Al carcere due Palazzi di Padova "declassificati" per necessità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 dicembre 2016 Dopo la chiusura del reparto di Alta Sicurezza alcuni sono stati ristretti con i detenuti comuni. La direttrice di "Ristretti Orizzonti", Ornella Favero, spiega: "lo prevede l’ordinamento penitenziario nel momento in cui si raggiungono i requisiti per un regime meno duro". Il carcere Due Palazzi di Padova, da almeno due anni, è nell’occhio del ciclone per presunti traffici di droga e di cellulari che avverrebbero con la complicità di alcuni agenti. Episodi simili sono stati riscontrati anche in altre carceri. Ma i riflettori sono oggi puntati sul carcere padovano. Nell’aprile del 2015 è stato chiuso il reparto di alta sicurezza (As3), il regime duro riservato a condannati per reati di tipo associativo (mafia, traffico di droga a livello internazionale, sequestri di persona, reati di terrorismo) a una sorveglianza più stretta rispetto ai "comuni" in quanto inseriti nella criminalità organizzata. È stato un duro colpo per molti di quei detenuti che avevano intrapreso un percorso di cambiamento legato al territorio padovano e, interrompendolo, hanno subito un forte danno; inoltre c’è da ricordare che da qualche anno - proprio all’interno del carcere di Padova - vengono organizzati dalla redazione di Ristretti Orizzonti dei convegni assieme a docenti universitari, giuristi e persone, ai quali intervengono anche detenuti ristretti in sezioni di alta sicurezza. Altro problema che si è verificato è stato anche quello del mancato rispetto della territorialità della pena: molti detenuti ospitati sono stati trasferiti a centinaia di chilometri dalle proprie famiglie, senza tener conto della vicinanza degli affetti e dei programmi di recupero avviati. Per ovviare a questa situazione alcuni detenuti reclusi in as3, per i quali era stato verificato il raggiungimento di obiettivi risultati di progressione trattamentale, sono stati declassificati dal Dap e ristretti assieme agli altri detenuti comuni di media sorveglianza. Nessuna anomalia, anzi una necessità. Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, e sempre in prima fila per la difesa dei diritti dei detenuti, ha spiegato che la declassificazione è stata applicata raramente e ciò è uno sbaglio. "Come prevede l’ordinamento penitenziario - spiega la direttrice, ogni sei mesi andrebbe svolta una verifica su ogni detenuto recluso nel regime di alta sorveglianza per valutare se abbia raggiunto i requisiti per ricevere una carcerazione più tenue". Quelli che vengono "declassificati" non sono restituiti alla libertà. Ornella Favero ha spiegato che " non significa regalargli chissà quali privilegi, significa solo trattarli un po’ più da persone e un po’ meno da merci da scaricare da un carcere all’altro. O pedine da spostare su una scacchiera per rendere più funzionali quei circuiti, nati nell’emergenza e fatti per durare il tempo necessario per superare quella fase e dilatati invece all’infinito come succede per tutte le emergenze nel nostro Paese". Ma che cosa è accaduto? In questi giorni è stata aperta un’inchiesta generica della procura di Padova che mette sotto la lente d’ingrandimento le declassificazioni, come se dietro ci fosse qualcosa di anomalo o ambiguo. Un’inchiesta legata a quella del traffico di droga. Eppure è difficile capire quale sia il legame tra le due cose. Il traffico di droga e di cellulari, come già detto, avviene in molte carceri italiane e indistintamente tra detenzione dura o tenue. Gli inquirenti si sono focalizzati su Mario Pace, 57 anni, ristretto al carcere di Padova per omicidio e associazione mafiosa. È stato arrestato (in carcere) pochi giorni addietro per spaccio: dalla sua cella gestiva un giro di cocaina dall’Olanda alla Sicilia. Era stato declassato. Però c’è un particolare: il declassamento avvenne nel lontano 2010, nulla a che vedere con i declassamenti recenti dopo la chiusura del reparto di alta sorveglianza. Quindi la presunta connessione tra traffici criminali e declassificazioni che sembrerebbe paventata dall’inchiesta ancora in fase embrionale, sembra inconsistente. Soprattutto perché il traffico di droga o di cellulari può avvenire anche nelle sezioni dure. Dall’altro canto è stata una fortuna l’avvenuto declassamento per alcuni detenuti del carcere di Padova, perché come dice Ornella Favero "essere declassificati a detenuti comuni significa rischiare meno di essere trasferiti, significa non finire in carceri con circuiti di Alta Sicurezza che sono il deserto, come la maggior parte di queste sezioni, significa poter lavorare fuori dalla sezione, incontrare la società che entra, come le migliaia di studenti con cui la redazione di Ristretti si confronta ogni anno, significa cominciare a perdere quella etichetta di mafiosi e basta e a sentirsi persone". A proposito dei cellulari ritrovati nelle carceri, a Padova come a Genova, ad Alessandria… di Francesca Rapanà (operatrice e volontaria di Ristretti Orizzonti" Ristretti Orizzonti, 9 dicembre 2016 In questi giorni c’è stata una violenta campagna mediatica su alcuni quotidiani locali (un titolo fra gli altri "Violenza, droga e affari sporchi. Il libro nero del Due Palazzi") in cui la Casa di Reclusione di Padova è rappresentata come un luogo corrotto, una bolgia di festini, un supermercato della droga, da cui se si decide, si può evadere facilmente e sempre si cita il caso, certamente clamoroso, ma risalente a 22 anni fa, di Felice Maniero. A sostegno di questa tesi si aggiunge che nel 2010 è evaso un detenuto utilizzando delle lenzuola, notizia fuorviante perché riguardava un’altra struttura, la Casa Circondariale, e si cita anche Leitner, evaso da un permesso premio e non dalla struttura penitenziaria (e se ci fosse bisogno di sottolinearlo le due situazioni sono estremamente diverse e diversa nei due casi la responsabilità di chi è preposto alla sicurezza). L’articolo prosegue "se le condanne hanno spazzato via molto del marcio, quel girone infernale riappare puntuale come una maledizione: l’ultimo sequestro di un cellulare è avvenuto sabato scorso". Non so che sensazione possa suscitare nel lettore l’accostamento tra girone infernale e cellulare, ma io decido di andare a vedere se ci sono altri gironi infernali in giro per le patrie galere e compaiono non solo i gironi, ma tutto l’inferno, dalla selva oscura al nono cerchio, per restare nella metafora usata dal giornalista. Facendo una ricerca su Google appaiono infatti le notizie più recenti, del 6 dicembre: "Altri due telefoni cellulari sono stati trovati in una cella della Casa di Reclusione di Alessandria (…). A darne notizia è Vicente Santilli, segretario regionale per il Piemonte del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe"; il secondo titola "Scoperto in carcere a Cuneo un detenuto con un telefono cellulare. La denuncia dell’Osapp, Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria". Il 25 novembre: "Trovati cellulari nel carcere di Marassi, Pagani (Uil): "A quando le armi?"; 18 novembre, ancora un articolo sul carcere di Alessandria, "Trovati droga e cellulari in carcere", che riporta le parole di Donato Capece del Sappe, che chiede al Dap di schermare le carceri per contrastare l’uso dei cellulari. Procedendo c’è un articolo di settembre, "Carcere Bologna: trovati due cellulari nelle scarpe di un detenuto" e poi ancora Vigevano, Frosinone, Velletri, Rebibbia, Cremona, Barcellona Pozzo di Gotto, Melfi, Napoli, Bolzano e si potrebbe andare ancora avanti, ma mi fermo. È vero che nel carcere di Padova sono stati trovati dei cellulari, ma la cronaca ci racconta che questo accade in tutte le carceri del Paese, da nord a sud, e quindi varrebbe forse la pena capire qualcosa in più di questo fenomeno: a cosa servono i telefoni in carcere? chi li usa? per chiamare chi? per dire cosa? Sinceramente è una domanda che mi farei prima di ipotizzare qualsiasi intervento che rischia di essere una frustrante battaglia contro i mulini a vento. Ma non perché ci si debba arrendere di fronte a comportamenti illegittimi, ma quando sono così diffusi, credo che convenga fare un passo indietro e chiedersi cosa fonda l’illegittimità di quei comportamenti, qual è il motivo per cui avere un cellulare non è tollerabile e tollerato in carcere. Io non credo che si possa dare per scontato. Il cellulare consente di avere più rapporti con l’esterno. E fino a qui non sarebbe una cosa illegittima. Mediamente i detenuti possono avere rapporti con l’esterno, attraverso la corrispondenza, le telefonate, i colloqui, l’ingresso della società civile, avere dei rapporti con l’esterno non è di per sé riprovevole, anzi, in diverse circolari si sostiene che vada addirittura facilitato. Credo che i problemi sorgano quando si associano in modo automatico i rapporti con l’esterno alla commissione di reati, ovvero il cellulare non è consentito, perché con il cellulare si commettono dei reati. Io non lo so se questa equazione sia sostenibile, non so se siano mai stati fatti degli approfondimenti che chiariscano quale uso venga fatto dei cellulari posseduti in modo improprio, se per fare reati o per avere contatti con i propri cari, ma credo che questo dato possa essere utile perché se è indiscutibile che i reati vanno contrastati, nella società come in carcere, luogo teoricamente di educazione alla legalità, non credo che questo si possa dire per i rapporti familiari ed affettivi, che devono essere piuttosto tutelati e facilitati. Se emergesse che i telefoni vengono utilizzati per chiamare i figli, le madri, le mogli, i mariti, perché i dieci minuti a settimana non sono sufficienti, non varrebbe la pena fare qualche riflessione prima di impegnare migliaia di agenti in una caccia al cellulare, che rischia di essere inutile? Qual è esattamente il problema se venisse concesso l’uso del cellulare alle persone detenute? Io ne vedo uno solo, cioè che bisognerebbe evitare che fosse usato in ogni situazione, al lavoro, a scuola, durante le attività, esattamente come succede fuori, quando si combatte con gli studenti, o sui treni o sui luoghi di lavoro. Per il resto, i reati vanno contrastati sia che si facciano con il cellulare, sia con carta e penna o senza niente di tutto questo. Io non ho nessun dato che possa essere generalizzato, so però che tra le persone che ho conosciuto in questi anni e che sono state trovate in possesso di un cellulare, non c’è nessuno che sia stato condannato per aver commesso dei reati in carcere legati all’uso del cellulare. Immagino che se avessero commesso dei reati, sarebbero stati indagati e in alcuni casi condannati, visto che sono passati anche anni. So anche che, almeno a Padova, fino a qualche anno fa i detenuti che lavorano all’esterno in art. 21 o che vanno in permesso premio non potevano usare il cellulare, mentre ora è possibile, perché evidentemente si è capito che anche se c’è un margine di rischio, non è possibile reinserirsi nella società senza usare gli strumenti che la società utilizza per la maggior parte dei propri scambi quotidiani. E non credo nemmeno che siano aumentati i reati dei detenuti che vanno in permesso e di chi va a lavorare all’esterno. Non lo so, ma forse prima di cercare le risposte giuste, che si tratti di schermare le carceri o di concedere i cellulari, bisognerebbe cercare di porre il problema in termini diversi. A proposito della figura del Direttore penitenziario Ristretti Orizzonti, 9 dicembre 2016 Riflessioni di Antonio Gelardi, Direttore della Casa di reclusione di Augusta (Siracusa), in un confronto a distanza con Ornella Favero, Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Qualche considerazione sulla affermazione di Ornella Favero "Non deve esistere la figura del direttore illuminato, ci sono direttori che rispettano la Costituzione ed altri che non lo fanno" sulla quale abbiamo avuto modo di conversare durante il collegamento a distanza nel corso del convegno Crivop sul volontariato tenutosi il 26 Novembre a Catania. Dunque, metto in fila un po’ le idee, partendo dal fatto che mi sono chiesto anch’io, come in tanti, perché mai la realtà penitenziaria sia rimasta per così tanto tempo così distante dal dato normativo. E partiamo dalla figura del direttore e dalle condizioni in cui opera. È vero che non deve esistere il direttore illuminato, il direttore deve applicare la Costituzione (e quindi le leggi ed i regolamenti). E devo dire in tutta franchezza che l’amministrazione penitenziaria non limita l’azione positiva, non vincola, non posso dire onestamente nella mia esperienza (33 anni di servizio) di aver avuto vincoli indebiti o di aver pagato per essere incorso in incidenti di percorso dovuti a rischi fisiologici nelle "aperture". Posso però, senza alcuna pretesa di essere esaustivo, dire ciò che nella quotidianità lavorativa vincola, distoglie l’attenzione, non incoraggia. In primo luogo il dover curare moltissimi adempimenti. Contabili, prima di tutto, ed amministrativi in genere, spesso connessi alla figura di datore di lavoro, e di responsabile di una struttura che vive h24. Ciò impegna in modo straordinario, tanto più in quanto non sempre sono presenti specifiche linee guida e sufficienti risorse economiche . Succede allora che se io direttore vengo sbrigativamente definito "datore di lavoro" e questa funzione mi viene talvolta quasi rinfacciata da taluni "attori" che ruotano nell’ambito penitenziario, è chiaro che sto sulla difensiva, posso tendere a privilegiare le attività cosiddette salvavita, nella migliore delle ipotesi non mi sento incoraggiato e mi si aggiunge al logorio carcerario quello amministrativo. È vero che poi c’è chi è particolarmente motivato o è particolarmente esperto, o ha uno staff di collaboratori valido e numeroso e riesce a far quadrare tutto. Ma come non deve esistere il direttore illuminato, non occorre neanche essere necessariamente Super motivati o Super capaci o Super collaborati . Si deve poter lavorare, bene, in condizioni medie. Diversamente può subentrare la tendenza a mettere al primo posto l’adempimento, il riscontro, e ad evitare rischi. O più semplicemente non rimane sufficiente tempo per ciò che dovrebbe essere il cuore dell’attività, ossia lo sviluppo delle attività trattamentali e la conoscenza delle persone detenute. Andiamo al Personale ed alle relazioni sindacali. Penso spesso che la condizione media sia ancora troppo simile a quella creatasi alla data del 1-1-90, quando all’indomani della riforma che portò alla smilitarizzazione del corpo degli agenti di custodia, scattò la reazione, una sorta di rivalsa nei confronti di chi svolgeva la funzione di direttore, per il fatto di essere al vertice della struttura-istituto. Non c’è stata rispetto a questo una piena e consolidata evoluzione, nel senso che la figura del direttore continua ad essere il terminale delle disfunzioni e dei malesseri reali. Si, perché i malesseri sono senza dubbio reali, la condizione del poliziotto penitenziario è in effetti quella descritta da più parti come usurante; presenta tratti ripetitivi, perché il processo di meccanizzazione e di organizzazione di videosorveglianza procede, ma essendo partito da pochi anni è ancora a metà strada, così come quello dell’adeguamento delle strutture (anche se con lo strumento della Cassa delle ammende si sta facendo tantissimo). E il poliziotto ha a che fare con situazioni di disagio che avrebbero bisogno di un costante intervento multidisciplinare, e ciò chiama fortemente in causa le Asp (Aziende di Servizi alla Persona) con le abissali differenze fra l’una e l’altra. Ci sono infatti Regioni ed Asp che forniscono un servizio attento e che approfondiscono i temi del disagio, altre che si limitano a mandare lo psichiatra per qualche giorno la settimana. Nel primo caso c’è una reale presa in carico che alleggerisce il compito degli operatori in generale e la polizia penitenziaria in particolare, nel secondo si affronta il disagio in una spiacevole situazione di solitudine professionale. Sul piano delle relazioni sindacali credo che vada chiaramente distinta la funzione dell’attività da quella di controllo. Se il dirigente pubblico deve, secondo normativa, avere gli stessi poteri del datore di lavoro privato, non si capisce perché quello fra i dirigenti pubblici che ha i compiti più complessi deve, prima di prendere iniziative, passare attraverso vari placet ed essere sottoposto a poteri di interdizione. Non intendo assolutamente dire che il ruolo del sindacato vada ridimensionato. Al contrario. Il sindacato deve poter svolgere una funzione forte, ma di controllo e di tutela, non di cogestione. Ancora, qualche considerazione sul regime, ho avuto la fortuna di visitare un carcere spagnolo, ho visto il "regime abierto". Poco personale, pochi cancelli, aria distesa. Un sistema del tutto diverso intendiamoci, nel quale le persone detenute possono avanzare o retrocedere da un regime più aperto ad un altro medio o "serrado". Quello che ho visto è, in forma realizzata, il regime aperto verso il quale ci stiamo muovendo, e che non richiede più personale. Perché i termini del problema, sovraffollamento e carenza di personale, problemi reali, si intende, non sono sufficienti a spiegare tutto. Ritengo che tutto il sistema vada ripensato, anche se certo non può esserlo dall’oggi al domani. Andiamo alla condizione della categoria dei direttori: come ci si può sentire percependo il fatto di essere una categoria in via di estinzione? Da vent’anni non si fanno concorsi, chissà se e quando se ne faranno. Non ci sono forze nuove. Addirittura c’è stata qualche accreditata ipotesi di riforma che voleva eliminare la categoria, metterla in un ruolo ad esaurimento . Tanto... E allora come ci si può sentire ad essere uno di quelli che, tanto... So che Ristretti si è soffermata su questo aspetto: il compito del direttore, se svolto come deve essere svolto, dà equilibrio al sistema, dà armonia al lavoro delle altre figure. Avvilire questa figura pensandone il superamento porta alla demotivazione. In tanti appassionati di questo lavoro iniziano a fare i conti di quanto manca alla pensione. Torno al sovraffollamento. Problema o alibi? È problema quando mancano le risorse. Ci sono stati anni, quelli nei quali il piano per la costruzione di nuove carceri drenò tutte le risorse, in cui non era possibile comprare un chiodo per manutenzionare la struttura o comprare generi di pulizia. È problema quando il rapporto operatori/numero di detenuti diventa inadeguato. Viene invece da pensare che fosse un alibi quando, come nel periodo post indulto, nel 2006, tutti gli istituti erano mezzi vuoti e la qualità della detenzione non migliorò granché. Ancora una considerazione: il contesto. Ho lavorato in toscana e da tanto lavoro in Sicilia. Ho constatato quanto sia diverso. Non tanto per il rapporto con la collettività ed il volontariato, vivi e vitali anche al sud. Ma le istituzioni, il tessuto produttivo, presentano una offerta molto diversa, molto meno ampia al sud. Questi alcuni dei motivi, per i quali, secondo la mia opinione, l’operato di un direttore può essere condizionato o essere confinato in un ambito di burocrazia e non avere l’ampio respiro richiesto per chi deve attuare un dettato normativo fondamentale quale quello dell’articolo 27. Ma mi sono dilungato. Forse avrei potuto sintetizzare buona parte del discorso, quello del rapporto fra norma e sua attuazione, citando il Manzoni di "Storia della colonna infame " nel passo in cui dice che più che le norme vale lo spirito dei tempi. Ed esso prima della sentenza europea, salvo brevi periodi a metà degli anni settanta e nel periodo che portò alla legge Gozzini, non è mai stato molto propizio. E l’azione amministrativa, che è fatta, prosaicamente, di risorse, fissazione di obiettivi, operato convinto dei vertici statuali, incentivazione nel perseguimento degli obiettivi, non è stata sempre, diciamo, trainante. Giustizia. Sfumata l’assunzione di 1.000 cancellieri di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2016 Il ministro aveva presentato un pacchetto di emendamenti a Montecitorio, stoppato da Renzi con la promessa di esaminarlo al Senato. La crisi di governo blocca le modifiche del ministro Orlando già proposte alla Camera ma rinviate al Senato dai Rapporti con il Parlamento. Le dimissioni di Matteo Renzi e il conseguente varo della legge di Bilancio con la fiducia tecnica hanno avuto un forte contraccolpo sulla Giustizia, lasciando sul terreno misure essenziali per la funzionalità e l’efficienza del servizio, come quelle dirette a implementare i ranghi del personale amministrativo, la cui carenza negli uffici giudiziari sta creando da tempo situazioni di quasi paralisi (a fine 2015, c’erano 34.656 cancellieri su un organico di 43.702 posti, vale a dire una scopertura di 9.046 posti, pari al 20,7%). È sfumata infatti la possibilità di assumere altre 1.000 unità di cancellieri, nonostante ci fossero i fondi disponibili: un emendamento del ministro della Giustizia Andrea Orlando era stato presentato già alla Camera, durante il lavoro preparatorio alla Legge di Bilancio, ma la ministra dei Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi gli ha sbarrato la strada seppure con la promessa di riparlarne al Senato. Stessa cosa per altri emendamenti a firma Orlando, tutti destinati a ridare ossigeno alla Giustizia: ridurre del 50% l’attuale spesa per le intercettazioni telefoniche; assumere 880 poliziotti penitenziari, con una norma in deroga per sbloccare lo scorrimento dalle graduatorie degli idonei; accelerare l’assunzione dei 340 magistrati vincitori di concorso; assumere 125 funzionari contabili per coprire i vuoti nell’amministrazione penitenziaria; assumere un congruo numero di assistenti sociali per rendere funzionante ed efficace l’esecuzione penale esterna al carcere; escludere dalla sospensione dei termini processuali e sostanziali, prevista dal decreto terremoto, alcuni comuni non colpiti particolarmente dal sisma, come Rieti, Teramo, Ascoli Piceno, Macerata, Fabriano e Spoleto. Al di là degli eventi successivi all’esito referendario, lo stop al pacchetto-efficienza presentato da Orlando è un’ulteriore vittima del braccio di ferro politico ingaggiato dal premier Matteo Renzi con il guardasigilli, che aveva già lasciato sul campo una riforma "qualificante" come quella sul processo penale, bloccata dal presidente del Consiglio in attesa del referendum ed ora davvero in alto mare. Con la riforma e soprattutto con il pacchetto-efficienza, Orlando si sarebbe legittimamente intestato il merito di aver dato una boccata d’ossigeno al processo e al servizio giustizia: una medaglia che Renzi, di fatto, non gli ha voluto concedere, sebbene il guardasigilli si sia speso molto in prima persona su questi versanti e su quello del carcere. In via Arenula facevano affidamento soprattutto su due emendamenti, quelli riguardanti l’assunzione di 1.000 unità di personale amministrativo e di 880 unità di polizia penitenziaria. Ma entrambi, alla Camera, erano stati trasformati in ordini del giorno. Il primo partiva dalla presa d’atto della "grave inadeguatezza dell’attuale contingente di personale in servizio presso gli uffici", sia quantitativa che qualitativa, poiché a causa del tempo trascorso dall’ultimo concorso, negli organici mancano proprio "quelle specifiche professionalità che il mutamento del fabbisogno gestionale oggi impone di acquisire", manca, cioè, personale munito di competenze informatiche, ingegneristiche e statistiche. Né le procedure di mobilità hanno consentito di far fronte alle scoperture. E così, incassata già l’assunzione di 1.000 persone, si è puntato all’assunzione di altre 1.000 utilizzando i fondi stanziati per la mobilità (che non ci sarà o avrà numeri inferiori rispetto agli stanziamenti disponibili). Nulla di fatto, però. Discorso più o meno analogo per gli 880 poliziotti penitenziari. La Giustizia aveva chiesto una norma in deroga all’ordinamento militare, per sbloccare lo scorrimento delle graduatorie dei vincitori di concorsi già espletati fino al 2014 e, per i posti residui, quelle degli idonei non vincitori, per consentire un piano di assunzioni efficiente nel Corpo di polizia penitenziaria. Ma anche qui la risposta è stata un no. A chiedere interventi urgenti sul personale amministrativo, oltre a tutte le sigle sindacali, era stata anche l’Associazione nazionale magistrati, dopo aver raccolto (in un’assemblea romana in Cassazione) il grido d’allarme di tutti i capi degli uffici giudiziari. La richiesta era stata girata anche a Renzi in un incontro a Palazzo Chigi con Orlando. Erano seguite promesse, poi, però, non mantenute. Dell’Utri: "Si avvicina la fine e sono in cella. Dovevo farmi arrestare prima" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 9 dicembre 2016 Per spiegare il senso della sua vita da detenuto, Marcello Dell’Utri cita Dante: "Che il tempo non passi perduto". Dimagrito ma apparentemente in salute ("mi tengono sotto controllo in Infermeria"), racconta le giornate scandite da due ore di passeggio in cortile, la mattina nell’area universitaria con i reclusi che studiano Giurisprudenza, il pomeriggio chiuso in cella a studiare per il prossimo esame in Lettere e Storia all’università di Bologna, la sera a sbrigare la corrispondenza, qualche volta un po’ di televisione, e poi a letto: "Un’esistenza quasi monastica, anche se manca il silenzio; c’è sempre troppo chiasso". Ma quando arriva a descrivere il disinteresse della politica per il mondo carcerario ricorre a un proverbio palermitano che tradotto significa: "Il sazio non crede a chi è digiuno"; bisogna fare un’esperienza diretta per comprendere le sofferenze altrui, e ciò che accade dietro le sbarre non sfugge a questa regola: "Ai politici i problemi delle galere non interessano, e io stesso in Parlamento non me ne sono occupato. Sono dovuto arrivare qui per capire". Qui è il carcere romano di Rebibbia, dove l’ex senatore e fondatore di Forza Italia è arrivato dopo due anni trascorsi nel penitenziario di Parma e due mesi in una prigione in Libano, dove fu arrestato mentre cercava di organizzare la latitanza. "Questa è una leggenda metropolitana - ribatte. Le pare che se avessi voluto sottrarmi alla giustizia avrei soggiornato nel più famoso albergo di Beirut? Ero andato a verificare la possibilità di una collaborazione tra la mia fondazione "Biblioteca di via Senato" e un’analoga fondazione culturale dell’ex presidente Gemayel". Dell’Utri sta scontando 7 anni di pena per concorso esterno in associazione mafiosa, ne ha già fatti 2 e 8 mesi; togliendo i giorni della liberazione anticipata dovrebbe essere a metà del percorso, se non oltre: "Ma non faccio calcoli, aspetto e basta". Si rammarica perché da politico non s’è occupato dei problemi dei detenuti? "Sì, ma del resto la mia esperienza politica è stata un disastro". Rinnega Forza Italia e il partito creato con Berlusconi nel 1994? "No, quella fu un’iniziativa giusta, ma bisognava continuare a selezionare la classe dirigente del cosiddetto "partito azienda". Nel 1996 mi sono candidato per difendermi nei processi, come ho sempre ammesso, e ho sbagliato. Lo status di parlamentare mi ha evitato la carcerazione preventiva e ha allungato i processi, ma avrei fatto meglio a farmi arrestare prima e scontare subito la condanna, quando avevo cinquant’anni; oggi sarei libero, un uomo saggio con un bagaglio di esperienza in più. Invece mi trovo qui dentro a 75 anni, vedo avvicinarsi il finale di partita e sinceramente mi dispiace passarlo qui anziché con la mia famiglia, i miei nipoti e i miei più cari amici". Scusi, ma non è che ha sbagliato a frequentare certi capimafia per mediare i rapporti con Berlusconi, come ha stabilito la sentenza di condanna? "Io non ho fatto niente di tutto questo. Ho conosciuto solo Vittorio Mangano e Gaetano Cinà , senza sapere che fossero mafiosi, se poi è vero che erano mafiosi; e partecipai alla festa di matrimonio di quel Jimmy Fauci, altra persona di cui non conoscevo le attività criminali, in cui arrivai che erano già alla torta". Veramente ci sarebbero anche gli incontri con i boss Bontate, Teresi e Di Carlo, che risalgono addirittura agli anni Settanta. "Mai avvenuti. I giudici hanno detto il contrario, lo so, ma senza prove. La verità è che noi viviamo nel Paese dei pubblici ministeri, sono loro che comandano". Ma lei è stato condannato dai giudici dopo cinque processi, non dai pm… "Che le devo dire? I giudici possono anche sbagliare, o subire i condizionamenti di certi climi, com’è successo a Palermo nel mio processo d’appello. Ma ormai è inutile parlarne". Come si difenderà negli altri processi a suo carico ancora in corso? "Di alcuni non mi interesso tanto sono astrusi, come la trattativa Stato-mafia o la P3; alla frode fiscale penseranno i miei avvocati, mentre la storia dei libri rubati alla Biblioteca dei Girolamini mi brucia più dell’accusa di concorso esterno. Io li ho acquistati o ricevuti senza sapere della loro provenienza furtiva, altrimenti non li avrei messi a disposizione del pubblico nella mia biblioteca, incardinandoli nel catalogo. In tal modo ho potuto restituirne più di quelli contestati". Manca ancora L’Utopia di Tommaso Moro. Dov’è? "A parte che si tratta di un libro cosiddetto ‘scompletò, e quindi di scarso valore venale, non si è rintracciato per via di alcuni traslochi. Ma io saprei trovarlo in mezzo agli scatoloni, purtroppo al momento sono impedito...". A che punto è il suo ricorso alla Corte europea dei diritti umani? "Dopo la sentenza Contrada (quella secondo cui per fatti avvenuti prima del ‘94 il concorso esterno non sarebbe perseguibile ndr) stabiliranno che la condanna è stata illegittima e sarò risarcito per ingiusta detenzione. Ma i tempi sono lunghi, temo avverrà a pena scontata". Continua a sentirsi una vittima, pure da condannato? "Io non mi sento un condannato detenuto, bensì un prigioniero che ha perso una guerra ancora in corso, e finché non finisce devo stare qui. Solo dopo mi libereranno". Una guerra contro chi? "Contro Silvio Berlusconi, e contro di me per interposta persona. Io per adesso studio la storia, ma forse arriverà un giorno in cui la scriverò anch’io. Ho già qualche idea". A proposito di Berlusconi, vi sentite ancora per posta? "No, ogni tanto gli mando gli auguri, e lui mi ha mandato i saluti attraverso l’amico Confalonieri e altri che sono venuti a trovarmi. Ho ricevuto le visite di Brunetta, Romani, Toti, Palmizio, Prestigiacomo, Bernini, Gasparri, Santanché e molti altri. Mi hanno fatto piacere". E Denis Verdini, suo coimputato nel processo sulla P3 che oggi è sul fronte opposto a Berlusconi? "Per motivi di opportunità non s’è fatto vedere, ma mi ha mandato i saluti. Questa storia del suo tradimento di Berlusconi non mi convince, conosco la sua devozione e l’affetto che ha per Silvio". Dopo il referendum costituzionale, come vede la politica di oggi? "Molto distante. Io avrei votato No. Forse Berlusconi, che a ottant’anni ha ancora l’energia e l’ostinazione per stare in prima linea, può giocare un ruolo per una riforma elettorale condivisa. Vedremo. Guardo i talk show in tv, ma sono più inquietanti che interessanti. E poi devo limitare la televisione, perché devo studiare". Dell’Utri ha con sé il libro del domenicano francese Marie Dominique Chenu, "La teologia del XII secolo", a febbraio deve dare due esami, Storia della Chiesa medioevale e Istituzioni della Chiesa ortodossa; l’ultimo l’ha fatto a fine ottobre e ha preso 30 e lode. La sola distrazione sono le partite a scacchi con un detenuto georgiano: "È fortissimo, prima vinceva sempre, adesso comincio a batterlo anch’io. È una grande soddisfazione, le partite durano anche due ore, a volte di più. Mi aiutano, perché per giocare a scacchi ci vuole una mente totalmente sgombra da pensieri. Soprattutto tristi". Aversa (Ce): lo considerano un pedofilo, detenuto ucciso nell’Opg, in 4 sotto processo casertace.net, 9 dicembre 2016 Lo hanno pestato fino ad ucciderlo, in quanto era considerato un pedofilo. Così è morto un detenuto dell’Opg di Aversa e per tale motivo sono stati rinviati a giudizio, nell’udienza svoltasi presso il tribunale di Santa Maria Capua Vetere, altri 4 detenuti. Sono finiti sotto processo Attilio Ravizzola 43enne bresciano, Damiano Cosimo Stella 37enne di Colleferro, Alessandro Basile, 40enne di Sant’Antimo e Massimo Maiorano, 52enne di Ischitella in provincia di Foggia. Il giudice Maccariello si è astenuto, però dal processo, perché aveva già svolto la funzione di gip. Bari: a che punto sono le procedure per la costruzione del nuovo carcere? di Francesco De Martino Quotidiano di Bari, 9 dicembre 2016 Ancora nelle prime pagine dell’agenda del Segretario Regionale P.R.I., nonché assessore comunale Giuseppe Calabrese, la realizzazione del nuovo istituto di pena in località Torre Tresca, a Bari. Ma stavolta Calabrese, invece di soffermarsi sui soliti ritardi accumulati dalle pubbliche amministrazioni ed enti locali, oltre che ai dettagli tecnici e amministrativi, si sofferma sulla questione del sovraffollamento nel carcere di Bari. E cioè uno dei più gravi ed urgenti problemi sia in ordine ai posti letto e sia alla diffusa violazione dei diritti, della dignità delle persone detenute e degli agenti penitenziari. "La struttura di Corso Alcide De Gasperi - si legge nella missiva che il politico barese ha già inviato tra gli altri ai ministeri competenti - ospita infatti circa cinquecento persone, contro le duecentottanta previste in base alla capienza della struttura con i reclusi ammassati nei Reparti detentivi e con limitatissimi spazi destinati alla socialità". Una situazione insostenibile, mentre sulla costruzione del nuovo carcere che dovrebbe sorgere, su suolo demaniale, in zona Carbonara di Bari prevale ancora l’incertezza e il silenzio. Va, inoltre, ricordato che nell’anno 2010 il Sindaco di Bari Michele Emiliano rendeva noto la disponibilità di ben quaranta milioni di Euro per la costruzione del penitenziario, che però non ebbe luogo per il diniego espresso dall’allora Governatore della Regione Puglia Nichi Ventola. Il quale, rammenta ancora Peppino Calabrese, bloccò l’iniziativa della costruzione, determinando così la restituzione di fondi e a seguito di questa decisione quei finanziamenti vennero assegnati all’Amministrazione Comunale di Pordenone. Una partita perdente per la Città di Bari che, come per la costruzione del nuovo polo giudiziario, s’è vista sottrarre un bel po’ di denari pubblici a beneficio di altre amministrazioni civiche e regioni italiane amministrate ben diversamente. Conclusione? "Allo stato, le criticità sono ulteriormente accresciute e dunque, si rende necessario dar corso alla prevista costruzione della nuova Sede carceraria in zona Torre Tresca - agro di Carbonara -Bari - sentite anche le preoccupazioni del Santo Padre che all’Angelus di Domenica 6 Novembre ha lanciato un esplicito appello alle Autorità Civili di ogni Paese del mondo a favore dei detenuti a compiere un atto di clemenza "amnistia" verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare del provvedimento", scrive ancora Calabrese. Quindi, attese le giuste aspettative della cittadinanza barese in ordine al "rilevante problema sociale della carenza di un istituto penitenziario moderno, degno di tal nome", come mette nero su bianco il segretario pugliese del Partito Repubblicano Italiano, si rende quanto mai necessario fare qualcosa. E lui s’è rivolto direttamente al Ministro della Giustizia per far conoscere, "con ogni cortese sollecitudine", le procedure intraprese, ovvero da avviare, per la realizzazione di un nuovo e più moderno istituto penitenziario nel capoluogo pugliese. Alba (Cn): un anno fa i casi di legionella, ancora da appaltare i lavori di sistemazione La Stampa, 9 dicembre 2016 Tra pochi giorni sarà un anno: il 1° gennaio 2016 si registrava nella Casa di Reclusione albese "Giuseppe Montalto" il primo caso di legionella, diagnosticata in poche ore ad altri tre detenuti, con la chiusura immediata della struttura per epidemia e il conseguente sgombero disposti dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Da allora, i 122 detenuti, di cui 22 collaboratori di giustizia, sono ospitati nelle varie carceri del Piemonte, dove ruotano a turno anche i 112 poliziotti garantendo un presidio continuo per l’edificio di località Toppino. In questi 12 mesi ci sono stati incontri e visite da parte di dirigenti, politici e ministri (l’ultima, pochi giorni fa, quella dell’europarlamentare Matteo Salvini durante la sua giornata cuneese pre-referendum), accordi tra sindacati e voci di preventivi fino a 10 milioni per sistemare gli impianti, interrogazioni al Parlamento e molte "garanzie e rassicurazioni per riaprire al più presto il carcere". Ma al momento, i lavori promessi per la ristrutturazione e il recupero dell’istituto entro fine 2017, con un investimento di 2 milioni, restano da appaltare. Il sindaco "Secondo quanto ci è stato riferito, siamo fiduciosi che l’intervento andrà in appalto a inizio anno - dice il sindaco Maurizio Marello. I tecnici hanno confermato i progetti per un intervento radicale sugli impianti idro-termosanitari. Insomma, la conferma, pur senza date precise, di quanto annunciato ad Alba a luglio dal direttore generale del personale e delle risorse del Dipartimento Amministrazione penitenziaria, Pietro Buffa". Seguono la vicenda anche i garanti dei detenuti, Bruno Mellano per il Piemonte e Alessandro Prandi per il Comune di Alba: confidano che "ci sia presto la consegna definitiva del cronoprogramma dei lavori di ristrutturazione per una riapertura graduale nel 2017". Cagliari: "Tribunale di sorveglianza: quali diritti?", lunedì incontro-dibattito Sdr-Anf Ristretti Orizzonti, 9 dicembre 2016 "Tribunale di Sorveglianza: quali diritti?" è il tema dell’incontro-dibattito in programma lunedì 12 dicembre a Cagliari ore 16.30 nella Biblioteca dell’Ordine degli Avvocati, al quarto piano dell’ala nuova del Palazzo di Giustizia. L’iniziativa promossa dall’associazione "Socialismo Diritti Riforme" e dalla sezione cagliaritana dell’Associazione Nazionale Forense intende mettere l’accento sul ruolo, la struttura, la funzione dell’Istituto nato 41 anni fa con la legge 354 sull’Ordinamento Penitenziario. Molti non sanno che alla Magistratura di Sorveglianza sono attribuite competenze che abbracciano l’organizzazione degli istituti detentivi, le istanze dei singoli ristretti (permessi o ammissione al lavoro esterno), le misure alternative (semilibertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali), le misure di sicurezza. La competenza nei confronti dei condannati ha inizio quando la sentenza è definitiva. Insomma i Magistrati di Sorveglianza sono nati nel 1975 per occuparsi dell’ordinamento penitenziario. Oggi quali problemi devono affrontare? È sufficiente il loro numero rispetto ai reclusi? Gli Uffici sono adeguati? Il dibattito intende altresì evidenziare i ruoli svolti dall’Ufficio Esecuzione Penale Esterna e dagli Istituti Penitenziari affinché sia garantita una organizzazione delle carceri rispettosa dei diritti dei cittadini privati della libertà e un accesso alle pene alternative. Dopo il saluto della Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari Rita Dedola, introdurrà il dibattito l’avv. Marco Perr, componente direttivo Anf di Cagliari. Sono quindi previsti gli interventi di Riccardo De Vito, Magistrato di Sorveglianza, Rossana Carta, Direttore Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna di Cagliari, Gianfranco Pala, direttore Casa Circondariale Cagliari. Franco Villa, avvocato. Seguiranno i contributi programmati di Francesco Mulas, segretario dirigente della sezione di Cagliari dell’Anf e Monica Murru, Direttrice Scuola Forense di Nuoro e il dibattito. Coordina i lavori Maria Grazia Caligaris, presidente associazione SDR. L’evento è in fase di riconoscimento per l’attribuzione del credito formativo. Si ricorda che per l’accesso delle telecamere per eventuali riprese e/o interviste è necessario chiedere preventivamente l’autorizzazione. Siena: Giornata per i diritti umani, protagonista l’arte dei detenuti oksiena.it, 9 dicembre 2016 I detenuti protagonisti del Festival Siena Città Aperta con due appuntamenti inseriti nelle celebrazioni della Giornata Internazionale per i Diritti Umani che si celebra in tutto il mondo il 10 dicembre. Provengono infatti dalle Case circondariali di Siena e San Gimignano i dipinti della mostra "Ricordo, sogno e libertà" visitabile dal 9 al 18 dicembre nella Galleria di Palazzo Patrizi (via di Città, 75). Si tratta di oltre 40 opere che i detenuti hanno realizzato all’interno delle due carceri dove da anni sono organizzati corsi di pittura e ceramica di cui si occupano rispettivamente la Croce Rossa Italiana e il Gruppo Volontariato della Misericordia. Questo tipo di attività è stata costituita "nelle carceri senesi al fine di promuovere per i detenuti qualcosa di utile per lo sviluppo di creatività, approfondimento, attenzione, analisi, impegno, autocritica. Tutto ciò anche se sono autodidatti migliora la capacità di riflessione, la predisposizione alla calma, il controllo della superficialità e sviluppa l’esercizio alla pazienza, la fiducia nei propri mezzi nonché il vivere l’uno accanto all’altro con accettazione e rispetto della propria e altrui personalità", raccontano le associazioni di volontariato. Lavori con tecniche e soggetti molto diversi tra loro che stupiscono per la capacità di raccontare il mondo visto dall’interno di un carcere tra ricordi, sogni e realtà come recita il titolo dell’esposizione. La mostra, a ingresso libero, sarà inaugurata venerdì 9 dicembre alle ore 17.30 alla presenza dei dirigenti delle case circondariali di Siena e San Gimignano e dell’assessore alla Cultura del Comune di Siena, Francesca Vannozzi. Il sogno è al centro anche dello spettacolo teatrale allestito all’interno del carcere di Santo Spirito di Siena dove i detenuti metteranno in scena "Ho sognato un mondo nuovo" il prossimo 12 dicembre alle ore 16.30 (con repliche da gennaio a marzo 2017). Un testo realizzato dagli stessi detenuti che si aprirà con la lettura di un brano tratto da "Cent’anni di solitudine" di Gabriel Garcia Marquez e si concluderà con un pezzo estratto dalla "Coscienza di Zeno" di Italo Svevo e che vedrà la partecipazione di Serena Cesarini Sforza con un monologo sul femminicidio. I detenuti, una quindicina quelli che hanno partecipato ai laboratori teatrali e sono pronti ad andare in scena, hanno lavorato per quasi un anno con l’Associazione Sobborghi per allestire la pièce teatrale: "Tanti di questi attori hanno sognato un mondo nuovo, magari partendo dai loro Paesi d’origine e arrivando in Italia dove poi, invece, hanno trovato la galera", racconta il regista Altero Borghi. Così il teatro assume una funzione "di cura e riabilitazione proprio per cercare quel "mondo nuovo" che è in fondo il sogno di tutti noi", aggiunge. E tra le tante storie degli attori-detenuti, Borghi racconta che "nel nostro gruppo abbiamo anche la star: c’è un detenuto che ha una teatralità innata e che magari se avesse avuto prima l’occasione di calcare un palcoscenico, avrebbe compiuto un percorso di vita differente. Ha ancora qualche mese da scontare ma quando sarà fuori ci piacerebbe dargli l’occasione di continuare a recitare". Vibo Valentia: "Bambinisenzasbarre", al carcere partita per i diritti dei figli dei detenuti ilvibonese.it, 9 dicembre 2016 Si terrà il prossimo 12 dicembre, in contemporanea con altri 40 istituti di pena, un match di calcio a sostegno della campagna contro la discriminazione dei bambini con genitori in carcere. Un match di calcio per sostenere la campagna sui diritti dei bambini figli di detenuti: la casa circondariale di Vibo Valentia parteciperà il prossimo 12 Dicembre, alle ore 09.30, alla seconda edizione della partita di calcio di "Bambini senza sbarre". I detenuti con e senza figli si sfideranno per dare voce e visibilità ai bambini - oltre 100mila ogni anno in Italia - che hanno un genitore recluso, per sensibilizzare istituzioni, sistema carcerario, media e opinione pubblica affinché non vengano emarginati solo perché figli di detenuti. L’adesione è altissima: si gioca a dicembre in tutte le regioni italiane. I calciatori scenderanno in campo con la maglietta di "Bambinisenzasbarre", azzurra e gialla come i colori dell’associazione e con la scritta "I diritti dei grandi iniziano dai diritti dei bambini". Le famiglie potranno assistere alle partite, e i bambini tifare per il loro papà in campo. In totale si giocherà in circa 40 istituti penitenziari, a partecipare saranno oltre 400 persone detenute. La "Partita di calcio Bambinisenzasbarre" fa parte delle iniziative all’interno della Campagna nazionale di sensibilizzazione "Non un mio crimine, ma una mia condanna. I diritti dei grandi iniziano dai diritti dei bambini", per promuovere dal 20 novembre al 20 dicembre la "Carta dei figli dei detenuti" rinnovata lo scorso settembre dal ministro Orlando, dalla Garante dell’Infanzia Albano e da "Bambinisenzasbarre" e per portare all’attenzione il tema dei 100mila bambini che entrano ogni giorno in carcere per mantenere il legame con i propri genitori, e che oggi vedono riconosciuti i propri bisogni trasformati in diritti. L’Italia è la prima in Europa ad avere un documento che impegna il sistema istituzionale del nostro Paese e la società civile a confrontarsi con la presenza in visita del bambino in carcere, e con il peso che la detenzione del proprio genitore comporta. L’esperienza della Carta dei figli dei detenuti ha portato l’Italia a essere capofila a livello internazionale. L’intergruppo del Parlamento europeo per i diritti dell’infanzia ha deciso di proporre formalmente che la Carta dei figli dei detenuti italiana sia adottata da tutti i Paesi dell’Unione Europea. In queste settimane i deputati del Parlamento europeo stanno raccogliendo le firme necessarie alla Dichiarazione scritta n. 84, per avviare l’iter di adozione della Carta italiana. Alessandria: reading "Ci vuole rispetto", il Zonta Club in carcere con parole e musica corriereal.info, 9 dicembre 2016 Sabato 10 dicembre, Giornata Internazionale dei Diritti Umani, Zonta Club Alessandria termina i suoi 22 giorni di mobilitazione per porre fine alla violenza sulle donne con il reading "Ci vuole rispetto". Sei giorni in più di quanto richiesto dalle Nazioni Unite e non finisce qui. Il previsto minuto di silenzio in collaborazione con l’Alessandria Calcio viene rinviato dall’11 dicembre al 22 gennaio: la violenza sulle donne è, purtroppo, un fatto quotidiano e occorre tenere desta l’attenzione di tutti, ben oltre il 25 Novembre. Sabato Zonta Club Alessandria, come ogni anno, entra in carcere per sensibilizzare una parte della popolazione che non si può escludere: i detenuti. Uomini che nella Casa di Reclusione di San Michele scontano pene per vari reati, non sessuali, e che già in passato hanno dimostrato una grande sensibilità verso la campagna "Giù le mani dalle donne". Entra in carcere Zonta insieme al Conservatorio Musicale Antonio Vivaldi di Alessandria perché l’incontro avrà la veste del reading: letture, testi su diritti negati, tra cui, per le donne, quello di scegliere e quello di vivere, accompagnati da musica e canzoni. Zonta significa "onesto e degno di fiducia" ma per i carcerati Zonta significa soprattutto "promesse mantenute". L’anno scorso Zonta aveva dichiarato che avrebbe portato dietro le sbarre il Reading della Consulta Pari Opportunità per includere maggiormente la popolazione carceraria e così sarà. Per questo impegno Zonta ha già ricevuto il plauso dell’on. Bruno Mellano, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, atteso anche lui per l’evento che coinvolgerà circa settanta detenuti. "Zonta non sarà solo in questa iniziativa. La presidente della Consulta Pari Opportunità, Marzia Maso, anche quest’anno ci accompagna, così come la vice presidente Maresa Bausone insieme a numerose consultrici in rappresentanza di diverse associazioni. In particolare vorremmo ringraziare il Cif che anche per questo appuntamento ha raccolto indumenti e generi di primaria necessità da donare a chi non ha nessuno che si prenda cura di lui fuori dal carcere" dice Nadia Biancato, responsabile advocacy di Zonta che a San Michele si è recata prima da Governor del Distretto 30 e poi da Direttore Internazionale di Zonta. La quale rimarca: "Questo è ormai un appuntamento annuale, grazie alla sensibilità del Direttore della Casa di Reclusione, dr. Domenico Arena e alla collaborazione del dr. Piero Valentini, capo area educativa, che si rinnova con il sostegno della dr.ssa Angela Colombo, direttrice del Conservatorio Musicale di Alessandria. La presenza con noi della cantante jazz Cecilia De Lazzaro, accompagnata al pianoforte da Tomaso Di Muzio, renderà particolarmente interessante il nostro intervento che toccherà temi fondamentali quali il diritto alla vita, al lavoro, allo studio che, se negati, diventano forme di violenza inaccettabili". Ravenna: i regali di Natale che fanno bene, torna il mercatino del carcere ravenna24ore.it, 9 dicembre 2016 Gli oggetti realizzati dai detenuti per autofinanziarsi progetti di recupero. "Lavorare per includere e recuperare": è questo il motto che per il secondo anno accompagna il mercatino di Natale della Casa Circondariale di Ravenna. Dal 7 al 22 dicembre, infatti, i detenuti espongono gli oggetti da loro realizzati (nel corso di laboratori creativi di cartotecnica, di cucito e di realizzazione giocattoli), che possono diventare regali natalizi dal significato davvero profondo e importante. Gli oggetti, infatti, prodotti in gran parte con materiale di recupero, sono il risultato di attività mirate al recupero e al reinserimento sociale. I proventi delle vendite renderanno possibile il rifinanziamento di queste attività. "L’auspicio è quello che la città continui a sostenerci come ha sempre fatto, dimostrandoci in questi anni grande vicinanza - spiega la direttrice della Casa Circondariale Carmela De Lorenzo. Saremo felici di accogliere tutti coloro che vorranno visitare il mercatino e il presepe creato dai detenuti". L’esposizione è stata realizzata in una casetta offerta in prestito dal Rotary Club Ravenna Galla Placidia, posizionata proprio fra le aiuole davanti alla Casa Circondariale, in via Port’Aurea. Gli orari: 8 dicembre ore 10-12 16 dicembre ore 17-19 17 dicembre ore 10-12 18 dicembre ore 10-12 21 dicembre ore 17-19 22 dicembre ore 17-19 Flussi migratori e diritti negati. Il dossier della Caritas Il Dubbio, 9 dicembre 2016 Un dossier con dati e testimonianze relativi all’Africa occidentale, dal titolo "Divieto di accesso. Flussi migratori e diritti negati". È stato redatto dalla Caritas Italiana in vista della Giornata mondiale dei diritti umani, che si celebra il 10 dicembre. Nel testo si ricorda come il diritto di migrare e quello di restare siano entrambi ugualmente negati per un’ampia parte di popolazione mondiale. Secondo la Caritas le migrazioni non sono sempre dettate da guerra e povertà e i Paesi del Sud del mondo sono anche terra di destinazione e di "rifugio" della gran parte di coloro che scappano. Un intrico di cause e di flussi molto più complesso di quello che solitamente viene rappresentato: movimenti interni e diretti all’estero, regolari e irregolari, volontari e forzati, circolari o definitivi. Ma c’è di più. Contrariamente a quanto si possa credere in Europa, però, i corridoi migratori seguiti dagli africani sono diversi e toccano quasi tutte le regioni del mondo. Secondo le ultime statistiche, il corridoio dall’Africa verso l’Asia è quello maggiormente in crescita: 4,2% di persone in più all’anno (2 milioni di persone in più nel 2015). Eppure nel nostro continente - si legge nel dossier - il sempre più diffuso atteggiamento culturale e politico di paura e chiusura è in contraddizione con tale complessità e finisce per acutizzare anziché contrastare la lesione dei diritti fondamentali delle persone che migrano e di quelle che restano, la naturale circolarità delle migrazioni, lo sviluppo umano dei Paesi più impoveriti. Il focus è concertato sull’Africa dove gli spostamenti non avvengono in modo uniforme e omogeneo da tutte le zone del " continente nero". La zona del Nord Africa si distacca particolarmente dal resto del continente in quanto a migrazione, seguita, nell’Africa sub- sahariana, dalla regione dell’Africa occidentale e da quella dell’Africa orientale. Molto spesso i flussi avvengono all’interno della stessa regione o area geografica: il 52% dei migranti africani, ovvero 18 milioni di persone, non oltrepassa i confini continentali. Queste cifre narrano di un fenomeno complesso e fa capire che è sbagliato vedere far vedere l’Europa come unica meta dei flussi migratori. L’obiettivo del dossier Caritas è proprio quello di indagare meglio le caratteristiche delle migrazioni in Africa, approfondendo particolarmente la regione saheliana dell’Africa occidentale, area di snodo sia per una parte consistente dei flussi nel continente sia per quelli verso l’Europa. Migranti. Italia in regola sulle impronte di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2016 La Commissione europea si è voluta ieri rassicurante sul progressivo ritorno alla normalità nella gestione dell’immigrazione in Europa. L’esecutivo comunitario ha innanzitutto salutato i (piccoli) miglioramenti sul versante del ricollocamento dei profughi; ha poi deciso che da marzo in poi i migranti arrivati al Nord passando dalla Grecia verranno rimandati nel paese mediterraneo; e infine ha archiviato una procedura di infrazione ai danni dell’Italia. Un anno fa, la Commissione europea aveva accusato il governo italiano di non applicare correttamente le regole sulla raccolta delle impronte digitali dei migranti sbarcati sulle coste italiane. In particolare, Bruxelles aveva considerato ai tempi che l’Italia violava il regolamento relativo alla banca dati Eurodac, nella quale vengono inserite le impronte digitali delle persone richiedenti asilo in Europa. Una lettera di messa in mora era stata mandata anche al governo greco. "Alla luce del significativo miglioramento nella raccolta di impronte digitali dall’inizio del 2016 in poi, la Commissione è soddisfatta del modo in cui l’Italia e la Grecia applicano le regole di Eurodac", si legge in un comunicato. La decisione giunge dopo che la questione delle impronte digitali aveva creato non poche tensioni tra i Ventotto. Molti paesi hanno considerato che Roma e Atene violavano le regole in modo da consentire surrettiziamente ai migranti di trasferirsi verso Nord. "Voglio essere chiaro - ha detto in conferenza stampa qui a Bruxelles il commissario all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos. Prima di tutto la decisione non sarà retroattiva. In secondo luogo, non tutti i migranti verranno rimandati in Grecia (…) Tra gli altri non verranno rinviati nel paese le persone più vulnerabili e i minori non accompagnati". La decisione vuole essere un ritorno all’applicazione del Principio di Dublino, secondo il quale la responsabilità dell’asilo spetta al paese di primo sbarco. La regola è stata sospesa in questi ultimi anni, un po’ perché decisioni di giustizia stabilivano che la Grecia non era capace di accogliere rifugiati nel modo corretto; un po’ per scelta di alcuni paesi come la Germania di accogliere i migranti in cammino verso Nord. La decisione di Bruxelles giunge mentre Consiglio e Parlamento stanno discutendo una controversa riforma del Principio di Dublino, che prevede nei casi di emergenza forme di ricollocamento dei rifugiati. In un comunicato, l’organizzazione non governativa Amnesty International ha criticato ieri la scelta della Commissione, sottolineando come invece le istituzioni comunitarie dovrebbero fare di più per imporre il ricollocamento in tutta Europa delle persone arrivate in Grecia e in Italia, Nella sua conferenza stampa, il commissario Avramopoulos si è detto "più ottimista che in passato" su questo fronte, notando una accelerazione nelle ultime settimane. Le ultime cifre parlano di oltre 8.000 persone ricollocate dall’Italia e dalla Grecia, su un totale previsto di 160mila nel biennio 2015-2017. L’accelerazione vi è stata, ma i risultati restano limitati. Ciononostante, la Commissione ancora ieri ha spiegato di non avere l’intenzione di aprire procedure di infrazione contro i paesi riottosi nell’applicare la regole, in particolare quelli dell’Est, mentre Consiglio e Parlamento stanno discutendo una difficile riforma del Principio di Dublino. Uno dei motivi per cui i numeri sul ricollocamento dall’Italia sono bassi è anche perché solo alcune nazionalità sono prese in considerazione. A una specifica domanda se la Commissione fosse pronta a modificare i criteri, il commissario Avramopoulos ha risposto che Bruxelles non intende modificare la lista delle nazionalità ammesse al ricollocamento, notando che "molti dei migranti che arrivano in Italia dal Mediterraneo centrale, l’80%, sono irregolari", e non profughi. Infine, proprio ieri Consiglio e Parlamento hanno trovato un accordo politico per concedere la liberalizzazione dei visti ai cittadini di Georgia e Ucraina. Il meccanismo prevede la sospensione del libero accesso nell’Unione quando vi è un aumento sospetto degli arrivi. Ciò sarà possibile su richiesta della Commissione e di una maggioranza dei Ventotto. Il meccanismo dovrebbe essere utilizzato anche per i cittadini turchi quando questi beneficeranno d ella liberalizzazione dei visti. Migranti. Ricorso a Strasburgo contro l’accordo Ue-Turchia di Carlo Lania Il Manifesto, 9 dicembre 2016 Migranti, presentato da un magistrato spagnolo. #stopthedeal: una petizione per l’abolizione dell’intesa con Ankara. Shabbir Iqbal è un ingegnere di 40 anni. Fino a dicembre di un anno fa viveva nel suo villaggio in Pakistan dove aveva una rimessa di auto a noleggio. Un giorno un gruppo di estremisti islamici attaccò il suo vicino di casa, un cristiano. Iqbal avrebbe potuto far finta di niente, voltare la testa da un’altra parte come fanno in molti. Invece decise di intervenire difendendo quell’uomo. E compromettendo così la sua vita e quella dalla sua famiglia: di suo padre, sua moglie e dei suoi figli di 3 e 5 anni. L’unico modo per non essere ucciso era nascondere moglie e figli e fuggire con il padre verso l’Europa. Oggi Iqbal si trova in Grecia (il padre è morto durante il viaggio) ma in base all’accordo siglato a marzo scorso dall’Unione europea con la Turchia rischia di essere rimandato in Turchia e da lì rimpatriato in Pakistan dove quasi certamente verrebbe ucciso. Per evitare questo, il 29 novembre è stato presentato da Carlos Jiménez Villarejo, ex pubblico ministero anticorruzione spagnolo, un ricorso alla Corte di Giustizia europea in cui si chiede di verificare la legalità dell’accordo siglato il 18 marzo scorso e di annullare le disposizioni che prevedono il trasferimento in Turchia di tutti quei migranti considerati irregolari e arrivati sulle isole dell’Egeo dopo il 20 marzo scorso. Un parere positivo da parte della Corte di Strasburgo non significherebbe solo la salvezza per Iqbal ma renderebbe nullo lo stesso accordo, evitando così che i quasi ventimila profughi che oggi si trovano sulle isole greche vengano rimandati in Turchia. Per sostenere questa causa un nutrito alcuni intellettuali europei e non solo ha scritto nei giorni scorsi una lettera aperta alle principali istituzioni europee (dal presidente, ormai dimissionario, del parlamento Ue Martin Schulz a quelli del Consiglio e della Commissione Ue, Tusk e Juncker, alla rappresentante della politica estera Federica Mogherini - chiedendo di mettere subito fine alla contestata intesa con Ankara. "L’accordo - chiedono, tra gli altri, Noam Chomski, l’ex ministro greco dell’economia Yanis Varoufakis, il musicista Brian Eno, l’europarlamentare Barbara Spinelli - serve allo scopo dichiarato di "fermare la migrazione irregolare dalla Turchia alla Grecia", oppure è un meccanismo surrettizio e perverso per permettere agli Stati membri dell’Ue di negare le proprie responsabilità verso i richiedenti asilo e i rifugiati che raggiungono le nostre coste?". Nel ricorso presentato ai giudici di Strasburgo si ricorda anche come l’accordo Ue-Turchia contraddica quanto previsto dalla carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, "violando apertamente diritti fondamentali come quello alla vita, alla dignità e alla libera circolazione" delle persone. Diem25, il movimento politico lanciato da Varoufakis, ha lanciato la petizione #stopthedeal che si propone di raccogliere 50 mila firme a sostegno della richiesta di abrogare l’accordo con la Turchia (diem25.org/stopthedeal-it). La Commissione Ue: "Irregolari l’80% dei migranti che arrivano in Italia" La Stampa, 9 dicembre 2016 Bruxelles archivia la procedura di infrazione contro Italia e Grecia sulla raccolta delle impronte. Bruxelles chiude la procedura di infrazione contro Roma e Atene sulla registrazione e la raccolta delle impronte digitali dei migranti per il sistema Eurodac. Ma allo stesso tempo ricorda che la stragrande maggioranza dei migranti che arrivano in Italia - ben "l’80%" circa secondo l’ultima stima diffusa dal commissario Ue Dimitris Avramopoulos - ovvero 4 su 5, sono economici, da considerare come "irregolari", e come tali, secondo la politica europea, da rimpatriare. L’Ue, avverte Avramopoulos, non ha intenzione di "cambiare i criteri" per aggiungere nazionalità a quelle che già possono beneficiare dei ricollocamenti, cioè, eritrei e siriani. Mentre la Lega, col vicesegretario Lorenzo Fontana, trae spunto dal dato per attaccare l’operato di Renzi. I migranti che arrivano sulla rotta del Mediterraneo centrale - in tutto 174.296 nel 2016 (dati Unhcr al 7 dicembre, il 24% in più rispetto al 2015, quando erano stati 153.842) provengono soprattutto dai Paesi dell’Africa sub-sahariana, quindi - eritrei a parte - tutti gli altri non sono candidabili per la ridistribuzione. Secondo i dati dell’Unhcr solo il 24% dei migranti arrivati in Italia quest’anno giungono dai primi dieci Paesi "refugee-producing". Il primo Paese di provenienza dei migranti è infatti la Nigeria (21%), il secondo l’Eritrea (12%) e a seguire Sudan, Gambia, Costa d’Avorio (7%) e poi ancora Guinea (6%); Somalia, Mali, Senegal (5%) e Bangladesh (4%). Il meccanismo dei ricollocamenti comunque non sta dando i risultati sperati. Anche se a Bruxelles novembre viene indicato come "il mese record" per i trasferimenti, quelli dall’Italia sono stati 401, e in tutto, dall’inizio del programma ad oggi, sono stati 1.406, sui 34.953 previsti entro settembre 2017. Scorrendo i dati, si vede che Ungheria e Slovacchia non hanno offerto neppure un posto, e sebbene altri lo abbiano fatto - Bulgaria, 140; Repubblica Ceca, 20; Estonia, 8; Lituania, 60 e Polonia, 35 - poi non hanno messo in pratica. Ma alla procedura d’infrazione "non ci siamo ancora", spiega Avramopoulos. Siamo invece ai trasferimenti dei migranti dagli altri Paesi Ue verso la Grecia, in applicazione del regolamento di Dublino, a partire dal 15 marzo 2017, mentre continua intenso il lavoro della presidenza slovacca che punta a trovare un accordo politico di massima sulla revisione del sistema, facendo passare il concetto di "solidarietà flessibile" - negli ultimi documenti circolati ribattezzata "solidarietà effettiva". La proposta su Dublino, che preme a Bratislava, di fatto scardina quella della Commissione europea, lasciando ben pochi elementi solidali. Tra le altre cose prevede ricollocamenti "a la carte", con la possibilità di scegliere le "categorie" da trasferire, e "detenzioni" per evitare la fuga dei migranti verso altri Paesi. Sul dossier è prevista una nuova discussione domani, al pranzo informale del consiglio dei ministri Ue dell’Interno, dove per l’Italia sarà presente il sottosegretario Domenico Manzione. Ma il grosso della partita sarà al vertice dei leader del 15 dicembre, dove l’Italia arriva indebolita dal post-referendum. La Commissione Ue spinge per chiudere il dossier, così divisivo, prima dei negoziati sulla Brexit, di marzo. E in pressing per la chiusura sono anche Berlino e Parigi, che non vogliono trovarsi a discutere della questione in piena campagna elettorale. Migranti. Fiamme nel "ghetto dei bulgari" a Foggia, muore un ragazzo di 20 anni Corriere della Sera, 9 dicembre 2016 L’incendio ha distrutto la baraccopoli. Si teme che ci possano essere altre vittime. Pochi giorni fa un altro rogo in un accampamento abusivo. Un nuovo rogo nelle baraccopoli in Puglia. Nella notte tra giovedì e venerdì è morto carbonizzato un ragazzo di 20 anni in un violento incendio che si è sviluppato forse a causa di una stufetta mal funzionante, all’interno del cosiddetto "ghetto dei bulgari", l’insediamento di baracche che si trova in località Pescia, tra Borgo Mezzanone e Tressanti, a una ventina di chilometri da Foggia. Si teme ci possano essere altre vittime. Distrutte l’80% delle baracche - L’allarme è scattato questa notte intorno alle due e sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco con autobotti. I pompieri hanno dovuto lavorare diverse ore per spegnere l’incendio che ha distrutto circa l’80% delle baracche. Sul posto anche i carabinieri del Comando provinciale di Foggia. Le fiamme si sono propagate con molta facilità a quasi tutte le capanne del ghetto realizzate con cartone, legno e altro materiale di fortuna. L’altro caso - È questo il secondo incendio in pochi giorni che avviene nei ghetti che nel foggiano ospitano i migranti. Il precedente è avvenuto pochi giorni fa nel cosiddetto "gran ghetto" nelle campagne tra San Severo e Rignano: le fiamme in quella occasione hanno distrutto un centinaio di baracche del villaggio che ospita diversi braccianti africani. Un uomo rimase un contuso e un altro intossicato. Anche in quel caso a causare il rogo è stato il malfunzionamento di una stufa. L’allarme è scattato questa notte intorno alle due e sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco con autobotti. I pompieri hanno dovuto lavorare diverse ore per spegnere l’incendio che ha distrutto circa l’80% delle baracche. Sul posto anche i carabinieri del Comando provinciale di Foggia. Al momento non è possibile capire con certezza quali siano state le cause dell’incendio. Le fiamme si sono propagate con molta facilità a quasi tutte le capanne del ghetto realizzate con cartone, legno e altro materiale di fortuna Turchia. La voce di Asli Erdogan dal carcere "Il regime ci odia e l’Europa non vede" di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 9 dicembre 2016 Come in una stazione ferroviaria, "aspetto un treno di cui non conosco l’orario, tra la folla, al freddo. Mi mancano le medicine, ho paura...". È la voce della scrittrice turca Asli Erdogan, che dal carcere femminile di Bakirköy a Istanbul, attraverso la mediazione dell’avvocato Erdal Dogan , è riuscita a rispondere alle domande del Corriere. Con il presidente Recep Tayyip Erdogan ha in comune il cognome, ma anche un destino speculare: è da lui, dice, che dipende la sua condizione attuale. Asli Erdogan, lei è in cella da agosto: con quale accusa? Qual è la sua linea difensiva? "Sono stata arrestata il 16 agosto perché consulente editoriale del quotidiano Özgür Gündem (indicato dal governo come organo del Pkk, partito curdo illegale, ndr), nonostante la legge sulla stampa dichiari in modo netto che i consulenti non sono responsabili giuridicamente per la linea e i contenuti del giornale. In Turchia per la prima volta un quotidiano è stato dichiarato "organo di stampa di una organizzazione terroristica". È completamente illogico, fuori dal diritto, campato in aria… Non c’è una sola prova contro di noi, per formulare l’accusa hanno usato poche frasi estrapolate da quattro miei articoli, mai contestati prima. Il procuratore per nove persone, me compresa, ha chiesto l’ergastolo: la condanna che ha sostituito la pena di morte! In breve: vengo giudicata perché sono il consulente a titolo simbolico di un giornale legale ed è stata richiesto per me l’ergastolo. Per quanto ne sappia, è la prima volta al mondo: baserò la mia difesa su questo nonsense". Non è l’unica vittima della repressione dopo il tentato golpe di luglio: che cosa sta succedendo in Turchia? "Negli ultimi quattro mesi sono state arrestate 40mila persone con l’accusa di appartenenza a organizzazione terroristica. Circa 150 "giornalisti" sono in carcere, tra questi scrittori, linguisti, professori di economia. Sono stati chiusi tra 150-200 organi di stampa e case editrici. Ci sono tra i detenuti anche decine di politici. Pochi giorni fa è stato arrestato un giudice nel corso di un’udienza (nel processo per l’omicidio del giornalista armeno Hrant Dink, ndr)". Perché il presidente Erdogan teme i giornalisti? "Il regime sta diventando totalitario e vuole assicurarsi di essere il solo e assoluto detentore della verità. Erdogan non riesce a digerire neanche la minima critica, e rovescia tutto il suo rancore e spirito di vendetta contro gli intellettuali. Soprattutto non ha alcun rispetto per le "donne intellettuali". Non capisco se ci odi o ci tema molto". Che cosa dovrebbe fare la comunità internazionale, Europa in particolare? Ritiene che gli accordi con Ankara per bloccare il flusso dei rifugiati frenino le pressioni? "L’Europa deve smettere subito di chiudere gli occhi nei confronti della Turchia per la crisi dei migranti, ha il potere di fare pressioni, anche commerciali. La Turchia sta utilizzando persone disperate come merce di ricatto". Quali sono le sue condizioni di salute? "Come potrebbero essere? Una cella gelida, difficoltà di consultare un dottore, di avere medicine, la mancanza d’aria… Come può stare in questa situazione una persona che ha una protesi, che ha avuto quattro interventi, con problemi circolatori e intestinali? Cerco di restare sana (in maiuscolo nella trascrizione dell’avvocato, ndr)". Come si svolgono le sue giornate in prigione? "Ogni giorno è la ripetizione di un altro uguale a se stesso: la conta, l’ora del silenzio, il colloquio con l’avvocato, la conta serale… Come aspettare un treno di cui non si conosce l’orario in una stazione ferroviaria fredda, affollata, stretta". Che pericolo corre? "La settimana scorsa, un deputato dell’Akp (il partito del presidente, ndr) ha avvisato: "Ci possono essere delle aggressioni alle carceri, i terroristi potrebbero essere linciati". Dopo questa minaccia abbiamo avuto davvero paura. È aumentato il numero dei cancelli di ferro, ma più che per proteggerci, per rendere ancora più difficili le nostre uscite! Per cinque notti abbiamo fatto i turni. Domenica è scattato l’allarme, ma mi ci sono talmente abituata che ho continuato a tirarmi le sopracciglia. Per non morire tra le fiamme ho calcolato come potrei facilitare il mio soffocamento... Sono totalmente vulnerabile, come ogni oppositore in Turchia". Intellettuali di tutto il mondo si stanno mobilitando per chiedere la sua liberazione: pensa che questi appelli possano aiutarla? "L’arresto mio e di molti altri scrittori e giornalisti è del tutto "politico", siamo stati messi dentro con un ordine dall’alto, con accuse vuote, senza raziocinio. L’unica modo per venirne fuori è la pressione politica dell’Europa. Naturalmente i leader politici non considerano un problema prioritario la crisi della democrazia in Turchia. L’accordo sui migranti ha messo a tacere l’Europa! Ecco, la responsabilità che ricade sugli intellettuali, gli scrittori, i giornalisti è grande: dobbiamo ricordare all’Europa i valori che fanno di essa l’Europa, e pretenderli". Libano. La legge non salverà più gli stupratori di Michele Giorgio Il Manifesto, 9 dicembre 2016 La commissione giustizia del Parlamento ha votato per l’abolizione di un articolo del codice penale che garantisce l’immunità agli stupratori che sposano le loro vittime. Un successo che si deve alla campagna di una piccola Ong locale, Abaad. Si fa festa nell’ufficio di Abaad a Furn el Chebbak, alla periferia di Beirut. "È un grande giorno, è una grande vittoria per le donne libanesi", ci dice accogliendoci Soulayma Mardam Bey, una delle responsabili di questa piccola ma agguerrita Ong libanese (abaadmena.org) che si batte per i diritti delle donne e contro la violenza di genere. Due giorni fa la Commissione Giustizia del Parlamento, dopo una lunga battaglia condotta da Abaad, ha votato l’abolizione dell’articolo 522 del codice penale che garantisce l’immunità agli stupratori che sposano le loro vittime. Manca ancora il voto dell’assemblea parlamentare ma, assicura Mardam Bey, "ci sentiamo al sicuro, il presidente della commissione, Robert Ghanem, garantisce l’appoggio di tutte le forze politiche contro quell’articolo. Non si torna indietro". Si aspetta perciò la prima riunione utile dell’assemblea per scrivere la parola fine sull’articolo 522 e impedire, come sottolinea lo stesso Robert Ghanem, che ciò che sarà abolito non verrà ripresentato sotto altre forme in futuri progetti di legge. Assicurazioni in tal senso sono giunte anche dal primo ministro incaricato Saad Hariri che l’altro giorno, con un tweet, ha manifestato la sua soddisfazione per la decisione presa dalla Commissione Giustizia del Parlamento. È costata mesi di impegno quotidiano ad ogni livello, mediatico e in Parlamento, la campagna contro il matrimonio riparatore dello stupro. Determinante è stata anche la collaborazione offerta da altre Ong che ugualmente si battono per i diritti delle donne, in particolare durante la recente mobilitazione internazionale contro la violenza di genere. Più volte le attiviste di Abaad sono scese nelle strade del centro di Beirut, l’ultima martedì in piazza Road al Sohl, indossando abiti da sposa insanguinati ed issando cartelli con la scritta "Il matrimonio non può cancellare lo stupro". L’aspetto più complesso, aggiunge Mardam Bey, "era l’atteggiamento delle famiglie delle donne stuprate oltre alle paure e alle comprensibili esitazioni del vittime della violenza sessuale, spesso appena adolescenti, a denunciare apertamente il loro aggressore e a respingere il matrimonio cosiddetto riparatore". Il Libano non è l’area tra Hamra e Achrafieh che forma più o meno il centro di Beirut, aperto e cosmopolita, dove, in apparenza, le donne godono di ampia libertà in confronto a quelle di altri Paesi della regione. Domina sempre la famiglia patriarcale. Il degrado, la disoccupazione, la povertà, il sovraffollamento già ben visibili alla periferia della capitale libanese, sono determinanti per tenere in piedi una società che resta profondamente conservatrice, soprattutto nelle campagne e nei piccoli centri abitati. Aree dove il rispetto di tradizioni vecchie di secoli va ben oltre le restrizioni imposte dalle religioni alle donne. "La difesa dell’onore della famiglia - ci spiega Mardam Bey - ancora oggi spinge tante donne, soprattutto quelle più giovani, a rimanere in silenzio dopo aver subito uno stupro e ad accettare la soluzione preferita da non pochi genitori di un matrimonio che copre la violenza avvenuta e salva l’aggressore da un processo". L’articolo 522 del codice penale, di cui si attende la definitiva abolizione, di fatto legalizza questa "soluzione sociale" che piace alle famiglie e che nega alle donne la possibilità di far incriminare e condannare gli stupratori. "Non è facile, i problemi non sono risolti però si segnalano anche dei miglioramenti" aggiunge Mardam Bey "ad esempio le gerarchie religiose, di ogni fede in Libano, si sono espresse a sostegno della nostra campagna per l’abolizione dell’articolo 522 del codice penale e a favore della condanna degli stupratori". Adaab, che opera grazie a donazioni di grosse Ong internazionali, è intenzionata a spingere l’onda del cambiamento sociale, tenendo però fede al suo impegno principale contro la violenza sulle donne. Dal 2011, quando è stata fondata, l’Ong ha sviluppato diversi progetti. Uno dei più importanti è quello degli shelter, appartamenti per le donne che fuggono dalle violenze, soprattutto quella domestica. "Abbiamo shelter segreti che offrono rifugi sicuri alle donne a rischio - conclude la rappresentante di Abaad, donne spesso molto giovani alle quali offriamo anche assistenza clinica e terapia individuale o di gruppo. Siamo al lavoro tutto l’anno, 24 ore su 24, per garantire aiuto e consulenza alle donne in pericolo o che hanno già subito abusi. E abbiamo avviato anche un programma per aumentare la consapevolezza degli uomini sulla violenza di genere". Tra il 2013 e il 2015 Abaad ha fornito un riparo sicuro a 317 donne libanesi in situazioni di pericolo di vita. Siria. Mosca sospende i raid su Aleppo, vicino accordo con gli Usa di Chiara Cruciati Il Manifesto, 9 dicembre 2016 La Russia annuncia una tregua unilaterale e prospetta l’evacuazione delle opposizioni dopo il negoziato con Washington. In Iraq strage di civili a Qaim: aviazione irachena o jet Usa? "Il regime ha fatto grandi passi avanti. I ribelli si combattono tra di loro, si rubano e si nascondono a vicenda cibo e munizioni. Dopo sei anni non hanno trovato un modo per risolvere [la questione] e siamo finiti sotto un assedio di più di 80 giorni". All’agenzia Middle East Eye Jamel Agha, 34 anni e 4 figli, residente ad Aleppo est, non nasconde la frustrazione che pervade da mesi la città. "Solo Dio sa quando finirà", le sue ultime parole di rassegnazione per chi vive sotto assedio interno e esterno dal 2012 con l’escalation barbara e terribile dell’ultimo anno. Un anno di offensive e controffensive che si sta oggi trasformando nella capitolazione delle opposizioni. Non sono bastati gli aiuti dall’estero, le armi e il denaro che dal Golfo e l’Occidente sono transitati via Giordania e Turchia: l’opposizione politica degli inizi è evaporata, lontanissima dalla popolazione, e l’ago della bilancia è finito in mano ad un ampio fronte sunnita radicale. Ma se la Turchia mantiene vivo il ruolo di incendiaria, è invece scomparsa l’Arabia Saudita: dopo anni di finanziamenti ma nessun sostegno ai rifugiati che ha generato, dopo la creazione forzata dell’Alto Comitato per i negoziati (federazione anti-Assad che mette insieme laici e salafiti), Riyadh si è defilata. Più o meno come l’Europa. L’altro protagonista è la Russia che in un anno di intervento militare ha ribaltato le sorti della guerra. Gli Stati Uniti rincorrono: dopo aver tolto il sostegno all’evacuazione dei ribelli discusso con i russi pochi giorni fa, ieri il segretario di Stato Kerry ha confermato le voci di un accordo e di un ultimo incontro con il ministro degli Esteri russo Lavrov nella tarda serata di ieri. E sebbene il presidente Assad in un’intervista con il quotidiano Al-Watan si dica sicuro di una vittoria ad Aleppo ma non delle sorti del conflitto ("È vero che sarà un successo per noi, ma siamo realisti, non significherà la fine della guerra"), è Mosca che detta tempi e modalità: ieri ha annunciato la sospensione dei raid per permettere l’evacuazione dei civili e dato per quasi siglato l’accordo con gli Stati Uniti per far uscire dai quartieri est i miliziani anti-Damasco. Un passo obbligato con i governativi che hanno ripreso il 70% di Aleppo est. Già mercoledì, dopo aver rigettato qualsiasi piano di evacuazione, le opposizioni avevano chiesto una tregua immediata di 5 giorni: ufficialmente per permettere i soccorsi ai civili, ufficiosamente per prendere fiato. La battaglia potrebbe dunque continuare, con gli ultimi strascichi che prospettano immani sofferenze e brutali violenze: l’inverno è arrivato, di cibo e acqua non se ne trovano quasi più, chi ha ancora qualcosa da vendere ha alzato i prezzi alle stelle. Chi può fugge, ma dopo la prima ondata di 31mila civili verso le zone governative e kurde non si sono registrati evacuazioni dai numeri simili. La Croce Rossa ha però condiviso ieri un piccolo successo: i 118 pazienti dell’ospedale Dar al-Safaa in città vecchia, appena riconquistata da Damasco, sono stati trasferiti ad ovest. Non è migliore la situazione in Iraq dove la battaglia per Mosul, alla sua ottava settimana, porta con sé morte e distruzione. Per mano dello Stato Islamico che compie esecuzioni e stragi nella città irachena per fingere un’autorità al collasso, per mano della vendetta anti-sunnita di peshmerga e milizie sciite e per mano del governo. Mercoledì l’aviazione irachena (ma ci sono leader tribali che parlano di jet statunitensi) ha colpito tre volte un mercato nella città di Qaim, alla frontiera con la Siria: almeno 55 civili uccisi, tra loro 12 donne e 19 bambini. "Il bombardamento ha centrato un mercato all’ora di punta - ha detto un portavoce del consiglio provinciale di Anbar - C’erano pensionati in fila per ritirare la pensione, gente che doveva ricevere il salario. Intere famiglie sono state distrutte". Il presidente del parlamento al-Juburi ha chiesto l’apertura di un’inchiesta. Il comando generale iracheno, però, smentisce a metà: ieri confermava il bombardamento a Qaim, che - specificava - ha colpito un palazzo a due piani e i 25 foreign fighter dell’Isis all’interno, ma definiva propaganda islamista l’uccisione di decine di civili. Albania. Amnistia per i detenuti, oltre mille saranno rimessi in libertà Nova, 9 dicembre 2016 Il governo albanese ha approvato un’amnistia che coinvolgerà circa 4 mila detenuti: di questi, mille saranno rimessi in libertà, mentre il resto godrà di una sconto della pena. L’amnistia entrerà in vigore prima della fine dell’anno. Gli unici a essere esclusi saranno i condannati ad ergastolo e quelli che scontano la pena per omicidio e gravi reati sessuali. Chi è stato condannato sino a due anni di reclusione sarà scarcerato, mentre saranno sospesi i procedimenti penali per tutte le inchieste relative a reati la cui pena prevista è fino a 24 mesi di reclusione. Saranno rimesse in libertà tutte le donne oltre 55 anni di età e gli uomini che hanno compiuto 60 anni, ma che non sono condannati per reati non previsti dall’amnistia. Di uno sconto di pena di un anno approfitteranno invece tutti i detenuti, senza nessuna esclusione. Olanda. Carceri sempre più vuote, detenuti diminuiti del 20% in 10 anni di Ivano Abbadessa west-info.eu, 9 dicembre 2016 La popolazione carceraria olandese si è ridotta di un ulteriore 8% nel 2015. Ed ora è del 20% inferiore rispetto a 10 anni fa. Lo rivelano i nuovi dati dell’ufficio di statistica del Paesi Bassi. Il numero dei detenuti nelle prigioni olandesi è in calo costante da anni, così come il tasso di criminalità. Nel 2006 l’Olanda contava 125 persone dietro le sbarre per ogni 100mila abitanti, mentre lo scorso anno questa cifra è scesa a 69 su 100mila. Una diminuzione che non solo ha portato alla chiusura di alcuni penitenziari, ma il governo ha anche accettato di prendere carcerati da Norvegia e Belgio, Paesi dove vi è una carenza di spazi nelle galere. In totale, nel 2015 quasi 39.800 uomini e donne erano in prigione o in custodia cautelare in casa. Perù. È l’alta moda la via del riscatto per le detenute di Annalisa Lista west-info.eu, 9 dicembre 2016 Quello promosso nel carcere femminile di Cusco, in Perù, non è un corso di taglio e cucito come tanti. Perché qui le detenute-sarte, oltre a ricevere un dignitosissimo stipendio, sono chiamate a confezionare capi esclusivi e griffati distribuiti in mezzo mondo. Cucire per loro non è un passatempo, ma un mestiere vero e proprio. Merito della joint venture tra un brand di abbigliamento danese e le Ong locali che si occupano di reinserimento sociale delle donne, più o meno giovani, finite dietro le sbarre. Che, così, durante gli anni di reclusione, imparano una professione, ma anche a gestire la paga mensile e accantonarne una parte. Cosa che, una volta scontata la pena, le aiuta a rifarsi una vita senza ricadere nella tentazione di delinquere.