre segnalare che i trasferimenti programmati dal competente servizio sanitario regionale - spiega Saccardi - sono concordati con il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria; le assegnazioni sono effettuate dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, anche in considerazione delle misure di sicurezza emesse dai magistrati competenti. Ciò ha condizionato i trasferimenti programmati, limitando in parte l’ingresso in Rems di pazienti internati in Opg individuati dal servizio sanitario regionale e non ritenuti prioritari per il trasferimento dall’amministrazione penitenziaria". Sul resto non sono state date altre scadenze. Le strade esterne. Intanto la sorte dell’esterno della villa è stata definita. Si tratta di zone in parte già utilizzate dal Comune, principalmente come viabilità pubblica (viale Umberto I, via della Chiesa, via Santa Lucia, via don Primo Mazzolari e via G. Di Vittorio), parcheggio e aree verdi circostanti che il ministero della giustizia riconsegna nella disponibilità dell’agenzia del demanio. L’Agenzia a sua volta, nell’ambito delle procedure previste dal federalismo demaniale, consegna queste aree al Comune di Montelupo, anticipatamente e provvisoriamente, in attesa del completamento dell’iter per la verifica di interesse culturale in corso al ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. "La villa medicea sarà definitivamente restituita alla cittadinanza, nell’ambito della più ampia operazione di dismissione dell’intera struttura detentiva - ha detto il direttore regionale dell’Agenzia del demanio, Giuseppe Pisciotta - abbiamo già avviato un percorso istituzionale per la valorizzazione del monumentale complesso immobiliare". Pisa: progetto "Misericordia Tua", 150 firme contro l’apertura della casa per detenuti Il Tirreno, 10 febbraio 2016 Nel borgo di Calci vivono appena 21 persone, delle quali quattro bambini. Ma sono già più di 150 le firme raccolte contro la realizzazione di una Casa di accoglienza per detenuti ed ex detenuti promossa dalla Caritas e dall’arcidiocesi nella parrocchia di Sant’Andrea a Lama. Un fronte del no all’idea di una struttura per la promozione di percorsi di sostegno e di una riabilitazione alternativa al carcere che si sta allargando ben oltre i confini della frazione di Calci. Secondo il progetto presentato dal parroco, padre Antonio Cecconi, e dai vertici della curia pisana, la casa di accoglienza dovrebbe nascere dalla ristrutturazione della canonica. Su "Misericordia Tua" l’Arcidiocesi è pronta ad investire 100mila euro. Da tempo l’obiettivo dell’unità pastorale della Valgraziosa è quello di riutilizzare le canoniche delle parrocchie, ormai abbandonate, per fini sociali. Sedici posti letto, laboratori e un’attività agricola per fornire a chi è stato o è ancora in carcere ma vicino alla liberazione gli strumenti per un reinserimento sociale. Fin da subito il progetto però ha incontrato l’opposizione dei cittadini. Si è formato un comitato, e da tempo chiede all’arcivescovo Giovanni Paolo Benotto di ripensare all’ipotesi di realizzarlo proprio a Sant’Andrea. "Per ora nessuno ci ha risposto, venga almeno lei a rendersi contro con i propri occhi che qui è irrealizzabile", hanno scritto di nuovo i membri del comitato Serenamente Calci indirizzando il loro messaggio al direttore della Caritas, Emanuele Morelli. I motivi del no sono sempre gli stessi: nessuna garanzia sulla sicurezza, strada di accesso troppo stretta, servizi che verrebbero messi a dura prova, una probabile svalutazione del valore delle case e un danno agli agriturismi. Ancona: alloggi fatiscenti per gli agenti penitenziari, la protesta del Sindacato Cosp anconatoday.it, 10 febbraio 2016 Queste strutture penitenziarie sono prive di ristrutturazione, tinteggiatura, con ascensori non funzionanti o rotti come nel carcere di Montacuto. Il Sindacato Cosp ha argomentato la triste e penosa situazione delle Caserme che insistono sul territorio marchigiano, una situazione di enorme disagio anche per chi scrive e che nel recente passato ha avuto modo per legittime e pertinenti ragioni di visitare. In queste strutture penitenziarie, alcune realizzate all’epoca delle carceri d’oro, quando non si versava o pretendeva dai propri dipendenti alcuna somma per chi era destinatario della fruizione dello spazio concesso a titolo gratuito dall’Amministrazione, oggi appare difficile richiedere ed accettare un versamento di una determinata quota mensile per singolo agente che varia dalle 50 alle 30 euro mensili, a distanza di 30 anni dall costruzione del manufatto, privo di ristrutturazione, tinteggiatura, con ascensori non funzionanti o rotti come nel carcere di Montacuto. Pertanto,alla luce di quanto sta accadendo nella sede di Padova e per le stesse finalità in autotutela è necessario disporre in via cautelare il pagamento delle quote richieste dalle singole amministrazioni penitenziarie di Montacuto Ancona e Ascoli Piceno poiché, a parere di chi scrive, il calcolo della metratura, le condizioni alloggiative, le condizioni igienico sanitarie, le condizioni di abitabilità, le condizioni del mobilio e dei suppellettili andrebbero equiparate secondo specifico sopralluogo dell’Ufficio Tecnico del Comune dove ha residenza il Penitenziario e dell’Asl di rispettiva competenza e non certamente da parte di chi,con molta elevata probabilità non sia garante dei requisiti specifici richiesti dalla normativa paesaggistica e abitativa territoriale. Domenico Mastrulli, Sindacato Cosp Mantova: detenuto si ustiona buttandosi addosso dell’olio bollente, salvato dalla polizia Ansa, 10 febbraio 2016 "È accaduto tutto in pochi minuti ed è stata una scena raccapricciante", commenta Donato Capece, segretario generale del Sappe. "L’uomo, un nordafricano detenuto per spaccio di stupefacenti, e con fine pena 2019, era nella sua cella e si è buttato addosso dell’olio bollente. Per fortuna, l’intervento dei poliziotti penitenziari è stato rapido così come quello dei medici e infermieri che erano nel Reparto detentivo per la distribuzione delle terapie mediche. Ora il detenuto è ricoverato in ospedale e restano sconosciute le cause del gesto. Un appezzamento particolare va al personale di Polizia Penitenziaria e al personale medico e paramedico in servizio nel carcere di Mantova che hanno salvato la vita al detenuto ed hanno assicurato tempestive e fondamentali cure all’uomo". Mantova: ospite delle Rems di Castiglione delle Stiviere muore soffocato La Gazzetta di Mantova, 10 febbraio 2016 Un ospite del sistema polimodulare di Rems di Castiglione delle Stiviere, le residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza nate dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, è morto la settimana scorsa improvvisamente per soffocamento mentre stava mangiando una schiacciata. Del fatto è stata subito avvisata la procura della Repubblica di Mantova. L’Opg di Castiglione delle Stiviere è stato chiuso a fine marzo dell’anno scorso. I Rems hanno preso il suo posto. Pavia: scoperto hascisc destinato a un detenuto, era nascosto in un doppio fondo di Manuela Marziani Il Giorno, 10 febbraio 2016 C’era una sorpresa nel pacco indirizzato a un detenuto che si trova nel carcere di Pavia. Sotto alimenti e vestiti, infatti, si trovava un grosso quantitativo di droga. L’ha scoperto la polizia penitenziaria in servizio a Torre del Gallo che ha intercettato un pacco destinato a un detenuto italiano. "È accaduto durante i controlli effettuati sui pacchi postali che arrivano ai detenuti - ha spiegato Carlo Cataldo, segretario provinciale della Uil polizia penitenziaria. Il personale addetto al servizio ha scoperto che una normale scatola aveva un doppio fondo, all’interno del quale era occultata della sostanza stupefacente". Mescolati tra maglioni e dolci si trovano alcuni panetti di hascisc per complessivi 400 grammi e qualche grammo di polvere bianca, che potrebbe essere cocaina. Droga destinata a un detenuto italiano ma che, vista la quantità, molto probabilmente poteva anche diventare merce di scambio e spaccio tra i reclusi all’interno delle sezioni detentive. Oggi a Torre del Gallo si trovano 550 detenuti, 200 accolti nel nuovo padiglione. "Il fiuto di un agente e la grande professionalità dimostrata dal personale di Pavia ha evitato la diffusione di droga all’interno del penitenziario, pur senza l’unità cinofila - ha fatto notare il segretario regionale della Uil, Gian Luigi Madonia. Il personale che, nonostante si trovi in un contesto lavorativo piuttosto difficile, tiene alto l’onore per il giuramento prestato e svolge il proprio compito istituzionale con grande senso del dovere ed abnegazione". Ma non è neppure la prima volta che gli agenti bloccano la diffusione di droga all’interno del carcere. "Non mi stupisce l’operazione effettuata dalla polizia penitenziaria di Pavia - ha proseguito Madonia. Più volte il personale di Pavia si è reso responsabile di operazioni ancor più brillanti del ritrovamente avvenuto ieri, senza trovare gli elogi e il risalto che sarebbero dovuti per il particolare contesto in cui opera. Non si può nascondere infatti che Pavia soffre di una cronica carenza di organico, che caratterizza tutti i ruoli. E che anche la recente apertura del nuovo padiglione non ha prodotto gli effetti sperati in tema di adeguamento delle piante organiche". A breve la casa circondariale sarà interessata dall’apertura di un polo psichiatrico che ospiterà 10 detenuti provenienti dagli ex ospedali psichiatrici giudiziari e altrettanti con problemi psichiatrici meno pesanti. "L’amministrazione penitenziaria, centrale e regionale - ha detto ancora Madonia - non può più far finta di niente. La percentuale di carenza di personale di polizia penitenziaria a Pavia sfiora il 30%, con particolare aumento nei ruoli intermedi (ispettori e sovrintendenti). Ecco perché l’episodio che si è verificato ieri meritano in modo particolare il nostro apprezzamento. In una simile condizione di lavoro, l’attenzione posta dagli agenti assumono un’importanza diversa". Roma: il 15 convegno di Antigone sui diritti religiosi in carcere Il Velino, 10 febbraio 2016 Sarà illustrata la normativa europea sui rischi della radicalizzazione. Garantire a tutti i diritti religiosi in carcere. È questa la risposta democratica ai rischi della radicalizzazione. Oggi che si ragiona su un nuovo ordinamento penitenziario, a oltre 40 anni di distanza dall’approvazione di quello attuale, la storia ci impone di affrontare questo tema. In questo contesto si inserisce il convegno organizzato da Antigone per il prossimo 15 febbraio in cui saranno forniti, tra gli altri, dati sui culti religiosi professati dai detenuti e sui ministri di culto che entrano nelle carceri, nonché’ illustrata la normativa europea sui rischi della radicalizzazione. Al convengo parteciperanno Santi Consolo, Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e Elisa Olivito, costituzionalista, Università di Roma "La Sapienza". Ci saranno inoltre: Don Giulio Brunella Archimandrita, Prete melchita già cappellano della CC Firenze Sollicciano; Guido Coen, Consigliere della Cer (Comunità Ebraica di Roma); Padre Gabriel Popescu, Consigliere Sociale dell’Episcopato Rumeno Ortodosso in Italia; Youssef Sbai, Vice Presidente Ucoii (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia) e Responsabile dei rapporti con l’Amministrazione Penitenziaria; Francesco Sciotto, Pastore Valdese, Coordinatore del gruppo di lavoro sulle carceri della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI); Don Sandro Spriano, Cappellano della CC Roma Rebibbia. L’incontro si terrà a Roma presso il Museo Criminologico, via del Gonfalone 29, dalle 10. Brescia: disturbi mentali e rischio violenza, i risultati del Progetto "Viormed" agensir.it, 10 febbraio 2016 È passato quasi un anno dalla chiusura degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari, sostituiti dalle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) con risultati a macchia di leopardo nelle varie Regioni. Un’emergenza di cui si discuterà da domani al 12 febbraio a Brescia, presso il Centro San Giovanni di Dio Irccs Fatebenefratelli, nella tre giorni di formazione su "Il rischio violenza nei disturbi mentali gravi: prevenzione, valutazione e gestione". Il corso, condotto in maniera interattiva, vuole fornire le conoscenze per valutare e trattare persone con una storia di comportamenti violenti o a rischio di violenza ed è riservato a psicologi e psichiatri, ma sarà anche l’occasione per i giornalisti di approfondire la quotidianità di una realtà drammatica e misconosciuta. Verranno infatti presentati i risultati del progetto "Violence risk and mental disorders" (Viormed), finanziato dalla Regione Lombardia, che è l’unico studio sistematico di coorte su pazienti con storia di violenza condotto in Italia. "Nella società dell’efficienza e della competizione, non c’è infatti nessuno di più ‘lontanò di un malato di mente che ha compiuto un crimine e che ha violato le regole della società", commenta fra Marco Fabello, direttore generale dell’Irccs Fatebenefratelli di Brescia. "Ed è per questo che l’assistenza a questi pazienti qualifica e dà senso al nostro operato". È qui la prossima emergenza di Carlo Lania Il Manifesto, 10 febbraio 2016 Ultima frontiera. Reportage dal confine greco-macedone, dove i profughi che scappano dalla guerra attendono il loro turno per poter proseguire il viaggio verso il nord dell’Europa. È la "seconda linea di Schengen", che ora si cerca di fortificare ulteriormente. A volte può anche capitare di entusiasmarsi davanti a un cancello di ferro alto due metri e protetto da filo spinato. A Khalid è successo ieri. "Se sono felice? Si, sono molto felice" ammette con il sorriso sulle labbra mentre si carica lo zaino sulle spalle. Khalid ha 25 anni e viene da Homs, in Siria. Otto giorni fa è partito dalla Turchia e adesso spera di arrivare in Germania. Con lui c’è Ibrahim, un anno più grande. È di Aleppo, da dove è fuggito con la moglie e la figlioletta. "Aleppo ormai non esiste più, è una città rasa al suolo", racconta mentre la bambina gli gironzola tra le gambe. "Manca l’acqua, non c’è da mangiare e ogni giorno gli aerei russi la bombardano". Anche lui, come Khalid, ora vuole solo una cosa: arrivare in Germania il più presto possibile e mettere al sicuro la sua famiglia. Per Khalid, per Ibrahim e per il gruppo di giovani siriani con cui viaggiano questo è un giorno fortunato. Loro infatti ce l’hanno fatta e possono finalmente attraversare quel cancello protetto dal filo spinato che segna il confine tra Grecia e Macedonia. La tentazione del passeur - Di qua c’è Idomeni, ultimo avamposto greco e passaggio obbligato per chiunque voglia raggiungere l’Austria e la Germania. Di là c’è Gevgelija e la rotta balcanica che porta a nord. Ad aspettare il loro turno nel campo organizzato dall’Unhcr, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, e da Medici senza Frontiere ci sono circa 900 persone tra uomini, donne e bambini. Cartelli in arabo, francese e inglese indicano dove è possibile trovare assistenza medica gratuita, acqua potabile, bagni e docce. Numerose tendine verdi, dove trovano posto al massimo tre persone, sono sparse tutte intorno mentre all’interno di grandi tende bianche sono stati allestiti dormitori con decine di letti a castello. Si distribuiscono abiti puliti e caldi (un mese fa la temperatura è scesa a -11 gradi), ma anche consigli su come fare richiesta di asilo o entrare nel programma di ricollocamento. Un’offerta per la verità scelta da pochi perché è probabile che si debbano aspettare mesi prima di avere una destinazione, ma anche perché non è possibile scegliere il Paese in cui andare. La frontiera invece è là, a poche decine di metri ed è impossibile per chiunque resistere alla tentazione di varcarla. Le autorità macedoni fanno partire cento profughi ogni ora e solo se di nazionalità irachena, siriana e afghana, Superato il primo ostacolo devono camminare in fila per circa 500 metri in una sorta di terra di nessuno lungo una strada sterrata e circondata da sterpaglie finché non arrivano a un nuovo cancello che segna l’ingresso vero e proprio nella Repubblica macedone. Prima però bisogna aspettare che venga chiamato il proprio numero seduti su panche di ferro allineate sotto un tendone. Una volta in Macedonia, i profughi vengono fatti salire su treni organizzati dal governo di Skopje. "Official prize list", avverte l’ennesimo cartello: i bambini sotto i 10 anni viaggiano gratis, tutti gli altri invece se vogliono raggiungere il confine con la Serbia, distante meno di 200 chilometri, devono comprare un biglietto che costa 25 euro. È una decisione presa solo di recente da Skopje e che ha fatto infuriare i tassisti macedoni, che pure volevano la loro fetta di guadagno da tanta disperazione. Loro non possono entrare - Chi invece non viene fatto passare sono i marocchini, i tunisini e tutti gli altri identificati come migranti economici e per questo respinti. Loro possono solo tornare ad Atene o tentare di passare clandestinamente il confine pagando una dei tanti passeur che aspettano i clienti comodamente seduti nella hall di un albergo non distante dal confine. Paradossalmente il giorno in cui Schengen finirà, a rappresentare il confine meridionale dell’Europa, l’ultima sua frontiera, sarà proprio la Macedonia, un Paese che ancora non fa parte dell’Unione europea. Che il giro di vite sia ormai pronto qui a "quota 59", come viene chiamato il valico di Idomeni, lo sanno tutti. "Il problema non è se, ma quando", spiegano gli operatori dell’Unhcr, convinti che una nuova emergenza sia solo questione di tempo. I segnali che per Atene il conto alla rovescia sia ormai cominciato ci sono tutti. Proprio in questi giorni soldati macedoni hanno cominciato la costruzione di una seconda barriera, dopo quella innalzata a novembre, al confine con la Grecia. Ancora reti metalliche e filo spinato per fermare possibili nuove ondate di rifugiati. Come se non bastasse, Slovenia e Bulgaria si sono offerte di inviare uomini e mezzi per aiutare la Macedonia nel controllo dei suoi confini. Offerta accettata dal governo macedone, ma che non dispiacerebbe né alla cancelliera Merkel né al presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker. Si tratta, ha spiegato due giorni fa il premier sloveno Miroslav Cerar, di "rafforzare la seconda linea di Schengen" lasciando così intendere di considerare la prima linea - la frontiera tra Grecia e Turchia - ormai persa. Hotspot della discordia - Anche se ultimamente Bruxelles sembra usare toni meno duri nei confronti del governo Tsipras, più volte accusato di non aver mantenuto gli impegni presi per quanto riguarda la creazione di cinque hotspot (finora ne è stato aperto uno solo, a Lesbo, anche se ci sarebbero novità in arrivo), la Grecia è sotto stretta osservazione e il vertice del prossimo 18 febbraio potrebbe deciderne le sorti. Se non proprio una Grexit, come si temeva esattamente un anno fa come conseguenza della crisi economica, Atene potrebbe ritrovarsi tagliata fuori dal resto dell’Europa e trasformata in una sorta di deposito per decine di migliaia di rifugiati. Anche questo a Idomeni lo sanno tutti e ci si prepara a correre ai ripari prima che sia troppo tardi. Venti chilometri prima del confine, a Polikastro, c’è una stazione di benzina dove la polizia greca fa fermare i pullman che ogni giorno portano al confine centinaia di profughi. L’intera area è diventata da mesi una specie di grande tendopoli con più di 2.000 migranti aiutati oltre che dall’Unhcr anche da Ong arrivate da tutta Europa. Qui Medici senza frontiere ha allestito diverse tende e fornisce assistenza medica, ma anche pasti caldi e aiuto psicologico. A colpire è il gran numero di bambini di ogni età che riescono a giocare e sorridere anche in queste condizioni. Si fanno largo tra i fuochi accesi dentro bidoni di latta con cui ci si riscalda e si asciugano i vestiti, camminano tranquilli tenendo la mano a mamme in fila davanti ai volontari di una Ong danese che distribuiscono pannolini e calze di lana. In un campo situato dietro la stazione di benzina nelle prossime due settimane l’Unhcr allestirà un villaggio di 300 casette per un programma di Rhu, Refugee housing unit, fornite gratuitamente dall’Ikea e in grado di ospitare fino a 3.000 persone. Ci saranno docce e bagni ma anche un’area protetta, separata dal resto delle casette, dove ospitare donne sole, spesso vittime di violenza, donne con bambini o incinta. Un progetto che gli operatori dell’Unhcr vogliono concludere quanto prima, proprio in previsione di quanto potrebbe accadere nelle prossime settimane, quando per migliaia, forse decine di migliaia di rifugiati il confine sarà definitivamente chiuso. In fretta, perché il conto alla rovescia, per Schengen e per la Grecia, potrebbe essere davvero già cominciato. I fondatori "svegliano" l’Europa "Schengen non può essere cambiato" di Paolo Valentino Corriere della Sera, 10 febbraio 2016 A Roma i sei ministri degli Esteri si sono riuniti per proporre un’Unione ancora più integrata tra i popoli del Continente per rispondere al meglio alle sfide odierne. "Un messaggio per l’Europa", dice Paolo Gentiloni. "Una sveglia per l’Unione", gli fa eco il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier. Non poteva produrre decisioni concrete, l’incontro romano fra i capi delle diplomazie dei sei Paesi fondatori della Ue. Ma a Villa Madama, Italia, Germania, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo, "preoccupati dello stato del progetto europeo", provano a rilanciare lo spirito originario, indicando la prospettiva della "ever closer union", l’unione sempre più integrata tra i popoli del Continente come la "migliore risposta alle sfide odierne" in uno dei momenti più difficili della sua Storia. Trova buona accoglienza l’iniziativa italiana, lanciata nella prospettiva delle celebrazioni per i 60 anni del Trattato di Roma, che cadono nel marzo del prossimo anno. Ma l’appuntamento di ieri non prefigura la nascita di un nuovo formato, come lo stesso Gentiloni si affretta a precisare: "La nostra iniziativa - così il titolare della Farnesina - non è esclusiva e non vuole tener fuori altri Paesi". E fin dal prossimo incontro, che avrà luogo tra qualche mese in Belgio, l’obiettivo è di coinvolgere altri Stati membri della Ue, disposti a "condividere questo ruolo propulsivo". Formato o meno, non c’è dubbio che qualcuno dei partecipanti non fosse esattamente a suo agio, nei colloqui di ieri sera: non è un mistero, infatti, che la Francia veda con sospetto ogni iniziativa che possa potenzialmente diluire se non il significato, il peso specifico del suo rapporto privilegiato con la Germania. Però è interessante notare il commento di Steinmeier, il quale ha definito l’invito dell’Italia "una iniziativa buona in tutti sensi, fatta al momento giusto". Si è parlato di crisi dei rifugiati e i sei Paesi fondatori mettono nero su bianco che "solidarietà e responsabilità" devono guidare una risposta che può essere soltanto europea. "È necessario applicare le decisioni comuni con umanità ed efficienza", recita il documento finale. Dunque, miglior controllo delle frontiere esterne, approccio geograficamente ed economicamente equilibrato nella ripartizione dei carichi, maggior cooperazione con i Paesi di origine e di transito. "Non è possibile immaginare - precisa Gentiloni - che decisioni di singoli Stati possano mettere in discussione conquiste e risultati acquisiti da decenni, in particolare lo spazio di Schengen". È Steinmeier ad ammettere la complessità della sfida posta dalle ondate migratorie: "Non ci sono soluzioni facili, sono persone che fuggono dalla violenza". Il nostro ministro degli Esteri rivendica la vocazione europea dell’Italia, nonostante negli ultimi mesi il governo di Roma abbia sposato una linea più polemica nei confronti di Bruxelles, che Gentiloni definisce una "discussione fatta in modo aperto" e comunque in nome di una politica economica più espansiva i cui c’è necessità: "In ogni caso le dinamiche non mettono in dubbio il fatto che l’Italia sia un Paese profondamente europeista e fra i più impegnati a spingere in avanti il processo di integrazione". Più di tanto, il vertice romano non poteva dare. È stato quasi un gesto situazionista, visto che il format probabilmente non sarà ripetuto, ma ha avuto tuttavia il merito di riproporre le ragioni profonde e il senso del progetto europeo: "L’Unione è molto di più della somma di 28 Stati membri", dice il comunicato. Gentiloni chiosa che "non tutti i Paesi condividono questo impegno comune". Con una vecchia formula dei tribunali partenopei, faremmo bene a rammentarlo anche a noi stessi. Sui migranti, più tentativi che soluzioni di Marco Zatterin La Stampa, 10 febbraio 2016 Ultimatum alla Grecia, si fa il punto sul comportamento dell’Italia e della Turchia. Scatta l’ultimatum alla Grecia che non difende bene la frontiera esterna dell’Unione europea. In parallelo, i ministri della Difesa della Nato discutono di un possibile ruolo dell’Alleanza nella gestione dei flussi di disperati che arrivano dalla penisola anatolica. Più tentativi che soluzioni. Dai ventotto rappresentanti permanenti dell’Unione - il cosiddetto Coreper - ci si attende l’approvazione delle raccomandazioni del Consiglio, basate sulla valutazione del sistema Schengen, che danno alla Grecia tre mesi di tempo per rimediare alle mancanze rilevate nella protezione del suo confine orientale, che è ellenico ed europeo. La delibera prevede che se alla scadenza del termine le condizioni di sicurezza non saranno accettabili, potrà essere concesso ai paesi che hanno già reintrodotto i controlli alla frontiera interna di continuare per almeno altri sei mesi: in maggio si comincerebbe con Germania e Austria. L’altra faccia della storia è il rapporto che fa il punto sul comportamento dell’Italia e della Turchia. La prima è quasi promossa, perché sta finalmente prendendo le impronte a (quasi) tutti quelli che arrivano. La seconda verrà giudicata volenterosa, ma poco più. Le distanze da colmare fra il quadro attuale e un comportamento all’altezza delle esigenze sono ancora molto ampie. Oggi nel quartiere generale dell’Alleanza Atlantica si terrà la ministeriale difesa della Nato. Si parla di Turchia, cosa a cui nel quartiere generale di Evere non si era preparati sino a ieri mattina. Si sta inoltre "valutando attivamente la richiesta degli Stati Uniti di utilizzare gli aerei radar Awacs per sostenere le capacità nazionali" per combattere Daesh. Domani si continua, con un incontro da tenere d’occhio: su invito del segretario alla Difesa Usa, Ashton Carter, si terrà la prima riunione della coalizione anti-Isis. L’americano metterà tutte le opzioni sul tavolo, anche quella di mobilitare delle truppe di terra. Per affollamenti vari è saltato il pacchetto sulla Sicurezza energetica che doveva essere approvato in giornata. È il provvedimento che consentirà alla Commissione di scrutinare i grandi accordi internazionali nel settore dell’energia, per valutarne la compatibilità con il mercato e le regole comunitarie. Chissà se riuscirà mai ad essere approvato dai governi? Bab al-Salama, l’ultimo inferno del popolo siriano di Chiara Cruciati Il Manifesto, 10 febbraio 2016 Confini chiusi, gelo invernale, tende improvvisate: decine di migliaia di rifugiati chiedono alla Turchia di lasciarli entrare. Ma l’emergenza è ormai cronica e la battaglia per Aleppo la intensificherà. C’è chi tenta, inutilmente, di scavalcare le reti, forse solo per non restare fermo, forse per rendersi visibile. Altri fanno lunghe file per avere una tenda che li ripari dal freddo e dalla pioggia. Molti restano seduti a terra, con i figli piccoli tra le braccia; e tanti altri sono ancora in cammino. Immagini di un’umanità al capolinea: il girone infernale del valico di Bab al-Salama è la fine del mondo, il suo fallimento. I rifugiati siriani che premono sul confine turco non si contano nemmeno più, ognuno dà il suo bilancio. Forse 35mila, forse 45mila. Ma tanti altri ne arriveranno perché la battaglia di Aleppo proseguirà. Ieri il governo di Ankara, che tiene le frontiere serrate e si limita ad inviare gli aiuti al di là del valico, avvertiva della possibile fuga di 600mila siriani: "il peggiore scenario", l’ha definito ieri il vice premier Kurtulmus. "Il nostro obiettivo per ora è tenere i migranti dall’altro lato della frontiera turca - ha aggiunto - e fornire loro i servizi necessari". Le tende aumentano, con lentezza, ma la gente è esasperata: "Non siamo venuti fin qui per una tenda - dice Saleh, residente di Aleppo, alla Cnn - Non vogliamo cibo né acqua. Vogliamo passare, vogliamo sicurezza per i nostri figli". È arrivato qui, alle porte turche, con cinque bambini. Suo fratello con i sei figli. Hanno camminato, racconta, durante la notte: "Ci siamo nascosti in un uliveto, pensavamo che in campagna fosse più sicura ma ci siamo ritrovati sotto i bombardamenti russi". Storie che si sovrappongono, si ripetono, si moltiplicano: "L’Isis ci aveva circondato su tre lati e nel quarto c’erano i russi a bombardare. Abbiamo provato a fuggire da diverse direzioni e alla fine ce l’abbiamo fatta", le deboli parole di Mohammed, stremato. "Il mio villaggio è un villaggio fantasma. Siamo arrivati qui e il confine è chiuso. Vogliamo solo che lo aprano. Siamo distrutti, non abbiamo un posto dove andare, non abbiamo più niente". Alcuni nemmeno una tenda, bene prezioso sotto la gelida pioggia che cade su Bab al-Salama. Come Khalil Juma, 54 anni, costretto con la famiglia a dormire in un autobus abbandonato, vicino alla frontiera. Le notizie che arrivano da Aleppo prospettano un futuro ancora peggiore. La città è stretta tra tre fronti, governo, opposizioni moderate e islamiste e Stato Islamico. Tra le macerie di una città patrimonio dell’Unesco, con alle spalle 5mila anni di storia, casa per arabi, armeni, circassi, kurdi, nei quartieri controllati dalle milizie anti-Assad restano intrappolati 350mila civili. Era la città più popolosa della Siria, quasi due milioni di abitanti. Oggi è il fantasma di se stessa, simbolo inequivocabile e terrificante di un conflitto che ha devastato il cuore del mondo arabo. "Non c’è più speranza, non ce n’è più", dice un anziano residente, Abu Umar, davanti alle telecamere di Middle East Eye. Qui, nei quartieri delle opposizioni, i miliziani si preparano allo scontro finale, alcuni residenti si uniscono a loro, prendono le armi in attesa che le truppe governative arrivino alla loro porta. E la devastante sofferenza di Aleppo non è unica: Idlib, Damasco, Deir Ezzor, Madaya, Fùah, Kefraya, Homs condividono un destino identico. L’associazione indipendente Siege Watch, ieri, ha rivisto il bilancio di civili che vivono in stati di assedio in 46 diverse comunità: non 500mila (calcolati a gennaio dall’agenzia dell’Onu Ocha), ma almeno un milione. Un numero esorbitante, intere comunità sotto assedio del governo, dello Stato Islamico o dei gruppi di opposizione, tutti colpevoli degli stessi crimini contro la popolazione. Intanto a guardare ad Aleppo è soprattutto Ankara. Lo ha espressamente detto ieri il premier Davutoglu: 350mila siriani sotto assedio ad Aleppo sono pronti a muoversi in Turchia. E la Turchia non vuole altri profughi, ne ospita già due milioni e mezzo e si tappa le orecchie davanti agli appelli dell’Onu che chiede l’apertura delle frontiere. E l’Europa dei tre miliardi di euro non intende farsene carico. Per questo, dopotutto, ha messo in mano al presidente Erdogan il generoso pacchetto di aiuti. Ma l’emergenza è destinata a diventare cronica, soprattutto in questo pezzo di pianeta: la Siria è entrata in una nuova fase di conflitto, dopo il palese fallimento del negoziato sponsorizzato dall’Onu. A manovrare le direttrici della guerra è la Russia che vuole chiudere i giochi il prima possibile. Per questo ha lanciato la controffensiva su Aleppo, destinata a concludersi con la sconfitta militare e politica delle opposizioni. Allora - è il pensiero di Mosca - quando resteranno solo i jihadisti di al-Nusra e Stato Islamico, si potrà negoziare. E ieri l’Isis ha ricordato di esserci: un’autobomba rivendicata dagli islamisti ha ucciso 10 persone di fronte ad un centro per funzionari di polizia a Damasco, nel quartiere di Masaken Barzeh, vicino al mercato della verdura. Ma non c’è solo la Russia. Il fronte anti-Assad non sembra voler cedere così facilmente la presa di un paese che ha trascinato e mantenuto in un quinquennio di guerra civile. Secondo Press Tv, che cita media sauditi, il ministro della Difesa di Riyadh, Mohammad Bin Salman, incontrerà a breve i vertici della Nato per discutere il dispiegamento di proprie truppe in Siria. Ufficialmente, come più volte detto dalla petromonarchia, per combattere l’Isis. Ufficiosamente per impedire l’ulteriore avanzata del governo. Cannabis medica, troppe limitazioni di Giorgio Bignami Il Manifesto, 10 febbraio 2016 In questa e in altre sedi si sono ripetutamente criticate le limitazioni nel decreto per la cannabis terapeutica; in particolare la gamma troppo ristretta di indicazioni ammesse e l’enfasi eccessiva sugli effetti collaterali. Riguardo al primo aspetto, va ricordato che la cannabis è stata penalizzata dal lungo periodo di proibizionismo oltranzista, durante il quale si son fatti via via più rigorosi i criteri per la registrazione dei farmaci: quindi la cannabis e altre sostanze illegali sono state tagliate fuori dalla ricerca mirata a soddisfare tali criteri. Infatti, non sono molti gli effetti della cannabis che sono stati sinora oggetto di sperimentazioni cliniche randomizzate in doppio cieco, il Sacro Graal della moderna Medicina Basata sull’Evidenza. Una metanalisi apparsa nel giugno 2015 su Jama, la rivista della Associazione Medica Americana conclude che vi sono evidenze "forti" di efficacia per la riduzione di nausea e vomito, di dolore e spasticità, mentre in altre condizioni le evidenze sono "deboli". Ma questo non basta per negare l’accesso alle terapie in condizioni in cui studi osservazionali o altri studi clinici depongono a favore di effetti terapeutici - per lo più, ma non soltanto di tipo palliativo - che consentono di alleviare una sofferenza, di attenuare un grave malessere. Qui si può portare l’esempio della epilessia resistente a tutti i trattamenti disponibili. Infatti alcuni studi, come quello recentemente apparso su Lancet Neurology, suggeriscono che la cannabis possa ridurre la frequenza delle crisi; un effetto di tale rilevanza da esigere che pur con le dovute riserve in attesa di conferme, questa grave condizione venga ammessa al trattamento. L’uso di cannabis dovrebbe esser consentito anche a fronte del dubbio che gli effetti siano solo in parte dovuti ad una azione diretta sui vari sintomi, e in parte invece al miglioramento del tono dell’umore, concorrendo così ad attenuare gli aspetti negativi del vissuto di malattia. E questo, non solo quando altre terapie hanno fallito lo scopo, ma anche quando a parità di efficacia il soggetto esprime la sua preferenza per esso. Infatti si riconosce oggi che oltre a ottimizzare il rapporto tra medico e paziente, tale possibilità di scelta, accrescendo l’empowerment del paziente, può contribuire significativamente alla qualità delle cure. Altri studi recenti smentiscono ulteriormente l’enfasi esagerata su gli effetti avversi della cannabis, accrescendone sostanzialmente il rapporto beneficio/rischio. Per esempio, un lavoro apparso su Pnas, la rivista della Accademia Nazionale Americana delle Scienze, riferisce su due studi longitudinali su oltre 2000 gemelli, escludendo - una volta pesato in modo appropriato il ruolo dei fattori confondenti - un rapporto causale tra uso di cannabis in età adolescenziale e danni cognitivi. E un’ampia metanalisi degli studi sulla psicopatogenicità della cannabis esclude - sempre dopo approfondita valutazione del ruolo dei fattori confondenti - un ruolo della cannabis come "causa contribuente" allo sviluppo di psicosi. Altri esempi si potrebbero portare o si sono già menzionati in precedenti interventi: insomma, quanto si va dicendo sui danni provocati dalla cannabis, a parte i casi non frequenti di uso particolarmente smoderato, pare il frutto velenoso di una botanica politico-ideologica. Egitto: al Cairo, sul corpo del reato di Marina Calculli e Francesco Strazzari Il Manifesto, 10 febbraio 2016 In contesti segnati da violenza, fosse comuni e sparizioni, un cadavere martoriato fatto ritrovare reca sempre un messaggio. Quello di Giulio Regeni svela cosa si annida sotto le narrazioni del potere in uno stato di polizia. Chiunque abbia lavorato in contesti segnati da violenza, sparizioni e fosse comuni, sa che i corpi sono firme, e un corpo martoriato fatto ritrovare porta sempre un messaggio. Non sappiamo con certezza per chi, ma sappiamo che lo strazio del corpo di Giulio Regeni espone a corto circuito tre logiche che, nel loro legame intrinseco, ancora una volta svelano cosa si annida sotto la costruzione delle narrazioni del potere e del loro agire. La prima logica riguarda la natura arbitraria e imprevedibile delle dittature, come quella del regime di Abel Fattah al-Sisi: la restituzione del corpo di Giulio ne illumina il fondo oscuro, criminale e violento, dopo un lungo periodo in cui chi ha provato a rompere il silenzio è stato ignorato e additato quale detrattore della presunta "transizione politica" guidata dai nostri alleati, rappresentati come l’avamposto nel combattimento contro la minaccia jihadista. La svolta bonapartista della rivoluzione cominciata il 25 gennaio del 2011 e incarnata nel potere del generale al-Sisi ha trasformato l’Egitto in uno stato di polizia sempre più impresentabile, fondato sulla paura e sul ricatto: un regime che tramite la brutalità delle sue mukhabarat (servizi di intelligence) getta fumo sulla debolezza di un’economia al collasso (estremamente dipendente da investimenti e aiuti esteri) e di una società sempre più consapevolmente disillusa, seppur frammentata. La lotta al terrorismo e all’estremismo islamista in Egitto è un dispositivo principalmente volto a soffocare la Fratellanza Musulmana, storico rivale politico dei militari oggi al potere. La morsa del potere però aggancia chiunque si opponga: i desaparecidos, i baltagiya (gli squadroni della morte) agitano un repertorio che credevamo confinato agli angoli più tetri della storia latinoamericana. In questo contesto "terrorismo" è semplicemente sinonimo di minaccia per la stabilità del potere. Le carceri pullulano di intellettuali e attivisti dei quali non si sa per quanto ancora si potrà tenere traccia, mentre le morti in custodia si contano a decine. Ricordavamo in un editoriale su questo giornale lo scorso 29 novembre il nesso intimo tra autoritarismo e jihadismo: il potere manovra le trame di una minaccia costruita, o comunque ingigantita ad arte, per alimentare se stesso. Il corpo di Giulio, tuttavia, getta luce sulle molte crepe che attraversano la patina dell’ordine politico repressivo. La nevrosi alfieriana della "tirannide" in difficoltà si mostra pateticamente nelle versioni contraddittorie scagliate maldestramente in pubblico: con tutta probabilità siamo di fronte a una catena di comando nervosa e segnata da rivalità interne, coesa in un patto di impunità, sensibile ad impulsi dall’alto, pronta a gridare al complotto quando la propria firma compare su un corpo fra i tanti, recando il segno orrendo della propria firma. La seconda logica che in queste ore scricchiola, rivelandosi illusoria, è l’idea di poter condurre nel vicinato mediterraneo una politica estera improntata a una sorta di "cinismo di controllo", presidio strategico dell’"interesse nazionale", senza che questo tracimi a cascata in contraddizioni sempre più insopportabili, fino a capovolgerne il principio di legittimità. In altri termini: sostenere leader autoritari a patto che venga garantita "la stabilità" non è più sostenibile. Né l’Egitto né la Turchia, dove il (de)corso degli eventi recenti vede un crescente attacco alle più evidenti libertà politiche e di parola - oltre allo spregio dei più elementari obblighi umanitari - possono costituire cardini di stabilità. Partnership commerciali ed energetiche strategiche si risolvono in un castello di carte quando sono maneggiate da tendenze dispotiche ossessionate dalla repressione interna: con il rischio, peraltro, che quegli stessi investimenti siano inghiottiti dall’insicurezza prodotta dai regimi stessi (Libia docet). Abbiamo preferito non chiedere troppo dell’attentato al consolato italiano al Cairo dello scorso 11 luglio; ora ci restituiscono il corpo di un giovane ricercatore vigliaccamente seviziato. Il vergognoso comunicato della presidenza egiziana all’indomani del ritrovamento del corpo di Giulio, mescolando "costernazione" e partite commerciali, ha messo in scena la materialità di un’alleanza basata sul ricatto della sicurezza e sullo scambio tra affari e connivenza. Non esistono principi di lealtà o punti terzi: verità e giustizia saranno proporzionali al grado di determinazione con cui le autorità italiane le perseguiranno. C’è infine una terza logica che si incrina amaramente assieme al corpo spezzato di Giulio: né la sua nazionalità né l’affiliazione al mondo accademico "Ox-bridge" sono stati sufficienti a proteggerne la vita: una vita - non si può non sottolinearlo - immersa in un lavoro di etnografia del cambiamento che anche su questo giornale si stava impegnando a comunicare, informandoci e interrogandoci su soggetti che resistono, lontani dalla superficialità di media mainstream e ortodossia accademica. La retorica provinciale della "meglio gioventù" bypassa - forse anche inconsciamente - una riflessione che invece è doverosa sulle condizioni in cui molti studiosi fanno ricerca. È più che mai fondamentale che il dibattito pubblico investa le istituzioni del compito di promuovere e valorizzare il lavoro di ricerca sul campo, la cui principale prerogativa è quella colmare (clamorosi) vuoti di conoscenza e spessore analitico. Si tratta di un tipo di conoscenza cruciale in una fase di rapida trasformazione dei contesti locali e di equilibri internazionali il cui centro propulsore è proprio il Medio Oriente, e senza la quale ogni richiamo alla knowledge society si riduce a oziosa retorica. Chi vive nel mondo della ricerca vede ogni giorno avanzare la pretesa scientificità di modellizzazioni astratte, letture del politico costruite su dati commissionati e reperiti a distanza, disgiunte dalla comprensione del potere mediata attraverso i significati attribuiti dai protagonisti stessi. Proprio ora un numero crescente di riviste scientifiche sta adottando nuove regole che - in nome dell’accesso ai dati e alla trasparenza della ricerca (Dart) - operano una riduzione scientista che sacrifica la sensibilità etnografica per il terreno, di fatto rendendo impossibile lavorare sul campo in contesti sensibili. L’etnografia sul campo è cruciale per produrre conoscenza sull’incerto, il mutevole, il represso. Si ricordi che Giulio stesso si curava di anonimizzare il proprio nome su questo giornale: non è difficile immaginare se avesse potuto maneggiare con disinvoltura a meri fini di certificazione i dati dei sindacalisti e dei venditori informali, dei tassisti con cui parlava nell’incombere della repressione di regime. Per i macellai che si sono accaniti su di lui, un ricercatore è una spia. E qui il vero attore da chiamare in causa è proprio la politica, che mentre si affanna a proteggere "valori" e "civiltà" dovrebbe impegnarsi a proteggere non tanto e non solo i connazionali all’estero, ma le condizioni stesse in cui è possibile continuare a fare ricerca ed esigere un dibattito su aspetti strategici per le nostre "relazioni di vicinato": la neutralità nella produzione del sapere è un’illusione, che evapora assieme al confine tra la sicurezza e l’insicurezza dell’individuo che lo persegue. Egitto: Regeni poteva essere salvato, poca collaborazione egiziana di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 10 febbraio 2016 Buco investigativo dal 25 al 31 gennaio. Giulio Regeni forse poteva essere salvato. La decisione di aspettare 5 giorni prima di rendere pubblica la sua scomparsa potrebbe essere stata fatale. Giulio non era un egiziano per cui, in caso di sparizione forzata, di solito si segue la prassi di aspettare senza allertare. Era uno straniero, italiano, e per questo la notizia della sua scomparsa probabilmente doveva essere resa nota subito non solo alle autorità egiziane, come è stato fatto, ma soprattutto ai media locali e stranieri, la sera stessa del 25 gennaio scorso. La tortura atroce di uno straniero non si era mai verificata in maniera così drammatica negli ultimi quattro anni. E il caso di Giulio è un avvertimento preciso a chi è vicino a qualsiasi straniero che sparisce in Egitto e invita a non allertare media e autorità competenti ai massimi livelli sin da poche ore dopo la scomparsa. Questo silenzio che non coinvolge necessariamente responsabilità individuali o istituzioni, è però anch’essa imputabile al clima repressivo, di controllo e intimidazione che vive l’Egitto. È facile immaginare che la diffusione tempestiva della notizia avrebbe potuto mettere in pericolo le persone vicine a Giulio, alcune delle quali hanno lasciato il paese tra lunedì e martedì. Fatto sta che se la telefonata del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, e le aperture dei media mainstream sul caso Regeni fossero arrivate qualche giorno prima, l’allerta, lanciata dalle autorità egiziane per dare un segno alle richieste italiane ai massimi livelli, forse avrebbe permesso di risalire a Giulio con qualche giorno di anticipo, come poi è avvenuto in occasione del il cadavere. Appena due giorni dopo la diffusione della notizia, il 31 gennaio, il corpo di Giulio è stato fatto ritrovare in un fosso in condizioni drammatiche. Se la macchina della ricerca fosse stata avviata prima, forse il brillante dottorando sarebbe stato ritrovato ferito o in agonia ma non morto. L’autopsia italiana ha confermato che il decesso di Giulio è arrivato infatti cinque giorni dopo la sua scomparsa. Purtroppo non si può tornare indietro ma dobbiamo interrogarci su questo. È necessario quindi confutare la veridicità delle notizie circolate nelle ultime ore sui passi compiuti dal giovane dalla sua abitazione di Doqqi fino alla metro Mohammed Naguib a pochi passi da Meidan Bab el-Louk e piazza Tahrir, la sera della scomparsa. Una cosa è certa, Giulio è uscito di casa alle 20:00. I media egiziani, forse nell’ennesimo tentativo di depistaggio, dopo aver accreditato le piste di rapina, incidente stradale e ambienti gay, hanno rivelato che dai tabulati emergerebbe come Giulio non ha mai lasciato il quartiere di Doqqi. Tra le 20:18 e le 20:23 il suo cellulare squillava senza risposta, poi alle 20:25 risultava spento, come confermato da uno dei suoi amici, il docente Gennaro Gervasio. Alle 22:30 è stato lui a dare l’allarme all’ambasciata. L’ambasciatore, Maurizio Massari, ha in seguito avvisato le autorità egiziane della sua scomparsa. Qui si apre un buco investigativo incredibile. Dal 25 al 31 gennaio, cioè fino al momento della telefonata di Gentiloni, le notizie su Giulio sono praticamente assenti. È probabile che proprio la lentezza con cui le autorità egiziane hanno attivato la macchina per risalire alle circostanze della scomparsa abbia finalmente spinto a rivelare a tutti l’inspiegabile assenza di Giulio Regeni con ogni probabilità quando però era ormai già deceduto. Qui si aprono due interrogativi da chiarire. Il primo si riferisce alle informazioni di stampa che Giulio avesse preso parte a un assembramento e fosse in seguito stato arrestato, insieme ad altri dalla polizia, evenienza negata dalle autorità egiziane. Questa ricostruzione è stata smentita categoricamente dagli amici in Egitto che invece accreditano l’ipotesi di una sua casuale partecipazione ad uno sparuto assembramento. E proprio dopo le 20:25 qualcosa deve essere andato storto. E da qui in poi Giulio ha ricevuto il trattamento di un egiziano qualsiasi e non di uno straniero: cosa davvero inquietante. A questo punto sarebbero intervenute le notizie che già l’Intelligence aveva raccolto per trasformare il fermo in camera di tortura o forse non è così. I ministeri degli Esteri e della Giustizia egiziani non stanno collaborando adeguatamente con il team italiano di inquirenti, presenti al Cairo. Le autorità egiziane negano che Giulio sia stato arrestato, non permettono di visionare i risultati dell’autopsia egiziana. Più in generale il regime di al-Sisi nega se stesso perché nessuno dei suoi accoliti ammette che ci siano prigionieri politici, torture e arresti di massa nel paese. Ai margini della visita al Cairo del Segretario di Stato Usa, John Kerry, il ministero degli Esteri, Sameh Shoukry, ha accusato la stampa (italiana) di arrivare a conclusioni affrettate sulla scomparsa e uccisione di Giulio, senza avere conferme autorevoli. E poi l’attenzione delle autorità si è spostata sul Centro per i Diritti economici e sociali (Ecesr), accusato di diffondere "bugie" sui numeri delle migliaia di prigionieri politici e desaparecidos, presenti nel paese dopo il golpe militare del 3 luglio 2013. Egitto: agente di polizia condannato a 6 mesi di carcere per aver sparato ad un avvocato Nova, 10 febbraio 2016 Il tribunale penale del Cairo ha condannato a sei mesi di carcere e ad un risarcimento di 64 dollari un agente di polizia che aveva sparato ad un avvocato nel tribunale della città di Nasr, alla periferia della capitale. Lo riferiscono i media statali. La corte ha reputato l’agente colpevole di tentato omicidio e di aver terrorizzato i cittadini utilizzando la sua pistola in un luogo non consentito. I fatti risalgono al luglio 2015 quando, nel corso di una lite tra l’agente di polizia e l’avvocato che aveva attirato l’attenzione di numerose persone accorse per sedare la rissa, l’agente di polizia ha estratto la pistola sparando all’avvocato. Da tempo il ministero dell’Interno è chiamato a rispondere della condotta degli agenti di polizia che da molti viene considerata sopra le regole e che ha causato anche il decesso di alcuni detenuti arrestati poco prima. Il ministro dell’Interno, il generale Magdy Abdel Ghaffark, ha però più volte sostenuto che "si tratta di eccessi di singoli che non hanno nulla a che fare con le forze di polizia locali". Sri Lanka: 34 condanne a morte commutate in carcere a vita Ansa, 10 febbraio 2016 Buone notizie dallo Sri Lanka per la pena di morte: in seguito ad una serie di raccomandazioni espresse nel paese asiatico da una commissione nominata per esaminare le condanne a morte di diversi detenuti, si è deciso di convertire la pena capitale di 34 di questi detenuti in carcere a vita. Il Presidente Maithripala Sirisena ha adottato tale decisione dopo aver preso in considerazione le relazioni sui 34 detenuti presentate dalla commissione che era stata istituita dall’ex presidente.