Carceri tra riabilitazione ed esecuzione della pena: ecco le riforme possibili di Sara Ficocelli La Repubblica, 8 dicembre 2016 Si è tenuto nel carcere di Regina Coeli il secondo incontro promosso dal "Cortile dei Gentili" in collaborazione con Mario Marazziti, presidente della Commissione Affari sociali. Obiettivo dell’iniziativa: toccare con più concretezza la realtà dei detenuti e dare voce a chi vive il mondo carcerario ogni giorno, con tutte le sue criticità. Anche un tempo duro come quello del carcere deve scorrere intriso di speranza. Speranza in una vita migliore, in un futuro dignitoso oltre le sbarre, in una seconda possibilità. È nel solco di questo principio di umanità che si è tenuto nel carcere di Regina Coeli il secondo incontro promosso dal "Cortile dei Gentili", organizzato in collaborazione con il presidente della Commissione Affari sociali Mario Marazziti con l’obiettivo di toccare dal vivo la realtà dei detenuti e dare voce a chi vive il mondo carcerario ogni giorno. "Perché loro e non io?". "Quando io entro in un carcere - ha detto Marazziti - mi chiedo sempre: perché loro e non io?", e in quei momenti mi tornano in mente le parole di Papa Giovanni - "Io metto i miei occhi nei vostri occhi" - e quelle di Paolo VI - "Io vengo qui ma non posso fare niente per voi, perché voi volete la libertà. Posso darvi solo fede e speranza". L’incontro "Pena e Speranza. Carceri, riabilitazione, esecuzione della pena, riforme possibili" è stato introdotto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ha ricordato le parole di papa Francesco in occasione del "Giubileo dei Carcerati", ribadendo che la dignità della persona è insopprimibile e che i diritti fondamentali non possono essere messi tra parentesi. Trasformare il carcere. "In questi ultimi anni - ha detto il ministro - c’è stato un forte utilizzo della paura come strumento della creazione del consenso e questo ha allargato il fossato tra il carcere e la società. Ma io continuo a pormi costantemente il problema di come riformare, trasformare il carcere. Il sistema riconosce sconti di pena a chi non ha fatto niente di male, ma se questa persona non ha fatto niente di bene il beneficio non serve a niente comunque. Credo che i vantaggi non debbano essere automatici ma subordinati a come si è davvero comportata la persona durante il periodo di detenzione. Anche chi ha commesso il reato più grave ha diritto a un riscatto e chi ha commesso un reato leggero in carcere può peggiorare". 3 miliardi di euro l’anno. I detenuti costano molto allo Stato italiano, circa 3 miliardi di euro l’anno, eppure abbiamo un tasso di recidiva tra i più alti d’Europa. Ecco perché il carcere deve cambiare, perché se è solo un intervallo fra un’attività criminale e un’altra, non produce più sicurezza. Da qui, secondo Orlando, la necessità di arrivare all’approvazione della legge sulla riforma penale. "Farò tutto il possibile per far approvarla e questa spinta nasce anche dall’aver conosciuto le vostre condizioni, che sono da cambiare". Dare voce a chi non ce l’ha. A intervenire è stato anche il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontifico Consiglio della Cultura, che ha spiegato come il Cortile dei Gentili sia un simbolo emblematico per la vita dei detenuti, inteso come spazio dove ognuno può esprimere le proprie ragioni, in un dialogo alla pari: "Ecco perché le vostre domande sono molto significative qui oggi. Sono la vostra voce". Raccontando la parabola tibetana del viandante nel deserto, che narra di un uomo che all’orizzonte, lungo la pista che sta percorrendo, vede profilarsi una figura che avanza, ritenendola prima una belva, poi un predone, e scoprendo infine in essa il volto di suo fratello, il Cardinale ha ricordato che "anche noi dovremmo guardarvi in faccia e vedere in voi delle persone con una scintilla, la fiamma della speranza". Durante l’incontro i detenuti i detenuti hanno regalato al ministro un bellissimo quadro che raffigura una veduta di Roma, tanto che Ravasi, commosso così come tutte le persone presenti, ha sottolineato loro: "Avete un ministro che sta dalla vostra parte", aggiungendo che la sua non è propaganda politica, "dal momento che appartengo a un altro Stato". "La vita, comunque vada, è pur sempre un dono". Toccanti anche le parole dell’imam della moschea della Magliana Sami Salem ("Trovo questo incontro giustissimo e fortissimo. Un primo passo per abbattere i pregiudizi. Io non vengo in carcere per dare speranza, ma per avere da voi la speranza. Ma devo entrare qui dentro come imam e non come mediatore interculturale") e della giornalista Fiamma Satta, che ha raccontato cosa ha significato per lei la malattia, leggendo una splendida poesia di Bukowski, "Il cuore che ride". Nicoletta Braschi ha invece ribadito il messaggio del capolavoro "La vita è bella", in cui Roberto Benigni voleva che suo figlio e sua moglie fossero attraversati dalla vita e non dal trauma, mentre Santi Consolo, attuale direttore del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ha concluso spiegando che sente come dovere primario quello di trasformare le difficoltà in opportunità per i detenuti. Perché la vita, comunque vada, è pur sempre un dono. Sgravi fiscali per 5,6 milioni a cooperative sociali e imprese che assumono detenuti di Gabriele Ventura Italia Oggi, 8 dicembre 2016 Sgravi fiscali per 5,6 milioni di euro per le cooperative sociali e le imprese che hanno assunto detenuti o avviato un’attività in carcere. Li ha messi a disposizione il ministero della giustizia, che ha pubblicato il provvedimento 6 dicembre 2016 che approva l’elenco delle 352 cooperative e imprese ammesse a fruire, per il 2017, degli sgravi previsti dalla legge n. 193/2000 e successive modificazioni e dal decreto n. 148 del 14 luglio 2014. La cifra corrisponde a circa la metà di quanto richiesto, per l’anno 2015, dai soggetti aventi diritto, pari a quasi 11 milioni di euro (il 48,92% in più), ma l’art. 7, comma 2 del decreto 148/2014 quantifica in 6.102.828,00 euro le risorse destinate al credito d’imposta, poi ridotte a 5.608.193,79 euro per l’anno 2016, a seguito della rimodulazione del budget disponibile comunicata con nota n. 24223 del 14 novembre 2016 dell’Ufficio del capo del dipartimento programmazione finanziaria e controllo di gestione. La legge, in particolare, prevede vantaggi fiscali e contributivi per le imprese che assumono: detenuti o internati all’interno degli istituti penitenziari; detenuti o internati lavoranti all’esterno del carcere ai sensi dell’art. 21 legge 354/1975 (ordinamento penitenziario); detenuti o internati semiliberi. Le imprese che assumono detenuti o internati all’interno degli istituti penitenziari o lavoranti all’esterno possono ottenere un credito d’imposta per ogni lavoratore assunto, nei limiti del costo per esso sostenuto, di 520 euro mensili. Le imprese che invece assumono semiliberi possono ottenere un credito d’imposta per ogni lavoratore assunto di 300 euro mensili. Per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo parziale, il credito d’imposta spetta, in ogni caso, in misura proporzionale alle ore prestate. Inoltre, lo sgravio fiscale spetta se il rapporto di lavoro è iniziato mentre il soggetto era ristretto, per i diciotto mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo per i detenuti e internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno, e per i 24 successivi alla cessazione dello stato detentivo nel caso di detenuti e internati che non hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro all’esterno. Gli stessi sgravi, prevede la normativa, si applicano alle imprese che svolgono attività di formazione nei confronti di detenuti o internati a condizione che al periodo di formazione segua l’immediata assunzione per un tempo minimo corrispondente al triplo del periodo di formazione per il quale l’impresa ha fruito dello sgravio. Per accedere al credito di imposta, entro il 31 ottobre di ogni anno le aziende convenzionate con gli istituti devono presentare apposita istanza alla direzione dell’istituto, indicando l’ammontare complessivo del credito d’imposta di cui intendono fruire per l’anno successivo, includendo nella somma anche il periodo post detentivo e quello dedicato all’attività di formazione. Entro il 15 novembre i provveditorati regionali devono inviare le istanze al dipartimento ed entro il 15 dicembre il dipartimento determina l’importo massimo spettante a ogni soggetto imprenditoriale. Giustizia, vanno in archivio i compromessi Pd-centristi di Errico Novi Il Dubbio, 8 dicembre 2016 Il referendum chiude anche una stagione di riforme in materia di processo penale. "Va riconosciuto al ministro Orlando e al governo il confronto con l’avvocatura, un confronto vero, non finto. Manca però un disegno complessivo più ambizioso che passa proprio per la riforma vera della giustizia, il cui approdo ineludibile è la separazione delle carriere". Se a parlare fosse un giudice si tratterebbe di una sentenza di archiviazione. Le parole sono invece di un avvocato, il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci. In genere dialogante con il guardasigilli ma, nella dichiarazione rilasciata ieri all’Adnkronos, decisamente più netto nel richiamarsi al garantismo. Segno dei tempi. Segno che con la vittoria del No e la fine del primo governo Renzi si chiude in modo definitivo anche una precisa stagione di riforme della giustizia. Non è più praticabile la via impervia dell’accordo tra un Pd ancora venato di giustizialismo e un centro schierato su tutt’altre posizioni - assai affini proprio a quelle dell’avvocatura. Non ci sarà mai più spazio per un’alchimia complicata e faticosissima come quella trovata da dem e alfaniani sulla prescrizione. Quel testo resta incagliato lì, sull’arenile di una legislatura mutilata, se non già ai titoli di coda. Non c’è più spazio per un compromesso come quello perché ogni minuto che passa fa svanire il contesto che lo ha generato. Ci sarà mai più un’area di centro disposta a sacrifici enormi sui tempi di prescrizione, per esempio, pur di arrivare a un’intesa con il Pd di Lumia e Casson? Evidentemente no. Interpellato dal Dubbio, il ministro dell’Interno e leader dell’Ncd Angelino Alfano chiarisce due cose: "Al Pd abbiamo rappresentato un’urgenza: che il nuovo governo nasca con l’appoggio di un arco di forze il più ampio possibile". Vuol dire se non altro identità di vedute con Renzi: esecutivo allargato a tutte le forze non populiste (con Forza Italia dunque) o nessun esecutivo. Ma sulla possibilità che un governo di scopo esteso ai berlusconiani possa completare il lavoro sulla riforma penale rimasto a mezz’aria in Senato, Alfano risponde in modo inevitabile: "Si tratta di questioni lontanissime, molto di là da venire, sulle quali non ci si può pronunciare". È evidente: quel tipo di maggioranza a cui Renzi e Alfano guardano per riscrivere l’Italicum e andare alle urne ha un orizzonte troppo ristretto per contenere questioni complicate come le norme sul processo. Il fattore politico decisivo è d’altronde nel campo del centrosinistra, all’interno dello stesso Pd. Che difficilmente potrà assomigliare in futuro a quello spaccatosi sul referendum: una delle due componenti diventerà egemone. E in entrambi i casi i compromessi in materia di giustizia penale non avrebbero più senso. Se prevalesse l’attuale sinistra dem, un accordo politico con il centro moderato diventerebbe improponibile. Se Renzi conservasse il controllo del partito, lui stesso non avrebbe più bisogno di fare concessioni al giustizialismo, che a quel punto troverebbe i suoi portabandiera fuori dal Pd. C’è solo una variabile, complicata e da non sottovalutare, ed è proprio l’attuale ministro della Giustizia. Sarà difficile trovare un altro guardasigilli capace di coniugare aperture sul carcere e dialogo con l’avvocatura con il rigore su eco-reati e caporalato. Paradossalmente un profilo che tenga insieme la sinistra delle garanzie con le istanze securitarie care ai moderati corrisponde ancora all’attuale inquilino di via Arenula. Ed è a Orlando che Renzi si è rivolto, ieri, quando alla fine del suo intervento in direzione ha ricordato: "Abbiamo fatto molto sul carcere". Ma come avverte Alfano, prima di sapere a quali riforme della giustizia si va incontro, restano ancora molte miglia marine da attraversare. La riforma e il Guardasigilli impantanato in compromessi a perdere Giovanni Verde Il Mattino, 8 dicembre 2016 Vogliamo troppo dalla giustizia. Lentamente la nostra democrazia viene ad essere governata dai giudici. È un contesto che rende difficile l’azione di qualsiasi Governo. È così avvenuto che il Ministero si sia impantanato alla ricerca dei soliti compromessi. Prescrizioni più lunghe da fare vergognare un Paese civile. Discussioni infinite sulla pubblicazione delle intercettazioni, là dove nulla si dice o si fa per esigere dai magistrati il rispetto delle norme vigenti. A parole si invoca la riduzione del penalmente rilevante. Nei fatti c’è una continua dilatazione. Quanto al processo civile e a quello amministrativo, lo sforzo del governo si è tradotto: a) nel rendere insopportabilmente costoso l’accesso alla giustizia; b) nell’incrementare riti sempre più sommari a scapito della qualità delle decisioni; e) nel trasformare le impugnazioni da strumenti di giustizia a strumenti di mero controllo sui giudici. In queste condizioni, e non per colpa del Ministro, il bilancio non può essere positivo, anche se le pendenze sono diminuite, i tempi processuali medi hanno avuto qualche riduzione e si è eliminato qualche deprecabile eccesso di formalismo. Fisco, la prescrizione raddoppia di Benedetto Santacroce Il Sole 24 Ore, 8 dicembre 2016 Nuovi termini di prescrizione per l’azione di accertamento del fisco e obbligo del contraddittorio preventivo. Queste sono due importante novità in materia di accise previste in sede di conversione del decreto 193/2016 (legge 225). in particolare, la nuova formulazione dell’articolo 15 del Testo unico accise (Tua), prevede che l’imposta è accertata con avviso di pagamento notificato al debitore e il termine di prescrizione ordinaria del diritto all’imposta è fissato in cinque anni, aumentato a dieci nei casi di violazioni per cui vi è obbligo di denuncia. Questa ultima integrazione sul "raddoppio dei termini" è una novità in materia e, in concreto, introduce un rischio di particolare sfavore per i contribuenti, specialmente in considerazione del fatto che nel sistema delle accise il rischio di caduta in fattispecie di tipo penale, anche gravi, è molto elevato. Le modifiche, invece, non innovano il precedente e controverso disposto per cui "la prescrizione del credito di imposta è interrotta quando viene esercitata l’azione penale; in questo caso il termine di prescrizione decorre dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio penale". Questa disposizione continua infatti ad avere una applicazione variabile in quanto da più parti si è sovente concluso con la vigenza, in materi di accise, di un obbligo di attesa per l’autorità doganale degli esiti del procedimento penale, prima di poter emettere l’atto impositivo. Prima dell’avviso di pagamento è stato poi formalizzato l’obbligo di notifica del Pvc per permettere al contribuente di presentare memorie e osservazioni ai sensi delle disposizioni di cui allo Statuto del contribuente. Questa innovazione, in particolare, appare fondamentale per i molti potenziali coobbligati in solido, quasi mai, in molti casi, coinvolti nei procedimenti di verifica e controllo che attengono al debitore principale. Il debito di accisa, infatti, è spesso moltiplicato tra vari obbligati in solido, ma la verifica e il diritto al contraddittorio rimane spesso soddisfatto solo nei confronti del soggetto verificato. In realtà, è bene precisare che l’obbligo di attivazione del contraddittorio preventivo, che gravava sull’attività dell’autorità doganale, si riteneva di fatto esistente già prima del Dl fiscale, per piena applicazione dei principi della Corte di giustizia Ue, in quanto l’accisa è un tributo armonizzato. Anche questo punto è spesso controverso, anche in sede di giudizio, ma non pareva negabile neppure prima della modifica che, in quanto armonizzato, il tributo pretendesse il rispetto dei diritti di partecipazione del contribuente. Altre novità di interesse attengono poi agli accertamenti per i depositi commerciali di carburanti ed i depositi fiscali di bevande alcoliche. Per i primi, viene integrato il sistema delle licenze con un sistema di autorizzazioni per stoccaggi e/ o distribuzione, mentre sono ridefinite le regole di registrazione di carichi e scarichi anche per le ipotesi di self service; a ciò si aggiungono le aliquote agevolate per il gasolio commerciale impiegato per il trasporto di cose e persone. Per i secondi, invece, si registrano importanti innovazioni sulle facoltà di produzione e fabbricazione degli alcolici e sulla possibilità di autorizzare spazi funzionali di commercio all’ingrosso di prodotti soggetti ad accisa (si veda sul tema l’altro commento in pagina). In ultimo, si rammenta la sanatoria intervenuta in materia di accise, per cui, in caso di giudizi pendenti circa fatti avvenuti prima del 2010, il contribuente può chiudere ogni contestazione, previa definizione con le Dogane, con il pagamento di una somma riducibile fino all’80% dell’imposta, senza applicazione di interessi e sanzioni. Le patologie psichiatriche aggravate dalle umiliazioni Alessandro Grispini (Psichiatra e psicoanalista) Il Dubbio, 8 dicembre 2016 Le condizioni dei reclusi nell’istituto di Agrigento, denunciate da Rita Bernardini, creano situazioni psicologicamente traumatiche. Gentile onorevole Bernardini, ho letto con attenzione l’esposto sulle condizioni di trasporto dei detenuti e sulle modalità di perquisizione di detenuti e familiari prima dei colloqui da lei inviato il giorno 1.12.2016 al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento. Premesso che non ho conoscenza diretta dei fatti da lei segnalati e volendo restare sul contenuto letterale di quanto i detenuti hanno voluto rappresentarle, è possibile avanzare più di una considerazione relativa alle possibili implicazioni sulla salute mentale delle pratiche da lei descritte nell’esposto. L’assistenza psichiatrica rappresenta un nodo centrale nel rapporto fra condizione carceraria e sanità. È noto infatti che all’interno delle carceri l’incidenza e la prevalenza di problemi di salute mentale - che vanno dai disturbi emotivi comuni alle patologie psichiatriche vere e proprie - sono elevatissime. La detenzione in sé è universalmente riconosciuta come un fattore rischio specifico per lo sviluppo di patologie psichiatriche e per l’evento suicidario. Non bisogna poi dimenticare il fatto che molti soggetti che commettono reati presentano già un alto carico di fattori di rischio sul piano sociale e mentale: in questi casi l’esperienza detentiva diventa il momento di rottura di un equilibrio già precario, facilitando così la comparsa di patologie mentali e somatiche. La detenzione, dunque, ha inevitabilmente in sé elementi di rischio che possono causare o slatentizzare problematiche psichiatriche in soggetti già vulnerabili. Quando tuttavia rivolgiamo la nostra attenzione alle condizioni oggettive attraverso le quali si realizza concretamente l’esperienza detentiva, il discorso cambia. È indubbio che se prevalgono pratiche quotidiane non rispettose dei diritti fondamentali di ogni essere umano, ma che anzi promuovono l’umiliazione, la rottura delle relazioni affettive, la perdita dei riferimenti abituali, l’inospitalità, il sentimento individuale di insicurezza, l’esperienza detentiva vede altamente potenziato il proprio potenziale patogeno. Se è vero che le implicazioni traumatiche della detenzione non sono evitabili, sono sicuramente evitabili le valenze, anch’esse traumatiche, di pratiche violente che si realizzano nel corso della vita carceraria. Questa è la cornice generale. Vengo ora ai fatti specifici che lei riporta nel suo esposto. Non c’è dubbio che le modalità di traduzione dei detenuti per presenziare alle udienze comportino un evidente disagio psico-fisico non solo per le finalità del viaggio, ma soprattutto per le condizioni materiali in cui esso si verifica. Fermo restando la necessità di adottare azioni di controllo e prevenzione su possibili comportamenti aggressivi da parte di soggetti che possono essere pericolosi, la condizione di costrizione prolungata in uno spazio ristretto e disagiato in presenza di altri individui è sicuramente un fattore di stress. Questo problema è ben noto in psicologia generale e rimanda al tema della prossemica, la disciplina che studia la natura della comunicazione in relazione agli spazi e alle distanze fisiche fra soggetti interagenti. È noto che spazi ristretti e sovraffollati, per di più, come in questo caso, caratterizzati da condizioni coercitive facilitano la comparsa di ansia e di aggressività, specie in soggetti già ad alto rischio per patologie psichiatriche e/ o fisiche. L’altra questione relativa alle modalità di perquisizione dei detenuti e dei familiari in occasione dei colloqui ("prima dell’incontro con i familiari, i detenuti vengono fatti spogliare nudi a gruppi di 4 in locali sporchi, fatiscenti e privi di riscaldamento") è ancor più significativa. Tali procedure non sembrano siano giustificate da motivi di sicurezza (che potrebbe essere garantita in altro modo), ma rispondono ad una logica fondata sulla esperienza dell’umiliazione che rimanda, a sua volta, ad una dimensione relazionale di potere fortemente asimmetrica che mira a produrre un sentimento di inferiorità, di disagio e di profonda vergogna; chi subisce l’umiliazione deve mortificarsi e riconoscere la propria inferiorità e sottomissione subendo atti che feriscono la dignità. È possibile che detenuti con personalità antisociale siano " immuni" da questi vissuti e che tali pratiche, comunque in nessun modo giustificabili, non abbiano su di loro alcun effetto, ma su altri soggetti, già ad alto rischio, la mortificazione legata al vissuto di essere sottomessi e umiliati possiede certamente un significato traumatico. Non bisogna infatti dimenticare che l’esperienza dell’umiliazione, che vuol dire rendere l’altro " cosa" e quindi de- umanizzarlo, specie se ripetuta in varie forme ed in modo sistematico, è alla base di molte patologie psichiatriche, la depressione innanzitutto, poiché lede la rappresentazione di sé, altera l’autostima e produce un diffuso sentimento di impotenza, di mortificazione e di insicurezza personale. Le questioni che lei riporta nell’esposto rimandano in fondo ad un tema ben noto, quello delle istituzioni totali (Goffman, 1961) in cui si "completa" quel processo di destrutturazione della soggettività già in atto prima dell’internamento. È evidente che la mission dichiarata dell’istituzione - la riabilitazione e la promozione della salute in senso ampio - non coincide con la cultura che vige al suo interno, centrata sulla marcata subordinazione, il deterioramento della dimensione relazionale e lo smantellamento del Sé. Questa condizione, si badi bene, non riguarda esclusivamente il sistema carcerario; era la prassi vigente negli ex ospedali psichiatrici (e lo è ancora nelle forme più soft in cui si organizzano oggi le istituzioni). In conclusione, la costruzione di procedure umane e rispettose della soggettività all’interno della vita carceraria (e di tutte le istituzioni totali, esplicite o mascherate) se non annulla l’impatto traumatico che la detenzione inevitabilmente possiede, è certamente in grado di ridurre i fattori di rischio per lo sviluppo di patologie mentali ed organiche, specie nei confronti di soggetti vulnerabili. Forlì: detenuto sfugge agli agenti e si uccide lanciandosi nel vuoto Il Resto del Carlino, 8 dicembre 2016 L’oscura fine di Luca Lorenzini durante un sopralluogo ad Acquapartita. È sfuggito alla sorveglianza degli agenti e si è gettato nel vuoto dalle scale dell’ex sanatorio di Acquapartita. È morto così, in circostanze ancora oscure, il 33enne cesenate Luca Lorenzini, detenuto per l’omicidio dell’ex fidanzata Stefania Garattoni di vent’anni. Il delitto risale al 9 marzo del 2011. Lorenzini, recluso a Ferrara con una condanna a trent’anni sulle spalle, si trovava ad Acquapartita per un sopralluogo come testimone di un’indagine di polizia. Pare che fosse stato lui stesso a fornire informazioni utili per l’individuazione di un reato e il recupero di oggetti rubati, venendo quindi autorizzato a recarsi sul posto sotto sorveglianza per circostanziare meglio le sue rivelazioni. Una ricostruzione che contiene ancora molti punti da chiarire, perché gli inquirenti, accorsi in gran forze sul posto, hanno mantenuto uno strettissimo riserbo sulla vicenda. La direzione delle indagini è stata assunta dal sostituto procuratore di turno Federica Messina. Luca Lorenzini è deceduto attorno a mezzogiorno di ieri. Il giovane era da poco entrato nella vecchia struttura alberghiera dove sono in corso da tempo lavori di riqualificazione ma che è anche diventata rifugio di sbandati e persone dedite a traffici illeciti. Forse Lorenzini aveva raccolto qualche confidenza in carcere, oppure si trattava solo di una mossa per poter uscire dalla cella e mettere in atto un proposito a lungo covato. In ogni caso, il giovane è riuscito a sfuggire alla vigilanza degli agenti che lo accompagnavano e si è suicidato. Subito dopo il suo tragico gesto è scattato l’allarme con l’intervento degli inquirenti per ricostruire l’accaduto e individuare le responsabilità. L’avvocato Alessandro Sintucci, che l’ha difeso a processo, ha appreso immediatamente la notizia dai familiari del giovane. A quanto risulta al legale, Luca Lorenzini non era ammanettato quindi deve aver trovato il modo di allontanarsi dagli agenti che lo accompagnavano e di compiere in un attimo quell’atto estremo che l’ha portato alla morte. Lorenzini era stato condannato a trent’anni ma la Cassazione aveva parzialmente annullato la sentenza escludendo l’aggravante dei motivi abietti. La condanna era però stata nuovamente confermata dalla Corte d’appello di Bologna. Padova: trovato esanime in cella il ladro acrobata, aveva 47 anni di Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 8 dicembre 2016 Tuta scura, zaino in spalla, corde e moschettoni. Si vestiva come un alpinista ma le sue vette predilette erano gli appartamenti ai piani alti. "Ma voi sapete chi sono io? Io sono l’Uomo Ragno". Antonio Silvestri, 47 anni, originario di Lecce, aveva risposto così ai poliziotti della Squadra mobile dopo l’ennesimo arresto. Le sue peripezie sono terminate sabato scorso in una cella del carcere Due Palazzi, dove è stato trovato esanime. Un agente della polizia penitenziaria durante il giro di controllo si è accorto che c’era qualcuno a terra. È entrato in cella e ha trovato Silvestri privo di sensi. L’ha soccorso, ha provato a praticargli il massaggio cardiaco, è intervenuto anche il 118 ma il detenuto non ce l’ha fatta. La salma ora è a disposizione dell’autorità giudiziaria perché la Procura vuole vederci chiaro. Si trovava in carcere per quello che in gergo viene chiamato "un definitivo". Quando accumuli reati su reati che poi si traducono in condanne su condanne, la giustizia a un certo punto ti viene a cercare. Lo scorso mese di maggio il Gup Mariella Fino gli aveva inflitto una pena di 3 anni e 4 mesi di carcere per una rapina commessa nel 2014. L’Uomo Ragno venne arrestato dopo essersi introdotto in un appartamento. D’improvviso il padrone di casa si era trovato davanti lo sconosciuto che, secondo il suo consueto copione, aveva sfoderato una siringa sporca come fosse un’arma. Colpo-fotocopia in via Caprera, un altro in via Col di Lana. Sì, perché Antonio Silvestri aveva una zona prediletta, ed era quella compresa tra i quartieri Palestro e San Giuseppe. Rubava pochi spiccioli, a volte anche solo un paio di scarpe. L’album delle foto segnaletiche lo immortala negli ultimi vent’anni, dal profilo con i capelli folti fino alle prime stempiature. A febbraio del 2013 ha rischiato pure di rimanerci durante una delle sue scorribande. È caduto da oltre quattro metri d’altezza mentre tentava di raggiungere il terrazzo di un appartamento in via Tartini. L’hanno trovato dopo qualche ora privo di sensi in giardino. Mesi e mesi di ospedale in Neurochirurgia, l’incubo della sedia a rotelle e poi la ripresa. Improvvisa, inattesa. Quando i poliziotti l’avevano ritrovato a rubare, seppur claudicante, avevano scherzato sulla sua scorza da supereroe. Sabato, quando l’hanno saputo, quasi non ci credevano. Cuneo: la Fp-Cgil "cosa sta succedendo al carcere di Saluzzo?" La Stampa, 8 dicembre 2016 I delegati regionali della Fp Cgil: "Assistiamo sgomenti a episodi negativi ai danni del personale della polizia penitenziaria". "A pochi giorni dall’apertura del nuovo padiglione, che comporterà un aumento di circa duecento detenuti Alta Sicurezza, assistiamo sgomenti a tutta un serie di episodi negativi a danno del personale di polizia penitenziaria in servizio presso l’istituto di Saluzzo". Così in un comunicato dove i delegati regionali della Fp Cgil Polizia Penitenziaria, Daniele Scalzo ed Enrica Vento, denunciando anche che "si aprono gli istituti, o parte di essi, senza prevedere un incremento del personale, che presso l’istituto saluzzese, per le esigenze del nuovo padiglione, ammonta ad almeno quaranta unità". Dichiarano: "Non sappiamo se attribuire tali episodi alla "mala-sorte" o piuttosto ad una poca accorta gestione dell’istituto e della sua organizzazione del lavoro in più di una delle sue articolazioni". "Solo per citare alcuni casi: 4 incendi nel reparto isolamento nel corso degli ultimi mesi, con relativo ricovero e lunghe prognosi per intossicazione da fumo degli operatori di polizia penitenziaria. Nell’ultimo episodio alcune celle sono rimaste pericolosamente chiuse, a causa di un malfunzionamento della serratura, poi fortunatamente aperte dagli agenti, per un tempo a nostro avviso troppo lungo". Altre segnalazioni: "Non tralasciamo di sottolineare le numerose aggressioni subite dagli agenti da parte dei detenuti o le ripetute proteste di questi ultimi, con inizio di sciopero della fame o "battitura"; i malfunzionamenti delle caldaie che hanno lasciato per lungo tempo (circa dieci giorni) le sezioni detentive e la caserma ove risiedono gli agenti, senza acqua calda e riscaldamento. E che dire ancora dell’isolamento dell’istituto a seguito di un guasto al centralino telefonico, che ha obbligato il personale in servizio a comunicare via radio ricetrasmittenti con grande rischio per la sicurezza, poiché le varie comunicazioni potevano essere ascoltate sia dai detenuti che da radioamatori esterni". "Che pensare poi - proseguono - della circostanza, che ha avuto una ripercussione su tutto il territorio nazionale circa la traduzione, con un aereo di linea, di un detenuto dall’istituto saluzzese in un istituto sardo, al quale, giunto a destinazione, sono stati riscontrati focolai attivi di tubercolosi, con grave nocumento al personale della scorta, nonché agli ignari passeggeri presenti sul volo di linea, in quanto assenti le dovute precauzioni sanitarie". "Ci chiediamo - conclude la Cgil - se, in aggiunta ai "collaudi" previsti per la nuova struttura dell’istituto di Saluzzo, non sia anche il caso di rivedere e ripristinare i presidi di sicurezza penitenziaria e il funzionamento della struttura attualmente esistente che, comunque, rimarrà attiva a pieno regime e che attualmente ospita circa duecentosessanta utenti". Roma: nasce "La Casa di Leda" per bimbi e detenute, mai più piccoli cresciuti in carcere Ansa, 8 dicembre 2016 Un edificio confiscato alla mafia nel quartiere dell’Eur avrà una nuova vita, diventerà "La Casa di Leda" dove i bambini potranno vivere insieme alle loro mamme sottoposte alla misura degli arresti domiciliari. "È il primo progetto in Italia e siamo orgogliosi che sia questa Giunta a portarlo a termine, dopo un lungo percorso di dialogo con il Ministero della Giustizia, in collaborazione con il Garante dei detenuti e il Garante per l’infanzia, grazie alla Fondazione Poste Italiane che finanzia l’iniziativa", ha detto il vice sindaco Daniele Frongia. La Casa accoglierà gradualmente fino a un massimo di sei mamme coi loro figli, italiani e stranieri, per contribuire a un migliore dialogo interculturale. Le attività della casa saranno stabilite grazie a un regolamento che le ospiti dovranno rispettare e l’abitazione sarà sorvegliata notte e giorno. Al fine di un migliore sviluppo del progetto sarà creata una rete di volontari che si occuperanno del sostegno psicologico e dell’assistenza ai bambini. "Ogni anno in Italia moltissimi bambini sono costretti a vivere nel carcere dove sono detenute le proprie mamme - aggiunge Frongia - Come sancito da Convenzioni internazionali, e dalla stessa normativa nazionale, riteniamo che vivere da reclusi sia contrario al superiore interesse di questi bambini. Per questo motivo, abbiamo deciso di portare avanti il progetto "La Casa di Leda". Un secondo immobile nella stessa via, sempre confiscato alla mafia, sarà destinato a un altro progetto di alto valore sociale. "Il 19 dicembre, presso la sala del Consiglio del IX Municipio - dice Laura Baldassare, assessore al Sociale - organizzeremo un incontro coi cittadini al fine di presentare il progetto e dare avvio a un’interlocuzione col territorio a cui parteciperò insieme a Daniele Frongia, Jacopo Marzetti, Garante per l’infanzia e per l’adolescenza della Regione Lazio e Filippo Pegorari, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale. Dai cittadini ci aspettiamo proposte, mentre le Istituzioni garantiranno un monitoraggio costante del progetto". Isernia: convegno "Il reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro" molisedoc.it, 8 dicembre 2016 Il prossimo 12 dicembre, si terrà nel Castello Pandone in Venafro, un Convegno organizzato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Isernia, in memoria del Giudice Girolamo Tartaglione che fu ucciso dalle BR nel 1978. Il Convegno ha come tema:" Il reinserimento dei detenuti nel gruppo sociale. Prospettive di lavoro Nel settore privato, intervento degli enti locali e tutela dei beni culturali". Il Convegno ha già ottenuto il patrocinio del Ministro di Grazia e Giustizia e del Comune di Venafro ed ha lo scopo di promuovere presso il mondo del lavoro (associazioni professionali, imprese e settore pubblico) l’attuazione delle norme che permettono e agevolano l’utilizzo dei detenuti in attività lavorative (Coop. Sociali, Legge Smuraglia, Lavori socialmente utili). L’argomento è coerente con le idee e la produzione scientifica del Giudice Girolamo Tartaglione che pagò con la vita il suo impegno a favore della risocializzazione dei detenuti. È prevista la testimonianza dei rappresentanti di quelle aziende che già utilizzano il lavoro dei detenuti, dei Direttori degli Istituti di prevenzione e pena, dei Sindaci e/o Rappresentanti degli Enti locali che hanno stipulato accordi con i Tribunali per l’utilizzo dei detenuti nei lavori socialmente utili. Moderatore del convegno sarà il dott. Vitaliano Esposito, Procuratore generale emerito presso la Corte di Cassazione. Ha partecipato all’organizzazione Alessandro Capone, nipote del Giudice. Capone ha sottolineato come lo zio, terziario francescano, aveva improntato la sua vita e la sua professione a ridurre la distanza fra il mondo del carcere e quello delle persone integrate nella società e proprio perché uomo del dialogo, fu preso di mira ed ucciso da chi in un momento di fanatismo ideologico, dimenticò, anzi odiò, i valori della convivenza civile. Benevento: Progetto "Limiti", tutto pronto per il gran finale ottopagine.it, 8 dicembre 2016 Martedì 13 dicembre, alle 18, presso il Mulino Pacifico di via Appio Claudio, si terrà l’evento di chiusura del progetto Limiti (a cura di Motus-Solot, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale, vincitore dell’avviso pubblico del 30 ottobre 2012 "Giovani per il sociale"). Nell’occasione verrà presentato "Il Diario di bordo", ultima tappa del progetto, che racconta l’esperienza teatrale e cinematografica svoltasi alla Casa Circondariale di Benevento attraverso il punto di vista degli operatori, dei detenuti e di quanti indirettamente ne hanno fanno parte. Il libro, diviso in sezioni, si apre con i volti e le storie degli operatori Motus-Solot e dei detenuti-attori. Una sintesi degli eventi e di tutto ciò che hanno significato viene presentata attraverso i comunicati stampa, le foto, i post condivisi sul blog senzacravatta. Lo stesso per le attività del progetto: il laboratorio teatrale, lo spettacolo al Carcere "Come comincia una poesia", il docufilm "Fine Pena. Il futuro oltre le sbarre", il canale youtube della Solot con le interviste ai detenuti. A chiudere il libro una raccolta di racconti ispirati all’esperienza e narrati da diversi protagonisti: detenuti, familiari, operatori, figure legate alla struttura carceraria, arricchiti da suggestive illustrazioni sul tema. Pavia: aperitivo per gli spettatori con il buffet dei detenuti La Provincia Pavese, 8 dicembre 2016 Una festa per tutti nel giorno di San Siro, co-patrono della città. Pur nel solco della tradizione la "prima" si rinnova nell’accoglienza agli spettatori: alla cena nel Ridotto del Fraschini, riservata a pochi invitati, si è preferito quest’anno allargare l’invito per un brindisi a tutte le persone che saranno presenti a teatro venerdì sera. E il catering ha il sapore della solidarietà: affidato a Torregallo in rete, un progetto che unisce detenuti, educatori e professionisti nell’impegno comune del reinserimento nella società, attraverso percorsi educativi. I fornai del laboratorio di panificazione di Torre del Gallo prepareranno focacce, pani speciali, aperitivi in collaborazione con l’associazione Maresito (gestita sempre dai detenuti che si occupano di catering) e la Cantina Torrevilla, sponsor ufficiale del Teatro Fraschini. Il Teatro ha siglato una convenzione con la casa circondariale che si incasella nel progetto più ampio cittadino di spostare idealmente la struttura da una posizione decentrata e farla avvicinare sempre più alla città "per favorire l’integrazione e scongiurare il rischio della recidiva" di chi ha finito di scontare la pena. Una relazione, quella con Torre del Gallo, che ha già radici: lo scorso anno fu attivata dalla fondazione Teatro Fraschini in occasione delle cene della rassegna di "Assaggi d’opera". La tradizione della cena ristretta al termine dell’opera - che quest’anno verrà sostituita da un aperitivo allestivo nel Ridotto e nell’atrio aperto a tutti gli spettatori – era nata nel 1994 come evento speciale per festeggiare la riapertura del Teatro dopo un decennio di oblio e chiusura. La riapertura del Teatro risale a venerdì 9 dicembre 1994 con un recital di Cecilia Gasdia e a sabato 10 dicembre 1994 con un concerto di Katia Ricciarelli. Milano: emozione e pianti a San Vittore per la "prima" della Scala trasmessa in carcere di Elena Gaiardoni Il Giornale, 8 dicembre 2016 Vip e detenuti insieme alla proiezione: "La musica è molto dolce". Non poteva non volare a San Vittore la piccina Butterfly, la bimba giapponese di 15 anni ingannata da un amore "extracomunitario" al contrario, vittima di un femminicidio. Ancora una volta si ripete la calda malia della prima della Scala nella rotonda della Casa circondariale di Milano, dove si affacciano i sei raggi, stoppati da sbarre chiare. Cinquanta i carcerati maschi, solo sei le donne recluse, perché quest’anno l’ordine da Roma che solo i detenuti con pena definitiva potevano presenziare all’opera è stato più tassativo. Sempre numerosi gli invitati, dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri al presidente della corte di Cassazione Giovanni Canzio, da Paola Balducci del Consiglio superiore della magistratura a Marina Tavassi, presidente della corte d’Appello milanese, dall’ex sindaco Giuliano Pisapia all’assessore alle Politiche del lavoro Cristina Tajani, dallo scrittore Gianrico Carofiglio al critico Philippe Daverio. E ancora: Alessandra Kustermann, che dirige la clinica ginecologica della clinica Mangiagalli, Licia Roselli, premiata proprio ieri con un attestato di benemerenza agli Ambrogini d’Oro per 25 anni di volontariato a San Vittore, l’architetto Italo Rota, Raffaella Gai della "Vidas", Elisabetta Strada, presidente del gruppo consiliare Beppe Sala Sindaco Noi. Gli onori di casa espressi dalla direttrice di San Vittore, Gloria Manzelli, dalla presidente di Quartieri Tranquilli, Lina Sotis, donne tra le tante donne che stanno costruendo un nuovo carcere, più dimora fissa e meno fossa di pena, quali Renata Discacciati, che cura la redazione della rivista Oltre gli Occhi. Le luci si abbassano. Dopo le note dell’Inno di Mameli, che mette tutti in piedi, alcuni detenuti lo cantano, inizia la musica di Puccini e Daverio sussurra: "Su queste note si sono formate tutte le colonne sonore dei film americani degli anni 40. Puccini è molto più moderno di quello che pensano tutti coloro che lo canticchiano in casa. Un allestimento divertente direi, dopo un inizio in bianco da clinica psichiatrica". Attenti i detenuti. Alcuni di loro non conoscono la storia e si rivelano nell’orecchio: "La musica è molto dolce, speriamo che la storia non vada a finire male. Lei è una bambina, troppo giovane per essere ingannata. Sarebbe un vero delitto". In molti si guardano bene dallo svelare il finale. The caldo e dolci alla fine del primo tempo. Alla fine del dramma: risotto alla milanese cucinato dalle detenute, vini Frescobaldi, pane di Princi, clementine della Coldiretti. E l’arrivo del prefetto Alessandro Marangoni con Angelo Moratti. Cinquecento chili di clementine. Un cestino di clementine di Sibari è stato donato a tutti i detenuti da Quartieri Tranquilli. Forti gli applausi e anche qualche lacrima, perché "anche se l’opera non può non essere kitsch, altrimenti non sarebbe opera" ha sottolineato Daverio, Madama Butterfly è un bozzolo di tenero incanto mai nato di fronte alla volpe di un marinaio americano, che fa come tutti i marinai del mondo. Tutte eroine d’amore in questi anni alle prime di San Vittore. Carmen, Traviata e ora Butterfly, forse a dire proprio dal carcere: basta con i femminicidi in opera! Ariano Irpino (Av): "Non me la racconti giusta", l’arte entra in carcere campanianotizie.com, 8 dicembre 2016 "Non me la racconti giusta" è un progetto di arte pubblica che nasce dalla collaborazione tra gli artisti Collettivo Fx e Nemòs, il magazine di arte e cultura contemporanea ziguline e Antonio Sena, fotografo e videomaker. L’obiettivo è quello di riportare l’attenzione sul carcere, una dimensione scomoda per la nostra società e spesso trascurata dalle istituzioni. Uno dei paradossi del carcere è che i detenuti vivono quotidianamente una realtà che non gli appartiene e che non li rispecchia, di conseguenza, la realizzazione di un’opera d’arte ideata e concretizzata attraverso il loro lavoro rappresenta qualcosa che possano sentire proprio. L’idea è piuttosto semplice, per ogni tappa un gruppo di detenuti viene coinvolto nella realizzazione di un murales all’interno del carcere dove l’ideazione e la progettazione dell’opera non vengono imposte dai coordinatori ma generate dal confronto tra gli stessi detenuti. Questo aspetto di Non me la racconti giusta rappresenta un elemento molto importante, in quanto, tra i principali obiettivi c’è quello di dare ai detenuti la possibilità di mettersi alla prova in un progetto culturale, pensato e realizzato da loro, e per loro, e non introdotto dall’esterno. Il metodo di lavoro consiste nel creare un tavolo di discussione sul quale i coordinatori pongono degli spunti di riflessione per animare un dibattito, da questa fase emergono dei contenuti che i detenuti andranno a tradurre in immagini, infine, fornite le basi tecniche, si passa alla realizzazione materiale del disegno. Il primo intervento ha preso vita dal 07 all’11 novembre 2016 nella Casa circondariale di Ariano Irpino dove, Collettivo Fx e Nemòs hanno guidato Aleksandr, Antonio, Dymitro, Giuseppe, Jimmy, Roberto e Stanislao nella realizzazione di un murales di 20x5 metri raffigurante il volto di Ulisse. La scelta non è caduta su questo personaggio in modo casuale, infatti, il suo lungo viaggio pieno di insidie si associa facilmente alla personale odissea dei detenuti e, per entrambi, il ritorno a casa è la forza motrice che spinge a superare ogni difficoltà. Un esempio positivo di come la forza d’animo sia determinante per la buona riuscita delle proprie imprese. Il secondo step si è svolto invece dal 21 al 25 novembre nella Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi dove Antonio, Carmine, Danilo, Francesco, Gianluca, Giuseppe, Pasquale, Raffaele, Renato e Vincenzo hanno dato vita a un Totò alato di 30x5 metri nel passeggio principale del carcere. Anche in questo caso, il metodo è stato lo stesso ovvero sedersi a un tavolo per decidere insieme come strutturare il progetto, quindi l’idea da esprimere e come realizzarla praticamente. L’immagine di Totò è stata fortemente voluta dal gruppo, composto interamente da napoletani, ma dedicata a tutti i detenuti del carcere, per lo più partenopei. Dipingere Totò ha significato dare voce alla napoletanità, quella buona, essendo un personaggio riconosciuto universalmente come emblema del teatro e del cinema ma anche un uomo umile e generoso che non ha mai dimenticato le sue origini. L’esperienza di Sant’Angelo è stata inoltre caratterizzata dalla componente ecologica, attraverso la preziosa collaborazione con Airlite, un’azienda italiana che produce una tecnologia che si applica come una pittura e che è 100% naturale. I prodotti Airlite attaccano gli agenti inquinanti, grazie ad un processo che sfrutta la potenza della luce per liberare molecole, che trasformano gli inquinanti in sali minerali innocui neutralizzandoli, di conseguenza utilizzare Airlite permette sia di non inquinare ma anche di assorbire l’inquinamento e restituire aria pulita. Le due esperienze non possono essere in nessun modo sovrapposte o paragonate in quanto l’ambiente interno, le persone e l’approccio sono stati completamente diversi. Nel primo caso ci siamo confrontati con un gruppo eterogeneo con origini variegate e più mature d’età. Nel secondo caso, il gruppo era composto da ragazzi con trascorsi e origini comuni. La prima è una struttura tradizionale, risalente al 1980 con poche risorse e limitate attività lavorative, mentre la seconda è molto più recente e conosciuta per la rete di attività lavorative che coinvolgono buona parte dei detenuti. L’approccio e il coinvolgimento di conseguenza sono stati differenti seppur ugualmente intensi e soddisfacenti. I risultati di questa esperienza sono due. Da una parte, il progetto ha permesso ai detenuti di confrontarsi tra di loro e con gli operatori, di portare a termine un obiettivo, di dimostrare di essere in grado di lavorare duramente e ottenere dei risultati. Dall’altra, ha aperto una discussione sulla dimensione carceraria con le sue potenzialità e negatività cercando inoltre di coinvolgere tutta la società attraverso la documentazione fotografica e video che funge da finestra su questo mondo. Non me la racconti giusta rappresenta un modo per portare il carcere all’esterno e viceversa tentando di accedere una discussione su un argomento che pochi conoscono e che molti vivono con disinteresse o pregiudizio. Il carcere è un luogo di reclusione dove persone comuni pagano per i propri errori ma che fatica a garantirne la rieducazione e soprattutto il reinserimento e dove si accumulano i problemi, quelli che ogni detenuto porta con sé e quelli che l’aspettano una volta fuori. Il carcere è un argomento che ci riguarda tutti e che probabilmente bisogna ripensare in modo più costruttivo e umano. Benevento: Gruppo musicale evangelico sannita suona nelle carceri italiane ottopagine.it, 8 dicembre 2016 I Controtempo sono un gruppo musicale evangelico, noto per aver suonato, e suonano tuttora, davanti a decine e decina di detenuti comuni, di alta sicurezza e protetti. Alcune attività fra le più interessanti sono proprio i "gospel evangelici" che realizzano davanti ad ergastolani e a quanti hanno pene superiori ai vent’anni. I Controtempo rappresentano un gruppo musicale di nove giovani cristiani il cui amore per il prossimo li spinge a mettere a disposizione il dono che Dio gli ha dato per i luoghi di detenzione. I Controtempo si formano nel 2011, due chitarristi, un bassista, un batterista, una tastierista e un mixerista. Gli strumenti accompagnano tre voci femminili. Nel 2013 iniziano a collaborare con la G.M.C. onlus (Gruppo Missionario Carcerario) nei penitenziari campani e alcuni del Lazio. La loro musica riesce a trattenere e sensibilizzare i cuori dei ristretti, offrendo loro un’ora diversa dalle altre. La musica che presentano e il Messaggio che esso contiene, favorisce nel detenuto la sensibilità e l’interesse ai buoni consigli che ricevono attraverso l’insegnamento della Parola di Dio. Per i Controtempo, l’amore nel far conoscere ai detenuti l’opera della redenzione attraverso la loro musica è diventato di primiera importanza. Fin dal primo giorno della loro costituzione non hanno mai smesso di continuare ad andare ovunque sono richiesti. Lo scopo per cui lasciano tutto nel giorno dell’impegno è quello di incentivare detenuti e operatori del settore del carcere che li ospita a richiedere la visita di un ministro di Culto. I Controtempo fanno parte della Chiesa Cristiana Evangelica ADI di Benevento. La musica dei Controtempo, complesso tra i più attivi nell’evangelizzazione nelle carceri, innalza solo Cristo, ed essi esercitano questa missione con umiltà e rispetto verso Colui che li manda, Gesù. I membri della band, membri attivi di chiesa, con un lavoro e delle famiglie da portare sostentare, svolgono quest’attività a titolo gratuito, auto-sovvenzionandosi. Conoscendo la loro persona, il loro impegno, la loro bravura, l’amore che hanno per l’opera del Signore nelle carceri, non ci resta che pregare il Signore che dia loro quanto dovutogli, nell’abbondanza della Sua grazia. Il mio pensiero per loro è questo: questi Suoi collaboratori, i quali credono e si adoperano in ogni modo, sono strumenti utili per il reinserimento del detenuto. Certo! Quando si scopre che cosa si è chiamati a fare, non resta che augurarsi di farlo appassionatamente". Catanzaro: al carcere di ritorna lo spettacolo "Io come Zero" infooggi.it, 8 dicembre 2016 L’amministrazione penitenziaria di Catanzaro, in questa parte finale dell’anno, in concomitanza con il periodo che precede la festa, decide di organizzare qualche evento, teso ad allentare momenti di tensione, che possono inevitabilmente crearsi, proprio perché durante le feste si sente maggiormente la nostalgia dei propri familiari. Gli eventi ovviamente consentono di far entrare, i detenuti, in contatto con una piccola rappresentanza di persone che arrivano dall’esterno e ciò in linea con il processo di rieducazione che prevede la possibilità di far conoscere loro persone che fungano da esempio, impegnandosi tutti i giorni, che si donano e che volontariamente e gratuitamente organizzano eventi da portare oltre le sbarre. Questo lo sa bene la GDL Band di Catanzaro che per la seconda volta ha deciso di portare in carcere, il riuscitissimo concerto dal titolo "Io come Zero". Sarà stato l’entusiasmo ed il successo dello scorso anno, ma ancora di più il loro desiderio di regalare due ore di puro spettacolo ai detenuti, che hanno voluto appunto riproporsi, naturalmente ai detenuti afferenti ad un altro circuito. Il successo è stato lo stesso, se non addirittura maggiore dello scorso anno ed Agazio Maiolo (Renato Zero) continua a confermarsi un vero artista, un vero trasformista, capace di cogliere immediatamente l’importanza di un’esperienza, forse un po’ forte ma altrettanto significativa. Con la sua voce, molto simile al noto cantautore e le perfette movenze, ha letteralmente incantato i detenuti, che non hanno esitato a cantare insieme a lui le canzoni maggiormente celebri. Uno spettacolo ben riuscito che la band ormai porta da qualche anno in tutta la Regione, riscuotendo sempre grande successo. Parole di elogio da parte del Direttore del carcere - Angela Paravati - che ci ha tenuto a complimentarsi con la band e soprattutto a ringraziarli per la loro disponibilità, che si traduce oltre che nell’esibizione anche nel doversi fare carico di montare e smontare una complessa e sofisticata apparecchiatura per l’esibizione del cantante, che prevede, tra l’altro, circa una trentina di cambi d’abito. Le canzoni del noto cantautore romano trascinano il pubblico ma nello stesso tempo lasciano a volte anche un velata nostalgia, in quanto trattano temi di grande attualità ed hanno quasi tutte uno sfondo sociale importante e tutto questo è stato confermato anche oggi. Agazio, infatti, oltre a dedicarle ad alcuni dei tanti ragazzi presenti oggi, non ha perso occasione per ribadire, attraverso frasi del momento, vicinanza in un certo modo a chi vive in una situazione, a torto o a ragione, di disagio e lontano dai propri familiari. Circa due ore di concerto, senza pause, che sono passate in allegria, tra applausi scroscianti ed una standing ovation finale, in segno di ringraziamento a tutta la band per la bravura e per la generosità. "Fine pena ora", una storia vera. Intervista all’autore, Elvio Fassone di Gabriella Brugnara Corriere della Sera, 8 dicembre 2016 Il giudice Fassone e un suo ergastolano si sono scritti per 26 anni. Esperienza condensata in un libro. "Presidente, io di libri non ne ho letti mai, ho letto solo atti processuali, ma questo mi sforzerò di leggerlo e anche di capirlo" (…) Verso la fine della lettera mi tramortisce: "Presidente, io lo so che lei mi ha dato l’ergastolo perché così dice la legge, ma lei nel suo cuore non me lo voleva dare". Tramortisce anche noi questa riflessione che il giovane ergastolano Salvatore affida alla lettera con cui risponde a quella inviatagli dal giudice che lo ha condannato. Letta la sentenza che pone fine a venti mesi di maxi processo alla mafia catanese, il presidente della Corte d’Assise Elvio Fassone torna a casa, ma la notte lo sorprende inquieto, popolando il sonno di immagini e frasi spezzate: "Uno di questi fotogrammi rifiuta di spegnersi, quello di Salvatore che mi dice: "Se io nascevo dove è nato suo figlio, ora...". Nell’atmosfera un po’ drogata di questo sonno malato formulo un pensiero: "domani gli scrivo". Un’irrequietezza che non si attenua se non quando il giudice, il mattino successivo, si mette al computer e incomincia con l’attacco di prammatica "Caro Salvatore". Tra quelli della sua biblioteca, inoltre, cerca un libro con cui accompagnare il messaggio, e sceglie Siddharta perché alla mente gli ritorna un suo passo: "Mai un uomo, o un atto, è tutto samsara o tutto nirvana, mai un uomo è interamente santo o interamente peccatore". È da questo scambio epistolare che nasce Fine pena: ora (Sellerio, 2015) il libro di Elvio Fassone (Torino, 1938), che è stato magistrato e componente del Consiglio superiore della magistratura. Senatore per due legislature, è autore di numerose pubblicazioni in materia penitenziaria e su temi politico-istituzionali (Piccola grammatica della grande crisi, 2009; Una costituzione amica, 2012). Nel 1985 a Torino si celebra un maxi processo alla mafia catanese che dura quasi due anni. Tra i condannati all’ergastolo c’è Salvatore con il quale il presidente della Corte d’Assise stabilisce un rapporto di reciproco rispetto, che poi si approfondisce attraverso una corrispondenza durata 26 anni, e che continua tuttora. Il 14 dicembre alle 20.30 al Museo diocesano tridentino una lettura scenica di "Fine pena: ora" porterà il pubblico tra le pieghe di una storia che si interroga su come conciliare la domanda di sicurezza sociale e la detenzione a vita con il dettato costituzionale del valore riabilitativo della pena, senza dimenticare l’attenzione al percorso umano di qualsiasi condannato. Insieme a Fassone interverrà Enrico Franco, direttore del Corriere del Trentino, Corriere dell’Alto Adige, Corriere di Bologna, mentre la lettura scenica sarà a cura di Maura Pettorruso e Stefano Pietro Detassis. L’iniziativa si colloca nell’ambito della mostra Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere, in corso al Diocesano fino al 27 marzo. Presidente, il "Fine pena: ora" evocato dal titolo del libro capovolge il punto di vista del "fine pena: mai" scolpito nella scheda personale di Salvatore. Perché, dopo tanti anni, ha deciso di scrivere questa storia? "Quando ho appreso del tentato suicidio di Salvatore mi sono chiesto se e come io potessi fare qualche cosa per lui, e raccontare la sua storia, illuminante e coinvolgente, mi è parsa la sola via. In un primo tempo Salvatore si è mostrato abbastanza restio ad acconsentire, però gli ho fatto presente che doveva fare i conti con una situazione giuridica pesante: era diventato un "ostativo", non in relazione ai fatti per cui ebbe la condanna dalla nostra Corte di Assise, che erano anteriori alla legge del 1992". Che cosa dispone questa legge, conseguente gli assassinii di Falcone e Borsellino? "Lo Stato, a quel punto, ritenne indispensabile dare un giro di vite alla disciplina e prescrisse che coloro che venissero condannati per reato di associazione mafiosa non fossero più ammissibili a tutti i benefici penitenziari, a meno che non diventassero dei collaboratori di giustizia. Pochissimi accettarono questa via, perché anche i detenuti hanno un codice di onore: "Io non posso barattare la mia libertà con la galera di un altro", questo il senso che lo sorregge, e che magari non approviamo". Nel libro lei parla di una sorta di gioco di specchi in cui lo sforzo di prevenire genera costrizione e rabbia, la rabbia altra prevenzione, in una spirale che si autoalimenta. "Il male ha la diabolica capacità di perpetuarsi, producendone dell’altro, e ciò accade anche a livello istituzionale. La sanzione penale non è un’iniquità in sé, certi fatti chiedono una risposta della comunità. Il singolo può essere sollecitato a perdonare secondo il suo livello di moralità, la comunità non credo possa essere richiesta subito di perdonare, nel rispetto del binomio "c’è un tempo del fatto e poi un tempo dell’uomo" che espia e detta la flessibilità, il perdono collettivo e anche istituzionale". Un movimento di opinione crescente chiede di ripensare non tanto l’ergastolo in sé ma quello ostativo. Qual è il suo pensiero in proposito? "È bene alimentare questo movimento di opinione riflessiva che si contrappone al movimento di autodifesa esasperata. Non possiamo dimenticare che avvengono fatti di tale gravita e atrocità che sommuovono il pensiero di uomini e donne comuni, e producono un atteggiamento sintetizzato nell’espressione "bisogna rinchiuderli e buttare via la chiave". Per fortuna, di fronte a questo movimento di reazione scomposta, si sta incrementando quello che chiede alla pena di essere giusta, per evitare che lo Stato, che è giusto nel momento in cui sanziona, diventi ingiusto". Scarceranda. Liberi di "evadere" con l’agenda 2017 di Gaia Pascucci Corriere della Sera, 8 dicembre 2016 È tornata anche quest’anno Scarceranda, l’agenda ideata e realizzata da detenuti e detenute dei carceri Milanesi che vuole mantenere ogni giorno desta l’attenzione sui temi della giustizia, come condizione per promuovere legalità, sicurezza, ma soprattutto emancipazione delle persone ristrette. L’agenda è una iniziativa che viene da lontano, ideata oltre 10 anni fa nel carcere di Monza, i testi di quest’anno sono stati ideati nell’ambito del progetto "LiberaMente - Laboratorio di scrittura e lettura creativa" realizzato nella Casa di Reclusione di Opera (Mi) e presentano brevi frasi, aforismi, che vogliono offrire spunti di riflessione e collegare il dentro ed il fuori del carcere, quartiere chiuso nelle nostre città, oltre ad un contributo di un giovane autore milanese. Scarceranda 2017 è anche un’iniziativa solidale, per ogni agenda venduta 1 euro sarà donato alle attività di Coe Ong nell’ambito del progetto "Umanizzazione delle condizioni di detenzione e promozione dei diritti dei detenuti nelle prigioni di Garoua, Bafoussam, Douala, Yaoundé e Mbalmayo in Cameroun". L’agenda 2017, distribuita dall’inizio di novembre, è strutturata con planning settimanale, annuale e rubrica, oltre ad alcune pagine per accogliere le annotazioni e la pagina segreta delle password, inoltre con l’agenda c’è un segnalibro e si può scaricare un adesivo perché "… una mela marcia non si nega a nessuno!" scrivono i promotori. Scarceranda è disponibile nei due formati classici: S (la piccola, cm 10 per 15) venduta a 11 euro o XL (la grande, cm 16 per 24) venduta a 15 euro. Per imprese, cooperative, enti ed organizzazioni l’edizione 2017 può essere personalizzata inserendo una pagina di presentazione con testi, disegni, foto e come una buona occasione per concretizzare le scelte di responsabilità sociale o per i regali di Natale. Scarceranda è distribuita in molti negozi del commercio equo (la lista completa sul sito www.scarceranda.it), oppure si può richiedere scrivendo a info@scarceranda.it L’agenda, per raccontarsi, ha stilato un elenco delle sue peculiarità di giustizia: - è impegnata, perché ci ricorda che senza giustizia non c’è pace né libertà vera; - è ecologica, perché fatta tutta in carta riciclata e con inchiostri ecologici; - è economica, perché da diversi anni il suo prezzo rimane tale e quale; - è solidale, perché guarda lontano e sostiene progetti di cooperazione allo sviluppo nelle carceri del Camerun; - è social, perché vi accompagna tutto l’anno su Facebook, Twitter e Tumblr; - è utile, perché rappresenta una occasione per intraprendere un percorso di formazione, integrazione sociale e per prodursi un reddito in maniera onesta; - è necessaria, perché rappresenta un modo sicuro per partecipare a ridurre la recidività attraverso il lavoro, aumentare la sicurezza per tutti e diminuire i costi dell’amministrazione della giustizia… - è cool, perché è bella e consente di riconoscersi tra quelli/e che pongono il valore della giustizia alla base della propria convivenza. Egitto. Regeni seguito per settimane, le carte sconfessano la polizia di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 dicembre 2016 Vertice tra procure. Secondo i documenti consegnati ai magistrati romani dalle autorità egiziane, i contatti del sindacalista degli ambulanti con i militari sono stati attivi almeno fino al 22 gennaio. A dispetto di quanto dichiarato fin qui dalle autorità cairote, la polizia egiziana aveva continuato ad indagare su Giulio Regeni - rapito il 25 gennaio 2016 e ritrovato cadavere sulla strada che collega Alessandria al Cairo il 3 febbraio successivo - almeno fino al 22 gennaio 2016. E non solo "per tre giorni" a seguito dell’esposto su Regeni presentato il 7 gennaio dal capo dei sindacati indipendenti degli ambulanti cairoti Mohamed Abdallah, come aveva assicurato il procuratore generale d’Egitto, Ahmed Nabil Sadek, durante l’ultimo incontro con il capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, tenutosi al Cairo a settembre. È forse l’unica verità che finora è emersa - e probabilmente emergerà - dall’ingente mole di documentazione che finalmente le autorità egiziane hanno consegnato alla Procura di Roma, dopo l’ennesima rogatoria inviata a settembre, durante il vertice che si è tenuto per due giorni nella scuola di polizia di via Guido Reni. Il comunicato congiunto emesso ieri a conclusione dell’incontro - il quinto, dall’inizio della "collaborazione" - rende palese la soddisfazione di Pignatone e del pm Sergio Colaiocco, titolare dell’inchiesta italiana sull’omicidio del giovane ricercatore friulano. Questa volta sono davvero tanti, i documenti, i verbali e i tabulati consegnati da Sadek. Tutto in arabo però, e per decifrare i file bisognerà prima renderli compatibili con i software italiani. Perciò, malgrado i traduttori abbiano lavorato per l’intera notte, ci vorranno ancora almeno un paio di settimane per capire se davvero il materiale risponde alle aspettative italiane. E il secondo con le dichiarazioni rese da Abdallah, "da cui emerge - spiega il comunicato delle procure - come lo stesso abbia spontaneamente riferito alla polizia dei contatti da lui avuti con Giulio Regeni fino al 22 gennaio 2016". Inoltre gli inquirenti egiziani hanno consegnato anche "un video dell’incontro avvenuto ai primi di gennaio tra Regeni e il capo dei sindacati indipendenti degli ambulanti del Cairo, realizzato da quest’ultimo". Il video però è senza data (anche se si ipotizza sia stato registrato intorno al 7 gennaio), ma soprattutto - spiega al manifesto una fonte molto qualificata della procura di Roma - i pm italiani non sono affatto sicuri che a girarlo non sia stata invece la stessa polizia cairota. Così come non è ancora chiaro se la collaborazione di Abdallah con le forze dell’ordine fosse richiesta o meno. Anche su questo si concentrerà il lavoro di riscontro di Ros e Sco. Di sicuro almeno ora si conosce l’identità dei poliziotti che intrattenevano rapporti con il sindacalista-informatore. In questo contesto suonano un po’ vacue le parole ripetute dal procuratore Nabil Sadek a Paola e Claudio Regeni nell’incontro avuto con loro martedì: "Il mio impegno è di non chiudere le indagini finché non saranno arrestati i responsabili", ha detto ai genitori di Giulio definendolo un "portatore di pace". Parole riprese e sottolineate dal premier dimissionario Matteo Renzi che nel corso della direzione nazionale del Pd ha voluto "lasciare un abbraccio" alla famiglia del ricercatore torturato e ucciso in Egitto come a quella di Valeria Solesin, morta a Parigi durante l’attacco terroristico al Bataclan. In realtà, come fa notare il senatore Pd Luigi Manconi, una "soluzione" sul caso Regeni "è lontana dall’essere prospettata". "I famigliari di Giulio Regeni - ha ricordato il presidente della commissione parlamentare dei diritti umani - sono giustamente in una posizione di attesa e di ascolto e in tutto questo tempo, nonostante le terribili delusioni e le drammatiche frustrazioni che hanno dovuto subire, con tenacia non hanno abbandonato un filo di speranza. Aspettano, ascoltano, si rendono disponibili. Ma dobbiamo ancora vedere qualcosa di concreto: finora non c’è stato". Libano: Spose-bambine, la legge vergogna infiamma il Paese di Andrea Milluzzi Il Dubbio, 8 dicembre 2016 La protesta delle donne contro il provvedimento. Il Paese delle spose bambine non è solo la Turchia del "Sultano" Erdogan. Anche nel vicino Libano, che per legge ha come presidente un cristiano maronita ed è la patria degli arabi cristiani, si sta discutendo sulla misura che salva uno stupratore dal carcere se accetta di sposare la sua vittima, anche se minorenne. Anzi, mentre in Turchia le donne sono riuscite a bloccare il parlamento, in Libano si fa fatica a cancellare la legge già in vigore dal 1940. Secondo quel provvedimento, uno stupratore può essere condannato fino a 7 anni di carcere - che aumentano se la vittima ha problemi di natura fisica o mentale - ma il procedimento viene sospeso se il condannato sposa la vittima. Il parlamento, finalmente tornato operativo con l’elezione di Michel Aoun a presidente della Repubblica dopo un vuoto di oltre due anni, sta discutendo se eliminare l’articolo 522 della legge, quello appunto della scappatoia matrimoniale. Non sarà facile, come fa osservare Hayam, una delle dodici donne vestite da sposa che si sono date appuntamento ieri sotto il palazzo del parlamento, vicino alla piazza dei Martiri, per chiedere la modifica della legge: "Immaginatevi che una donna debba sposare l’uomo che l’abbia messa incinta con uno stupro: cosa dovrebbe dire a suo figlio? Tuo padre è l’uomo che mi ha stuprata e con cui vivo? - ha detto Hayam - Siamo qui con lo striscione "il bianco non copre lo stupro" e abbiamo chiesto di essere ricevute, perché se loro non si mettono nei nostri panni non possono capire". Lo stupro è un crimine molto diffuso in Libano, che ha fatto registrare un’impennata con l’enorme afflusso di profughi dalla Siria. In un report di Amnesty International si legge che nelle città e nei villaggi le donne siriane sono costrette a subire violenza sessuale "da chi affitta loro posti dove dormire, dai datori di lavoro e anche dalla polizia". Ma non sono solo le donne costrette alla povertà, lontane dal loro Paese senza più una casa e dei diritti, a subire violenza di genere. Nel luglio scorso lo stupro di una sedicenne da parte di tre suoi amici a Dahr al- Ain, città del Libano del Nord, è diventato un caso. Mentre gli attivisti e alcuni politici chiedevano una "punizione esemplare" per i tre ragazzi, la reazione fra i cittadini era di indifferenza, spalleggiati anche dai giornali che, riportando il nome della vittima e la sua condizione di orfana di madre, avevano sottoposto lei e la famiglia alla gogna pubblica. Ancora più indicative le parole del parlamentare cristiano Elie Marouni: "Alcune volte dovremmo chiederci se le donne non abbiano responsabilità nello spingere gli uomini a violentarle". È questa la cornice che spiega perché il Libano non riesca a cancellare l’infamia dell’articolo 522 e a non pensare a una legge che punisca gli stupri all’interno del matrimonio, altro crimine molto comune. La mediazione che si ipotizza è quella di lasciare ai familiari della donna abusata la possibilità di chiedere un matrimonio: "La donna diventerebbe una vittima quotidiana, costretta a condividere casa con chi l’ha violata, sarebbe come essere violentata ogni giorno" ha detto Ghida Anani, leader dell’ong Abaad, che lotta contro gli stupri e la pratica delle spose bambine. Bangladesh. Minorenni sfruttati, una piaga senza fine. Lo studio dell’organizzazione Odi di Lorenzo Carbone Il Dubbio, 8 dicembre 2016 Il 15% dei bimbi dai 6 ai 14 anni lavora 64 ore a settimana per 18 dollari al mese in condizioni di sicurezza nulle, la maglia nera il settore tessile. Una ricerca dell’organizzazione britannica Overseas Development Institute (Odi), ha pubblicato il più grande studio sul lavoro minorile in Bangladesh. Secondo l’ODI, a Dacca, capitale del Bangladesh, soprattutto nelle baraccopoli che sorgono nell’area suburbana della megalopoli di 15milioni di abitanti, moltissimi minori lavorano a tempo pieno in fabbriche e industrie. I dati parlano di un 15% totale di bambini tra i sei e i quattrodici anni che lavora circa 64 ore settimanali. Il limite legale europeo per gli adulti è di 48 ore settimanali, mentre le autorità del Bangladesh hanno fissato un tetto massimo di 42 ore a settimana per chi non è maggiore d’età. Ma le soglie non vengono quasi mai rispettate. Il Bangladesh è il secondo paese per introiti delle industrie tessili e manifatturiere: con 25/ 30mila milioni di dollari annuali di esportazione è preceduto solamente dalla Cina. Le condizioni di sicurezza sono quasi nulle. Nel 2015 il fotografo messicano Claudio Montesano Casillas aveva documentato, attraverso i suoi scatti, una situazione al limite: in piccole stanze possono assieparsi decine di macchine da cucire. Più di 7mila fabbriche sono esenti da controlli, non hanno uscite di sicurezza né piani antincendio o estintori. Nel 2013, a Rana Plaza, fuori Dacca, una fabbrica si era incendiata provocando il crollo di una palazzina di otto piani e la morte di più di mille persone. Due mesi fa un altro incendio ha provocato la morte di una trentina di lavoratori. Il proprietario di una fabbrica tessile intervistato dall’ODI ha affermato che, sebbene sia cosciente che i minori non dovrebbero lavorare ha ammesso che molti dei suoi lavoratori non possiedono documenti, il che rende impossibile verificarne l’età. A luglio un bambino era stato brutalmente ucciso in una fabbrica tessile e la polizia aveva scoperto che un quarto dei lavoratori era minore. "La povertà dilagante obbliga le famiglie a mandare i propri figli a lavorare" afferma Maria Quattri, coautrice dello studio dell’ODI. Già l’Unicef aveva denunciato lo sfruttamento minorile in Bangladesh, affermando che i minori impiegati nelle fabbriche a tempo pieno e che non ricevono istruzione sono più di un milione. La ricerca dell’ODI su un campione di circa 2700 nuclei familiari conferma le teorie più pessimiste: man mano che i bambini crescono la percentuale di impiego nelle fabbriche aumenta. E tra i marchi che adoperano questa manodopera a buon mercato (circa 18 euro mensili) ci sono Benetton, Mango, Primark, El Corte Inglés e molte, molte altre.