Carceri italiane, pene e misure alternative di Tania Careddu altrenotizie.org, 5 dicembre 2016 Una pena umana, in grado di rieducare. A questo, tra l’altro sancito dal dettato costituzionale, dovrebbe puntare il sistema penitenziario italiano. Che, invece, è ancora legato a una vecchia, dell’epoca fascista, concezione del carcere. Punitivo e marginalizzante. Rendere inoffensivi i criminali, certo, ma reinserirli nella società è meno scontato. Con il risultato, oltre che affatto etico, di produrre recidivi dal costo sociale ed economico - mantenimento di forza lavoro inattiva e spese giudiziarie - non trascurabile. E se un detenuto, scontata la pena e tornato in libertà, ricomincia a delinquere, come spesso succede a chi passa direttamente dal carcere alla vita civile, significa che il sistema penitenziario è incapace. Oltre che di contenere - vedi il sovraffollamento e i suicidi - pure di rieducare. Prova ne sia il dato che l’Italia resti l’unico grande paese europeo dove oltre la metà dei condannati sconta la pena in carcere senza valutare il ricorso alle pene alternative. Le quali, invece, imponendo di lavorare per ripagare il danno inflitto, facilitano il (graduale) reinserimento nella società e contengono le recidive tanto che, secondo vecchi dati, il tasso di queste era pari al 68 per cento tra i detenuti contro il 19 per cento di chi aveva scontato la pena nei servizi sociali. Però i detenuti che hanno un’occupazione stabile (lavoranti, in gergo penitenziario, maggiormente occupati nelle produzioni e riparazioni di capi di abbigliamento, nelle falegnamerie, nei panifici e nei call center) sono una minoranza e sono, oltretutto, diminuiti tra i primi anni novanta e il 2012 - annus horribilis, in cui meno di un detenuto su cinque svolgeva un lavoro - e solo quattro su cento frequentano corsi di formazione professionale, la cui partecipazione è, anch’essa, scesa ulteriormente dagli inizi degli anni novanta, dimezzandosi. Il budget, secondo quanto riportato nel mini-dossier Dentro o fuori, redatto da Openpolis, destinato alle misure alternative è pari a circa il 5 per cento delle risorse dell’amministrazione penitenziaria anche se, rispetto al 2011, sono aumentati del 29 per cento l’affidamento in prova ai servizi sociali, fuori dagli istituti di pena, del 20 per cento la detenzione domiciliare e aumentano, in misura consistente, i condannati ai lavori di pubblica utilità. Misura che, dal 2014, avendo il legislatore italiano mutuato dai sistemi penali occidentali, l’istituto della messa alla prova, viene utilizzata solo per le violazioni del codice della strada, nel 94 per cento dei casi, o per reati minori e non come reale alternativa al carcere per altri reati. Non è da escludere che il nostro attempato sistema dimostri più resistenze a formare (e a riformarsi) per una caratteristica strutturale: il personale non ha una formazione eterogenea e i suoi dipendenti sono in massima parte agenti di custodia; carente, quindi, la presenza di insegnanti, educatori, mediatori culturali e psicologi. Confermato il persistente orientamento del sistema penitenziario italiano: anche nel 2016, isolare i cinquantaquattro mila detenuti delle cento novantatré carceri nostrane. Che efferato delitto. Bambini senza barriere di Gian Luca Pasini Gazzetta dello Sport, 5 dicembre 2016 Un match di calcio per sostenere la Campagna sui diritti dei bambini figli di detenuti: grazie alla collaborazione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Bambinisenzasbarre organizza la seconda edizione della partita di calcio negli istituti di reclusione su tutto il territorio nazionale. I detenuti con e senza figli si sfidano per dare voce e visibilità ai bambini - oltre 100 mila ogni anno in Italia - che hanno un genitore recluso, per sensibilizzare istituzioni, sistema carcerario, Media e opinione pubblica affinché non vengano emarginati solo perché figli di detenuti. L’adesione è altissima: si gioca a Dicembre in tutte le regioni italiane. I calciatori scenderanno in campo con la maglietta di Bambinisenzasbarre, azzurra e gialla come i colori dell’associazione e con la scritta "I diritti dei grandi iniziano dai diritti dei bambini". Le famiglie potranno assistere alle partite, e i bambini tifare per il loro papà in campo. In totale si giocherà in circa 30 istituti penitenziari, a partecipare saranno oltre 400 persone detenute. L’iniziativa ha come obiettivo l’apertura del carcere al territorio e alla comunità: per questo anche gli istituti che non hanno a disposizione un campo da calcio parteciperanno con creatività. Nella casa circondariale di Ravenna, ad esempio, si giocherà a ping pong, a Novara a calcio balilla, mentre a Civitavecchia le squadre si sfideranno a pallavolo. A Benevento i detenuti calciatori potranno eleggere i propri presidenti e allenatori tra i compagni. La "Partita di calcio Bambinisenzasbarre" fa parte delle iniziative all’interno della Campagna nazionale di sensibilizzazione "Non un mio crimine, ma una mia condanna. I diritti dei grandi iniziano dai diritti dei bambini", per promuovere dal 20 Novembre al 20 Dicembre la "Carta dei figli dei detenuti" rinnovata lo scorso settembre dal ministro Orlando, dalla Garante dell’Infanzia Albano e da Bambinisenzasbarre e per portare all’attenzione il tema dei 100mila bambini che entrano ogni giorno ogni anno in carcere per mantenere il legame con i propri genitori, e che oggi vedono riconosciuti i propri bisogni trasformati in diritti. L’esperienza della Carta dei figli dei detenuti ha portato l’Italia a essere capofila a livello internazionale. L’Intergruppo del Parlamento Europeo per i diritti dell’infanzia ha deciso di proporre formalmente che la Carta dei figli dei detenuti italiana sia adottata da tutti i Paesi dell’Unione Europea. In queste settimane i deputati del Parlamento Europeo stanno raccogliendo le firme necessarie alla Dichiarazione Scritta n.84, per avviare l’iter di adozione della Carta italiana. Passaggio cruciale è la presentazione, il prossimo 30 novembre a Bruxelles, della Carta ai deputati europei da parte di Bambinisenzasbarre e dal Ministero di Giustizia del nostro Paese. La dead-line per raggiungere il quorum delle adesioni è il 12 dicembre. Anche la rete Cope (Children of Prisoners Europe), costituita da 21 Ong di altrettanti Paesi (Bambinisenzasbarre fa parte del board), ha chiesto, attraverso i suoi membri, che i rispettivi governi adottino una Carta simile a quella italiana. Per sostenere le attività di Bambinisenzasbarre è possibile donare visitando il sito dell’Associazione (bambinisenzasbarre.org) o scaricare l’app Satispay. Giustizia. Cresce lo stanziamento per il risarcimento da trattamento disumano in carcere di Claudia Morelli Italia Oggi, 5 dicembre 2016 Sul piatto 8 miliardi. Ridotte invece le risorse per i risarcimenti da equa riparazione per i processi lumaca. Insufficienti le risorse complessive destinate all’amministrazione penitenziaria minorile. La lettura degli stanziamenti nel bilancio 2017 alla voce Giustizia aiuta a comprendere, più di tante parole, obiettivi e missioni che il ministero della giustizia ha deciso di darsi. A fare il punto su ogni voce del bilancio di Via Arenula, evidenziando quelle in attivo e quelle in perdita rispetto al consuntivo 2016, è stato il servizio studi della Camera dei deputati. Per i contenuti relativi alla parte normativa della legge di bilancio si veda Italia Oggi del 29 novembre. In linea generale, la giustizia potrà contare su uno stanziamento complessivo di quasi 8 miliardi (16 milioni in più rispetto all’assestamento 2016). È la cifra "standard" a cui l’amministrazione si è dovuta abituare da qualche anno. Dal 2006 in poi, in particolare, le risorse per la giustizia sono scese dall’1,7% all’1,3% rispetto al bilancio complessivo dello Stato. C’è da dire comunque che il bilancio giustizia ha perso anche alcune voci, che sono rientrate nella competenza del ministero dell’economia. Come gli stanziamenti per la giustizia tributaria (193 milioni) e amministrativa (173). Anche le risorse per l’autogoverno della magistratura (34,4 milioni di euro per il Csm) saranno a carico del Mef. Vale la pena di segnalare alcuni passaggi, in particolare: la missione giustizia assorbe la quasi totalità delle risorse (7.806,1 milioni di euro; +136,3 milioni di euro) interessando il "core business" dell’amministrazione giudiziaria. Lo stanziamento per il programma amministrazione penitenziaria è pari a 2 miliardi 665 milioni di euro. A parte le spese necessitate riguardanti il personale, la camera segnala che la previsione di spese per il mantenimento, l’assistenza e la rieducazione dei detenuti (91,2 milioni di euro) è inferiore di circa 1 milione rispetto al bilancio assestato 2016; aumenta al contrario (da 76 a 100 milioni) la previsione di spese per compensi ai detenuti lavoranti e per il trasporto, ma non è chiarito se l’aumento effettivo riguardi la prima o la seconda voce. Aumentano le somme per far fronte ai ricorsi proposti dai detenuti per violazione dell’art. 3 Cedu (che proibisce la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante e che è stato alla base della sentenza Torreggiani nella quale l’Italia venne condannata per la situazione delle carceri): 6 milioni di euro (5,4 milioni previsti dall’assestamento 2016). La voce degli investimenti viene de-finanziata per 2,1 milioni di euro (11,7 milioni lo stanziamento) anche in considerazione del fatto che gli interventi relativi al c.d. piano carceri sono stati trasferiti alla competenza del Ministero delle infrastrutture. Il programma Giustizia civile e penale assorbe 3 miliardi 861 milioni di euro: spuntate le spese per il personale amministrativo e di magistratura, 81 milioni di euro saranno spesi per il Processo telematico (72,6 milioni la cifra assestata 2016): 10,9 per il Pct; 10 per il penale; 8,1 per la infrastruttura. Cresce a 50 milioni lo stanziamento per il sistema informativo. 7,5 milioni saranno spesi per favorire lo smaltimento dell’arretrato attraverso incentivi al personale. Consistente aumento dello stanziamento per investimenti negli immobili giudiziari: 19,8 milioni di euro, in aumento (+9,5 mln) rispetto all’assestamento 2016. Per quanto riguarda il programma Giustizia minorile, il ministero suona un campanello d’allarme ritenendo già insufficienti le somme iscritte a bilancio (151 milioni) sia per il mantenimento dei detenuti sia per garantire la esecuzione penale esterna (3,9 milioni di euro) già richiedendo "una integrazione straordinaria in corso di esercizio". Il nuovo programma Servizi di gestione amministrativa per l’attività giudiziaria assorbe tutte quelle spese necessarie al funzionamento della giurisdizione e comprende anche le voci per il contenzioso per la tutela dei diritti umani e per le intercettazioni. Per la equa riparazione dei danni subiti in caso di violazione del termine ragionevole del processo sono stanziati 172,4 milioni di euro (in lieve diminuzione rispetto ai 177,7 mln del bilancio 2016) ai quali si aggiungono quelli contenuti nello stato di previsione del ministero dell’economia, pari a 40 milioni di euro; 230 milioni di euro sono previsti per la spesa per intercettazioni (erano 205,7 mln nel bilancio assestato 2016). Nella nota integrativa viene riferito che per le intercettazioni è "stata richiesta una integrazione in termini di competenza e cassa di 20 milioni di euro necessaria ad adeguare la dotazione di bilancio al fabbisogno espresso dagli uffici". Sono previsti inoltre 500 mila euro per il fondo di solidarietà a tutela del coniuge in stato di bisogno istituito dalla scorsa legge di stabilità. Infine 31 milioni di euro sono appannaggio del gabinetto del ministro, mentre altri 93 milioni del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria. Giustizia e tecnologia, l’Italia sul podio in Europa di Marzia Paolucci Italia Oggi, 5 dicembre 2016 Nella classifica dei punteggi ottenuti dagli stati membri del Consiglio d’Europa sul livello globale di sviluppo dell’information technology (It) tra i suoi uffici giudiziari, l’Italia insieme a Francia, Svezia, Monaco e Svizzera, si guadagna un buon sette. Un punto in più dell’Irlanda e uno in meno della Lettonia a quota otto con Estonia, Finlandia, Spagna, Slovenia, Macedonia, Turchia e Israele, sopra svettano solo i nove di Austria e Germania. Sono i punteggi del report elaborato dalla Cepej, la commissione per la valutazione dell’efficienza degli uffici giudiziari degli stati membri del Consiglio d’Europa, sull’Information technology e sul suo uso negli uffici giudiziari dei 46 paesi membri del Consiglio d’Europa. È durato un anno il lavoro della commissione che ha portato all’adozione del rapporto da parte della Cepej nell’assemblea plenaria di Strasburgo del 30 giugno e 1° luglio 2016 di cui entro la fi ne dell’anno si attende la pubblicazione delle linee guida sull’uso dell’It da parte del gruppo di lavoro sulla qualità della giustizia. Il metodo. Entro il mese di maggio ogni paese è stato a chiamato a rispondere sulla base di un set tematico predefinito dalla commissione: assistenza diretta a giudici, pubblici ministeri e amministrativi, amministrazione e management dell’ufficio, comunicazione interna tra gli uffici e gli operatori professionali ed esterna al cittadino e altri aspetti come l’organizzazione e l’amministrazione dei sistemi informativi e di sicurezza insieme protezione dei dati personali. Quindi, le risposte arrivate sono state distribuite in cinque grandi aree: dotazione It, strategia e nuova area di analisi, inquadramento legale per l’uso dell’It, livello di investimenti del paese in strumenti per migliorarne l’efficienza e la qualità. Sulla base delle risposte arrivate con l’unica eccezione di Liechtenstein e San Marino, la Cepej ha così elaborato degli indici di sviluppo relativi alle tematiche emergenti dalle risposte di ognuno dei paesi rispondenti. "Indici che, spiega il rapporto, non sono dei rating ma misurazioni delle rispettive dotazioni, sviluppo e uso dell’It paese per paese. Ogni risposta è stata classificata con un indice da 0 a 4. Il dato italiano. Due in dotazioni e inquadramento legale segno di uno "sviluppo in progress" e tre in capacità organizzativa, altrimenti definita governance. Sono le tre voci che hanno permesso all’Italia di raggiungere la media del sette in livello di sviluppo dell’It. Il nostro è un livello alto di dotazioni informatiche ma non investiamo proporzionalmente nell’informatizzazione visto che spendiamo 1,3 euro o meno per cittadino. Segno questo che la dotazione It può non essere collegata e con il livello di investimento finanziario e con il livello del pil a una certa data. Oltretutto, a fronte di paesi paper-less come la Francia, noi, invece, insieme ad altri cinque stati, continuiamo a mantenere accanto alla copia digitale di un atto processuale anche quella cartacea. Conclusioni. Il mondo dell’It ha reso possibile il miglioramento dell’efficienza e della qualità dei sistemi giudiziari. Resta comunque il fatto, spiega il rapporto, che "non ci sono collegamenti diretti tra il mondo dell’It e i buoni risultati riflessi in indicatori di efficienza rappresentati dal rapporto tra procedimenti definiti e procedimenti sopravvenuti, clearance rate, e dal tempo a disposizione. La considerazione di altri fattori aggiuntivi può aiutare a spiegare le tendenze osservate: quando l’informatizzazione non è associata a una specifica organizzazione appare meno efficiente anche se va detto che gli stati con un indice It altamente sviluppato non sono necessariamente i più efficienti. Indice, questo, che invece di essere un mero strumento nelle mani degli uffici, ha bisogno di una sua integrazione in un processo organizzativo a performances che accoppiato a una politica di cambiamento del management che coinvolga tutti gli interessati, potrebbe essere un fattore di successo. L’It, conclude il rapporto, è essenziale ma non è la sola chiave verso il miglioramento delle performance". Intercettazioni: quelle "invadenze indebite" ma utili di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 5 dicembre 2016 Il 22 settembre la Cassazione ha riformato la sentenza della Corte d’Appello di Roma che assolveva De Magistris e Genchi per l’acquisizione indebita di tabulati telefonici di parlamentari. Il 22 novembre sono state depositate le motivazioni; del tutto corrette poiché in linea con la sentenza 390/2007 della Corte Costituzionale. Il percorso logico è assolutamente lineare. L’art. 4 della legge 140/2003 impone la previa autorizzazione della Camera di appartenenza per l’acquisizione di tabulati relativi a comunicazioni telefoniche riferibili a parlamentari. Alla luce delle indagini compiute, era già noto che i tabulati di cui si chiedeva l’acquisizione erano riferibili a parlamentari; e tuttavia l’autorizzazione non era stata richiesta; dunque l’acquisizione era illegale. Come si vede, tutto ruota intorno al concetto di "riferibilità" che - secondo la Corte Costituzionale - non si riferisce solo alle utenze del parlamentare ma alle sue comunicazioni: dunque "quello che conta non è la titolarità o la disponibilità dell’utenza captata ma la direzione dell’atto d’indagine". Sicché, se questo è volto in concreto ad accedere alla sfera delle comunicazioni del parlamentare, l’intercettazione non autorizzata è illegittima, "a prescindere dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che le utenze sottoposte a controllo appartengano a terzi". fin qui, si tratta di argomentazioni strettamente collegate al caso concreto; e - come detto - ineccepibili. Più avanti però la Cassazione fa riferimento ad altri passaggi della sentenza costituzionale 390: ciò che importa non è "la tutela della riservatezza delle comunicazioni del parlamentare in quanto persona fisica ma la tutela del libero esercizio della funzione del parlamentare… destinatari della tutela non sono i parlamentari ma le Assemblee nel loro complesso. Di esse si intende preservare la funzionalità, l’integrità di composizione (nel caso di misure in materia di libertà) e la piena autonomia decisionale rispetto ad indebite invadenze del potere giudiziario finalizzate ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell’attività". Può stupire che il nostro massimo organo giurisdizionale consideri "indebite invadenze del potere giudiziario" eventualità concrete, tali da giustificare una specifica tutela delle nostre Istituzioni democratiche. Simile valutazione ha avuto senso (e lo ha tuttora) in Paesi dove il potere politico controlla la Giustizia e dunque la Magistratura. Così avveniva ai tempi della Magna Charta, nel 1215; così avviene oggi nella Turchia di Erdogan, dove proprio il premier ha proposto l’abolizione dell’immunità parlamentare; e in Russia, dove il Governo vuole abrogare l’immunità contro l’unico parlamentare che ha votato contro l’annessione della Crimea, e in Romania; e in Ucraina dove l’Unione Europea prima ne ha chiesto l’abolizione e poi - valutate le probabili conseguenze sul piano politico e democratico - ci ha rinunciato (The Economist, 15 giugno). Ma in Italia la separazione dei Poteri è un fatto; e l’indipendenza della Magistratura dal potere esecutivo è certa (non fosse altro perché ogni partito accusa l’altro di utilizzarla a suo danno). Le "indebite invadenze", quando ci sono state (e ci saranno) costituiscono semplicemente reati, occasionali e rari. Per contro, la diffusa corruzione (l’Italia è al penultimo posto nella classifica europea secondo Transparency International) rende necessario garantire alla Magistratura la piena disponibilità dei mezzi di ricerca delle prove, quali appunto intercettazioni e acquisizione di tabulati. La storia di Flavia, attivista per i diritti degli avvocati precari di barbara d’amico La Stampa, 5 dicembre 2016 "Illustri esponenti della politica Italiana [...] sono Flavia di Pietro, dottoressa in Giurisprudenza e specializzata in diritto penale d’impresa e fondamentalmente ancora inoccupata, come tanti molti troppi colleghi, in quest’Italia che dà poco spazio a noi giovani". Inizia così la lettera aperta che Flavia, siciliana classe 1987, sta rivolgendo alle istituzioni per denunciare la condizione dei giovani avvocati e praticanti: una categoria diventata ormai precaria e che oggi nella Penisola ha bisogno di difendere il proprio stesso diritto allo studio e all’esercizio della professione. Un paradosso per quella che un tempo era considerata la laurea forte tra le lauree forti del sistema accademico italiano. Da asso vincente, oggi Giurisprudenza assomiglia più a un due di picche per molti trentenni. Come Flavia, consulente legale di giorno e attivista per i diritti della sua categoria di sera. La sua voce, al telefono, è appassionata e carica di senso di giustizia nel denunciare la condizione dei suoi colleghi. "Ho deciso di fare qualcosa, ho scritto al Ministero di Giustizia che conosce la nostra situazione, inoltre viaggio spesso tra Catania e Roma per confrontarmi con gli altri comitati attivi e in generale con chi lavora o fa il praticantato in uno stato di totale precariato e, mi creda, siamo tantissimi". La giovane siciliana fa parte del direttivo del Comitato No Riforma Forense, gruppo informale nato per contrastare l’applicazione della legge 247 del 2012, normativa che regola il nuovo meccanismo di abilitazione e il praticantato dei giovani aspiranti avvocati. La legge doveva riordinare i criteri di accesso all’attività forense, scoraggiando dall’ottenere il titolo chi in realtà non vuol fare davvero l’avvocato - per garantire così lavoro - e mettendo un freno allo sfruttamento dei praticanti negli studi legali. Giovani dai 25 anni in su raramente rimborsati e ciononostante investiti di responsabilità al di là delle loro competenze e risorse. "La riforma non ha cambiato nulla: non solo continuiamo a non ricevere rimborsi ma dobbiamo anticipare le spese per le marche da bollo, la cancelleria. Definirlo tirocinio è scorretto e sbagliato, i giovani praticanti sono lavoratori a tutti gli effetti", denuncia Flavia. Dal 2012, insomma, la situazione è peggiorata: le nuove regole non hanno impedito che sempre più professionisti tra i 35 e i 40 anni lamentassero crescenti difficoltà nel svolgere la professione. Secondo i dati della Cassa Nazionale della Previdenza Forense pubblicati a settembre, tra il 2014 e il 2015 l’albo si è arricchito di 50 mila nuovi iscritti e tutti con un reddito che non arriva a 10 mila 300 euro l’anno. In tutto in Italia ci sono 235 mila avvocati (dati 31 dicembre 2015) e il reddito medio dichiarato lo scorso anno non supera i 37 mila euro contro i 51 mila del periodo pre-crisi (2007). "Sono della provincia di Siracusa e ho scelto questo percorso perché ho sempre avuto la passione per Giurisprudenza. Ma nonostante gli studi alla Luiss e un master in specializzazione in diritto penale d’impresa ho dovuto pagarmi da sola tutto il praticantato senza mai ricevere soldi né rimborsi spesa", spiega Flavia che, proprio conoscendo la condizione del mercato del lavoro ha deciso di diventare consulente legale per la responsabilità delle aziende. "Si tratta di una specializzazione che permette di prevenire la commissione di reati da parte delle società, spesso ignare dei protocolli o dei casi di responsabilità in cui possono incorrere - racconta - Sono capace di redigere un modello organizzativo e un codice disciplinare che tuteli i lavoratori e gli enti ma ho dovuto pagare tutto di tasca mia per specializzarmi in questo campo. Se andassi all’estero lavorerei tranquillamente, qui invece faccio fatica ma non voglio mollare". Flavia spiega anche di aver pagato 3 mila euro per sostenere l’esame da avvocato. "Tra codici e corsi propedeutici quella è la cifra standard e invece dovrebbe essere l’Università a prepararci per l’esame. Molti credono che studiare in una Università privata come ho fatto io renda privilegiati, invece non c’è nessuna differenza ormai tra pubblica e privata: la preparazione impartita è obsoleta e l’abilitazione è diventata una guerra tra poveri". Tra le richieste che i giovani avvocati chiedono tramite il Comitato No Riforma c’è quella della retribuzione fissa durante il praticantato post laurea. Ma se la legge è già in vigore e il compenso non è previsto, su cosa è ancora possibile incidere con l’attivismo e le petizioni? "Possiamo intervenire ancora sui decreti attuativi, quelli che di fatto daranno applicazione alla riforma e che non sono ancora stati emanati - spiega Flavia - Sono d’accordo sul mettere Giurisprudenza a numero chiuso ma occorre allora cambiare i criteri di accesso all’abilitazione: il nostro esame è paragonato a quello di chi diventa magistrato con la differenza che noi non percepiamo uno stipendio statale". Flavia e i suoi colleghi chiedono anche di modificare il linguaggio della riforma. "Nella legge c’è un passaggio in cui il praticantato viene definito addestramento, nemmeno fossimo degli animali, quando invece è opportuno parlare di formazione". Su Change.org, la petizione lanciata dal gruppo per chiedere di rivedere la normativa ha raggiunto 8 mila 700 firme: un numero consistente eppure ancora limitato rispetto alle migliaia di giovani aspiranti giuristi e avvocati beffati da uno strano destino. Quello di chi conosce i propri diritti ma non può più contare su "[...]strumenti, né regole efficaci, per farli rispettare". Ecco l’Italia che ha detto No: gli invisibili che non credono più ai leader di Mattia Feltri La Stampa, 5 dicembre 2016 È stato un voto anti-establishment, ha vinto la gente che non si fida più. Sarà difficile per qualunque leader trasformare la protesta in consenso. La vittoria c’è ma i vittoriosi dove sono? Li si è cercati per tutto il giorno a Roma, e per il semplice gusto della conferma: non li si sarebbe trovati. Non fino a notte, in nessuna piazza, non c’era una sede di comitato o di partito, non c’erano luoghi di fermento al Testaccio o alla Garbatella né tantomeno in centro, già festival di luminarie ed esultanze per il derby che uscivano dalle birrerie. E invece - e non è nemmeno un paradosso - di sconfitti se ne trovavano, qua e là, dentro le loro trincee novecentesche, le stanze del Partito democratico al Nazareno, quelle del Comitato per il Sì a piazza Santi Apostoli, dove erano stati costruiti il successo e la breve vita dell’Unione di Romano Prodi; posti di attesa classica, dove a sera sarebbero arrivati i leader per i commenti all’impiedi a beneficio di questa o quella emittente televisiva, e il distacco è lì che appare in tutta evidenza. È una rivoluzione - piccola o grande lo dirà il tempo - senza manifestazioni oceaniche, senza popolo dietro a capopopolo, senza casematte attorno a cui radunarsi: e quanto aveva ragione Beppe Grillo quando anni fa, all’inizio dell’avventura a cinque stelle, lo chiamavano a casa cercando il segretario del Movimento e lui gli passava il figlioletto Ciro. È la sostanza stessa che non è richiesta: ieri Roma e il resto d’Italia sono state percorse e scosse dal complotto delle matite, sequel del complotto delle lavatrici denunciato dal sindaco Virginia Raggi, e di tanti altri complotti delle banche, delle lobby, della finanza, della Nasa, di grandi mostri calati sulle nostre teste ad avvelenare i pozzi. Le notizie infatti ci spingevano verso Castelnuovo di Porto, dove si tiene lo spoglio dei voti degli italiani all’estero, e dove quelli del Comitato per il No erano rimasti fuori, intanto che all’interno - spiegavano - si stavano consumando irregolarità fino al broglio; e poi alla scuola Garrone di Ostia, dove un insegnante denunciava, centesimo o millesimo di giornata, la truffa delle matite copiative, i cui segni su un foglio bianco venivano via con una gomma. E non c’era verso di spiegare che le matite copiative funzionano indelebilmente soltanto sulla carta delle schede elettorali. Erano piccoli epicentri della grande rivolta dove, quando li si raggiungeva, non c’era più niente perché intanto si erano spostati in un altro seggio, o in un altra città. E l’imprevedibile ed effimero leader di giornata è diventato Piero Pelù, il cantante dei Litfiba che ai tempi d’oro cantava "dittatura e religione / fanno l’orgia sul balcone". Perfetto inno per i sentimenti di oggi: il post su Facebook di Piero Pelù sulla frode di Stato ha avuto 62 mila like, 10 mila commenti, più di 100 mila condivisioni, e quella è stata l’unica vera grande manifestazione fisica del popolo degli infuriati, diretto ai seggi armato di gomma e foglietto bianco per verificare che anche il loro voto fosse falsificabile dalla planetaria associazione per delinquere. Inutile farci sopra dell’ironia. Ha vinto la gente, il mare di gente che non si fida più, molto ben disposta verso l’inverosimile e diffidente verso il verosimile, per intima ed esasperante convinzione che là fuori c’è qualcuno che lavora alla sua infelicità, perché manca il lavoro, perché si indeboliscono le garanzie, per invidia sociale, perché l’investimento in banca è andato storto, perché ci sono i poteri forti, perché c’è l’Europa, perché c’è una classe dirigente che in quanto tale campa sulla pelle delle periferie, fisiche o esistenziali. Ognuno è partecipe di quella massa per una ragione diversa, e col minimo comune denominatore del rifiuto feroce dell’establishment farabutto, una condizione che non riguarda soltanto l’Italia, come raccontano di recente la Brexit e Donald Trump. La spallata del popolo della rivolta di Maurizio Molinari La Stampa, 5 dicembre 2016 Con un’affluenza massiccia e una percentuale schiacciante di "No" l’elettorato ha svelato l’esistenza nel nostro Paese di un popolo della rivolta che ha bocciato la riforma della Costituzione, il presidente del Consiglio e l’establishment di governo. Il quesito referendario ha coagulato attorno a sé il movimento di protesta che si era già manifestato in occasione delle elezioni amministrative ed ora si presenta maggioritario nel Paese. Tentare di ridurre tale espressione di scontento collettivo - presente in ogni area geografica - a sostegno di questa o quella forza politica sarebbe l’errore più grande. A votare "No" sono state le famiglie del ceto medio disagiato, impoverito dalla crisi economica, senza speranze di prosperità e benessere per figli e nipoti. Sono stati i giovani senza lavoro, gli operai che si sentono minacciati dai migranti e gli stipendiati a cui le entrate non bastano più. È un popolo della rivolta espressione dello stesso disagio che in Gran Bretagna ha prodotto la Brexit, negli Stati Uniti ha portato alla Casa Bianca Donald J. Trump ed ora coglie un successo nell’Europa continentale che fa cadere il governo di uno Stato fondatore dell’Ue. Le dimissioni di Matteo Renzi e del suo esecutivo evidenziano la necessità da parte dei successori di dare in fretta risposte chiare alle crisi all’origine della protesta del ceto medio. Serve un nuovo welfare per le famiglie in difficoltà, una ricetta per rimettere in moto la crescita ed una formula per integrare i migranti: più tarderanno, più il movimento di protesta crescerà innescando un domino di conseguenze imprevedibili. Per far ripartire l’Italia non basta un nuovo governo: bisogna rispettare il popolo della rivolta e rispondere alle sue istanze. Il verdetto del referendum e la responsabilità che ora serve di Massimo Franco Corriere della Sera, 5 dicembre 2016 Sul voto ha influito una miscela di fattori, che vanno dall’ostilità contro Renzi, alla voglia di difendere la Costituzione, al rifiuto di forzature parlamentari. Una nazione dove la democrazia è viva: questo dice la percentuale degli elettori che sono andati a votare ieri per il referendum costituzionale. Ha detto no al modo in cui Matteo Renzi voleva cambiare la Costituzione, più ancora, forse, che al suo governo. Al di là del risultato che si profila e degli ultimi scampoli polemici perfino sulla qualità delle matite usate nei seggi, l’elettorato ha dimostrato di tenere alla Carta fondamentale: più di partiti che per mesi hanno privilegiato uno scontro velenoso sul governo, lasciando in ombra i contenuti della riforma, quasi fossero secondari. Il risultato è la bocciatura imprevista di un’intera fase politica, che l’annuncio di dimissioni del premier sigilla. Il tentativo di puntellare un esecutivo non eletto attraverso la consultazione referendaria, si è rivelato un azzardo. Ha finito per esaltare una potente voglia di partecipazione, che sfiora il 70 per cento. Il premier si era appellato a una "maggioranza silenziosa", convinto di sedurla. La maggioranza ha parlato, ma contro di lui, con uno scarto intorno ai venti punti. Il rottamatore è stato colpito da quello che pensava essere il "suo" popolo. Ma dire che è una vittoria del populismo contro l’establishment suona riduttivo: significherebbe regalare impropriamente a Beppe Grillo e alla Lega una grande prova di democrazia. C’è anche l’impronta populista. Ma sul voto ha influito una miscela di fattori, che vanno dall’ostilità contro Renzi, alla voglia di difendere la Costituzione, al rifiuto di riforme approvate attraverso forzature parlamentari, allo scontento per i magri risultati economici del governo. E forse ha pesato una certa invadenza televisiva del capo dell’esecutivo nelle ultime settimane. Di questa indicazione popolare, i vinti ma anche i vincitori dovranno tenere conto. Rinfoderare le divisioni artificiose e strumentali; ripensare a una campagna che ha sovraesposto inutilmente l’Italia sul piano internazionale; e ricostruire un clima di unità che troppi da tempo stanno sabotando, magari senza rendersene conto. Leggere il risultato assecondando la propaganda dei due schieramenti, progresso-conservazione, democrazia-svolta autoritaria, significherebbe non ascoltare il messaggio del referendum. Il segnale va oltre gli schieramenti dei partiti. E più che trasmettere rifiuto nei confronti della classe dirigente, imitando le ondate populiste che scuotono l’Europa, impone una lettura meno scontata. In sintesi, è arrivato un messaggio di protesta ma anche di grande responsabilità. Toccherà in primo luogo al capo dello Stato, Sergio Mattarella, fare in modo che il governo e Renzi interpretino al meglio il responso popolare, senza tentare improbabili rivincite. C’è da sperare che Renzi lo capisca. Il modo in cui esce di scena lascia perplessi. Non per la nettezza delle sue dimissioni, ma perché ha detto che ormai il problema della legge elettorale è affare del Comitato del No, non suo: come se si preparasse a non essere più nemmeno segretario del Pd, maggior partito in Parlamento. La tentazione di mettersi di traverso forse è il riflesso della sconfitta bruciante. Analizzando i rapporti di forza, Renzi capirà che i suoi margini sono limitati. Altrimenti, regalerebbe a chi scommette sul collasso del sistema un risultato che invece puntella la Costituzione e le radici della convivenza. Va detto all’Europa, spaventata dalla propria crisi e prigioniera di troppi stereotipi sull’Italia; e a quanti sono tentati di soffiare sull’allarme per eventuali contraccolpi finanziari. Beppe Grillo esulta. Eppure, non si potrà intestare facilmente il successo. Anche il suo movimento dovrà fare i conti con un’Italia che riflette e insieme punisce il populismo. Ieri ha bocciato le riforme del governo, ma sarà altrettanto pronta a respingere quelle di opposizioni irresponsabili. Ci dovrebbe essere un po’ di tempo per rimodellare il sistema elettorale, tenendo conto della frammentazione e della complessità della società italiana; e per soddisfare un bisogno di riforme intatto. Il referendum non archivia la voglia di cambiare: punisce una proposta pasticciata e spiegata male. Da oggi il Paese dovrà fare i conti con un governo agli sgoccioli, e con un premier dimissionario e impermalito dalla disfatta. Sarebbe ingeneroso farne un capro espiatorio: i suoi errori sono quelli collettivi del Pd. E la sua lettura errata degli umori profondi dell’Italia è stata condivisa. Sempre che Renzi non si ostini a inseguire una realtà virtuale, rimuovendo il responso referendario. Dopo molto tempo e energie perduti, sarà bene non alimentare altre incognite. Sì alla revisione della patente anche se l’assunzione di droga è avvenuta prima del sinistro di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2016 Tar Veneto - Sezione III - Sentenza 15 novembre 2016 n. 1265. La revisione della patente di guida a seguito di sinistro è obbligatoria se l’evidenza di assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, anche in epoca antecedente l’accertamento tossicologico, contribuisce all’insorgenza di dubbi sulla permanenza dei requisiti psicofisici e tecnici alla guida. Così si è espressa la terza sezione del Tar Veneto con sentenza n. 1265 del 15 novembre 2016. Il fatto - Un automobilista durante una manovra di sorpasso perde il controllo dell’autoveicolo, fuoriesce dalla sede stradale e finisce in un fosso per lo scolo delle acque piovane, situato alla sinistra della strada statale. Gli esami tossicologici confermano quanto dichiarato dallo stesso automobilista ed evidenziano un’assunzione, in epoca antecedente l’accertamento tossicologico-forense, di sostanze stupefacenti o psicotrope (cannabinoidi). Oltre alla sanzione di cui all’articolo 146, comma secondo del codice della strada, per violazione della segnaletica stradale, l’Ufficio della Motorizzazione Civile adotta, ai sensi dell’articolo 128 codice della strada, un provvedimento di revisione della patente di guida mediante nuovo esame di idoneità medica e tecnica. L’automobilista avverso detto provvedimento ricorre appellandosi al Tar del Veneto. La decisione del Tar - Il Tribunale Amministrativo respinge il ricorso. Avendo correttamente l’Amministrazione dei Trasporti considerato e valutato in modo unitario, con un giudizio necessariamente complessivo, sia la dinamica del sinistro, sia gli accertamenti tossicologici, sia i pregressi comportamenti di guida del ricorrente, anche alla luce delle sue spontanee dichiarazioni, tutti questi elementi, secondo i giudici del Tribunale Amministrativo Regionale, ben possono legittimare l’insorgenza di dubbi sulla permanenza dei requisiti psicofisici e tecnici alla guida e il conseguente provvedimento di revisione della patente di guida. Infatti, i risultati emersi da accertamenti tossicologici, ovvero che il ricorrente ha assunto in epoca antecedente l’accertamento tossicologico-forense sostanze stupefacenti o psicotrope, non sono stati utilizzati per l’irrogazione di una sanzione amministrativa né per l’apertura di un procedimento penale nei confronti del ricorrente, ma sono stati posti a fondamento unicamente per giustificare e corroborare i "dubbi", rilevanti ai sensi dell’articolo 128 codice della strada, in ordine alla persistenza dei requisiti psicofisici alla guida. Telecamere nei luoghi di lavoro: nessuna depenalizzazione in caso di violazioni di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 26 ottobre 2016 n. 45198. Lo Statuto dei lavoratori vieta espressamente l’uso di impianti audiovisivi e di altri strumenti che consentano il controllo a distanza dei lavoratori, permettendone l’installazione, se richiesti da esigenze organizzative e produttive o di sicurezza del lavoro e tutela del patrimonio aziendale, solamente previo accordo con le rappresentanze sindacali unitarie o con quelle aziendali, o, in mancanza di accordo, previa autorizzazione dell’ispettorato del lavoro. Così si sono espressi i giudici penali della Cassazione con la sentenza n. 45198 del 2016. Pertanto tale disposizione, in forza del combinato disposto degli articoli 114 e 171 del decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196, trova le sue sanzioni in quelle previste dall’articolo 38, comma 1, della medesima legge n. 300 del 1970; con la conseguente esclusione della depenalizzazione introdotta dal decreto legislativo n. 8 del 2016, essendo prevista la pena alternativa dell’ammenda o dell’arresto e non la sola pena pecuniaria. Impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo - Il reato di cui all’articolo 4 della legge 20 maggio 1970 n. 300 (Statuto dei lavoratori) è di pericolo, essendo diretto a salvaguardare le possibili lesioni della riservatezza dei lavoratori, con la conseguenza che per la sua integrazione è sufficiente la mera predisposizione di apparecchiature idonee a controllare a distanza l’attività dei lavoratori, in quanto per la punibilità non sono richiesti la messa in funzione e/o il concreto utilizzo delle apparecchiature. Per la divulgazione di materiale pedopornografico non basta scaricare files da Internet di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 7 ottobre 2016 n. 42433. In tema di pornografia minorile, affinché sussista il reato di divulgazione di materiale pedopornografico di cui all’articolo 600-ter, comma 3, del Cp, non è sufficiente l’utilizzo per lo scaricamento di files da Internet di programmi di condivisione, quale il programma e-mule, giacché tale utilizzo, di per sé, in assenza di ulteriori elementi, non può implicare la volontà, nel soggetto agente, di divulgare detto materiale. Lo afferma la Cassazione con la sentenza n. 42433 del 2016. Il reato di divulgazione di materiale pedopornografico - Si tratta di affermazione esatta. Infatti, non è dubitabile che, affinché sussista il dolo del reato di divulgazione di materiale pedopornografico di cui all’articolo 600-ter, comma 3, del Cp, occorre provare che il soggetto abbia avuto, non solo la volontà di procurarsi materiale pedopornografico, ma anche la specifica volontà di distribuirlo, divulgarlo, diffonderlo o pubblicizzarlo, desumibile da elementi specifici e ulteriori rispetto al mero uso di un programma di file sharing. Per l’effetto, l’utilizzo, per lo scaricamento di files da internet, di un determinato tipo di programma di condivisione, quale e-mule o simili, non è sufficiente di per sé a far ritenere altresì provata anche la volontà di diffusione del materiale, giacché, diversamente opinando, si configurerebbe una sorta di presunzione iuris et de iure di volontà di diffusione o una sorta di responsabilità oggettiva, fondate esclusivamente sul fatto che, per procurarsi il file, il soggetto abbia utilizzato un determinato programma di condivisione (di recente, sezione III, 13 gennaio 2015, C.; sezione III, 30 settembre 2014, C.; sezione III, 30 aprile 2014, C., che, da queste premesse, ha annullato con rinvio la condanna basata solo sulla valorizzazione dell’utilizzo di un programma di file sharing, invitando il giudice a verificare se la condotta e volontà dell’imputato fossero di semplice approvvigionamento o piuttosto quelle di diffondere o divulgare a terzi il materiale pedopornografico che in precedenza questi si era procurato o aveva creato; in termini, sezione III, 10 novembre 2011, P., dove si è affermato che, in tema di reato di divulgazione e diffusione di materiale pedopornografico, l’utilizzo, ai fini dell’acquisizione via internet di detto materiale, di programmi che comportino l’automatica condivisione dello stesso con altri utenti - nella specie il programma denominato kazaa - non implica per ciò solo, e in assenza di ulteriori specifici elementi, la volontà, nel soggetto agente, di divulgare detto materiale). Chiariti i principi su responsabilità colposa e pluralità di garanti di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2016 Corte di cassazione - Sezione feriale penale - Sentenza 26 ottobre 2016 n. 44968. Quando l’obbligo di impedire l’evento ricade su più persone che debbano intervenire o intervengano in tempi diversi, il nesso di causalità tra la condotta omissiva o commissiva del titolare di una posizione di garanzia non viene meno per effetto del successivo mancato intervento da parte di un altro soggetto, parimenti destinatario dell’obbligo di impedire l’evento, configurandosi, in tale ipotesi, un concorso di cause ai sensi dell’articolo 41, comma 1, del Cp.Lo sostiene la Suprema corte con la sentenza n. 44968 del 26 ottobre scorso. In questa ipotesi, infatti, la mancata eliminazione di una situazione di pericolo (derivante da fatto commissivo od omissivo dell’agente), a opera di terzi, non è una distinta causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento, ma una causa/condizione negativa grazie alla quale la prima continua a essere efficace (affermazione resa nell’ambito di un procedimento penale per il reato di omicidio colposo provocato dal malfunzionamento di una caldaia installata in un appartamento, addebitato alla condotta colposa di colui che aveva rilasciato erroneamente la dichiarazione di idoneità dell’impianto, in ordine alla cui condotta si è ritenuto irrilevante, per escludere la responsabilità, il comportamento parimenti colposo di altri che, successivamente, erano intervenuti a effettuare la manutenzione della caldaia omettendo di eliminare la situazione di pericolo). I chiarimenti della Cassazione - La Cassazione interviene a precisare i principi applicabili in caso di responsabilità colposa per omesso impedimento dell’evento in caso di una pluralità di garanti tenuti a prevenire e/o a rimuovere la situazione di pericolo che abbia poi determinato l’evento dannoso. La Corte è partita dal ribadire il principio assolutamente pacifico secondo cui, in tema di responsabilità per evento che si aveva obbligo di evitare, per escludere, nel caso di successione di garanti, la responsabilità di uno dei precedenti garanti, che abbia violato determinate norme precauzionali, non è sufficiente che il successivo garante, o uno dei successivi, intervenga, ma è indispensabile che, intervenendo, sollecitato o meno dal precedente garante, rimuova effettivamente la fonte di pericolo dovuta alla condotta (azione od omissione) di quest’ultimo, con la conseguenza che, ove l’intervento risulti incompleto, insufficiente, tale da non rimuovere quella fonte, il precedente garante, qualora si verifichi l’evento, anche a causa del mancato rispetto, da parte sua, di quelle norme precauzionali, non può non risponderne (ciò è una conseguenza logica dei principi in tema di prevedibilità ed evitabilità dell’evento, in tema di dominabilità della fonte di pericolo e in tema di affidamento). A tale principio, secondo la Corte di legittimità, si fa eccezione, sì da doversi escludere la responsabilità del primo garante, nel caso in cui la posizione di pericolo si sia modificata, per effetto del tempo trascorso o di un comportamento del successivo garante, in termini tali da escludere la riconducibilità al primo garante della nuova situazione creatasi. L’affermazione è stata resa in una fattispecie in tema di omicidio colposo in cui chiamato a rispondere del reato, derivato dal malfunzionamento di una caldaia, era stata, tra gli altri, il tecnico chiamato a effettuarne la manutenzione e a rilasciare il relativo certificato, nella quale il giudice di merito aveva escluso che questi potesse invocare l’esonero da responsabilità nonostante il decorso del tempo tra il proprio intervento e l’evento mortale e l’intervento successivo di altri tecnici che non avevano rimosso la situazione di pericolo: la Cassazione ha ritenuto corretta e congruamente motivata la decisione, rigettando il ricorso. Con l’occasione, anzi, la Corte ha escluso, in coerenza con i suddetti principi, che potesse valere come causa interruttiva del nesso causale la condotta in ipotesi imprudente della vittima, la quale aveva consentito l’allocazione della caldaia da esterno nell’appartamento, cioè in luogo non idoneo a quel tipo di caldaia, e non aveva provveduto nel tempo a rimuovere la condizione di pericolo: tale condotta, infatti, non poteva considerarsi fatto eccezionale e atipico idoneo a interrompere il nesso di causalità (in termini, sezione IV, 11 luglio 2012, De Angelis). Orvieto (Pg): l’Onorevole Verini in visita al carcere "garanzie sui fondi per i laboratori" orvietonews.it, 5 dicembre 2016 Visita alla Casa circondariale di via Roma, nel pomeriggio di sabato 3 dicembre, per il capogruppo della commissione giustizia della Camera dei deputati Walter Verini. Nuovamente ad Orvieto - insieme al sindaco Giuseppe Germani, al presidente della Federazione provinciale Pd di Terni Carlo Emanuele Trappolino e al segretario comunale del Pd di Orvieto Andrea Scopetti - per fare il punto sulla controversa situazione dei laboratori d’arte. "Ho ritenuto opportuno essere qui - ha detto Verini - con il sindaco. Insieme, ci siamo impegnati per l’obiettivo dell’Istituto a custodia attenuata. L’interruzione dei corsi che vi si svolgono sarebbe una contraddizione con questa vocazione. Mette in discussione il futuro del carcere? È una domanda legittima. Dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è stato garantito che nel corso della prossima settimana si lavorerà per cercare di reperire fondi che possano ripristinare la regolarità dei corsi". In giornata, c’è stato anche il contatto con il ministro della giustizia Andrea Orlando, secondo cui quello di Orvieto costituisce un "carcere modello". Rispetto alle voci che vorrebbero la struttura ridimensionata o depotenziata rispetto allo status di istituto a custodia attenuata, l’orientamento del Dap e del Ministero non va in questa direzione, ma lascia intravedere un futuro. Sala Consilina (Sa): accolto il ricorso del Ministero, stop alla riapertura del carcere La Città di Salerno, 5 dicembre 2016 Il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso del Ministero della Giustizia congelando la sentenza del Tar di Salerno che aveva annullato il provvedimento di chiusura della casa circondariale di Sala Consilina. I giudici hanno depositato nella giornata di ieri il provvedimento ed hanno fissato per il terzo trimestre del 2017, ovvero tra i mesi di luglio e settembre, il periodo durante il quale ci sarà la discussione nel merito. La data precisa sarà comunicata nelle prossime settimane alle parti in causa. Fino a questa data, quando ci sarà la sentenza definitiva, il carcere di Sala resterà chiuso. All’udienza ha preso parte anche il sindaco di Sala Consilina Francesco Cavallone."È accaduto quello che ci aspettavamo - dice il primo cittadino - e siamo certi che l’anno prossimo, quando ci sarà la discussione nel merito, riusciremo a far valere le nostre ragioni. Noi chiediamo che il carcere venga riaperto non per un capriccio, ma per una questione di buonsenso visto che nel circondario del tribunale di Lagonegro, da un anno a questa parte, non esiste più un carcere e detenuti, familiari e avvocati sono costretti a fare centinaia di chilometri per poter raggiungere il penitenziario più vicino". Intanto nei giorni scorsi degli ispettori del Ministero sono stati a Sala Consilina per fare delle verifiche all’interno del carcere chiuso un anno fa. Il decreto fu firmato dal ministro della Giustizia Orlando il 27 ottobre del 2015. Secondo il Guardasigilli la soppressione del carcere è stata la naturale conseguenza della soppressione del tribunale di Sala. "Argomento fallace - si legge nella sentenza del Tar - se si tiene mente all’unicità del carcere di Sala Consilina, anche nel circondario del tribunale di Lagonegro". Attualmente vengono utilizzate strutture penitenziarie tutte esterne al circondario del tribunale: Castrovillari, distante circa 75 km, Potenza, oltre 100 km, Vallo, distante circa 100 km, Eboli, distante 100 km. Pescara: uno chalet in legno per far incontrare i detenuti e i loro figli di Daniela Peca Il Centro, 5 dicembre 2016 Iniziativa di "Telefono azzurro" nel carcere di San Donato. Il direttore Pettinelli: "Sì ai permessi a chi si comporta bene". Alle finestre, al posto delle sbarre, ci sono Minnie e Topolino. Al di là dei vetri, il verde, gli alberi, la strada, le persone che passano. È ormai un appuntamento atteso con ansia quello che i detenuti del carcere di San Donato hanno con i propri figli all’interno della "Casetta azzurra". Una struttura tutta di legno, dal sapore montano, piena di giochi e disegni attaccati alle pareti, che giorno per giorno aiuta chi è rinchiuso per scontare una pena a ricostruire i propri affetti, a riallacciare legami che sembravano persi, persino ad imparare come si fa ad essere un vero padre. La Casetta in effetti non è colorata, ma prende il nome dall’associazione che l’ha fortemente voluta, il Telefono azzurro, inserendola nel "Progetto carcere", che ha come obiettivo il recupero del rapporto genitori-figli e soprattutto la protezione dei più piccoli, dei più indifesi. Un progetto raccolto con entusiasmo quattro anni fa dalla responsabile abruzzese dell’associazione, la psicologa Giulia Amodio, che ha trasformato con grande caparbietà e amore questa idea in realtà. "Ormai c’è la corsa dei detenuti ad accaparrarsi qualche ora settimanale nella Casetta azzurra", racconta Franco Pettinelli, direttore della casa circondariale di San Donato, visibilmente soddisfatto dell’iniziativa, "e per la richiesta bisogna mettersi in fila. Il risvolto più interessante è che per ottenere l’incontro con i propri figli in questo bel posto i detenuti devono guadagnarselo con la buona condotta. È un premio che lascia il segno. Ho visto con i miei occhi grandi risultati e per questo sto cercando di aumentare i giorni disponibili da tre a quattro alla settimana. Alcuni detenuti hanno imparato lì a leggere storie e favole ai propri figli". Attualmente la casa circondariale di San Donato ha 300 detenuti divisi in settore penale e giudiziario. Ogni detenuto ha a disposizione 6 ore al mese di colloqui con parenti e amici e un numero prestabilito di telefonate settimanali con schede prepagate fornite di microchip. La "Casetta azzurra" si trova all’interno della cinta muraria ma fuori dal carcere, ed è l’unica in Italia ad avere questa collocazione. È nata grazie a donazioni di privati. Intorno ha un giardinetto recintato che i volontari dell’associazione stanno attrezzando per renderlo fruibile ai bambini e dove ora spicca un bell’albero di Natale. L’interno è strutturato come una vera casa: uno spazio cucina, un angolo con tappeto verde e cuscini, due tavolini piccoli e uno più grande con le sedie, uno scaffale con i libri per bambini, tante bambole, pupazzi, giochi e persino una bici e una moto giocattolo. Sulle pareti tanti disegni pieni di speranza e di amore, dove spiccano frasi come "Ti voglio bene papà" e "I love". Non ci sono sbarre alle finestre. "È una caratteristica fondamentale", spiega Giulia Amodio, "perché le sbarre e le porte blindate hanno un effetto devastante sui bambini. Prima per poter andare ai colloqui con il proprio genitore i minori dovevano per forza entrare in carcere, subire e vedere la classica perquisizione. Tutto avveniva sotto gli occhi vigili del personale penitenziario. Ora, invece, in questa casetta gli incontri avvengono solo in mia presenza o con volontari e psicologi del Telefono azzurro. Noi facciamo in modo che l’atmosfera sia calda e familiare, e spesso il nucleo in questo modo riesce a ricostituirsi. Si gettano i semi della speranza". Nuoro: tensione in carcere, gli infermieri pronti alla rivolta di Francesco Cabras L’Unione Sarda, 5 dicembre 2016 Senza lavoro dal 1° dicembre a Badu e Carros e Mamone Oggi si apre la vertenza con l’assessore regionale Arru. Gli infermieri dei penitenziari di Badu e Carros e Mamone che dal primo dicembre hanno perso il lavoro, attendono un segnale dalla Regione per capire quale sarà il loro futuro. Forse uno spiraglio si aprirà già oggi: stamattina, infatti, è previsto un incontro di una loro delegazione con l’assessore regionale alla Sanità Luigi Arru. La loro intenzione è quella di non mollare finché non avranno risposte certe, forti anche delle manifestazioni di solidarietà che stanno ricevendo in queste ore. Anche da parte dei loro pazienti: i detenuti, che hanno scritto una lettera in cui chiedono a chi di competenza che si faccia di tutto perché i contratti vengano rinnovati. Intanto il consigliere regionale di Sel, Daniele Cocco, ha presentato una mozione urgente (firmata da tutti i capigruppo della maggioranza) con cui impegna il presidente della Regione Francesco Pigliaru e l’assessore Arru "a assumere tutte le iniziative necessarie al fine di garantire, in via straordinaria, la proroga dei contratti a tempo determinato per gli infermieri in servizio presso i presidi sanitari istituti penitenziari afferenti alla Asl di Nuoro - e, inoltre, a valutare ulteriori procedure di selezione e concorsuali al fine di tutelare le posizioni lavorative in essere e non disperdere le preziose professionalità acquisite in questi anni". A parere di Cocco, la Regione ha tutti gli strumenti per venire a capo della vertenza. "Era una situazione nota da tempo - afferma - però come al solito, anziché intervenire subito, si arriva all’ultimo momento, quando si complica tutto". E l’ultimo momento è stato la presa d’atto da parte della Asl che i contratti erano ormai arrivati a scadenza e che, avendo raggiunto il termine massimo di durata, non potevano essere ulteriormente prorogati. Circostanza che il 15 novembre l’azienda aveva fatto presente dall’azienda con una nota indirizzata all’assessorato regionale, chiedendo che si prendessero provvedimenti. In un’altra nota del 30 novembre, indirizzata, tra gli altri, anche al prefetto e ai direttori delle carceri di Nuoro e Mamone, la Asl spiega che durante un incontro tenuto il 21 novembre "si è considerata la possibilità di trovare una soluzione derogatoria, ravvisabile nella ricerca di una soluzione giuridica consistente nella possibilità di addivenire a una prosecuzione del rapporto di lavoro da giustificare con la stabilizzazione dei suddetti lavoratori, da attuarsi mediante una specifica procedura concorsuale di cosiddetto reclutamento speciale". Ma anche questo tentativo è andato a vuoto, per questo l’azienda, per provvedere a garantire il servizio, ha dovuto assegnare nuovo personale ai penitenziari, "ferma restando - si legge in chiusura - la futura eventuale possibilità di provvedere all’acquisizione del personale, oggi non più prorogabile, al prefigurarsi dei relativi presupposti di legittimità". Sullo sfondo, le storie di alcuni degli infermieri. Bachisio, 44enne sposato e padre di tre figli che ha iniziato a lavorare a Mamone nel 1993 e dopo 23 anni rischia di rimanere per strada. Pasquale, 63enne originario della provincia di Napoli, dal 2009 anche lui a Mamone e che ormai sognava la pensione. E pensare che nel 2009 aveva risposto a un annuncio appeso in bacheca perché non si riusciva a trovare un infermiere che volesse andare a lavorare nella colonia penale. Monica, 39enne che nel 2003 è arrivata in Italia dalla Romania con un visto di lavoro e dopo un’esperienza occupazionale a Roma si è trasferita a Nuoro per seguire il compagno, nato e cresciuto in Barbagia e dal quale ha avuto un figlio. Francesca, nuorese, che a 63 anni, dopo 12 anni di lavoro a Badu e Carros, si vedrebbe costretta a reinventarsi un futuro, perché - spiega - da tre giorni si alza dal letto con l’angoscia che l’assale quando realizza che non ha niente da fare, che non ha più un lavoro. Velletri (Rm): proteste e barricate in carcere, nei guai trenta detenuti latinaoggi.eu, 5 dicembre 2016 Veementi proteste, gesti di autolesionismo, barricate, una lunga trattativa e, alla fine, grazie al sangue freddo della Polizia penitenziaria e del direttore, la situazione torna alla normalità. Ma dopo una mattina di tensione. Una mattina, quella di ieri al carcere di Velletri, iniziata come al solito, niente fuori dell’ordinario. Uno dei detenuti, un uomo anziano con gravi problemi di circolazione ad una gamba e quindi anche di deambulazione, ha iniziato però a protestare contro le cure che il Reparto sanitario interno alla casa circondariale, gestito dalla Asl RmH, gli fornisce. A suo dire un servizio carente. In pochi istanti la protesta è montata. Il detenuto era ancora nella propria Sezione ed è qui che gli agenti della Polizia penitenziaria lo hanno invitato a calmarsi. Invece di calmarsi la situazione è degenerata. L’uomo ha tirato dalla bocca una lametta. Con questa prima ha minacciato gli agenti e tutte le persone che aveva intorno e che volevano farlo ragionare. Poi ha iniziato a colpirsi e a ferirsi. Davanti agli occhi di oltre 50 detenuti e degli agenti della Penitenziaria, si è praticato ferite sul petto, sull’addome, poi è passato alle braccia, infierendo ogni qualvolta gli agenti provavano a far qualcosa. La protesta isolata dell’anziano, ad un certo punto è stata fatta propria anche dagli altri detenuti. Decine di uomini hanno iniziato a sbattere sportelli, sedie panche e armadi. Hanno distrutto le telecamere di videosorveglianza, hanno mandato in frantumi diverse finestre. Poi hanno tentato anche di realizzare una barricata con delle brande per impedire agli agenti di entrare nella sezione. A quel punto le regole di ingaggio vogliono che a propria discrezione il direttore possa ordinare un’azione di forza per ripristinare la situazione e la normalità. Prima di ordinare l’irruzione però il diretto re ha deciso di provare a ragionare, con calma, con le decine di detenuti aizzati e fomentati dall’anziano. Nonostante tutta una serie di insulti rivoltele proprio dal detenuto. Una scelta che ha pagato. Ci sono volute alcune ore per convincere tutti a calmarsi. Ma alla fine dopo una mattinata di tensione gli agenti hanno potuto intervenire senza l’uso della forza. L’anziano che ha preteso di essere curato in una struttura ospedaliera, è stato fatto salire su un’ambulanza e trasferito all’ospedale di Velletri. Nel frattempo una trentina di detenuti venivano identificati e per loro avviate una serie di misure disciplinari. Non si esclude anche un eventuale trasferimento. "Quello di ieri è un fatto grave - affermano Carmine Olanda e Ciro Borrelli, sindacalisti dell’Ugl Polizia penitenziaria - che però mette in luce, ancora una volta, lo stato in cui non solo sono costretti ad operare gli agenti in questo ma anche in altre carceri del Paese, ma anche lo stato di esasperazione che coglie i detenuti. È chiaro che il modo di manifestare il proprio dissenso, la propria frustrazione non può essere certo questo, ma le ragioni che possano aver mosso i detenuti possono anche forse essere comprese. Anche loro pagano sulla propria pelle lo stato dei carceri italiani. Il sindacato che noi rappresentiamo auspica che la dirigenza della Asl voglia e si impegni per arrivare ad una revisione e una riorganizzazione del Servizio svolto all’interno del carcere. Allo stesso tempo - aggiungono Olanda e Borrelli - rinnoviamo l’appello al ministro Orlando affinché si attivi per sbloccare l’atteso concorso per la Polizia penitenziaria. Infine, ma è forse l’aspetto più importante, non possiamo non plaudire e lodare l’operato dei colleghi di oggi - ieri ndr - che hanno mantenuto il sangue freddo, e della direttrice che ha creduto nella soluzione della vicenda senza l’uso della forza che la situazione avrebbe reso del tutto giustificato. Grazie a tutti loro una situazione difficile, esplosiva, che ha portato, va detto, alla devastazione di una Sezione della casa circondariale, si è risolta nel migliore dei modi. Vigevano (Pv): incontri degli studenti con i detenuti, invito al Liceo Cairoli La Provincia Pavese, 5 dicembre 2016 "A scuola di Libertà", il direttore del carcere rilancia l’invito al liceo Cairoli. Nelle scorse settimane è stato avviato un progetto patrocinato dall’Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia in collaborazione il Miur, che prevede incontri con operatori penitenziari, volontari e polizia penitenziaria, oltre a due detenuti che hanno fruito di un permesso di necessità concesso per l’occasione dal Magistrato di Sorveglianza di Pavia. Già avvenuti gli incontri con gli studenti degli istituti Pollini ed Omodeo di Mortara, e con quelli del Casale, del Roncalli, Castoldi e Caramuel di Vigevano. L’unico a mancare all’appello era appunto il liceo Cairoli. "Mi hanno avvisato della presenza dei detenuti solo il giorno prima - commenta Maria Rita Marchesotti, dirigente del Cairoli - e per correttezza ho dovuto declinare l’invito. Io non sono contraria a questo progetto, ma ho bisogno di tempo per informare le famiglie". "Siamo più che disponibili a riorganizzare l’incontro - risponde Davide Pisapia, direttore del carcere - ci dicano una data e noi ci organizzeremo". Milano: convegno "La Legge Gozzini e il volontariato, storie, testimonianze e prospettive" Corriere della Sera, 5 dicembre 2016 Lunedì 5 dicembre a Palazzo Reale il dibattito a più voci nel trentesimo anniversario della legge che ha modificato l’ordinamento penitenziario. Trent’anni fa la "Legge Gozzini", modificando l’ordinamento penitenziario, dava nuove opportunità di intervento alla comunità esterna consentendo una crescente presenza di organizzazioni di volontariato laico e religioso all’interno degli istituti penitenziari. Il volontariato ha rappresentato ed ha l’ambizione di continuare a rappresentare una risorsa concreta e insostituibile per la realtà penitenziaria in funzione di un "carcere utile" sia per il reinserimento sociale delle persone condannate che per la società civile. Oggi è comunque sentita l’esigenza di individuare nuove concrete risorse, mezzi e persone da impiegare in questo settore, mentre ne appare sempre più necessario il coordinamento per accrescere le potenzialità. Per questa ragione, in occasione di questo importante anniversario, l’Associazione "Gruppo Carcere Mario Cuminetti" in collaborazione con la Garante dei Diritti delle Persone Ristrette, Alessandra Naldi, e la presidente della Sottocommissione Carceri, Anita Pirovano, ha organizzato un convegno sul tema "Legge Gozzini e volontariato- 1986-2016 Storia, testimonianze, prospettive". L’incontro si terrà lunedì 5 dicembre a Palazzo Reale, sala conferenze, in piazza Duomo 14 a Milano. Due le sezioni di lavori: quella del mattino (9.30-13.30), di carattere storico-giuridico e quella pomeridiana (14.30-18) di rappresentazione dei tanti volti del volontariato, anche attraverso testimonianze di detenuti in permesso. Hanno confermato la loro presenza: Aldo Bonomi, Cecco Bellosi, Roberto Bezzi, Lucia Castellano, Adolfo Ceretti, Paola Comucci, Giovanna Di Rosa, Livio Ferrari, Grazia Grena, Franco Maisto, Anna Muschitiello, Valerio Onida, Luigi Pagano. Torino: il bello e il buono del carcere sotto l’albero grazie a Freedhome torinoggi.it, 5 dicembre 2016 È arrivato Freedhome, il nuovo progetto messo a punto da un gruppo di dinamiche imprese cooperative che lavorano dentro gli istituti di pena italiani, e che promuovono eccellenze, alimentari e non, tutte realizzate dietro le sbarre. Dal 27 ottobre Freedhome ha aperto i battenti del suo store nel pieno centro di Torino in via Milano 2/c, e, in occasione del Natale, i suoi prodotti si possono trovare online, nel settore dedicato all’e-commerce del sito myfreedhome.it. Sarà difficile scegliere tra i torcetti della Val D’Aosta, i panettoni e il cioccolato di alta pasticceria di Busto Arsizio, le mandorle e i torroni siciliani, i taralli pugliesi, il caffè campano, i biscotti di Verbania e tanti altri prodotti enogastronomici, alcuni dei quali patrocinati da Slowfood. Più arduo ancora decidersi se si considera anche la linea cosmetica con erbe officinali coltivate nell’orto della Giudecca di Venezia e le soluzioni artigianali, come canovacci e mug dalle grafiche accattivanti, stampate a Torino. Il tutto presentato in eleganti e colorati box di Natale, disponibili in due formati e ideali per accompagnare il momento più emozionante dell’anno. Dietro a questo progetto commerciale, infatti, c’è la volontà di accendere i riflettori su una realtà come quella del carcere, perché portare lavoro nelle strutture detentive è la chiave di volta per ripensare e rifondare il sistema penitenziario in Italia. Lanciano (Ch): il Festival della Cucina italiana in carcere rete8.it, 5 dicembre 2016 Saranno 19 i detenuti della Casa circondariale di Lanciano che oggi, lunedì 5 dicembre, a partire dalle 17, parteciperanno al Festival della Cucina Regionale Italiana promosso dalla Struttura Detentiva di Lanciano diretta da Lucia Avantaggiato, e dall’Istituto Alberghiero Ipssar De Cecco. L’iniziativa sarà il momento clou di un progetto teso a far incontrare Associazioni e realtà economiche e istituzionali., come la scuola, per una maggiore sensibilizzazione verso il mondo e le problematiche delle persone che stanno vivendo un periodo di reclusione. I detenuti saranno coinvolti in una gara di cucina al termine della quale i piatti preparati saranno sottoposti alla valutazione di una giuria, dunque un momento di sana competizione. Ad animare la serata sarà lo showman ‘Nduccio". Lo ha annunciato la dirigente dell’Istituto Alberghiero Ipssar De Cecco Alessandra Di Pietro. "Il progetto - ha spiegato la dirigente Di Pietro - è nato dall’incontro tra Casa Circondariale con l’Istituto De Cecco, promosso dal professor Quintino Marcella, al fine di organizzare una manifestazione di carattere culinario che potesse valorizzare le capacità dei detenuti e, al tempo stesso, aprire la Casa circondariale al territorio, incanalando le energie e la creatività dei reclusi verso un obiettivo positivo, favorendo un momenti di socializzazione. Si rafforza così anche la caratterizzazione dell’Istituto all’accoglienza e al confronto con la società. I 19 detenuti coinvolti hanno seguito un breve corso di preparazione che si concluderà domani con un evento finale di cucina e spettacolo. Protagonisti della serata saranno i piatti preparati dai detenuti provenienti da diverse regioni italiane con le peculiarità tipiche dei loro territori che parleranno un linguaggio comprensibile a tutti, dunque il cibo si pone come ideale veicolo comunicativo di saperi e sapori. Nell’organizzazione dell’evento ci saranno in prima fila il professor Quintino Marcella, da anni impegnato nella promozione di attività di comunicazione e sensibilizzazione di persone che vivono in situazioni di esclusione, e l’Associazione Provinciale Cuochi Pescara, con il Presidente Narciso Cicchitti". L’iniziativa vede anche la collaborazione del Rotary Club di Ortona, con il Presidente Franco Marrone, e del Rotary Club di Lanciano, con il Presidente Eliana De Berardinis. La kermesse Festival della Cucina Regionale Italiana prenderà il via alle 17, la giuria sarà composta dalla Dirigente dell’Istituto Alberghiero Di Pietro, dal Presidente dell’Associazione Provinciale Cuochi Pescara Cicchitti, e dai docenti dell’Istituto Alberghiero. L’evento sarà inoltre aperto a un pubblico formato da studenti dell’Ipssar, da altri detenuti e da soggetti invitati dalla Direzione della Casa Circondariale, con l’intrattenimento affidato al noto cabarettista ‘Nduccio. Sassari: le colonie penali e le "carte liberate" La Nuova Sardegna, 5 dicembre 2016 Presentato il lavoro di Gazale e Tedde accompagnato da brani di Piero Marras. Ha suscitato interesse la presentazione del libro "Le carte liberate: viaggio negli archivi e nei luoghi delle colonie penali della Sardegna", di Vittorio Gazale e Stefano Tedde, presentato mercoledì nella sala del Museo del Porto. È stata anche l’occasione per ascoltare le nuove canzoni del cantautore Piero Marras ispirate proprio dalle pagine del volume e dedicate a documenti e lettere rinvenute nel progetto, che vedranno la luce in un prossimo cd previsto per febbraio 2017. Il volume, edito da Carlo Delfino, è un opera preziosa di grande formato contenente una selezione di diverse centinaia di documenti d’archivio, foto storiche e immagini attuali. Si tratta del risultato di un importante studio di documenti archivistici dell’amministrazione penitenziaria e di un’analisi sul campo delle colonie penali della Sardegna. Sono ben otto le esperienze che vengono analizzate e raccontate: i due pionieristici esperimenti di San Bartolomeo e Cuguttu, poderi annessi rispettivamente al bagno penale di Cagliari e di Alghero e chiusi nella prima metà del Novecento; le tre colonie dismesse di Castiadas, Tramariglio e Asinara e quelle ancora attive di Isili, Mamone e Is Arenas. Uno straordinario caleidoscopio di vite umane, località e curiosi aneddoti, affiorato dai numerosi fascicoli custoditi negli archivi. Torino: una nuova audioteca alla Casa circondariale Lorusso Cutugno torinoggi.it, 5 dicembre 2016 Il 5 dicembre alle 15:30, Franco Mussida alla Casa Circondariale Lorusso Cutugno presenta la nuova audioteca CO2. Quando la Musica "libera" un mondo di emozioni. Un progetto di Franco Mussida e del CPM Music Institute, in collaborazione con la SIAE, il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Pavia, il Ministero della Giustizia e con l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica. Arriva anche alla Casa Circondariale Lorusso Cutugno di Torino l’innovativa audioteca consultabile per stati d’animo che offre l’ascolto della Musica come naturale e ritemprante chiave d’accesso a un mondo di emozioni e sentimenti represso da detenzione e disagio interiore. Dopo tre anni di sperimentazione e successive valutazioni scientifiche dei dati raccolti presso 4 istituti di pena italiani, arriva per CO2 il momento di inaugurare ufficialmente nuovi spazi di libertà interiore offerti a tutti i detenuti di 8 nuove carceri italiane. Un momento importante che offre una chiave di lettura che consente alla musica contenuta in queste particolari audioteche di essere stimolo per il mondo emotivo personale e al contempo strumento educativo - trattamentale. Dopo i momenti di formazione destinati a educatori, agenti di polizia penitenziaria e operatori culturali di ciascun istituto, CO2verrà presentato attraverso una serie di eventi-spettacolo all’interno dei 12 istituti di pena coinvolti. Lunedì 5 dicembre, CO2 verrà presentato presso la Casa di Reclusione Lorusso Cutugno di Torino. Le funzioni dell’audioteca e il suo scopo in carcere verranno presentate attraverso uno spettacolo con momenti musicali dal vivo che vedranno protagonista Franco Mussida, ascolti e qualche proiezione video. Un modo facile e diretto per incentivare la fruizione dell’audioteca attraverso l’individuazione dello stato emotivo evocato dalla Musica ascoltata. I detenuti verranno quindi coinvolti in un gioco interattivo fatto di ascolto di brani live e dell’audioteca. Dopo l’ascolto i detenuti manifesteranno il loro stato d’animo attraverso l’esposizione di speciali emoticon che li rappresentano. Sono gli stessi presenti nei tablet che danno accesso al database dei brani dell’audioteca. Sul palco, insieme a Franco Mussida, suoneranno Barbara Giacchino, diplomata bachelor Canto al CPM Music Institute, Giancarlo Vaccalluzzo, diplomato in Writing&Production alCPM Music Institute, Daniele Tarasconi - funzionario Giuridico Pedagogico - alla chitarra, Salvatore Curia alla tromba e Savino Gagliardi alle tastiere. CO2, lo ricordiamo, è un progetto artistico-culturale unico, a suo modo rivoluzionario. Il suo scopo è creare una rete nazionale di audioteche nelle carceri capaci di offrire una diversa chiave di ascolto della Musica strumentale, trasformandola in strumento di supporto e di sollievo per la struttura affettiva dei detenuti. Un progetto entrato in servizio nella sua fase sperimentale nel 2013 grazie alla collaborazione del Ministero della Giustizia coinvolgendo circa 100 detenuti sperimentatori nelle carceri di Monza, Opera, Rebibbia femminile e Secondigliano. È stato seguito nel suo svolgimento, oltre che da un comitato scientifico, anche dal Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Pavia. E dal 2017, su volontà del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, sarà disponibile anche presso gli istituti di pena di Ancona, Genova, Parma, Torino,Venezia, Firenze, Bologna e Milano (San Vittore). CO2 fa seguito alla richiesta al M° Mussida, da parte dell’allora Presidente della Siae Gino Paoli, di pensare ad un’iniziativa musicale da realizzarsi nel contesto carcerario. La risposta di Franco Mussida, che si occupa di formazione da quasi trent’anni (è infatti del 1988 nel carcere di San Vittore il suo primo laboratorio di sperimentazione sugli effetti del suono sulla struttura affettiva), assistito dal CPM Music Institute di Milano, è stata strutturare e realizzare uno strumento educativo motivazionale con valenza trattamentale a favore sia dei detenuti che delle equipe psicopedagogiche. CO2 ha come strumento primo un’audioteca modernissima che utilizza l’alta tecnologia applicata ad una specifica procedura di ascolto che rende disponibile il grande potere emotivo della Musica strumentale in tutte le forme, per offrire ai detenuti la possibilità di vivere e percepire il valore primario ed essenziale della loro struttura affettiva, al fine di riallacciare fili emotivi interrotti e limitare gli effetti di odio e risentimento che in quei luoghi estremi si respirano quotidianamente. "I ragazzi di "Robinù" armati a otto anni. Ma non è una fiction" Corriere della Sera, 5 dicembre 2016 Santoro racconta la guerra tra bande degli adolescenti di Napoli: "Nel documentario raccontano se stessi. Non c’è nessuna redenzione, dobbiamo occuparci di loro". Michele Santoro, domani e dopodomani uscirà nelle sale il suo documentario "Robinù" che racconta la guerra tra bande di adolescenti combattuta a Napoli, negli ultimi due anni, a colpi di kalashnikov. Qual è la caratteristica di questo prodotto? "Mafia e camorra ci arrivano nelle case attraverso fiction come "Gomorra" oppure con le espressioni usate nelle deposizioni dei pentiti. Invece i ragazzi di "Robinù" non sono né attori né mostrano pentimento ma scontano la pena a Poggioreale e ad Airola restando ciò che sono. Emerge un racconto molto crudo, una descrizione unica della loro condizione. Sparano già prima dei quindici anni e raramente arrivano ai trenta". E qual è la differenza sostanziale con "Gomorra"? "Da una parte c’è la conferma che "Gomorra" affonda le sue radici nella realtà. Ma lì, per esigenze narrative, i caratteri sono scolpiti un po’ come maschere. In "Robinù" i ragazzi sono capaci di ammazzare anche per la più stupida delle ragioni ma contemporaneamente sono animati da una straordinaria qualità sentimentale. Quando vedono le loro donne esprimono una commozione che forse noi non conosciamo. Tutta questa forza dovrebbe portarci a occuparci di loro. Ma, come spiega il direttore di Poggioreale, nonostante gli sforzi degli operatori, siamo lontani dall’individuare un possibile cammino di redenzione. A Poggioreale ci sono duemila storie diverse, che non sono affrontabili con la semplice sociologia. Dovremmo riflettere su quanto non facciamo per loro". Qual è stata la molla che l’ha spinta verso il progetto? "Quando studio le storie di quei ragazzi, mi identifico nelle mie vicende familiari. Io ho avuto in mio padre un esempio straordinario, col suo stipendio da macchinista delle ferrovie ha portato cinque figli fino agli studi universitari. Ma da bambino a Salerno sono cresciuto per strada: c’era una forte dinamica di bande che si affrontavano nelle vie, avrei potuto precipitare anch’io chissà dove, le occasioni negative c’erano. E così, da ragazzo, molte persone che ho conosciuto, magari per emulazione, sono finite nella lotta armata e hanno ammazzato. Per questo penso che certi mondi vadano contagiati positivamente: e tocca a noi. Mai rinchiuderli in un ghetto, così si perpetua tutto". Il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, ha polemizzato: certe rappresentazioni danneggerebbero Napoli. "De Magistris confonde un racconto come "Robinù" con l’attività di promozione delle bellezze di Napoli. Il nostro documentario testimonia una realtà certo non insignificante per la vita quotidiana della città. Gli addetti allo spaccio della cocaina sono migliaia e riguardano poi un indotto di decine di migliaia di napoletani. Il welfare criminale non è una barzelletta, né è fiction: è una realtà che riguarda i migliori negozi di Napoli, di vestiti e di cibo. Quindi incide negli equilibri dei quartieri alti e nella qualità della vita di migliaia di persone". Con tutto questo cosa vuol dire, Santoro? "Che vedo tanta ipocrisia. Lasciamo che le cose restino così, che si ammazzino tra di loro, che le pistole circolino per le mani di bambini di otto anni, meglio non occuparsene. Insomma, non vedo le forze politiche impegnate in un programma di risanamento sociale adeguato. A partire dall’obbligo scolastico: se escono dalla terza media sono quasi sempre analfabeti perché, senza strumenti eccezionali, è impossibile recuperarli allo studio. Molti insegnanti, di fronte a un ragazzino di undici anni che si comporta già come un piccolo boss, pensano sia meglio non averlo in classe. E così si va avanti". La scelta di Lorenzon di Massimo Gramellini La Stampa, 5 dicembre 2016 Quando l’imputato di evasione fiscale Diego Lorenzon ha preso la parola per una dichiarazione spontanea, è apparso subito chiaro a tutti che in quell’aula di tribunale stava scorrendo la storia degli ultimi dieci anni di questo Paese. Lorenzon gestisce con i fratelli un’azienda metalmeccanica in provincia di Venezia. Con la crisi del 2008 gli affari hanno cominciato a barcollare, mettendo in scena un copione ben noto: i creditori che insistono, i debitori che latitano e lo Stato che con una mano non salda le commesse e con l’altra pretende le tasse, 263mila euro di Irpef per l’anno di scarsa grazia 2012. Lorenzon aveva già impegnato tutto l’impegnabile, pur di non chiudere l’azienda e mettere per strada i cinquanta operai a cui continuava a versare regolarmente lo stipendio. Se avesse pagato le tasse, avrebbe dovuto licenziare. Non le ha pagate. E quattro anni dopo si è trovato in tribunale a raccontare una storia di riscossa e di dolore. Nel frattempo l’azienda ha ripreso a fare utili e a pagare le imposte, arretrati compresi. Ma lui ci ha rimesso la salute e, se ha chiesto di parlare adesso, è perché temeva di non poterci essere all’udienza fissata per gennaio. Quando l’imputato di evasione fiscale Diego Lorenzon ha finito di parlare, in aula avevano tutti gli occhi gonfi, non solo i suoi operai. Allora il giudice Piccin, in realtà un gigante, ha deciso di chiuderla lì e lo ha assolto tra gli applausi e con la benedizione del pubblico ministero, sancendo il principio rivoluzionario che tra persone perbene evadere le tasse per pagare gli stipendi non costituisce reato. Sondaggio mondiale della Croce Rossa: "primo imperativo, risparmiare i civili" di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 5 dicembre 2016 Sulle guerre in corso intervistate 17 mila persone in sedici nazioni. Otto su dieci contrari a violenze sui non combattenti. Ma cresce anche il numero di chi giustifica la tortura sui combattenti "nemici" per tutelare la sicurezza della propria comunità. Si possono chiamare "danni collaterali" i civili uccisi nei combattimenti, invocare errori poco plausibili per spiegare le bombe sugli ospedali e le cannonate sui giornalisti, spargere lacrime da coccodrillo sui bambini mutilati nei campi dalle mine antiuomo e dalle cluster bomb... è la guerra, sentiamo dire. Ma davvero lo scontro armato deve essere devastazione selvaggia e massacro senza confini? O meglio: le regole di un tempo, quelle che imponevano qualche limite agli Stati in conflitto, valgono ancora, in epoca di scontri asimmetrici, di interventi "preventivi", di missioni più o meno autenticamente umanitarie condotte con strumenti militari? Il Comitato internazionale per la Croce rossa dà per accertato che l’opinione delle popolazioni conti ancora qualcosa, e ha realizzato una vasta indagine, intervistando oltre 17 mila persone in sedici nazioni. Il giudizio è netto: sì, se vogliamo credere alla nostra presunzione di civiltà allora anche i contrasti irriducibili devono avere una cornice di norme, che sottragga alla violenza chi non è impegnato nelle azioni belliche. Dai dati della Croce rossa salta fuori che una "regolamentazione" dei conflitti sembra indispensabile a gran parte degli intervistati, otto su dieci ritengono che ai non combattenti debba essere risparmiata la violenza. In altre parole, si afferma un’idea di "civilizzazione" dei conflitti, di rifiuto della logica più arcaica basata sulla ferocia e sulla spietatezza. Ma se questa può sembrare un’evoluzione positiva, si affianca a un elemento meno rassicurante. Rispetto alle rilevazioni precedenti, sono aumentate le persone disposte a prendere in considerazione la tortura di un "combattente nemico", se considerata necessaria per strappare informazioni necessarie a tutelare la sicurezza della propria comunità. Questa disponibilità è la scelta di un interpellato su tre, e solo poco più della metà la condanna. Ed è un segno molto preciso dell’insicurezza diffusa: il panel individuato dai rilevatori comprende Paesi che vivono direttamente un conflitto, ma anche i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Gli intervistati di questi ultimi Paesi sembrano meno preoccupati per il destino dei civili coinvolti nei combattimenti: solo il 50 per cento sottolinea che è sbagliato attaccare i nemici in aree densamente popolate. Fra le popolazioni coinvolte direttamente nelle guerre, il "no" agli scontri in zone abitate è molto più netto, sale al 78 per cento. Un atteggiamento simile si registra sulle azioni belliche che privano i civili di cibo, acqua e medicine: accettabili solo per 14 su cento nelle zone coinvolte, ma comprensibili come "parte della guerra" per oltre un cittadino su quattro nei paesi del Consiglio di Sicurezza. E poi c’è l’Italia. i dati riferiti al nostro Paese lasciano pensare che gli italiani abbiano una conoscenza solo approssimativa delle regole di guerra: meno di uno su due comprende la portata delle Convenzioni di Ginevra. "Il sondaggio italiano mostra anche come il pubblico sappia che il non rispetto delle leggi di guerra porta la gente a scappare dal proprio paese", commenta Rosario Valastro, vicepresidente della Croce rossa italiana: "Ma alla richiesta di maggiore assistenza a chi scappa dalla guerra, solo il 41,8 per cento risponde positivamente, mentre il 25,5 è contrario e i "non so" sono tanti". Austria. Fermata la destra, vince il verde Van der Bellen di Angela Mayr Il Manifesto, 5 dicembre 2016 L’ex capogruppo ha vinto col 53, 3% dei voti, mentre Norbert Hofer si è fermato al 46%. Fpoe incredula ha riconosciuto la propria sconfitta. Gli è andato male, a Hofer e all’internazionale di destra populista e razzista che tifava per lui, da Farage al presidente cecoslovacco Vaclaw Klaus, da Marine Le Pen a Viktor Orban, ai Salvini e Meloni, e alle destre estreme extraparlamentari mobilitate in massa in Austria sperando nell’"apriporta Norbert Hofer". "Con lui si cambierà rotta, l’islamizzazione dell’Austria e dell’intera Europa verrà fermata, potremo difendere la nostra patria" ci aveva detto venerdì a Vienna il capo di Die Identitaeren Erich Siller. Non è andata così, tutt’altro. Niente primo presidente di estrema destra in Europa. Hanno preso una sonora sberla sopra ogni previsione anche più ottimistica: il nuovo presidente della repubblica austriaco si chiama Alexander Van Der Bellen, primo presidente verde in Europa. I candidati dei partiti di governo socialdemocratico (Spoe) e popolare (Oevp) sono stati eliminati già al primo turno. Grandissimo è il sollievo anche a Ernsdorf, il paesino nella bassa Austria dove domenica mattina abbiamo visitato una famiglia di rifugiati afgani. Era stata espulsa in Croazia, poi tornata in Austria per l’impegno dei volontari "se vince Hofer non saremmo più in grado di difendere i richiedenti asilo che assistiamo, cominceranno ad espellerli in massa" ci hanno detto. Un’altra Austria, stavolta, ha prevalso con un segnale molto chiaro: non vi è stato il testa a tesa come al ballottaggio di maggio. L’ex capogruppo dei verdi ha vinto col 53, 3% dei voti, mentre Norbert Hofer si è fermato al 46%. Una distanza così grande già emersa alle prime proiezioni da risultare ormai non più attaccabile, senza alcuna necessità di dover più aspettare che si aprissero le discusse buste del voto postale: uno scarto del 6% tra i due candidati, al ballottaggio del maggio scorso l’ex professore di economia aveva vinto con un vantaggio del solo 0,6% determinato dai maggiori consensi arrivati dal voto postale. Così già mezzora dopo la chiusura dei seggi la Fpoe scioccata quanto incredula ha riconosciuto la propria sconfitta. Oggi si è visto finalmente una foto coi ruoli invertiti dei due candidati : Hofer che non ha più l’eterno sorriso da vincente stampato in faccia si è dichiarato triste: "ma non sono arrabbiato, gli elettori hanno sempre ragione". Vincere i duelli televisivi manipolando la comunicazione non è bastato. Van der Bellen sorridente, finalmente disteso e visibilmente sollevato e pieno di energia. Non molto felice la speranza espressa per la vittoria del si in Italia da parte del nuovo presidente ad urne ancora aperte. In Austria dai media l’argomento è stato trattato unicamente alla luce di una minaccia di vittoria populista antieuropea alle porte se cade Renzi, quasi ci fosse un rischio Hofer o simile anche in Italia. Non è servito alla Fpoe aver impugnato la vittoria di Van Der Bellen in maggio, e non vi è stato un effetto Brexit e Trump a favore della destra, semmai al contrario. Il timore di un avvento simile in Austria, che con Hofer rischiava di fare blocco comune con i paesi dell’est più nazionalisti. Fermare Hofer è stato infatti il motivo principale degli elettori austriaci per votare Alexander Van Der Bellen convinto europeista. L’ondata populista di destra non ha trovata conferma ma ha subito una prima battuta d’arresto. Il voto ha evidenziato una forte differenza di genere delle scelte elettorali: così il 62% del donne ha votato per il candidato dei Verdi che è risultato vincente tra tutti i gruppi d’età dell’elettorato femminile. Hofer invece lo hanno scelto soltanto il 38% di donne. Al contrario dei maschi, il 56% ha votato Hofer, solo il 46% per Van der Bellen. Per fasce d’età, tra i giovani fino a 29 anni ha vinto nettamente Van der Bellen, che tra le donne di quell’età è arrivato al 69%. Gigantesca poi la diversità di orientamento politico secondo il grado di istruzione: Tra i laureati non esiste quasi altro candidato dal presidente fortunatamente eletto: Lo hanno scelto l’83%, solo un 17% ha votato per Hofer che in effetti non aveva trovato neanche un solo sostenitore tra artisti, intellettuali, scrittori. In tutte le fasce di popolazione con scolarità bassa che non sono arrivate a sostenere la maturità ha vinto Hofer, in tutte le altre Van der Bellen. Preoccupante il dato che emerge dal voto operaio e che abbiamo toccato con mano visitando le zone industriali in Stiria: l’85% dei lavoratori risulta aver dato il proprio voto a Norbert Hofer, solo un 15% ad Alexander Van der Bellen che nella sua campagna elettorale ha trascurato le fabbriche. In tutte le altre categorie se questi primi dati sono giusti, tra gli impiegati, dipendenti pubblici e pensionati ha vinto Van der Bellen. Pur essendo stato sostenuto da un ampio schieramento di forze - dalla maggioranza dei socialdemocratici dal cancelliere Christian Kern, dai Neos, da ex politici del partito popolare diviso su quale candidato schierarsi, e soprattutto nell’ultima fase di un comitato, e infine anche da un comitato di sindaci popolari di piccoli paesi- il peso maggiore della campagna elettorale è pesato sui Verdi bloccando qualunque altra attività politica loro. "Per i Verdi è una giornata storica, una cesura" ha detto la capogruppo parlamentare e segretaria dei Verdi Eva Glawischnig "le campagne di diffamazione verso di noi verso Van der Bellen non hanno pagato". Il capoluogo più verde è stato Graz il 64,4% di voti per Van der Bellen, seguito da Vienna col 63,3% che in alcuni quartieri della capitale è arrivato intorno all’80%, in un seggio al 90%. Il migliore risultato di Hofer a Vienna lo ha raggiunto in un piccolo seggio di una zona abitato da molti poliziotti, un 77%. Il voto di domenica è anche un chiaro no ad ogni ipotesi di uscita dell’Austria dall’Unione europea. La Fpoe che già ha presentato domanda in parlamento per un futuro referendum sull’argomento non è risultato credibile quando ha tentato di negarlo un giorno sì e l’altro anche. Anche il clima avvelenato anti migranti fomentato dalla Fpoe infine ha suscitato più paure che consensi. Lo spirito europeo e la lezione austriaca: il nemico non è imbattibile di Paolo Lepri Corriere della Sera, 5 dicembre 2016 "Indipendente" è la parola magica che ci consente di leggere il risultato delle presidenziali austriache in una prospettiva utile anche per il futuro. Senza naturalmente sottovalutare il fatto che la sconfitta del candidato di estrema destra Norbert Hofer (espressione di un partito nazional-liberale, la Fpö, fondato da ex sostenitori del nazismo) evita di portare nuove tensioni in un’Europa che ha bisogno di tutto meno che di venire ferita da oscuri ritorni al passato. La leadership bruxellese, spesso distratta, sarebbe stata costretta a scelte difficili e non avrebbe probabilmente avuto altra scelta che voltare la testa dall’altra parte. Alexander Van der Bellen non era un candidato "di bandiera". Ha lasciato da tempo la guida dei Verdi e ha affrontato ieri il suo rivale contando solo sulla credibilità delle sue idee e soprattutto su una "visione del mondo". Meno organici ancora i suoi legami con il partito socialdemocratico, che sta tentando di rallentare un declino inesorabile dopo aver incarnato per decenni la governabilità austriaca. Una vittoria di Hofer avrebbe tra l’altro finito per spazzare via, con esiti incerti, la stanca grande coalizione che vede insieme gli eredi di Bruno Kreisky e i popolari. La caratteristica del neopresidente, settantaduenne professore universitario "figlio di rifugiati" (il padre e la madre fuggirono dall’Estonia all’inizio degli anni Quaranta), è proprio la sua "differenza". Attorno al nome di Van der Bellen ha ripreso vita uno "spirito comunitario" che non è ancora definitivamente dissolto. Questa è la lezione austriaca: il progetto europeo può battere anche altrove i suoi nemici a due condizioni. La prima è saper rispondere efficacemente alle preoccupazioni legittime che dominano l’esistenza dei cittadini. La seconda è quella di sconfiggere la vecchiaia della politica. Non è un fatto di anagrafe, ma di mentalità. Iran. Il reportage di un fotografo nel carcere delle bimbe condannate a morte di Alvise Losi Libero, 5 dicembre 2016 "Ho parlato a lungo con loro nelle celle, ora qualcuna è già stata giustiziata. Sperano solo nel perdono delle famiglie delle vittime". Come in Italia, anche in Iran esistono carceri minorili. Ma in Iran i minori possono essere condannati all’impiccagione. Il fotografo iraniano Sadegh Souri è entrata in una di queste prigioni della capitale, Teheran, e ha ritratto bambine e ragazze nel braccio della morte. Souri non parla inglese, solo farsi. Con l’aiuto di un traduttore gli abbiamo scritto per intervistarlo grazie all’aiuto di un traduttore, ma le sue risposte tardavano ad arrivare. Siamo riusciti a incontrarlo quando, ottenuto faticosamente il visto per l’Italia, ha presentato al Festival della Fotografia Etica di Lodi il suo progetto Waiting Girls. Signor Souri, cosa vuole trasmettere con le sue foto? "Sono un fotografo, ma anche un essere umano e il mio obiettivo era mostrare e far conoscere al mondo ciò che succede e normalmente chi vede questo lavoro percepisce i sentimenti di dolore che arrivano dalla prigione di Shahr-e Ziba, che significa "La città bella". Non dimentichiamo che la pena di morte non esiste solo in Iran, ma anche in molti altri luoghi al mondo: per esempio negli Stati Uniti avevo iniziato un progetto sulle sedie elettriche, ma non mi hanno fatto più lavorare. Io vorrei far riflettere in assoluto sulla pena di morte". Non ha avuto problemi con le autorità per queste foto? "No, perché ho avuto il loro permesso per fare questo progetto". Come è riuscito a entrare nel carcere per fare le foto? "È molto difficile in Iran poter fotografare all’interno di una prigione. Io ci sono riuscito perché aiutavo un mio amico videomaker che stava già lavorando lì. In questo modo sono entrato in contatto con i funzionari e sono riuscito a rientrare successivamente per lavorare a questo progetto". Ha scattato foto per dieci giorni. È anche riuscito a parlare con le ragazze? "Per me è stato fondamentale parlare con loro, per capire chi fossero, quali speranze avessero e quale futuro si aspettassero. Ho passato 5 o 6 ore a parlare con ogni ragazza per decidere che tipo di fotografia scattare". Che futuro può immaginare per sé una ragazza minorenne condannata a morte? "Per legge la condanna può essere eseguita solo dopo i 18 anni, ma quasi sempre c’è un tentativo di commutare la sentenza di condanna a morte in una di reclusione. Ma a farlo non può essere il giudice, perché gli unici a poter annullare la condanna a morte sono i parenti di chi ha subito il delitto". Ha conosciuto qualche ragazza sulla quale successivamente è stata eseguita la condanna a morte? "Ho sentito che un paio di ragazze che ho fotografato sono morte, ma non ne ho ancora la certezza". L’Iran ha firmato la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia che vieta di condannare a morte i minori e ha recentemente aggiornato la legge coranica che consentiva di condannare a morte un imputato che avesse superato l’età della pubertà: 9 anni per le femmine, 15 anni per i maschi. Ciononostante, in Iran negli ultimi dieci anni sono state effettuate 73 condanne a morte su minori, 4 solamente lo scorso anno, mentre sarebbero ancora 160 i ragazzi e le ragazze detenuti nel braccio della morte (fonte: Amnesty International). La maggior parte delle condanne è legata a reati di omicidio o di droga. Una delle foto ritrae una ragazza che sta allattando un bambino. "Quella ragazza si chiama Zahra, è sposata da quando aveva 14 anni e quello è il suo secondo figlio. La legge prevede che i neonati fino ai due anni di vita possano restare con le madri in carcere. Non è condannata a morte, ma è già la terza volta che viene arrestata per furto". Quali sono di solito le origini delle ragazze condannate? "Come in molti altri luoghi del mondo, spesso le famiglie di provenienza di chi entra in carcere sono povere, a volte con genitori assenti e comunque di classi sociali umili". Perché ha scelto di fotografare in bianco e nero? "Ho parlato con due sorelle, una libera e una in carcere. Quella libera mi ha spiegato che sua sorella non provava più gioia e non vedeva più colori, ma tutto nero. Poi quella imprigionata mi ha confermato che vedeva solo dolore intorno a sé e anche se, per esempio, le lenzuola erano arancioni, lei le vedeva nere. Ecco perché ho deciso di scattare in bianco e nero, così è possibile mostrare i sentimenti di dolore di queste ragazze". Una prigione dovrebbe essere un luogo buio, ma in alcune foto c’è molta luce. È una scelta artistica? "Ogni foto ha una sua storia. Per esempio una ragazza era in carcere perché aveva confessato un reato di droga per proteggere suo padre. Mi ha detto che si sentiva in un buco e intorno a sé vedeva tutto nero. Per mostrare i suoi sentimenti ho scelto di far vedere un solo punto dal quale entra molta luce e contrasta con l’ambiente molto buio. La luce per loro dovrebbe rappresentare la speranza di libertà, che però loro non hanno. Per questo ho scelto di lasciare la luce in un solo punto, come se fosse bloccata". Molte delle ragazze sono condannate a morte: hanno accettato il loro destino? "Quasi tutte riconoscono e capiscono il reato commesso. Naturalmente non è facile per loro accettare la condanna a morte, ma sperano sempre che qualcuno le perdoni e annulli la sentenza. Ma ci sono situazioni molto diverse tra loro: una ragazza per esempio appena uscita dal tribunale si è messa a ridere raccontando di aver pianto in tribunale davanti al giudice per convincerlo della propria innocenza e poter così tornare fuori a drogarsi". C’è stata una foto particolarmente difficile da scattare? "Sicuramente la foto a Mahsa (la ragazza con le mani che coprono il volto, ndr) è stata una delle più complesse, perché non riuscivo a trovare il modo per esprimere i suoi sentimenti. Mahsa aveva ucciso il padre, che si opponeva al suo fidanzamento con un ragazzo, ma questo dopo il delitto le ha detto che non l’avrebbe aspettata fuori dal carcere perché aveva il timore che potesse uccidere anche lui. E ora lei pensa che se non si fosse innamorata di lui, non avrebbe ucciso il padre. Ho fatto molte foto a Mahsa, ma non riuscivo a mostrare i suoi veri sentimenti. Alla fine ho provato a riportarla a quando è entrata in carcere, mettendola davanti al muro dove scattano la foto segnaletica. In quel momento lei ha iniziato a piangere, ricordandosi di tutto quello che è successo, e si è coperta il volto con le mani". L’Iran è tra gli Stati che non rispettano la convenzione internazionale che vieta di condannare a morte un minorenne. Con questo progetto vuole sensibilizzare i suoi concittadini su questo tema? "Uno degli obiettivi del mio lavoro è aiutare i minorenni che soffrono in tutto il mondo. Voglio mostrare i problemi dei bambini a prescindere dal carcere". Ci sono momenti di speranza? "Si può percepire nella foto delle due ragazze che si abbracciano o in quella dove sono in cortile per l’ora d’aria. Volevo trasmettere sia i momenti bui sia quelli di speranza. In cortile vedono il cielo e questo per loro può rappresentare il futuro". Gran Bretagna. Proposta di ergastolo per chi usa il telefono mentre è al volante e uccide di Michela Rovelli Corriere della Sera, 5 dicembre 2016 In discussione l’inasprimento della pena, fino al carcere a vita, per chi provoca la morte di qualcuno in un incidente causato perché al volante con il cellulare. Parlare al telefono mentre si guida, un’abitudine pericolosa e sempre più diffusa nel mondo. Che spesso provoca incidenti, anche mortali. Per porre un freno alla cattiva - e frequente - pratica, il ministero di Giustizia inglese ha proposto una misura drastica. Un progetto di legge, anticipato al Sunday Times dal viceministro di Giustizia, il conservatore Sam Gyimah, che intende punire chi provoca la morte di un’altra persona perché usa il telefonino al volante, specialmente per inviare o leggere messaggi, con il massimo della pena previsto dall’ordinamento. Oggi la punizione per il reato è di 14 anni (anche se poi per buona condotta si esce dopo 7). Rischierebbero il carcere a vita anche per chi provoca incidenti mortali ed è positivo ai test anti-droga e per l’alcol. Pene all’altezza del crimine - "Gli assassini alla guida rovinano le vite" ha detto Gymah. "Le loro azioni causano un dolore immisurabile alle famiglia, che devono affrontare perdite tragiche e non necessarie. Nonostante sia impossibile ripagare della morte di un caro, siamo determinati a far sì che le pene siano all’altezza del crimine". La proposta di legge sarà presentata dal governo lunedì 5 dicembre. Nel 2015, sono state 122 le persone condannate per aver ucciso a causa di una guida pericolosa, e altre 21 per essersi messi alla guida sotto l’effetti di stupefacenti o alcol.