Il racconto del carcerato che ha commosso il Papa di Eugenio Arcidiacono Famiglia Cristiana, 6 novembre 2016 "Il cuore ha sete di perdono" è il titolo di un’antologia di racconti scritti dai 166 carcerati provenienti da 80 istituti penitenziari che hanno partecipato alla nona edizione del Premio Carlo Castelli. Il volume è stato consegnato a papa Francesco da Antonio Gianfico, presidente nazionale della società di San Vincenzo De Paoli. Pubblichiamo il racconto vincitore: "E allora ti chiedi" di Diego Zuin. "A un certo punto della vita capita che gli interrogativi che ti poni martellino in testa tanto da farti male, così intensamente che potresti impazzire se non fossi munito degli opportuni anticorpi temprati dall’esperienza. E in quei momenti, in questo luogo, devi continuamente fare i conti con te stesso. E allora ti chiedi come tu sia potuto arrivare a questo punto, ti domandi come diavolo tu abbia fatto a ridurti così, a perdere tutto in men che non si dica. A pensarci bene, quell’unico reato commesso ormai in età adulta è forse il conto più salato che ho dovuto pagare al mio passato, alla vita che ho continuamente sfidato e alle volte sfregiato. E con tutto il tempo a disposizione che si ha in galera è inevitabile pensare e meditare e dannarsi e maledirsi. Certo, sempre che tu abbia una coscienza degna di tal nome, e che quindi la medesima ti permetta di renderti conto delle macerie che hai prodotto, della gente che hai deluso, della fiducia che hai tradito, dei sensi di colpa che ti scavano dentro come un fiume lento e costante che erode anche la roccia più resistente. Il problema - che poi a parer mio è una virtù - è che la mia coscienza è quanto mai ben presente, quanto mai lucida e spietata al tempo stesso. Non riesco in alcun modo a metterla a tacere, non riesco a riderci sopra, a sdrammatizzare forzatamente come osservo fare a molti e, ancor meno, a narcotizzarla con psicofarmaci che in questi luoghi si ottengono persino troppo agevolmente. No, non riesco a difendermi dalla stretta dei rimorsi che la coscienza fa ribollire continuamente nel mio stomaco come lava rovente. Proprio non riesco, non posso, non voglio. È appunto il progressivo confronto con me stesso, con il mio reato, con gli errori non riconosciuti in tempo nel passato che mi tiene vivo, che mi permette di procedere in uno stato di perenne autoanalisi, che mi porta a rimettermi in discussione, a pormi in maniera differente nei confronti degli altri, della mia famiglia, di chi mi sta aiutando, passo dopo passo, ormai da anni. Certo, poi si ride e si scherza, si condivide il pranzo con i compagni, discutendo di calcio, di politica, di donne e motori, di frivolezze, più che altro per non isolarsi completamente. Solo che poi, una volta rimasto solo, giungono impietosi demoni da fronteggiare, e non c’è risata o abbuffata o ritemprante tazza di caffè fumante da condividere che possa lenire le ferite provocate dai propri conflitti interiori. E allora ti chiedi per quanto ancora dovrai tener duro prima di riuscire a scorgere perlomeno un tenue barlume. Nel corso degli anni ho divorato intere biblioteche, ho scritto migliaia di parole su centinaia di fogli immacolati, mi sono diplomato, sono tuttora uno studente universitario. Non ho ancora ben compreso se tutta l’avidità di sapere, di conoscere e comprendere, sia dettata dalla grande curiosità che ho sempre posseduto, dal bisogno di capire, dalla voglia di approfondire tutto ciò che mi attrae; oppure, se sia stata l’unica panacea in grado di salvarmi letteralmente la vita, se vita si può definire, in questo folle luogo. Ogni attività che ho intrapreso in questi anni mi ha permesso di mantenermi lucido, concentrato, determinato. Anche se poi devo ammettere che i periodi bui ci sono eccome, e allora quando casco il botto lo sento sul serio, e ne esco con le ossa rotte. È complicato attribuire un preciso nome al malessere che si prova in quei momenti, il quale è un prodotto del proprio vissuto. Sarebbe ipocrita assolversi sostenendo che una disgrazia può sempre capitare a chiunque, e che un errore, a volte, è solo un imprevisto sul cammino. Sarebbe inoltre quantomeno grave spacciare un omicidio per un incidente. Sta di fatto che per quanto io volessi soltanto difendermi, quella sera non avrei dovuto mettermi in una simile situazione, che mi ha rubato per sempre una parte di me, e ora sto pagando per aver provocato due decessi: per uno di essi mi hanno condannato gli uomini, ci faccio i conti ogni santo giorno, e se un Dio esiste tireremo le somme quando verrà il momento. Per l’altra anima perduta, invece, esistono pene terrene indelebili, poiché si perde la propria vita quando se ne prende un’altra. È un’affermazione sacrosanta, perlomeno per chi è in contatto con la propria, sopraccitata coscienza, ed io ne patisco le conseguenze quotidianamente. Anche perché, per quanto uno possa impegnarsi, possa redimersi, rimane poi l’inevitabile confronto con gli altri, con chi davvero nulla c’entrava, con quella parte di famiglia che nonostante tutto ti sta vicino, non ti abbandona e ti aspetta. Ti chiedi spesso come diavolo facciano ancora a starti dietro, a perdonarti dopo ciò che hai provocato, a riparare le magagne che hai lasciato fuori e che da dove ti trovi non riesci a risolvere. E intanto gli anni passano e li vedi invecchiare, e i bambini crescono e gli amici si dissolvono. Ma loro continuano ad aspettarti, sempre più speranzosi e amorevoli. E allora ti chiedi se al loro posto avresti saputo donare così tanto amore incondizionato. Ma in fondo sai benissimo che una risposta non ce l’hai, perché in certe situazioni ci si deve trovare dentro con entrambi i piedi per comprenderle; ma sai altrettanto bene che al posto loro non avresti forse avuto lo stesso coraggio di perdonare, di soffrire silenziosamente e poi attendere, e attendere ancora. Ma quale perdono? Sii onesto almeno con te stesso: avresti reagito malamente - per usare un blando eufemismo - avresti voltato le spalle, non prima però di sceneggiate isteriche ipotizzando scenari apocalittici. No, tu non l’avresti perdonata una simile follia, un danno tanto grave da condizionare le sorti di una famiglia intera. Nonostante ciò, questa lezione di dignitosa umiltà che ho imparato dai miei cari e da tutti coloro i quali mi stimano ancora ha sortito effetti positivi nella mia quotidianità, e mi è servita davvero: ora lo riconosco e ne sono ben consapevole. Rimane tuttavia il senso di vergogna che provo ogni qualvolta incrocio i loro sguardi; mi sento in colpa, non mi ritengo degno del perdono ricevuto, e probabilmente la vera croce che merito di portare addosso è proprio quella, e non sono la reclusione, le sbarre e il cemento, l’alienazione di questi posti e le discussioni insensate e la sporcizia e le risse e i lamenti e i pianti. Anche perché l’uomo è un animale adattabile: bene o male ci si abitua a tutto. A differenza delle bestie però, non potrò mai abituarmi alla vergogna, al senso di colpa, al continuo bisogno di essere perdonato. Perché in fondo la ricerca del perdono è una conseguenza a volte inconscia del più profondo bisogno di perdonare se stessi. La mia vera necessità è esattamente questa. Ci sono voluti degli anni per comprenderlo: ce ne vorranno altri per accettarlo. Non è detto che riuscirò definitivamente a perdonarmi per tutto ciò che ho provocato. Per le conseguenze che ho generato. Per le lacrime che ho fatto versare. Per i parenti della vittima che avranno pianto anche loro chissà dove e chissà quanto in qualche remota terra straniera. E dunque, i già mai superficialmente citati sensi di colpa, i rimorsi, i malumori, convergono verso un unico catalizzatore; oppure, per gli amanti della matematica, assumono tutti il medesimo comun denominatore: il bisogno di perdono. Riuscire a perdonarsi a ogni costo, quanto più possibile, perché il baratro che conduce all’annientamento del proprio io è fin troppo ben presente. Ciò non significa dimenticare l’accaduto, sminuire le colpe; al contrario, tutti i patimenti e i continui confronti con me stesso devono semmai sempre ricordarmi ogni sinistro avvenimento, per restare in guardia, per non scivolare nuovamente, attingendovi tutta la forza che mi servirà per ricominciare con nuovi obiettivi. Di frecce al mio arco me ne sono procurate parecchie durante questi anni, e ho arricchito notevolmente un bagaglio culturale e personale che mi tornerà utile in futuro. Anche perché mi è concesso un unico e ultimo cammino da percorrere al fine di ritrovar me stesso e poter scendere a patti con quella parte di me che stenta a perdonarsi. Quel percorso l’ho tracciato durante questi anni di restrizione; ora non mi rimane che seguirlo. La piena consapevolezza di ciò che è accaduto, delle cause che hanno generato la mia eccessiva reazione e il successivo lavoro improntato alla mia persona, sono gli ingredienti di un futuro che non voglio dissipare. Solo così ripagherò chi mi ha aspettato, chi ha creduto in me nonostante tutto. Solo così sarò davvero meritevole di quel bisogno di essere perdonato che ha alimentato la mia volontà, la voglia di continuare a vivere, la speranza di tornare da dove sono venuto per poter dimostrare che ho compreso, che sono maturato, che sono degno di essere perdonato". Le cinque ragioni di una sconfitta di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 6 novembre 2016 La rovinosa disfatta di Matteo Renzi manifesta un rifiuto profondo che via via ha preso corpo nei confronti della personalità dell’ormai ex premier, il rigetto della sua proposta in un certo senso "a prescindere", la crescita di un’insofferenza radicale per la sua immagine e il suo discorso. La personalizzazione controproducente, certo; e poi l’eccessiva invadenza mediatica; poi ancora il fatto di avere contro 4/5 dei partiti del Paese e perfino buona parte del suo: tutto vero, sicché sembra essercene abbastanza per spiegare la sconfitta di Matteo Renzi al referendum di domenica. Invece non basta, credo. In quel risultato c’è qualcos’altro. Le sue proporzioni rovinose manifestano qualcosa di più: un rifiuto profondo che via via ha preso corpo nei confronti della personalità stessa dell’ormai ex presidente del Consiglio, il rigetto della sua proposta in un certo senso "a prescindere", la crescita di un’insofferenza radicale per la sua immagine e il suo discorso Lo dirò molto alla buona: il risultato del referendum più che mostrare la devozione degli italiani al testo della Costituzione indica che alla maggioranza di essi Matteo Renzi era ormai diventato insopportabilmente antipatico. "Poco convincente", se si preferisce un termine politologicamente più nobile. Eppure Matteo Renzi non è mai stato il giovane Achille Starace, anche se in tutte queste settimane i suoi avversari di sinistra e di destra - uniti in un lodevole afflato di impegno antifascista - si sono sforzati di dipingerlo in qualcosa di simile a un pericolo per la democrazia e di descrivere la sua riforma come la potenziale anticamera di una dittatura. Invece, particolarmente oggi, nel giorno della sua sconfitta, sarebbe più che ingeneroso spregevole dimenticare le non poche buone leggi che il suo governo ha promosso, l’impulso dinamico che ha cercato d’imprimere in certi settori dell’amministrazione pubblica, la sua continua insistenza sulla necessità di svecchiare, sveltire, semplificare. Ma perché allora il risultato così negativo di domenica, perché l’ondata di antipatia e di avversione che ha travolto Renzi? Per effetto dei suoi errori, naturalmente, che hanno oscurato tutto il resto. Ecco un elenco disordinato di quelli che specie sul piano della comunicazione e dell’immagine, ma non solo, mi sembrano essere stati i più gravi. 1) Il profluvio dell’ottimismo, degli annunci sull’uscita dal tunnel, del "ce la stiamo facendo", "ecco ormai ce l’abbiamo fatta". Ai tanti italiani che viceversa se la passano tuttora male, talvolta malissimo e senza speranza, sentirsi dire che invece e contrariamente alla loro esperienza quotidiana le cose si stavano mettendo bene, deve essere suonata come una beffa e deve aver provocato un effetto di esclusione e di immeritata colpevolizzazione. Specie al Sud - verso il cui declino storico la comprensione politico-intellettuale e la personale empatia di Renzi non sono riusciti a mostrarsi se non eguali pressoché allo zero - l’effetto è stato catastrofico. 2) A una conferenza stampa o a una riunione di responsabili acquisti di una catena di supermercati si può comunicare all’uditorio attraverso le slide: a una massa di cittadini elettori no. Di un discorso complesso la gente comune può capire spesso la metà, ma capisce che se le si rivolge in quel modo significa che la si tiene in considerazione, che la si ritiene importante. Renzi non ha mai parlato al Paese in modo "alto" ed "eloquente": starei per dire in modo "serio". La sola cifra di serietà del suo discorso è stata solitamente quella del sarcasmo: non proprio l’ideale, come si capisce, per suscitare simpatia. Per il resto la sua irresistibile propensione al tono leggero e alla battuta ne hanno inevitabilmente diminuito la statura politica. 3) La mancanza di posizioni critiche vere, argomentate e conseguenti di qualunque tipo verso le élite del potere che non fossero le élite politico-parlamentari o mediatiche italiane. In un’epoca invece nella quale - almeno a mio giudizio con più di un fondamento - è largamente diffuso un sentimento opposto, questo orientamento di Renzi non gli ha procurato alcuna simpatia. Che a mia memoria al capo del nostro governo non sia mai uscita di bocca un’espressione di censura verso i dirigenti dell’inefficiente e per più versi marcio mondo bancario o verso la Consob, responsabili della rovina di decine di migliaia di cittadini italiani, è apparso quanto mai significativo. Egualmente significativo, per esempio, che per tanto tempo egli non sia mai andato al di là delle battute circa il modo spudorato con cui l’Unione Europea si stava comportando con l’Italia a proposito della questione dei migranti. Cose come queste hanno allontanato Renzi dal modo d’essere e di sentire prevalente nel Paese. La sintonia con il quale non credo che sia stata di molto accresciuta dalla sua frequentazione intensa, a tratti si sarebbe detta compulsiva, con gli ambienti dell’industria e della finanza. 4) La politica dei bonus: dagli 80 euro ai lavoratori dipendenti, ai 500 euro a insegnanti e neo-diciottenni. Personalmente, così come dubito che i primi siano stati cruciali per il successo di Renzi alle Europee del 2014, invece sono sicuro che tanto i primi che i secondi non siano serviti ad aggiungergli il minimo consenso domenica scorsa. Il fatto è che l’attribuzione di tali somme (con quel termine "bonus", degno della pubblicità di un casinò volta ad attrarre clienti alle slot machine) è stata sentita probabilmente non già come il riconoscimento di un compenso atteso e meritato quanto, più che altro, come l’elargizione di una mancia umiliante, concessa per acquistarsi il buon volere e la gratitudine del "beneficato". È facile immaginare la popolarità derivatane al "benefattore". 5) Il tratto marcato di "consorteria toscana" che Matteo Renzi non ha esitato a dare all’intera, vasta cerchia dei suoi collaboratori. È ovvio come ciò lo abbia fatto percepire dal resto del Paese come murato in una posizione "chiusa", non disposta ad accogliere e a colloquiare con apporti diversi. Si aggiunga il carattere non proprio di rango di un gran numero di tali collaboratori, così come dei tanti nominati in una miriade di posti: troppo spesso scelti con ogni evidenza più che per i loro meriti per la loro sicura fedeltà (vedi il caso, esemplare tra i tanti, per il risultato grigissimo verificabile quotidianamente da tutti 24 ore su 24, dei vertici Rai). Caporalato. Decreto 231, aumentano i reati di Antonio Iorio e Valerio Silvetti Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2016 Le recenti misure di contrasto al caporalato fanno allungare la lista degli illeciti presupposto. Dall’estate 2015 si sono aggiunti anche auto-riciclaggio e delitti ambientali. Si allarga il catalogo dei reati che comportano la responsabilità amministrativa delle società: la legge 199/2016 sul caporalato, ha aggiunto anche il novellato reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro tra gli illeciti che prevedono la responsabilità amministrativa degli enti con un sanzione che può variare da 103.288 euro a 1.549.370 euro. In precedenza, l’ultima modifica che ha inciso in maniera diretta sul catalogo risaliva all’estate 2015 con l’introduzione di nuovi importanti reati in materia ambientale e prima ancora dell’auto-riciclaggio, mentre più recentemente vi sono state modifiche indirette: hanno cioè subito variazioni le disposizioni del codice penale e di leggi speciali già richiamate dal decreto legislativo 231/2001, quali i reati societari, i delitti informatici, la falsità in monete. Le nuove disposizioni, con l’obiettivo di introdurre maggiori garanzie per la tutela dei lavoratori agricoli e di contrastare il fenomeno del caporalato modificano l’articolo 603-bis codice penale, relativo all’intermediazione illecita e allo sfruttamento del lavoro, prevedendo la reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 500 a mille euro, per chiunque: recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori; utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al punto che precede, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno. Pena inasprita (reclusione da 5 a 8 anni e multa da mille a 2mila euro per ogni lavoratore ingaggiato) nel caso la condotta sia caratterizzata da violenza o minaccia. Costituiscono inoltre aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre; che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa; l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro. Sono poi introdotti nel codice penale gli articoli 603-bis.1 e 603-bis.2, relativi rispettivamente all’attenuante della cooperazione con l’autorità giudiziaria da parte del caporale e alla confisca obbligatoria - anche in caso di patteggiamento- delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato o che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto. L’articolo 6 della legge sul caporalato modifica l’articolo 25-quinquies del Dlgs 231/2001, inserendo il citato delitto contenuto nell’articolo 603-bis codice penale nei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti. La violazione comporterà per l’ente l’applicazione sia delle sanzioni pecuniarie, da 400 a mille quote (ovvero da circa 103 mila euro fino a circa 1,5 milioni), sia di quelle interdittive (sospensione o revoca delle autorizzazioni, delle licenze o delle concessioni; divieto di contrattare con la Pa; esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi; divieto di pubblicizzare beni o servizi e l’interdizione dall’esercizio dell’attività) per una durata non inferiore ad un anno. Inoltre, se l’ente o una sua unità organizzativa dovesse essere stabilmente utilizzata allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione del reato, si applicherebbe la sanzione dell’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività. In ipotesi di contestazione in capo all’ente del reato previsto dall’articolo 603-bis codice penale, per aver utilizzato manodopera sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno, potrebbe essere inoltre contestato anche il reato presupposto individuato dall’articolo 25-duodecies del Dlgs 231/2001 per aver impiegato cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. Spesso, infatti, lo sfruttamento della manodopera coinvolge cittadini di paesi terzi con soggiorno irregolare. Anticorruzione, Italia bocciata dall’Europa Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2016 Italia bocciata dall’Europa sull’anticorruzione. Il secondo Rapporto del Greco (il Gruppo di Stati del Consiglio d’Europa contro la corruzione) rileva che l’arsenale legislativo del nostro Paese non è ancora pienamente in linea con gli standard fissati dal Consiglio d’Europa. E lo scenario politico del dopo referendum allontana la prospettiva di un allineamento. Due i grandi vuoti denunciati: la mancata implementazione del reato di corruzione tra privati e l’assenza di una riforma strutturale della prescrizione. Quanto al primo, il ministero della Giustizia ha inviato a Palazzo Chigi uno schema di decreto legislativo - che il governo dovrebbe adottare entro il 16 dicembre - per ampliare le condotte di corruzione sanzionate nel settore privato (non è passata, invece, la richiesta del Greco della perseguibilità d’ufficio del reato, che resta dunque perseguibile a querela di parte). Quanto alla prescrizione, la riforma è appesa al sottile filo della riforma del processo penale ferma al Senato da prima del referendum. Il Greco rileva che dal 2014, dopo il primo Rapporto di conformità, "l’unica legge pertinente ad essere stata effettivamente adottata è quella anticorruzione, n. 69/2015, che ha aumentato le pene per la corruzione nel settore pubblico". Avvocati, censura per chi non fa formazione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2016 Rischia la censura l’avvocato che non assolve all’obbligo della formazione previsto dal codice deontologico. La Corte di cassazione, con la sentenza 24739 depositata ieri, respinge il ricorso del legale che chiedeva di essere rimesso nei termini per fare opposizione contro il provvedimento disciplinare, con il quale il consiglio dell’Ordine territoriale lo aveva "punito" con la censura perché non aveva totalizzato il numero di crediti formativi previsti dal regolamento del Consiglio nazionale forense in vigore dal 1° gennaio 2015 ( n. 6 del 16 luglio 2014) che attua l’articolo 11 del nuovo ordinamento forense (legge 247/2012). Secondo l’incolpato, la sanzione gli avrebbe precluso la possibilità di esercitare l’attività di difensore d’ufficio: unica sua fonte di reddito. Sarebbero state proprio le difficoltà economiche, affermava il legale, a impedirgli di fare un ricorso tempestivo. Per il Consiglio nazionale forense, il ricorso tardivo non poteva essere giustificato dalla precaria situazione economica comunque non idonea a far scattare l’impedimento assoluto che avrebbe aperto la strada alla remissione in termini. Una posizione in linea con il verdetto del Supremo collegio. La Cassazione in prima battuta chiarisce all’incolpato che il ricorso doveva essere proposto solo contro il Consiglio dell’ordine e non anche contro il Consiglio nazionale forense, che nel giudizio aveva assunto solo la veste di giudice e non di parte. Sottolineato l’errore del legale, la Cassazione, esamina solo i motivi contro l’ordine territoriale e li rigetta. Per le Sezioni unite le precarie condizioni reddituali non sono una buona ragione per impugnare con ritardo, soprattutto quando, come nel caso esaminato, non vengono precisate le ragioni per cui le difficoltà economiche avrebbero impedito una tempestiva impugnazione. I giudici confermano la sanzione della censura. Una decisione che rientra nella discrezionalità dell’organo di disciplina che può arrivare a "punire" la violazione degli obblighi di formazione anche con la radiazione dall’albo. Eco-reati, esame a tutto campo di Vincenzo Dragani Italia Oggi, 6 novembre 2016 Prevista la punibilità anche se il danno è reversibile. Commette il delitto di "inquinamento ambientale" chi produce un’alterazione dell’ecosistema incisiva e oggettivamente rilevabile, anche se reversibile, prodotta violando norme non strettamente ambientali e senza necessariamente superare i valori limite dettati da regole di settore È il ritratto del nuovo eco-reato in vigore dal 9/5/2015 che appare emergere dalla prima sentenza in materia pronunciata lo scorso novembre 2016 dalla suprema Corte di cassazione. Il contesto normativo. La sentenza 3 novembre 2016 n. 46170, la prima sulla nuova disciplina, effettua una ricognizione sul delitto previsto dall’articolo 452-bis del codice penale, integrato da chiunque abusivamente cagioni una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili di acque, aria, porzioni estese e significative suolo o sottosuolo, peculiare ecosistema, biodiversità, flora o fauna. La pronuncia in parola, che segue la prima analisi effettuata dall’ufficio del Massimario della stessa Corte all’atto dell’esordio della neodisciplina, accerta anche il confine che separa tale fattispecie dal più greve reato di "disastro ambientale" ex articolo 452-quater dello stesso Codice. Delitto, quest’ultimo, di cui risponde invece chi abusivamente cagiona un’alterazione dell’equilibrio dell’ecosistema irreversibile o con eliminazione particolarmente onerosa tramite provvedimenti eccezionali oppure una rilevante offesa della pubblica incolumità. I citati nuovi delitti, lo ricordiamo, sono stati inseriti nell’Ordinamento giuridico dalla legge 68/2015 unitamente alle altre fattispecie di "morte o lesioni come conseguenza di inquinamento ambientale" (articolo 452-ter) e traffico o abbandono di materiale altamente radioattivo (452-sexies), "omessa bonifica" (452-terdecies), "impedimento di controlli" (452-septies). Il caso. La pronuncia della Suprema corte prende le mosse dalla condotta di una ditta incaricata della bonifica di fondali marini, accusata del nuovo delitto di inquinamento ambientale per aver omesso in fase di dragaggio il rispetto delle relative norme progettuali provocando dispersione di sedimenti e trasporto degli inquinanti contenuti (idrocarburi e metalli pesanti) cagionando degrado delle acque. La Corte di cassazione risponde sulla bontà dell’ordinanza con la quale il Tribunale del riesame aveva annullato (non ritenendo integrato il delitto sotto il profilo della "significatività del deterioramento delle acque") il sequestro sia del cantiere che del sito disposto dal gip su prima istanza della procura. Gli elementi del delitto di inquinamento. Accogliendo il ricorso della stessa procura, con la sentenza 46170/2016 la Cassazione sindaca il citato provvedimento di dissequestro (annullandolo) nella parte in cui riteneva integrabile il nuovo delitto di inquinamento ex articolo 452-bis del codice penale solo in presenza di una "tendenziale irrimediabilità" del danno ambientale. E questo offrendo anche una ricognizione su tutti gli elementi della nuova fattispecie penale. La condotta abusiva. Sebbene in via incidentale, la sentenza 46170/2016 sottolinea come debba essere considerata abusiva la condotta posta in essere in violazione di leggi statali o regionali anche non strettamente pertinenti al settore ambientale così come la condotta in dispregio di prescrizioni amministrative. Ciò confermando quanto anticipato dalla citata relazione 29/5/2016 della stessa Corte, per la quale: sotto il primo profilo, la mancanza nella neo norma incriminatrice di un riferimento alle sole violazioni di regole ambientali rende il reato di inquinamento configurabile anche per l’infrazione di regole volte a tutelare in via immediata interessi diversi ma collegati all’ecosistema (come, per esempio, la normativa sull’esposizione all’amianto, posta a presidio di salute e sicurezza sul lavoro); sotto il secondo profilo, è da considerarsi abusiva, oltre alla condotta non autorizzata, quella in contrasto con prescrizioni e limiti imposti da titoli autorizzativi validi, quella proseguita in presenza di atti scaduti o formalmente corretta ma di fatto incongruente con le facoltà concesse. Compromissione o deterioramento. In base alla sentenza 46170/2016 la "compromissione" è da intendersi come squilibrio funzionale (perché incidente sui normali processi naturali correlati alla specificità della matrice ambientale o dell’ecosistema); il "deterioramento" è invece uno squilibrio strutturale (caratterizzato da un decadimento di stato o qualità degli elementi naturali). Entrambi gli eventi costituiscono un’alterazione dell’ecosistema e, viene sottolineato, per integrare il relativo delitto di inquinamento ambientale non occorre che siano caratterizzati da una irreversibilità anche solo tendenziale; qualità, quella della irreversibilità, che rende invece solo maggiormente punibile la condotta, poiché integrante il più grave reato di disastro ambientale ex articolo 452-quater, c.p. Con la precedente relazione 29/5/2016 l’ufficio del Massimario aveva puntualizzato come l’evento della "compromissione" si distingua da quello del "deterioramento" per una proiezione dinamica degli effetti, nel senso del maggior contenuto di pregiudizio futuro del danno cagionato. Significatività e misurabilità dell’inquinamento. Per la sentenza 46170/2016 la significatività è indice della incisività e rilevanza del danno ambientale. La misurabilità indica invece la necessità che il danno sia quantitativamente apprezzabile o oggettivamente rilevabile. Ma tale misurabilità, evidenzia la Corte, non è correlata in via assoluta a eventuali valori limite o parametri di inquinamento previsti dalle norme di settore (in quanto non richiamati dalla norma incriminatrice). Dunque, appare dalla sentenza evincersi come possa anche verificarsi che: pur in assenza di limiti normativi, la situazione di danno sia comunque di macroscopica evidenza o concretamente accertabile (evidentemente ai fini dell’integrazione del delitto); in presenza, invece, di limiti normativi, lo "scostamento e ripetitività" registrato nel loro superamento, pur costituendo utile riferimento per valutare la compromissione/deterioramento, non rappresenti (ove si tratti di mero superamento) necessariamente sintomo di significatività (e, quindi, della consumazione del reato). Anche su quest’ultimo punto la pronuncia appare confermare la relazione della Suprema corte, nella parte in cui anticipava che a soddisfare la necessità di quantificazione dell’inquinamento concorrono i parametri scientifici dell’alterazione, tra cui quelli biologici, chimici, organici e naturalistici. Con la stessa relazione la Cassazione aveva altresì tracciato i confini del delitto di inquinamento ambientale "per contrasto" con gli altri, ossia individuando quelli che, lungo l’ideale linea della progressione criminale, costituiscono per gravità, gli illeciti che rispettivamente lo precedono e seguono. Così: immediatamente prima del delitto di inquinamento si colloca la contravvenzione di "inquinamento" di suolo e acque ex articolo 257 del dlgs 152/2006, integrata dal mero superamento delle "concentrazioni soglia di rischio" (valori limite stabiliti dallo stesso Codice ambientale in relazione alla presenza di determinate sostanze chimiche); immediatamente dopo si pone invece (come confermato dalla sentenza in analisi) il citato delitto disastro ambientale, caratterizzato (questo sì) dalla tendenziale irrimediabilità dell’inquinamento provocato. In base alla stessa relazione Massimario il carattere "irreversibile" dell’alterazione che fa scattare il più greve reato di disastro può inoltre essere relativo, dovendosi riconoscerlo anche qualora occorra, per una eventuale reversibilità dell’alterazione, il decorso di un ciclo temporale talmente ampio da non poter essere rapportabile alle categorie dell’agire umano. Le matrici ambientali interessate. Rileva da ultimo la sentenza 46170/2016 come in relazione alle acque il nuovo delitto di inquinamento ambientale non subisca limiti di carattere dimensionale, non essendo per tale matrice previsto il necessario coinvolgimento di "porzioni estese o significative" sancito invece dalla norma incriminatrice per il degrado di suolo e sottosuolo. Madre depressa, niente permesso per il detenuto La Stampa, 6 novembre 2016 Condizioni psico-fisiche precarie per la madre del detenuto. Ciò nonostante, va respinta la sua richiesta di ottenere un permesso premio per andare a trovare la donna. Pericolo. Dal Tribunale di sorveglianza arriva una risposta negativa all’ipotesi di riconoscere al detenuto la possibilità di recarsi nella propria cittadina d’origine per "far visita alla madre, affetta da una grave depressione". Pronta la reazione dell’uomo, che propone ricorso in Cassazione, sostenendo siano stati trascurati elementi fondamentali. Più precisamente, si fa riferimento alla "documentazione medica" da cui pare emergere "la compromissione generali delle condizioni di salute della madre, attestata da frequenti episodi di sconforto associati a progetti autolesionistici" e da una successiva "bronchite". Per completare il quadro, poi, il detenuto richiama anche le proprie "esigenze affettive". Neanche quest’ultimo dato, però, spinge i giudici della Cassazione a rivedere la decisione del Tribunale di sorveglianza. Per i supremi giudici, difatti, il permesso premio va negato perché la madre del detenuto "non versava in pericolo di vita", e comunque una visita da parte del figlio "non sarebbe stata risolutiva rispetto alle condizioni di salute" della donna (Cassazione, sentenza n. 51409/2016, depositata il primo dicembre 2016). Solo l’imputato può sottoscrivere personalmente il ricorso per Cassazione Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2016 Ricorso per Cassazione - Inammissibilità per sottoscrizione personale della parte - Previsione ex articolo 571, comma 1, c.p.p. - Deroga alla rappresentanza "tecnica" - Inammissibilità per i soggetti processuali diversi dall’imputato. Il ricorso per Cassazione contro la sentenza della Corte di Appello resa nell’ambito di un procedimento di riparazione per ingiusta detenzione, proposto con atto sottoscritto dalla parte senza la rappresentanza di avvocato iscritto nell’apposito albo speciale, è inammissibile giacché l’unica deroga a tale disposizione generale è quella dell’articolo 571, comma 1, c.p.p. che riconosce al solo imputato la facoltà di proporre personalmente l’impugnazione. Infatti, la disposizione ex articolo 613 c.p.p., per la quale l’atto di ricorso, le memorie e i nuovi motivi devono essere sottoscritti, a pena di inammissibilità, da difensore iscritto nell’albo speciale della Corte di Cassazione, salvo che la parte non vi provveda personalmente, deve essere intesa come ricognitiva della facoltà di proposizione personale dell’impugnazione riconosciuta appunto al solo imputato. Invero, tale previsione codicistica, configurandosi come deroga alla regola generale della rappresentanza tecnica, non può valere nei confronti di soggetti processuali che, essendo diversi dall’imputato, non sono in essa espressamente contemplati. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 2 dicembre 2016 n. 51546. Impugnazioni - Cassazione - Difensori - In genere - Ricorso per cassazione proposto personalmente dal terzo interessato alla restituzione del bene in sequestro - Inammissibilità - Autentica della firma ad opera di difensore iscritto nell’albo - Irrilevanza. Il ricorso per cassazione avverso le ordinanze in materia di misure cautelari reali del terzo interessato alla restituzione del bene, deve essere proposto, a pena di inammissibilità, da un difensore iscritto nell’albo speciale della Corte di cassazione, a nulla rilevando la sottoscrizione personale dell’interessato, quand’anche autenticata da difensore iscritto nel predetto albo. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 1 aprile 2016 n. 13234. Cassazione (ricorso per) - Persona offesa - Proposizione del ricorso - Sottoscrizione personale - Esclusione - Difensore iscritto all’albo speciale - Necessità - Differenze rispetto all’imputato. La persona offesa dal reato non ha diritto di proporre personalmente ricorso per cassazione, sottoscrivendo il relativo atto, poiché per la valida instaurazione del giudizio di legittimità si applica la regola dettata dall’articolo 613 c.p.p., secondo cui l’atto di impugnazione deve essere sottoscritto, a pena di inammissibilità, dai difensori iscritti nell’apposito albo. La disposizione di cui alla prima parte del comma 1 dell’articolo citato, secondo la quale, in deroga alla regola generale della necessaria sottoscrizione di un difensore iscritto nell’albo speciale, è consentito alla "parte" di sottoscrivere personalmente il ricorso per cassazione, è infatti applicabile al solo imputato, mentre non può valere nei confronti di soggetti processuali diversi. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 23 settembre 2004, n. 37418. Impugnazioni penali - Ricorso per cassazione - Facoltà di sottoscrizione personale del ricorso - In capo alla persona offesa - Esclusione - Ratio. La disposizione di cui alla prima parte dell’articolo 613 c.p.p., comma 1, secondo la quale, in deroga alla regola generale della necessaria sottoscrizione di un difensore iscritto nell’albo speciale, è consentito alla "parte" di sottoscrivere personalmente il ricorso per Cassazione, è applicabile esclusivamente nei confronti dell’imputato, e ciò in quanto alla persona offesa non compete tale qualificazione soggettiva e le altre parti private diverse dall’imputato non possono stare in giudizio, ai sensi dell’articolo 100 c.p.p., comma 1, se non "col Ministero di un difensore munito di procura speciale". • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 10 settembre 2007 n. 34220. Cassazione - Corte di cassazione - Ricorso - Proposizione personale da parte della persona offesa - Sottoscrizione da difensore iscritto all’albo - Obbligo - A pena di inammissibilità. Avverso il decreto di archiviazione emesso dal gip nei confronti di ignoti, la persona offesa non ha il diritto di proporre personalmente ricorso per cassazione, quivi trovando applicazione la regola dettata dall’articolo 613 c.p.p., secondo cui l’atto deve essere sottoscritto, a pena di inammissibilità, da difensori iscritti nell’apposito albo. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 7 gennaio 2008 n. 328. Lombardia: uno sciopero della fame per la salute dei detenuti di Riccardo Magi* e Michele Capano** Il Dubbio, 6 novembre 2016 Il radicale Lucio Bertè chiede l’attuazione della delibera della giunta regionale lombarda. "Senectus ipsa est morbus" scriveva Seneca ma potremmo estendere questa riflessione, che riguarda la vecchiaia, alla detenzione: ogni detenuto è, per ciò stesso, un malato. E non c’è bisogno di particolare chiose per una considerazione tanto amara quanto profondamente autentica. Ci sono, poi, le "altre" malattie, che alla detenzione si aggiungono, e che da sempre rappresentano terreno di iniziativa e lotta per i Radicali, che pongono la dignità delle condizioni di vita carceraria al centro di un impegno quarantennale. C’è un radicale in Lombardia, Lucio Bertè, che da cinquanta giorni è in sciopero della fame per chiedere alla Giunta Regionale, e all’assessore al Welfare Giulio Gallera, una delibera che attui quanto già previsto in questa materia dal Consiglio Regionale. La questione è semplice: a oggi risultano inattuate due mozioni approvate all’unanimità, nel 2011 in Comune e nel 2013 (ciò che è rilevante dal punto di vista delle competenze istituzionali) dal Consiglio regionale, per mettere la persona del detenuto, la sua salute e la salubrità degli ambienti in cui vive, al centro delle ispezioni semestrali da parte delle Asl nelle carceri lombarde, previste dall’ordinamento penitenziario. Lucio Bertè, già consigliere regionale in Lombardia per la Lista Bonino, ha intrapreso per questo una azione nonviolenta affinché sia dato seguito a quanto stabilito: l’equipe ispettiva deve essere resa operante, deve rilevare le condizioni di salute di ogni detenuto, deve aggiornare le cartelle cliniche digitali e deve misurare i parametri di abitabilità delle celle in rapporto agli occupanti e alle loro patologie. E poi, quel che è cruciale: ogni detenuto dovrà poter disporre dei dati ufficiali che lo riguardano, anche in relazione a possibili ricorsi alla Corte Europea dei Diritti dell’ Uomo per la violazione dell’articolo 3, che proibisce trattamenti inumani e degradanti a danno delle persone ristrette. Trentacinque anni sono passati dall’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (1978), che sciaguratamente "escludeva" i detenuti, affidati alle cure dalla "sanità carceraria" (governata dal ministero della Giustizia) dal novero dei cittadini immaginati come fruitori, in condizioni di parità di accesso, del servizio. Ma diciassette anni sono passati da quando (1999) l’enclave medicina penitenziaria è stata - sulla carta - abolita, inaugurando un percorso che solo nel 2008 (con un decreto della presidenza del Consiglio dei ministri) ha effettivamente posto i cittadini detenuti, nel rapporto con l’assistenza sanitaria, "sullo stesso piano" dei cittadini liberi, con il passaggio della competenza al ministero della Salute, e la "conquista culturale" per cui nessuna esigenza di "sicurezza" o "giustizia" può interferire con le valutazioni circa i trattamenti sanitari e le terapie cui si abbia accesso. Ma il digiuno di Lucio Bertè, che il 30 novembre ha incassato anche l’adesione della Camera Penale di Milano, da cinquanta giorni si scontra con la sordità della Giunta regionale e dell’assessore Gallera, incapaci di prendere atto ? a tre anni di distanza ? di una scelta di civiltà che la Regione, con la delibera citata del Consiglio regionale, ha già compiuto. Bertè scrive che il completamento di questo percorso, e l’operatività delle ispezioni con la diffusione dei dati, evocherebbe "la grande tradizione giuridica lombarda, quella di Cesare Beccaria, di Pietro e di Alessandro Verri, dell’Illuminismo lombardo, che ha fatto scuola in tutta Europa e che è nel dna dei lombardi". All’assessore Gallera la parola, perché, accogliendo i cinquanta giorni di digiuno di Bertè, dimostri che quella Lombardia non è solo una pagina dei libri di storia, ma esiste ancora nelle istituzioni che la rappresentano. *segretario di Radicali Italiani **tesoriere di Radicali Italiani Cagliari: uccise i genitori adottivi, Igor si impicca in cella, era in attesa di giudizio La Nuova Sardegna, 6 novembre 2016 Si è impiccato in carcere Igor Diana, il cameriere di 28 anni che, tra domenica e lunedì del 9 maggio scorso a Settimo San Pietro, uccise i genitori adottivi e poi si diede alla fuga, conclusa 36 ore dopo nelle campagne di Nuxis dove vi fu un conflitto a fuoco. Fu arrestato dalla polizia e rese confessione piena. Non andava d’accordo con i genitori, aveva ammazzato il padre Pino Diana nel soggiorno e poi la madre Luciana Corgiolu incamera da letto. Ieri pomeriggio il giovane si è ucciso nel carcere di Uta. Ha aspettato che il compagno di cella, un extracomunitario di 40 anni, andasse al cineforum dell’istituto di pena e, utilizzando le lenzuola, si è impiccato. È stato trovato dal compagno che ha avvertito subito gli agenti penitenziari. Il corpo è stato trasferito al policlinico di Monserrato, il magistrato di turno ha disposto l’autopsia. Il direttore dell’istituto, Gianfranco Pala, ha dichiarato che il detenuto non aveva mai dato segni di squilibrio, era seguito da uno psichiatra, non ha lasciato lettere o biglietti per spiegare il gesto. In questi mesi di reclusione non aveva mai creato problemi, riceveva periodicamente la visita dell’avvocato, era in attesa di giudizio, la data del processo non era stata fissata. L’omicidio dei genitori era avvenuto in un momento imprecisato a cavallo tra domenica 8 e lunedì 9 maggio. I genitori di sicuro dormivano: quando Igor era tornato a casa il padre era sceso dalla zona notte ed era cominciato il litigio finito in tragedia, sui corpi e nelle stanze erano chiari i segni della colluttazione ingaggiata col padre e i tentativi della madre di difendersi. I corpi dei genitori furono rinvenuti soltanto il mercoledì successivo, quando una cognata si era recata nella villetta, di cui aveva le chiavi, su richiesta dell’altro figlio adottivo della coppia, Alessio, 24 anni, fratello di Igor, militare nell’Esercito in servizio a Roma. Il giovane era partito proprio domenica per la capitale, la sera aveva telefonato ai genitori ma questi non avevano risposto, così aveva riprovato il giorno dopo. All’inizio non si era preoccupato perché la madre poteva essere impegnata in un turno in ospedale (era infermiera professionale in Ginecologia al Brotzu) e il padre da quando era in pensione (chef in un ristorante) lavorava ancora, faceva volontariato, doveva realizzare un laboratorio di pasta fresca nel cortile della loro villetta. Mercoledì Alessio Diana aveva chiesto alla zia di andare a casa dei genitori: strano che non rispondessero al telefono ma molto più strano che, pur vedendo le chiamate, non gli avessero ritelefonato. Nella ricostruzione fatta in seguito dagli agenti della squadra mobile di Cagliari diretti da Alfredo Fabbrocini è emerso che Igor Diana, dopo aver ucciso i genitori, era uscito di casa con la macchina della madre e successivamente era tornato nella villetta dove si era cambiato i vestiti. Uscito di nuovo, aveva fatto tardi con gli amici al Poetto, era andato a comprare un po’ di "fumo", poi, immaginando forse che lo avrebbero cercato dai suoi amici, aveva raggiunto la casa dei nonni a Nuxis, un’eredità del padre. È stato qui che la polizia in collaborazione con i carabinieri aveva scovato Igor Diana. Il giovane si era chiuso dentro l’auto e aveva tirato fuori una pistola puntandola contro i poliziotti. Uno di loro aveva mirato al braccio riuscendo così a bloccarlo. Da qui il giovane era stato portato all’ospedale di Iglesias e poi al centro medico del carcere di Uta. Ieri, in cella, il drammatico epilogo. Padova: violenza, droga e affari sporchi, il libro nero del "Due Palazzi" di Donatella Vetuli Il Gazzettino, 6 novembre 2016 Traffico di coca gestito dalla cella, la Procura indaga sulla revoca del regime duro a 10 boss. Cosa si nasconde dietro le sbarre del carcere di Padova: dagli "agenti deviati" ai benefici ai mafiosi. Droga ai detenuti, violenze, affari sporchi di agenti deviati, anche un ergastolano che impartisce ordini agli spacciatori come se fosse in una camera d’hotel. E, ultima di una serie infinita di inchieste, spunta anche quella sul regime morbido concesso a chi è legato alla mafia. Il romanzo criminale del carcere di Padova aggiunge nuovi capitoli a una storia complicata che ha forse nella clamorosa fuga di Felice Maniero, del 1994, la pagina più emblematica. L’inchiesta - È di questi giorni l’indagine della Procura sull’Alta sicurezza. Il Due Palazzi torna nella bufera proprio per un gruppo di detenuti, oltre dieci, a cui fu concesso, nel 2015, di lasciare il regime duro per quello ordinario, che in un carcere considerato modello per la rieducazione significa lavoro, studio e porte aperte. Provvedimento quanto meno insolito, secondo il Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, sia per il ragguardevole numero dei beneficiari della cosiddetta declassificazione, sia per la loro provenienza e cioè l’irriducibile mondo della criminalità organizzata, di cui erano ritenuti elementi di spicco. Comunque, è oggetto di indagine la scelta di sfrondare l’Alta sicurezza, con il benestare dell’amministrazione penitenziaria e in base - si disse all’epoca - di rigorosi accertamenti socio-familiari su criminali evidentemente redenti dietro le sbarre. Il Sindacato - "Fui sorpreso anche io - afferma Giovanni Vona, segretario nazionale Sappe per il Triveneto - Informai il sindacato. Erano davvero tanti quei detenuti. Tutti legati a mafia, camorra e ‘ndrangheta. Ci risposero che l’area trattamentale, quella educativa per i ristretti comuni, funzionava bene. È vero. Occupazione, studio, permessi, un bel percorso. Ma le maglie dei controlli sono larghissime. Mancano agenti, questo è il problema. In qualche caso siamo figure marginali. Per il periodo di Natale, c’è il rischio che un solo poliziotto, almeno per qualche ora, si ritrovi da solo con 100 detenuti in un regime di vigilanza dinamica, cioè a porte aperte". Il boss - Aveva ottenuto permessi il siciliano Mario Pace, 57 anni, ergastolano a Padova per omicidio e mafia. Anche lui declassificato e quindi libero di girare fuori del carcere nonché autore di dipinti esposti alla mostra organizzata dal Comune, dal pedagogico titolo Io recluso racconto. Ma da Padova, dice la procura di Catania in una nuova inchiesta, dava ordini e inviava pizzini ai suoi compari per piazzare sul mercato cocaina e marijuana. Studente, poteva usare il computer (internet proibito), sebbene la polizia ne avesse già sequestrato un altro dalla sua cella, e sebbene, dicono gli investigatori, comunicasse ovunque con ingegnosa manomissione del pc. Poteva contare sulla complicità di un altro detenuto. Ordine di custodia cautelare nei suoi confronti solo pochi giorni fa, e trasferimento in altro istituto. Eppure il Due Palazzi, tra i pochi in Italia, è il carcere dove si lavora e si studia, dove i bambini delle elementari ascoltano gli ergastolani per capire come si sbaglia, dove si sfornano panettoni da spedire a papa Francesco, dove i tossicodipendenti hanno effettiva possibilità di riabilitazione, tra medici e psicologi, dove sono tanti gli agenti a sobbarcarsi onestamente un impegno da trincea. È anche il carcere dove un detenuto romeno ha conquistato, l’altro giorno, la laurea con una tesi in Ingegneria informatica. Festini e droga - L’altra faccia, quella feroce, si svela a sorpresa, ma con regolare cadenza, tra rivolte, suicidi, indagini che coinvolgono nella stessa misura detenuti e agenti, perché lì, tra corridoi infiniti e anguste celle, sono stati trovati droga, decine di cellulari, chiavette usb, filmini porno. E anche alla luce di questi scandali, di un bazar dove tutto si poteva comprare almeno fino a pochi anni fa, si optò per la chiusura dell’Alta sicurezza. Ma il girone infernale apre i suoi catenacci nel luglio del 2014. Quindici arresti tra agenti carcerari e detenuti, 50 indagati. Si poteva spacciare di tutto al Due Palazzi, svelarono gli investigatori della Mobile, tra cocaina e ecstasy in una bolgia di festini, ma pure di ricatti, pestaggi, violenze. Il boss, detto anche uomo brutto, era l’assistente capo di polizia penitenziaria Pietro Rega. Secondo l’accusa, era lui che muoveva le fila dall’alto del suo ruolo di comando al quinto piano. Da lì dirigeva, con la complicità di altri agenti, il commercio di stupefacenti e di computer indispensabili, per un gruppo di detenuti, a rinsaldare i rapporti con la malavita. Come Gaetano Bocchetti, il camorrista. Rega fu poi condannato, nel luglio 2015, a 10 anni e 10 mesi di reclusione, un quinto dei 51 anni inflitti complessivamente a 13 imputati, tra giudizi abbreviati e patteggiamenti. La pena fu poi ridotta a 6 anni e 8 mesi. Si uccise invece Paolo Giordano, la guardia che girava filmini a luci rosse per poi smerciarli al lavoro: poco prima di un interrogatorio venne trovato nel suo alloggio, polsi e gola tagliati. Suicida anche il detenuto Giovanni Pucci: collaborò con gli inquirenti ma poi si impiccò in cella. Troppe pressioni, oppure la disperazione? Molti riferirono agli investigatori cosa il carcere nascondesse, altri si rintanarono nel silenzio. Altri ancora scivolarono nell’assenteismo. Non è mancata un’altra inchiesta sui falsi malati. Dodici gli agenti iscritti nel registro degli indagati, cinque i medici ritenuti compiacenti. Centinaia i certificati sequestrati. I numeri - Se le condanne hanno spazzato via molto del marcio, quel girone infernale riappare puntuale come una maledizione: l’ultimo sequestro di un cellulare è avvenuto sabato scorso. Controlli e ispezioni, certo, ma si ritorna alla regola di sempre del sovraffollamento di carcerati e alla speculare mancanza di personale in divisa. Nella casa di reclusione sono ristretti 595 detenuti (per 450 posti), mentre gli agenti di polizia penitenziaria in servizio sono 300. Al circondariale si trovano invece 200 carcerati, con 140 poliziotti. "Siamo sottorganico - denuncia Giampietro Pegoraro, coordinatore regionale Cgil funzione pubblica. Solo a Padova mancano complessivamente 300 agenti. Anche gli amministrativi sono in calo, c’è un unico ragioniere per la casa di reclusione, dove deve anche occuparsi delle buste paga dei detenuti. Dobbiamo sostenere turni pesanti con un carico di stress notevole. In quattro anni si sono suicidati due di noi. Ma mancano centri di ascolto che offrano un sostegno adeguato a chi si trova in situazioni difficili, tra cui anche le aggressioni fisiche". E anche un tentato omicidio. Il detenuto Costantino Carta, 56 anni, sparò a un’agente di polizia penitenziaria in servizio nella sezione del carcere dove era ristretto. L’11 giugno 2014, durante un permesso premio, armato di pistola raggiunse la donna, di cui era invaghito, nella sua abitazione e la ferì gravemente. Qualche giorno fa il processo: condanna a 15 anni e due mesi. Era in carcere per avere assassinato la sua amante. E in quei palazzoni di cemento, a iniziare dalle gesta di Faccia d’angelo, che uscì dal portone con l’aiuto di una guardia corrotta, le falle non sono mai mancate. Sembra una vecchia barzelletta, ma non lo è, la fuga di un marocchino, nel 2010, che sparì usando le lenzuola per calarsi dal muro di cinta. E, ancora, ha del leggendario, per via del suo record di 5 fughe, l’impresa del rapinatore Max Leitner, già conosciuto come il re delle evasioni, che nel 2002 si dileguò durante un permesso premio. Non era la prima, ma la terza evasione. Padova: il direttore del carcere, Ottavio Casarano "sono casi isolati, il sistema funziona" di Donatella Vetuli Il Gazzettino, 6 novembre 2016 "I cellulari trovati in cella? Accade, ma anche negli altri penitenziari". Ottavio Casarano è da poco più di un anno direttore del Due Palazzi. Giunto all’indomani dell’inchiesta Apache, su droga e telefonini in carcere, se ne trova un’altra sul regime morbido ottenuto dai detenuti ad alta sicurezza, compreso Mario Pace, ergastolano condannato per omicidio e mafia. "Tutte le procedure sono sottoposte a controlli - afferma il direttore Casarano - la nostra professionalità è un libro aperto". Pace è uno dei cosiddetti declassificati, posto tra i carcerati comuni. Aveva a disposizione un computer. La procura di Catania afferma che era in collegamento con gli spacciatori, che gestiva gli acquisti di droga in Olanda. Usciva dal carcere regolarmente. "Aveva seguito tutto l’iter necessario per ottenere la declassificazione, che è quello di presentare un’istanza poi istruita dalla direzione che invia la documentazione al Dap. È il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a decidere sul tipo di regime da adottare. I computer in carcere vengono dati a chi studia e lavora, Pace compreso. Non si può pensare di svolgere attività senza strumenti informatici. Ma se un caso non va a buon fine, non si può condannare tutto il sistema. Dobbiamo sempre fare i conti con la possibilità di recidiva. Sarà poi la Giustizia a fare il suo corso sulle effettive responsabilità di Mario Pace". A Padova, l’Alta sicurezza è stata ridimensionata nel tempo. "Al Due Palazzi resta l’Alta sicurezza. In quella sezione rimangono 20, 30 detenuti. Le procedure di declassificazione sono però continue, fanno parte del percorso trattamentale dei reclusi. E sono iniziate prima che io arrivassi. Noi non possiamo dimenticare il nostro ruolo di inserire nella società chi sconta una pena in carcere. Ripeto: non è corretto dire che il sistema fa acqua per un caso singolo". Sabato scorso è stato trovato l’ennesimo telefono cellulare a un detenuto. È stato sequestrato dalla polizia penitenziaria. "Purtroppo accade anche in altri istituti italiani. Affermare che il fenomeno sia più diffuso a Padova non è giusto. E il Due Palazzi ha molti detenuti in più rispetto ad altri. Noi comunque cerchiamo di contrastare con tutti i mezzi possibili il pericolo che in carcere si possano ricevere cellulari". Come riescono i reclusi ad avere un telefono, nonostante i controlli? "Non entro nel merito della questione". Resta il problema dell’affollamento al Due Palazzi. "Non è così grave come nel passato con il potenziamento di misure alternative. Negli anni scorsi si era arrivati anche a 900 detenuti nella casa di reclusione. Oggi sono circa 600. Certo, le criticità rimangono visto che la capienza è per 450 persone". E gli organici? "Gli operatori hanno un encomiabile spirito di servizio. Il carcere di Padova ha fatto e fa molto. Oggi 150 detenuti lavorano all’esterno della struttura, 100 all’interno del Due Palazzi. E poi ci sono scuole di ogni ordine e grado. Un detenuto è riuscito a laurearsi nei giorni scorsi con una tesi in Ingegneria informatica. Non è il nostro carcere una fonte di guai". Padova: l’ex direttore Salvatore Pirruccio "spero possano arrivare rinforzi per le guardie" di Donatella Vetuli Il Gazzettino, 6 novembre 2016 "I detenuti sono diminuiti di un terzo a Padova. Lontani gli anni dell’affollamento". Parole di Salvatore Pirruccio, per 13 anni direttore del Due Palazzi e ora vicario al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria. "Ciò è stato possibile - spiega - con la liberazione anticipata di chi doveva scontare ormai pochissimi mesi di reclusione. Il clima è ora più disteso, sicuramente diverso dalle vicende negative degli scorsi anni". Lunghi mesi di inchieste, con arresti anche degli agenti di Polizia penitenziaria. "Periodo difficile - commenta l’ex direttore - ma ormai abbastanza superato". Quanto alla trasformazione del carcere di alta sicurezza, almeno nei numeri, l’ex direttore parla di una giusta ristrutturazione. "Dipende dalle politiche del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria". Speranze anche per quanto riguarda l’organico della polizia penitenziaria. "Potrebbero esserci dei rinforzi - annuncia- confido con le prossime assunzioni in una ripresa dell’organico". Lunga esperienza quella di Pirruccio alla guida di un carcere chiacchierato. Dice: "Ho sempre lavorato con lo spirito dell’ordinamento penitenziario, l’aspetto più positivo è che io, insieme ai miei collaboratori, sono riuscito a condurre tanti detenuti sulla via del recupero". Padova: i volontari "la pena deve tendere alla rieducazione, carcere aperto alla società" di Donatella Vetuli Il Gazzettino, 6 novembre 2016 Due Palazzi, volontariato in prima linea. "Il male del sistema carcerario - dice Nicola Boscoletto, responsabile della cooperativa Giotto dove lavorano 140 detenuti - è che c’è poco rispetto per le leggi. La pena deve tendere alla rieducazione, spesso non è così. Per Padova il livello di umanizzazione della pena è superiore ad altre strutture. Certo, c’è chi ha sbagliato, ma ritengo che sia fisiologico l’errore. Il mondo imprenditoriale afferma che nei laboratori della Giotto ci siano meno problemi che in azienda. Un esempio: nella nostra pasticceria, dal 2003 al 2016, un solo caso. È un lavoro preziosissimo per chi ha perso la libertà". Il prossimo 20 gennaio, in carcere, giornata contro la pena che toglie ogni speranza. Afferma Ornella Favero, direttrice del giornale Ristretti Orizzonti: "In quell’occasione i familiari dei detenuti racconteranno a politici e parlamentari la loro esperienza. Ciò che c’è di positivo a Padova è il carcere aperto alla società". Milano: i volontari e il dovere di riportare i detenuti nella società di Fabrizio Ravelli La Repubblica, 6 novembre 2016 I volontari che lavorano nelle carceri milanesi (San Vittore, Opera, Bollate, Beccaria) sono 1345. Una piccola folla nella grande folla che - è bene non dimenticarlo mai - rappresenta il volontariato. Sono persone che hanno deciso di dedicare una parte del loro tempo a un’impresa lodevole e non facile: far sì che il carcere non sia un settore chiuso della nostra società, e che il dettato costituzionale della rieducazione e risocializzazione dei condannati non resti un nobile principio inerme. Ieri un convegno a Palazzo Reale ha fornito un quadro di questo fenomeno, a trent’anni dalla legge Gozzini che contribuì ad aprire i canali fra carcere e società. Legge che, nel frattempo, è stata ampiamente demolita a colpi di pacchetti-sicurezza. Ma intorno al volontariato carcerario resiste un luogo comune che Valerio Onida ha provato a smentire. E cioè che ci sia da una parte l’istituzione carceraria che fa il lavoro della sorveglianza e della custodia, e dall’altra il volontariato che apre ai rapporti con l’esterno. No, rieducare e risocializzare, cioè riportare i condannati nella società, è compito dell’istituzione carceraria, in quanto principio fondante dell’esercizio penale. E la società esterna ha il dovere, il dovere e non la possibilità, di collaborare ad adempiere a queste norme. Quindi, ha spiegato Onida, il volontariato in carcere è una delle espressioni che l’impegno civile può assumere. Ma non può essere il tappabuchi che riduca l’impegno dell’istituzione, e che eserciti una funzione suppletiva. Non è un concetto che tutte le forze politiche hanno presente. Velletri (Rm): in carcere assistenza sanitaria inadeguata, protesta di un recluso di 70 anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 novembre 2016 Prima ha iniziato a protestare verbalmente, poi ha afferrato una lametta e si è praticato dei tagli alle braccia e alla pancia, dopodiché si è puntato la lametta alla gola e ha minacciato di squarciarsela se non gli fosse stato consentito di parlare con la direttrice. Il protagonista della vicenda è un detenuto di 70 anni ristretto nel carcere di Velletri per protestare, a suo dire, contro le mancate cure. A seguito del suo gesto, altri detenuti hanno inscenato una protesta per solidarizzare con lui. Hanno staccato le telecamere di sicurezza poste nei corridoi e frantumato alcune delle vetrate nelle celle e altre che danno su alcuni corridoi interni alla struttura. E mentre la colonna sonora dei detenuti che battevano gli oggetti contro le sbarre continuava, gli agenti hanno capito che la situazione poteva volgere facilmente al peggio. I poliziotti penitenziari insieme alla direttrice dell’istituto hanno cercato di ragionare con i detenuti. Il primo a cui gli agenti si sono rivolti è stato l’anziano detenuto. Una volta tranquillizzato, sono riusciti a riportare tutti gli altri alla calma, convincendoli a rientrare nelle loro celle. Due ore dopo l’inizio della protesta i detenuti sono così rientrati volontariamente nelle loro celle e l’uomo di 70 anni è stato condotto al pronto soccorso dell’ospedale di Velletri. Carmine Olanda, il segretario regionale della Ugl polizia penitenziaria, nel commentare quanto accaduto ha sottolineato la gravità della situazione in cui versano i penitenziari italiani: "In tutto il Paese siamo sotto organico. Servono sei mila nuove assunzioni per coprire la carenza di personale. La situazione di Velletri, inoltre, con la nuova ala inaugurata ma con lo stesso numero di agenti, è ormai critica". La protesta di sabato - secondo la Ugl polizia penitenziaria - ha portato alla luce anche un altro problema all’interno del carcere di Velletri: la mancanza di un numero adeguato di personale sanitario. L’anziano detenuto, infatti, non è il solo a dover ricevere un’assistenza sanitaria adeguata. Trani: "Parole senza barriere", progetto organizzato dall’associazione "Presìdi del libro" ilikepuglia.it, 6 novembre 2016 Incontri con gli autori, laboratori, spettacoli teatrali e iniziative di promozione della lettura sono le attività rivolte ai detenuti e alle detenute delle carceri pugliesi e alle loro famiglie. Parte oggi, martedì 6 dicembre, nel carcere di Trani Parole senza barriere, il progetto di promozione della lettura negli istituti penitenziari pugliesi organizzato e promosso dall’Associazione Presìdi del libro, in collaborazione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Regionale di Puglia e Basilicata del Ministero di Giustizia. Alla luce di un Protocollo di intesa stipulato lo scorso gennaio 2016 tra i due enti, con l’obiettivo primario di garantire ai detenuti un accesso ampio e qualificato alla conoscenza, all’informazione e alla cultura in generale, con particolare riferimento alla promozione della legalità, nasce Parole senza barriere. Incontri con gli autori, laboratori, spettacoli teatrali e iniziative di promozione della lettura e formazione professionale, sono le attività rivolte ai detenuti e alle detenute delle carceri pugliesi e alle loro famiglie, con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita di chi lavora negli istituti di pena e dei detenuti che scontano la pena per gli errori del passato ma a cui è concessa un’opportunità per il futuro. Si terranno in tutti gli 11 penitenziari della Puglia attraverso i sotto-progetti ideati per ogni singolo penitenziario e domani martedì 6 dicembre sarà Claudia Fabris, la poetessa che darà il via nell’Istituto Penitenziario Femminile di Trani nell’ambito del sottoprogetto dal titolo "Ogni luogo ha un’anima" realizzato in collaborazione con Confindustria BAT. Nello stesso penitenziario a dicembre e a gennaio 2017 seguiranno altri tre incontri: il 19 dicembre, alla presenza della scrittrice e giornalista Carmela Formicola, ci sarà il reading musicale tratto dal suo libro "Sinfonia dell’odio" (Florestano edizioni, 2016); Paolo Comentale, invece, il 20 dicembre realizzerà lo spettacolo di marionette su "Pulcinella" per i piccoli delle famiglie dei detenuti e a gennaio nel penitenziario maschile si concluderà con lo spettacolo "Sudorazione" di Giampiero Borgia. Claudia Fabris è Poetessa -artista padovana, autrice del progetto "RistorAzione": desiderio di nutrire lo spirito con la stessa cura con cui si nutre il corpo. Un menu di parole da scegliere, così come si fa in un ristorante. Antipasti: parole brevi; primi: parole importanti; piatti unici: monologhi; dolci: parole cantate dal vivo e, per finire un Piccolo vocabolario Poetico per dare un nuovo significato alle parole. I detenuti e le detenute avranno a disposizione delle cuffie senza fili, con una portata di 100 metri, attraverso le quali giungerà la voce della poetessa, che leggerà dei testi scelti dal pubblico. Obiettivo del laboratorio è restituire alla parola la sua dimensione originale, poetica appunto, quella che aveva quando si credeva che le parole potessero davvero generare mondi. Novara: bonificata dai detenuti una discarica abusiva in viale Kennedy novaratoday.it, 6 novembre 2016 L’intervento è stato svolto dai detenuti del carcere di via Sforzesca, in collaborazione con Assa, nell’ambito delle Giornata per il recupero del patrimonio ambientale". I detenuti della Casa circondariale di Novara, naturalmente accompagnati dagli agenti della polizia penitenziaria che hanno garantito la sicurezza e sotto il coordinamento di Assa, hanno effettuato la bonifica di una discarica abusiva in un’area del territorio comunale. L’intervento ha riguardato l’area spettacoli viaggianti di viale Kennedy. Con il supporto logistico e operativo di Assa, i detenuti hanno rimosso i rifiuti abusivamente abbandonati, raccolto le foglie e fatto una sistemazione con pulizia straordinaria di tutta l’area. L’iniziativa è stata inserita dal Comune in "Let’s Clean up Europe", azione coordinata e promossa dalla Settimana europea per la riduzione dei rifiuti, per affrontare il problema dell’abbandono dei rifiuti e sensibilizzare la cittadinanza a un comportamento rispettoso dell’ambiente, alla sostenibilità ambientale e a una corretta raccolta differenziata. Roma: con l’Ordine degli Architetti un convegno su architettura e carcere Agenparl, 6 novembre 2016 Mercoledì 7 dicembre dalle 9.00 alla Casa dell’Architettura (Piazza Manfredo Fanti 47, Roma) si terrà il convegno "Architettura e carcere", un incontro organizzato dall’Ordine degli Architetti PPC di Roma e provincia. Aprirà i lavori portando i saluti il presidente dell’Ordine degli Architetti di Roma e provincia Alessandro Ridolfi, presenterà il convegno l’ architetto Daniela Proietti, Responsabile Dipartimento della Professione dell’OAR. Interverranno Cosimo Maria Ferri, Sottosegretario di Stato alla Giustizia, l’architetto arch. Corrado Marcetti, Direttore Fondazione Michelucci, "Carceri e Città: disamina di quanto espresso nell’ambito dei lavori del Tavolo1 degli Stati Generali; localizzazione e caratteri socio-spaziali della detenzione in rapporto alle finalità indicate dai contenuti della Riforma e del Regolamento Penitenziario; interazione col territorio di riferimento, con le opportunità e le esigenze presenti in una determinata città, in una determinata regione. Carceri e Città: disamina di quanto espresso nell’ambito dei lavori del Tavolo1 degli Stati Generali; localizzazione e caratteri socio-spaziali della detenzione in rapporto alle finalità indicate dai contenuti della Riforma e del Regolamento Penitenziario; interazione col territorio di riferimento, con le opportunità e le esigenze presenti in una determinata città, in una determinata regione", l’architetto Leonardo Scarcella, Ministero della Giustizia, "Patrimonio edilizio penitenziario in Italia: ripartizione tipologica, modalità e criteri funzionali e tecnici di ristrutturazione e ampliamento degli istituti territoriali", l’architetto Cesare Burdese, esperto di edilizia carceraria, "Mutamenti architettonici dopo l’adozione delle recenti modalità di esecuzione della pena e della custodia cautelare in carcere". "Il seminario vuole fornire una formazione specifica nella progettazione delle strutture destinate all’esecuzione della pena - spiega l’architetto Daniela Proietti, Responsabile Dipartimento della Professione dell’OAR - al fine di coinvolgere il ruolo dell’architetto e del progetto architettonico in questi ambiti particolari, in cui sono maggiormente a rischio i diritti e la dignità dell’uomo. Un tema quello del carcere di grande rilevanza sociale, per molto tempo dimenticato come qualcosa di lontano, di estraneo, di scomodo, ma che ha inevitabilmente delle ricadute sulla collettività che non possono essere più ignorate. La condizione delle carceri in Italia ha comportato la condanna del nostro Paese da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo per il trattamento inumano e degradante delle persone detenute. Questa situazione di emergenza - sottolinea Proietti - rende necessaria una profonda riflessione, oltre che su possibili misure alterative alla detenzione ordinaria, soprattutto su una ridefinizione delle linee guida per progetti innovativi di edifici carcerari che garantiscano i diritti di affettività, socialità, formazione e reinserimento dei detenuti che li abitano". "Gli architetti - dichiara il presidente dell’Ordine degli Architetti PPC di Roma e provincia Alessandro Ridolfi - possono essere dei preziosi alleati delle Istituzioni, sia nel caso di ristrutturazione di vecchi edifici che nella realizzazione di nuovi istituti, per promuovere e sostenere progetti di architettura carceraria che assicurino una qualità degli spazi finalizzati al recupero e al reinserimento sociale e garantiscano al tempo stesso la sicurezza e il controllo per relazionarsi con la città e il contesto circostante". La partecipazione all’evento riconosce 6 crediti formativi agli iscritti. Milano: San Vittore Globe Theatre Atto secondo, le Tempeste Teatro in "libera uscita" di Donatella Massimilla (direttrice artistica Cetec) mi-lorenteggio.com, 6 novembre 2016 Il Centro Europeo Teatro e Carcere torna al Piccolo, al Teatro Studio Melato, che l’aveva già ospitato nella Stagione 2014/15, con San Vittore Globe Theatre - Atto secondo. Le Tempeste. Sabato 10 e domenica 11 dicembre va in scena uno Shakespeare in veste inedita, recitato interamente al femminile da una compagnia aperta di volontarie, artiste e detenute. Un intreccio di dialoghi e monologhi accosta i versi della Tempesta e di altre opere del Bardo a quelli composti dalle stesse interpreti, durante il percorso laboratoriale di "auto-drammaturgia" Dentro/ Fuori San Vittore condotto dalla regista Donatella Massimilla, uno spettacolo provato nei corridoi e nei cortili delle carceri durante le ore d’aria, portato in scena in spazi non tradizionali, un teatro in viaggio, in continuo spostamento, come le detenute in libera uscita. Il testo di Shakespeare per le carcerate si fa veicolo di libertà e strumento di salvezza, occasione che permette di evadere dalle mura della cella; la tempesta diventa metafora della deriva esistenziale del singolo, del naufragio dal quale l’arte rappresenta l’àncora di salvataggio. Alla ricerca teatrale si affianca la prospettiva di rieducazione e reinserimento lavorativo delle detenute, che connota il teatro come mezzo di espressione non soltanto artistica, ma soprattutto umana. Uno spettacolo che vorremmo dedicare a due Maestri che ci sono stati particolarmente vicini negli anni, Dario Fo e Giorgio Strehler. Il primo ci ha donato momenti magici a San Vittore alternando testimonianze a momenti artistici, il secondo appare come "Prospero" da immagini audiovisive clandestine, ritrovate quest’anno, che documentano l’incontro artistico e umano che, il 17 novembre del 1996, venti anni fa esatti, il Maestro fece con il nostro gruppo Ticvin - La Nave dei Folli su "La Tempesta" di William Shakespeare. Abbiamo creato la Cooperativa sociale Cetec, diretto l’Edge Festival e scelto di praticare un Teatro della Vita dentro e fuori San Vittore e le carceri d’Europa. Comprendendo sempre di più che il rovesciamento del teatro e carcere è in atto, sono loro, i detenuti attori, scrittori e artisti che prenderanno il nostro testimone. A loro consegniamo pedagogia e formazione, chiediamo serietà e capacità di re-esistere. Noi, come Prospero vorremmo scatenar Tempesta e ritrovare la nostra Libertà. Una regia corale, unisce Le Tempeste delle attrici recluse ai versi di Shakespeare, ai tatuaggi delle loro vite. Volterra (Pi): "Scienza oltre le sbarre", l’incontro ludico-didattico del museo Galileo gonews.it, 6 novembre 2016 In occasione della Festa della Toscana, che celebra l’abolizione della pena di morte e la riforma della legge penale da parte di Pietro Leopoldo di Lorena, il Museo Galileo presenta "Scienza oltre le sbarre", un progetto nato dalla collaborazione con alcuni istituti di pena toscani. L’iniziativa ha preso avvio con la Casa di Reclusione di Volterra: la Direttrice e i responsabili della didattica, in accordo con Andrea Gori - referente delle attività educative per il museo - hanno definito un programma didattico destinato ai due istituti superiori frequentati dai detenuti, l’Istituto tecnico per geometri e l’Istituto professionale alberghiero a indirizzo enogastronomico. Il primo incontro con gli studenti, durato circa due ore, è stato una sorta di excursus sulla storia della scienza: dal racconto della vita di Galileo Galilei all’illustrazione delle scoperte astronomiche realizzate dallo scienziato toscano, alla spiegazione degli strumenti da lui perfezionati e creati, fino alla descrizione degli esperimenti di elettrostatica settecenteschi. Il progetto ha riscosso grande successo, sia sul piano educativo sia umano: gli studenti hanno ascoltato con entusiasmo la lezione, contribuendo con ricordi e racconti del paese e della cultura di origine. Il secondo incontro, quello di domani, sarà incentrato Pietro Leopoldo di Lorena, Granduca di Toscana, figura storica di grande importanza per le novità apportate con il nuovo codice penale del 1786, che abolì la pena di morte e affermò l’importanza della funzione rieducativa e correttiva della pena. Il progetto "Scienza oltre le sbarre" ha coinvolto anche la Casa Circondariale di Sollicciano, dove il Museo Galileo venerdì 25 novembre ha presentato la pubblicazione per bambini su Pietro Leopoldo di Lorena "Pietro Leopoldo di Lorena. Un "Grande" Granduca", a cura della Sezione Didattica del Museo Galileo, con la preziosa collaborazione di Giulio Manetti dell’Archivio Storico del Comune di Firenze e le illustrazioni di Elena Triolo, giovane e promettente disegnatrice fiorentina. Alla presentazione ha partecipato Eros Cruccolini, Garante dei diritti dei detenuti per il Comune di Firenze. Casa di Reclusione di Volterra, Pisa La Casa di Reclusione di Volterra ha sede in una parte della Fortezza Medicea, luogo di grande fascino storico e suggestione, che dall’alto della collina su cui sorge domina Volterra: la sua mole imponente è visibile da molti chilometri di distanza, caratterizzando in maniera inconfondibile il profilo della città. Tradizionalmente alla Fortezza vengono assegnati detenuti in espiazione di pene particolarmente lunghe. Si tratta di un carcere trattamentale, dove prevale l’ispirazione costituzionale di reinserimento del detenuto nella società e nel mondo del lavoro. I detenuti possono frequentare la scuola dell’obbligo e due corsi di scuola media superiore: il corso geometri e il corso alberghiero ad indirizzo enogastronomico. Tra le altre attività qualificanti si menzionano il Teatro della Fortezza, le Cene galeotte, la Scuola polivalente interna che è aperta anche ai ragazzi della zona, la produzione di manufatti e tessuti artigianali. Casa Circondariale di Sollicciano, Firenze La pianta dell’Istituto è ispirata al giglio di Firenze e ne schematizza la struttura a fiore con i padiglioni semicircolari e i corridoi di collegamento. Gli edifici a forma di semicerchi convessi verso la città, adibiti a dormitori, sono disposti in modo da delimitare uno spazio interno attrezzato dove il complesso si offre in tutta la sua articolazione urbanistica costituita da percorsi, piazze, impianti sportivi e aree verdi. La progettazione risale agli anni 70 ed era caratteristica sia per la forma che per l’assenza di grate e sbarre metalliche alle finestre delle celle. Il processo di rieducazione finalizzato al reinserimento della popolazione carceraria si concretizza nell’attivazione di percorsi scolastici dal grado primario a quello secondario di secondo grado che comprende un istituto tecnico per geometri e uno per servizi aziendali e turistici. Il Comune di Firenze organizza e promuove una serie di attività culturali, ricreative, di socializzazione e formazione: le attività sportive alle sezioni maschili e femminili, i corsi di pittura, musica, yoga e danza, i concerti e gli spettacoli, i corsi di teatro, di scrittura creativa, di costruzione di bambole, il laboratorio di riparazione biciclette. Volterra (Pi): otto mesi di cene galeotte alla Casa di Reclusione quinewsvolterra.it, 6 novembre 2016 Dal 16 dicembre fino all’11 agosto tanti chef di prestigio cucineranno nelle cucine del carcere accompagnati dai detenuti. Tutto pronto per la nuova edizione delle Cene galeotte, iniziativa unica nel suo genere che da oltre dieci anni fa della Casa di Reclusione di Volterra un luogo di integrazione e solidarietà attraverso cene aperte al pubblico. Novità di quest’anno il fatto che gli chef coinvolti, come sempre a titolo gratuito, non solo affiancheranno i detenuti ai fornelli, ma terranno anche lezioni inserite nel calendario didattico dell’Istituto Alberghiero nato nel 2013 proprio all’interno del carcere di Volterra, con classi miste formate dai carcerati e dagli oltre venti ragazzi che ogni giorno varcano le porte della struttura per seguire il percorso formativo. Questo il programma dal 16 dicembre all’11 agosto: - Venerdì 16 dicembre chef Nicola Schioppo, osteria Cipolla rossa (Firenze) - venerdì 24 marzo Alessandro liberatore, Villa cora (Firenze) - venerdì 21 aprile Beatrice segoni, Konnubio (Firenze) - venerdì 26 maggio Daniele Pescatore (casa di cucina da Pescatore - Firenze) e Romualdo Rizzuti (pizzeria Sud, mercato centrale - Firenze) - venerdì 30 giugno Entiana Osmenzeza, Gurdulù (Firenze) - venerdì 11 agosto Daniele Sera, Castello di Casole (Casole d’Elsa) Un successo crescente quello delle Cene galeotte raccontato dai numeri, con oltre 1.200 partecipanti la scorsa edizione e più di 14mila visitatori dalla prima del 2005. L’evento rinnova anche il suo scopo solidale, con il ricavato (35 euro a persona) devoluto alla fondazione Il cuore si scioglie Onlus e ai progetti che, dal 2000, vengono realizzati in collaborazione con il mondo del volontariato laico e cattolico. Si rinnova dunque la possibilità di un’esperienza irripetibile per i visitatori, ma anche un momento vissuto con grandissimo coinvolgimento da parte dei detenuti che, grazie al percorso formativo in sala e cucina, acquisiscono via via un vero e proprio bagaglio professionale. In una ventina di casi questa esperienza si è tradotta in vero impiego presso ristoranti locali, secondo l’art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere. Le Cene Galeotte sono possibili grazie all’intervento di Unicoop Firenze, che fornisce le materie prime necessarie alla realizzazione dei piatti e assume i detenuti per i giorni in cui sono nella realizzazione dell’evento. Il progetto è realizzato con la collaborazione del Ministero della Giustizia, la direzione della Casa di Reclusione di Volterra, la supervisione artistica del giornalista e critico enogastronomico Leonardo Romanelli per la selezione degli chef e il supporto comunicativo di Studio Umami. Un ruolo fondamentale è inoltre ricoperto dalla Fisar-Delegazione Storica di Volterra (fisarvolterra.it), partner del progetto per la selezione delle aziende vinicole, il servizio dei vini ai tavoli e la formazione dei detenuti come sommelier. Grazie alla Fisar dieci detenuti hanno già positivamente svolto il corso base di avvicinamento al vino e seguiranno il percorso formativo per raggiungere la qualifica di sommelier professionali. Torino: Franco Mussida porta la musica in carcere "è liberta interiore" di Marco Basso La Stampa, 6 novembre 2016 "L’idea di partenza è che i detenuti, attraverso la musica, lavorino sui sentimenti; infatti la musica è il grimaldello capace di spalancare quegli spazi di libertà interiore, dove giacciono sepolte emozioni troppo spesso represse da chi vive in carcere". Questa è la molla che ha spinto Franco Mussida, storico chitarrista della Premiata Forneria Marconi, a lavorare sul progetto "CO2 controllare l’odio" attivo da ieri anche nel carcere "Lorusso e Cutugno". Il carcerato consulta un’audioteca scegliendo sul tablet il sentimento vissuto o quello che vorrebbe vivere: a ogni emoticon, le faccine che rappresentano le impressioni, corrisponde una selezione di brani esclusivamente strumentali, in grado di evocare un percorso emotivo. La musica, vero linguaggio universale, entra nel cuore delle persone e lo fa vibrare, evocando i sentimenti più buoni che in carcere, il più delle volte, sono soffocati. "Alla restrizione della libertà non si deve aggiungere il carcere interiore - spiega Mussida - la musica è eccellente educatrice, se gli si dà occasione e tempo per agire e in carcere di tempo ce n’è". Il progetto patrocinato dal ministero della Giustizia, è stato attuato col supporto di un team di psicologi dell’Università di Pisa: dopo tre anni di sperimentazione e i dati raccolti in diversi istituti di pena è stata dimostrata l’efficacia dell’ascolto della musica come strumento educativo. A oggi sono dodici le carceri attrezzate con le audioteche del progetto. "Gino Paoli anni fa, quando era presidente della Siae, mi chiese di pensare a un’iniziativa musicale da realizzarsi nel contesto carcerario perché sapeva che dal 1988 operavo a San Vittore con un laboratorio di sperimentazione sugli effetti del suono sulla struttura affettiva. Così attraverso la mia scuola di musica, il Cpm Music Institute di Milano, ho cercato di mettere a punto un progetto che fosse strumento educativo e motivazionale sia per i detenuti sia per chi lavora a stretto contatto con loro". A Torino ieri Giancarlo e Barbara, studenti del Cpm, hanno cantato e suonato e i reclusi che assistevano alla presentazione, italiani, magrebini, rumeni, hanno tirato su i cartelli con gli emoticon, liberando i loro sentimenti. "La soddisfazione più grande - conclude Mussida - è che queste persone possono evadere dal carcere dove vivono grazie alla musica: si affrancano dando il largo ai propri sentimenti". Bologna: Mika canta con i detenuti del Coro Papageno di Emanuela Giampaoli La Repubblica, 6 novembre 2016 Questa sera, 6 dicembre, su Rai 2, l’artista libanese dedicherà uno spazio al progetto voluto da Abbado. Il coro Papageno, il coro dei carcerati della Dozza, sarà tra i protagonisti dell’ultima puntata di Casa Mika. Domani sera, alle 21 su Rai 2, a fianco di ospiti celebri come Kylie Minogue, Antonella Clerici, Pierfrancesco Favino, Ornella Muti, Pupo e la poetessa Francesca Cavalli, si vedrà anche l’artista libanese esibirsi con i detenuti del carcere bolognese. In ognuna delle quattro puntate, Mika ha deciso infatti di dedicare uno spazio a realtà che operano nel sociale utilizzando la musica come strumento di aiuto e sostegno, l’ultima sarà quella con il Coro Papageno. Per raccontarla l’artista libanese è venuto a Bologna, per due volte è entrato dietro le sbarre e ha voluto conoscere da vicino la realtà voluta da Claudio Abbado cinque anni fa e oggi sostenuta dall’Associazione Mozart 14 della figlia Alessandra. Ha incontrato i coristi e le coriste detenute e i volontari e poi ha proposto loro di cantare insieme, sotto la guida del direttore, il Maestro Michele Napolitano. Il risultato è l’Ave Verum di Mozart, brano di notevole complessità che da sempre appartiene al repertorio del Coro Papageno, certo più lontano dallo stile di Mika, che si cimenta addirittura con una parte da tenore. Il Coro, dopo essersi esibito il 20 giugno in Senato per la Festa Europea della Musica e il 6 novembre in Vaticano per il Giubileo dei Carcerati, stavolta arriva nelle case di tutti noi. A fianco della popstar del momento. Ennesima dimostrazione del messaggio di Abbado secondo cui "la musica cambia la vita". No alla "riforma" bellicista. Il referendum che nessuno fa mai di Manlio Dinucci Il Manifesto, 6 novembre 2016 La maggioranza degli italiani, sfidando i poteri forti schierati con Renzi, ha sventato il suo piano di riforma costituzionale. Ma perché ciò possa aprire una nuova via al paese, occorre un altro fondamentale No: quello alla "riforma" bellicista che ha scardinato l’Articolo 11, uno dei pilastri basilari della nostra Costituzione. Le scelte economiche e politiche interne, tipo quelle del governo Renzi bocciate dalla maggioranza degli italiani, sono infatti indissolubilmente legate a quelle di politica estera e militare. Le une sono funzionali alle altre. Quando giustamente ci si propone di aumentare la spesa sociale, non si può ignorare che l’Italia brucia nella spesa militare 55 milioni di euro al giorno (cifra fornita dalla Nato, in realtà più alta). Quando giustamente si chiede che i cittadini abbiano voce nella politica interna, non si può ignorare che essi non hanno alcuna voce nella politica estera, che continua ad essere orientata verso la guerra. Mentre era in corso la campagna referendaria, è passato sotto quasi totale silenzio l’annuncio fatto agli inizi di novembre dall’ammiraglio Backer della U.S. Navy: "La stazione terrestre del Muos a Niscemi, che copre gran parte dell’Europa e dell’Africa, è operativa". Realizzata dalla General Dymanics - gigante Usa dell’industria bellica, con fatturato annuo di 30 miliardi di dollari - quella di Niscemi è una delle quattro stazioni terrestri Muos (le altre sono in Virginia, nelle Hawaii e in Australia). Tramite i satelliti della Lockheed Martin - altro gigante Usa dell’industria bellica con 45 miliardi di fatturato - il Muos collega alla rete di comando del Pentagono sottomarini e navi da guerra, cacciabombardieri e droni, veicoli militari e reparti terrestri in movimento, in qualsiasi parte del mondo si trovino. L’entrata in operatività della stazione Muos di Niscemi potenzia la funzione dell’Italia quale trampolino di lancio delle operazioni militari Usa/Nato verso Sud e verso Est, nel momento in cui gli Usa si preparano a installare sul nostro territorio le nuove bombe nucleari B61-12. Passato sotto quasi totale silenzio, durante la campagna referendaria, anche il "piano per la difesa europea" presentato da Federica Mogherini: esso prevede l’impiego di gruppi di battaglia, dispiegabili entro dieci giorni fino a 6 mila km dall’Europa. Il maggiore, di cui l’Italia è "nazione guida", ha effettuato, nella seconda metà di novembre, l’esercitazione "European Wind 2016" in provincia di Udine. Vi hanno partecipato 1500 soldati di Italia, Austria, Croazia, Slovenia e Ungheria, con un centinaio di mezzi blindati e molti elicotteri. Il gruppo di battaglia a guida italiana, di cui è stata certificata la piena capacità operativa, è pronto ad essere dispiegato già da gennaio in "aree di crisi" soprattutto nell’Europa orientale. A scanso di equivoci con Washington, la Mogherini ha precisato che ciò "non significa creare un esercito europeo, ma avere più cooperazione per una difesa più efficace in piena complementarietà con la Nato", in altre parole che la Ue vuole accrescere la sua forza militare restando sotto comando Usa nella Nato (di cui sono membri 22 dei 28 paesi dell’Unione). Intanto, il segretario generale della Nato Stoltenberg ringrazia il neo-eletto presidente Trump per "aver sollevato la questione della spesa per la difesa", precisando che "nonostante i progressi compiuti nella ripartizione del carico, c’è ancora molto da fare". In altre parole, i paesi europei della Nato dovranno addossarsi una spesa militare molto maggiore. I 55 milioni di euro, che paghiamo ogni giorno per il militare, presto aumenteranno. Ma su questo non c’è referendum. Il coraggio dei volontari che aiutano i migranti di Dacia Maraini Corriere della Sera, 6 novembre 2016 Le iniziative del centro Baobab di Roma sono un’altra prova tutta italiana di come i cittadini dimostrino più buon senso delle istituzioni. L’accoglienza non può mancare. È urgente e va fatta subito. Agli scarsi e contradittori progetti del Comune per risolvere la questione degli immigrati rispondono con coraggio e determinazione forze private: il volontariato che è la parte piu preziosa e stimabile dell’Italia, di cui si parla sempre troppo poco. Il centro Baobab Experience, per esempio, ha gestito finora ben 35.000 emigranti nella sede di via Cupa a Roma. Carola Susani, scrittrice che stimo e ammiro per il suo impegno, mi racconta la storia desolante di questo centro che ogni volta che ha attrezzato uno spazio per accogliere gli immigrati, aiutati da medici e avvocati sia italiani che stranieri(fra questi da ricordare e ringraziare i volontari della Medu, Medici per i diritti umani, i Medici senza frontiera, Save the Children e altre associazioni internazionali), sono stati sloggiati e mandati altrove. "Col freddo le famiglie, i bambini, hanno bisogno di tende. L’associazione le ha comprate e piantate per ospitare gli stranieri. Ma appena montate, sono state smontate e gettate via". Con quali argomenti? chiedo io. "Gli argomenti sono vari: dall’occupazione di suolo pubblico, a invasione di zone private, a disturbo di quiete pubblica e altro. Sembra incredibile", mi dice Andrea Costa coordinatore dei volontari, "noi sostituiamo servizi che non ci sono, dovrebbero essere contenti che forniamo sostegno psicologico, cure sanitarie, assistenza legale, vestiti e cibo a questa povera gente che non sa dove andare e dove stare, ma sembrano sordi e non capiamo perché". "Da settembre ad oggi il presidio ha subìto nove sgomberi", mi racconta Carola, "da via Cupa, dal Verano, da Piazzale Spadolini, da un Parcheggio abbandonato poco distante. Solo da pochi giorni il Comune ha messo provvisoriamente a disposizione degli immigrati il centro della Croce Rossa in via del Frantoio. Ma quanto potrà durare?". Le iniziative del Baobab sono un’altra prova tutta italiana di come i cittadini dimostrino più buon senso delle istituzioni. L’accoglienza non può mancare. È urgente e va fatta subito. Poi si penserà, se possibile, assieme all’Europa tutta, a cosa fare: o integrazione e lavoro, o ritorno ai loro Paesi, ma resi abitabili e vivibili. E per questo ci vogliono investimenti e forze unite. Ma dopo averle rapinate quelle terre, dovremo pur aiutare a renderle di nuovo produttive e pacifiche. Libia. Stavolta Sirte è caduta, l’Isis si arrende di Chiara Cruciati Il Manifesto, 6 novembre 2016 Le milizie di Misurata annunciano la ripresa della città costiera dopo quattro mesi di raid Usa. Il governo di unità spera di rafforzarsi ma nemmeno a Tripoli riesce a garantire la sicurezza: 8 morti in scontri tra milizie rivali. Sirte è caduta, stavolta sembra per davvero. Dopo mesi di annunci e smentite, le forze pro-governative impegnate nella città costiera libica hanno fatto sapere ieri di aver ripreso il controllo della comunità, strappata definitivamente allo Stato Islamico. Gli ultimi miliziani si sono arresi, dopo mesi di battaglia che ha ucciso oltre 700 pro-governativi e ne ha feriti 3mila. "Le nostre forze hanno il totale controllo di Sirte - ha detto il portavoce Reda Issa - Le nostre forze hanno assistito al collasso totale di Daesh". Con queste parole le milizie di Misurata (la potente brigata che nel 2011 ha partecipato alla caduta del colonnello Gheddafi per poi assumere il controllo di ampie porzioni di territorio macchiandosi di odiosi crimini) pongono fine ad una battaglia che solo nella sua ultima fase è durata quattro mesi. A differenza dei tentativi precedenti di controffensiva, lanciata per la prima volta il 12 maggio scorso, stavolta il governo di unità nazionale ha avuto il sostegno diretto dell’aviazione Usa: con una mossa a sorpresa il primo agosto il presidente Obama ha annunciato il lancio di un intervento aereo a favore dei misuratini, assunti dal governo del premier al-Sarraj. Quasi 500 raid aerei che per mesi non hanno condotto a granché: i miliziani islamisti, circa 3mila dopo la fuga di altrettanti verso il sud del paese, erano riusciti ad arroccarsi in due quartieri vicino al porto, una cinquantina di edifici quasi inespugnabili. Le forze libiche lamentavano infatti l’impossibilità ad avanzare a causa dell’uso di cecchini e kamikaze da parte islamista. Di certo, però, quattro mesi rappresentano un tempo considerevole per l’aviazione più potente al mondo che nei giorni scorsi, tramite il Pentagono, parlava di strenua resistenza opposta dall’Isis nella città natale di Gheddafi, ponte tra Tripoli e Bengasi, tra la Tripolitania di al-Sarraj e la Cirenaica del generale Haftar. Ora resta da vedere come l’Isis reagirà alla sconfitta. Nei mesi scorsi le ritirate obbligate tra Siria e Iraq a causa della perdita di territori occupati nei due anni e mezzo precedenti hanno spinto molti leader e miliziani islamisti a riparare in Libia dove però non hanno potuto appropriarsi delle stesse risorse espropriate in Medio Oriente. Lì avevano trovato nei pozzi di petrolio, le banche e le basi militari una ricchezza - denaro e armi - che insieme alle donazioni generose provenienti dal Golfo hanno permesso un’avanzata repentina e strutturata. In Libia l’Isis non ha avuto la stessa base di partenza, riuscendo comunque a creare cellule a Tripoli, Derna, Bengasi, al-Khums e soprattutto a Sirte, da dove - una volta sotto assedio - buona parte dei miliziani è fuggita per riparare nella regione sud del Fezzan, al confine con Ciad e Niger: nuove cellule si sono formate, nell’obiettivo di sfruttare l’assenza dello Stato e i profittevoli traffici di armi e uomini dall’Africa sub-sahariana. Ieri è giunto l’annuncio tanto atteso che il governo di unità spera rappresenti un’iniezione di fiducia nei propri confronti da parte di un popolo diviso e disilluso. I libici non hanno mai espresso particolare consenso al premier al-Sarraj, scelto dall’Onu e privo del sostegno di molti attori non statali, a partire da numerose milizie e tribù e del governo ribelle e parallelo di Tobruk e di Haftar. Ma neppure a Tripoli la situazione è sotto il controllo del governo di unità: si sono riaccese nei giorni scorsi le rivalità tra milizie rivali che da venerdì hanno ucciso almeno otto persone e ne hanno ferite più di 20. Gli scontri sono esplosi tra i salafiti del gruppo Rada, appoggiati dalla Tripoli Revolutionary Brigate, attiva dal 2011, e da milizie islamiste provenienti da Misurata. Venezuela: italiano condannato a 6 anni di carcere per contrabbando di passeri di Roberto Damiani Il Resto del Carlino, 6 novembre 2016 Il telefono fa due squilli. Sono le 10 dell’altro ieri mattina, le 5 a Caracas, Venezuela. Risponde all’apparecchio una voce italiana: "Pronto, sono Luigi". Non è un emigrante. È un detenuto. Si chiama Luigi Federici, 67 anni, pesarese, sposato, pensionato, nonno, appassionato allevatore di uccelli. È rinchiuso in un carcere venezuelano per contrabbando di passeri, razza Tangara. L’altro ieri è finito il processo a suo carico: è stato condannato a sei anni di carcere, a parer loro il minimo della pena. Sta scrivendo un libro per non impazzire. Ha già il titolo: "Vado e torno", ma quando lo dice al telefono comincia a piangere. A proposito: può fare e ricevere telefonate. È il distinguo tra un detenuto criminale e una persona sfortunata. Luigi era volato l’anno scorso in America latina dove ci sono milioni di esemplari di passeri Tangara, mentre in Europa non se ne trova nemmeno uno. Ha preso un taxi e si è inoltrato nelle campagne di Caracas, fermandosi a comprare 57 esemplari, tra cui molte coppie per la riproduzione e la vendita. Arrivato all’aeroporto per rientrare in Europa con un volo diretto Caracas-Madrid, lo hanno fermato e arrestato seduta stante accusandolo di associazione a delinquere, maltrattamenti di animali, tentato contrabbando di razze protette. Ha provato a spiegare di averli comprati in un negozietto ma non avendo la ricevuta non ha potuto dimostrarlo. Gli uccelli sono stati rimessi in libertà mentre Luigi è stato prima incatenato ad un termosifone dell’aeroporto rimanendoci due giorni e poi portato in carcere. Che non è proprio una classica struttura carceraria ma una caserma che ospita temporaneamente delle persone in attesa di giudizio o già condannati per reati non gravi. Al telefono Luigi non sa che parole trovare ma il concetto è chiaro: "Se non mi aiuta la politica - dice - io qui dentro ci rimango per sempre. Mi hanno condannato a sei anni di carcere peggio di un criminale che rapina le persone. Il Consolato mi ha aiutato molto e li ringrazio. Ora dobbiamo aspettare quindici giorni per le motivazioni della sentenza e poi vedremo cosa fare". "Io intanto - dice Luigi - chiedo attraverso il Carlino che la politica, il sindaco Ricci, i deputati, il presidente Renzi di non abbandonarmi qui. Io sto pagando per la mia coerenza. Non ho accettato strane proposte che mi hanno fatto dei personaggi prima e durante il processo. Io non do soldi per tornare a casa. Riconosco il mio errore di aver acquistato questi uccellini in un negozio non regolare, ma non ho ammazzato nessuno. Neppure un uccellino. Qui gli omicidi sono all’ordine del giorno, sporcizia, criminalità ovunque, disoccupazione, il cibo è razionato, manca zucchero e caffè. Ci svegliano ogni mattina alle 2.30, doccia, poi colazione con un pezzo di pane. E poi seduto in una stanza. Dopo 15 mesi che sono chiuso qui dentro sto perdendo la speranza. Vi chiedo di aiutarmi, non ho altre parole da spendere. C’è anche il rischio che possano trasferirmi in un carcere più grande, dove può succedere di tutto. Ma ci sono anche piccole gioie. Durante il processo, un mio ex compagno di detenzione russo, che è tornato in libertà, mi ha portato in aula una zuppa di pesce. L’ho mangiata di gusto. La vita per qualche minuto mi è sembrata anche bella".