Seac: aumentano gli spazi per i figli dei detenuti. "Mai più bambini dietro le sbarre" agensir.it, 4 dicembre 2016 Gli ultimi dati del Dipartimento amministrazione penitenziaria sembrano promettenti: nelle carceri italiane gli spazi per i colloqui tra familiari sono aumentati da 130 nel 2015 a 171 nel 2016; le ludoteche per bambini da 50 a 70; le aree verdi sono 99, di cui il 35% specifiche per i minori. In Europa sono 800mila i bambini che hanno un genitore in carcere, in Italia 43mila. E circa una cinquantina di minori da 0 a 6 anni vivono con le madri dietro le sbarre, in strutture di carcerazione attenuata (Icam) o, nei migliori dei casi, in case famiglie protette. "I bambini non autori di reati non devono entrare nel circuito penale e nessuna donna deve stare in carcere con i figli": questa è la richiesta emersa dal gruppo di lavoro sulle "detenute madri con figli al seguito e sui diritti dei figli di genitori detenuti", nell’ambito del 49° convegno nazionale del Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario-Seac che si è concluso oggi Roma, centrato sul tema "minori e altre vulnerabilità dietro le sbarre". "Ci sono forti pregiudizi nel nostro sistema culturale - ha detto Cristiana Ingegneri, psicologa e coordinatrice dei volontari dell’associazione Vic (Volontari in carcere) che opera al nuovo complesso maschile di "Rebibbia" a Roma. Tutti pensano che una persona che ha sbagliato non possa essere un buon genitore ma non è così". Dal 2014, grazie all’associazione "Bambini senza sbarre", è stato siglato un protocollo con il ministero della Giustizia e l’Autorità garante dell’infanzia e adolescenza, rinnovato nel settembre 2016 per altri 2 anni. Nel protocollo vengono suggerite 8 azioni concrete per preservare il legame familiare e garantire lo sviluppo psico-affettivo del bambino. Tra le varie misure, la richiesta di permessi speciali ai genitori detenuti in occasioni importanti per i figli (compleanni, recite scolastiche, degenze in ospedale), di ludoteche attrezzate, sale accoglienti per i colloqui e aree verdi. "La famiglia è una risorsa fondamentale per il recupero della persona detenuta - è stato sottolineato durante i lavori di gruppo -. Bisogna riconoscere al detenuto il ruolo genitoriale e permettere ai figli di avere un’immagine migliore dei rispettivi padri. Tutti devono avere una seconda chance, anche chi ha commesso delitti atroci". Seac: tra i "sex offenders" la recidiva è del 17%, "meno di quanto si pensi" agensir.it, 4 dicembre 2016 Tutti pensano che la recidiva dei detenuti "sex offenders" (chi ha commesso delitti e abusi sessuali) sia alta e che una volta usciti dal carcere tornino facilmente a compiere questo tipo di reati. Invece non è così: su 100 casi le recidive sono del 17% e con percorsi di sostegno psicologico questa percentuale si riduce ancora di molto. È il dato emerso dal gruppo di lavoro sui "sex offenders" nell’ambito del 49° convegno nazionale del Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario-Seac che si è concluso oggi Roma, centrato sul tema "minori e altre vulnerabilità dietro le sbarre". Questa categoria è considerata vulnerabile perché accolta in strutture separate all’interno delle carceri, per affrontare il problema in modo specialistico. Anche "se non è possibile fare un identikit del sex offender" e "ogni trattamento va personalizzato", come ha spiegato Carla Maria Xella, psicoterapeuta e coordinatrice del programma Sex offenders di Rebibbia a Roma, spesso i "sex offenders" sono stati a loro volta vittime di abusi nell’infanzia. E appartengono a tutte le categorie sociali. Gli abusi hanno il più delle volte una dimensione familiare, per cui si fatica a denunciare. Per il recupero di questi detenuti esistono gruppi specifici e "circoli di socialità e responsabilità" anche all’esterno del carcere, con due volontari che li incontrano una volta a settimana, "un continuo contatto con persone di riferimento che può evitare il reiterare del reato". "Non deve venire meno il sostegno del volontariato - ha concluso Fabio Tognotti, vicepresidente Seac - perché sono sempre persone e non mostri". Seac: "477 minori negli istituti penali, 20mila in carico ai servizi" agensir.it, 4 dicembre 2016 "Sono oggi 477 i minori detenuti negli istituti penali, altri 20mila sono in carico ai servizi sociali per minorenni. Segno che il nostro codice è un fiore all’occhiello: il Parlamento Ue sta suggerendo ad altri Paesi di imitare i nostri standard": lo ha detto oggi a Roma Laura Marignetti, presidente del Coordinamento enti e associazioni volontariato penitenziario-Seac, aprendo nello storico carcere di Regina Coeli il 49° convegno nazionale, sul tema "Minori autori di reato e altre vulnerabilità dietro le sbarre". Nonostante la normativa approvata nel 1989 abbia ridotto drasticamente la presenza dei minori dietro le sbarre a favore dell’esecuzione penale esterna (misure alternative) e dato al minore maggiori tutele durante il processo penale "il nostro codice è incompleto - ha precisato Marignetti. Stiamo aspettando da 40 anni una legge: da un anno è alla Camera e ora è parcheggiata in attesa dell’esame al Senato". Con questa legge si chiede di applicare 8 criteri, tra cui "estendere le tutele anche ai giovani adulti, ampliare le misure alternative, rafforzare l’istruzione e la formazione professionale, rafforzare i contatti con il mondo esterno". "Sappiamo che l’iter legislativo sarà difficile, lungo e con ostacoli - ha affermato Marignetti - soprattutto perché c’è una clausola di invarianza delle spese. Ma non c’è riforma se non ci sono risorse". Consolo (Dap): "dipendesse da noi potremmo trasferire tutte le detenute madri nelle Icam" agensir.it, 4 dicembre 2016 "I numeri dei posti disponibili degli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) sono superiori alla presenze effettive. Se l’amministrazione penitenziaria avesse il potere di allocazione, anziché la magistratura di sorveglianza come avviene ora, in un solo giorno potremmo non avere più donne madri in carcere": lo ha affermato oggi a Roma, nel carcere di Regina Coeli, il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, che ha aperto la due giorni del 49° convegno nazionale del Coordinamento enti e associazioni volontariato penitenziario-Seac, sul tema "Minori autori di reato e altre vulnerabilità dietro le sbarre". Riguardo alla tutela dei minori in carcere "in Italia siamo un esempio di buone prassi, tra le migliori in Europa", ha ricordato Consoli, descrivendo l’impegno dell’amministrazione penitenziaria di spostare il più possibile le donne detenute con figli verso le strutture Icam, case accoglienti in mezzo al verde, con personale in borghese, dove i bambini non percepiscono di essere dietro le sbarre e hanno a disposizione la possibilità di giocare e l’assistenza pediatrica. Una di queste strutture, ha annunciato Consolo, "sarà visitata a Milano la prossima settimana dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella". Oggi è la magistratura di sorveglianza a decidere chi destinare nelle Icam. "Ho proposto la modifica della normativa - ha detto Consolo - perché l’amministrazione penitenziaria conosce la situazione e potrebbe, in un solo giorno, non avere più donne madri in carcere". Consolo ha illustrato altri progetti di Icam, pur nella consapevolezza che al Sud ci sono maggiori carenze: accanto a Rebibbia a Roma sarà realizzata una Icam in una cascina con 7 ettari di verde, è stato già firmato un protocollo per una casa famiglia protetta per 6 donne madri e un’altra struttura è in via di realizzazione a Lauro in Campania. Nel frattempo sono attive nelle carceri aree "gialle" per l’accoglienza dei bambini, aree "verdi" per picnic delle famiglie e aree per i colloqui nelle ludoteche. P. Trani (Cappellano Regina Coeli): "un nuovo modo di porsi nei confronti dei giovani" agensir.it, 4 dicembre 2016 "Dobbiamo creare oggi una cultura di attenzione nei confronti dei giovani, un nuovo modo di porsi nei loro confronti, perché non diventino i detenuti di domani": lo ha detto padre Vittorio Trani, cappellano del carcere "Regina Coeli" da oltre 35 anni, a conclusione del 49° convegno nazionale del Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario-Seac che si è svolto a Roma sul tema "minori e altre vulnerabilità dietro le sbarre". "L’accento sui minori - ha commentato al Sir - ci ha permesso di allargare lo sguardo su un settore trascurato. È fondamentale capire quanto dolore e disagio c’è tra i figli che hanno un papà in carcere: sappiamo, ad esempio, che se l’arresto avviene in età scolare i ragazzi entrano in crisi e non studiano più, c’è un vero e proprio blocco. Ed è importante anche stare vicini ai detenuti con figli, per permettere loro di continuare a svolgere il ruolo genitoriale". A "Regina Coeli" i detenuti sono oggi 950, la metà ha figli. In chiusura dei lavori la presidente del Seac Laura Marignetti ha richiamato, in proposito, "la povertà educativa di noi adulti, la nostra difficoltà a essere un riferimento credibile nei confronti dei giovani nel dare regole e sostegno". Il buco nero del riciclaggio di Daniele Autieri La Repubblica, 4 dicembre 2016 Sessanta miliardi di euro: a tanto secondo la Direzione nazionale antimafia sommano le attività bancarie sospette avvenute nel 2015. A fronte di questa cifra enorme, il Fondo monetario internazionale punta il dito contro il sistema di controlli italiano: "Manca il coordinamento necessario a un’attività di contrasto efficace". L’anello debole della catena sono soprattutto le banche, che la crisi ha reso più fragili ed esposte al rischio di interferenze mafiose: troppo spesso dagli istituti arrivano segnalazioni confuse che non aiutano le verifiche. I soldi delle mafie nel sistema finanziario italiano. Una montagna di denaro che entra nelle banche e si mischia con quello pulito guadagnato onestamente da milioni di cittadini. La Direzione nazionale antimafia nel corso del 2015 ha segnalato transazioni a rischio riciclaggio per un valore di 60 miliardi di euro, ai quali si aggiungono 63 miliardi di euro bonificati nello stesso anno su conti correnti aperti nei paradisi fiscali. L’attività di contrasto parte dall’Uif, l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia che ogni anno riceve le segnalazioni di operazioni sospette da tutte le filiali degli istituti di credito, e viene gestita in collaborazione con le forze di polizia, Direzione nazionale antimafia e Guardia di Finanza in testa. Tuttavia, di fronte al volume e al valore economico delle transazioni analizzate (82mila arrivate alla Banca d’Italia nel 2015 per un ammontare di 97 miliardi di euro), è molto complesso risalire all’origine criminale del denaro. Questo denuncia il Fondo Monetario Internazionale al termine di una lunga ispezione condotta nel 2015 e - pur riconoscendo i passi in avanti compiuti dal nostro paese in termini di antiriciclaggio - evidenzia che il maggiore pericolo è proprio nella carenza di un coordinamento tra tutte le attività messe in atto: "L’Italia non ha ancora messo a punto una strategia di contrasto al riciclaggio di denaro e al finanziamento del terrorismo che sia coordinata a livello nazionale e pienamente basata sui rischi individuati nell’Analisi dei Rischi Nazionali (l’Analisi è stata elaborata in Italia nel 2014 dalle autorità coinvolte nella lotta al riciclaggio ed è la prima azione coordinata che analizza minacce e vulnerabilità del nostro sistema n.d.r.)". Questo perché le mafie hanno continuato a muovere i loro soldi e a esercitare la loro influenza dentro gli istituti di credito, passando dal riciclaggio tradizionale alle ipoteche assegnate senza garanzie, dagli scoperti milionari concessi a pregiudicati ai prestiti riconosciuti a imprese intestate a prestanome che non hanno mai depositato una dichiarazione dei redditi. Una tendenza in crescita negli ultimi anni, complice la crisi economica che ha reso le banche più vulnerabili. Una lotta impari. Nel 2015 le segnalazioni di operazioni sospette passate al setaccio dalla Dia nelle varie regioni italiane hanno coinvolto 165.486 persone e 82.315 imprese per un totale di 279.098 operazioni, l’84,1% delle quali per importi compresi tra i 50mila e il milione di euro. E nell’80% dei casi questi soggetti agiscono attraverso le banche. "Negli ultimi anni - spiega il penalista Roberto De Vita, direttore dell’Osservatorio IT e Sicurezza di Eurispes - il fenomeno ha compiuto un salto di qualità. Complice la crisi di liquidità che ha colpito le banche, gli istituti finanziari italiani sono diventati molto più vulnerabili e i livelli dei controlli si sono abbassati. Inoltre, l’elevato numero di segnalazioni, indiscriminate e confuse, inviate alla Banca d’Italia, rende difficile, se non impossibile, il controllo". Nel 2007, anno di istituzione dell’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, le segnalazioni inviate dagli istituti di credito erano 7mila, e in meno di dieci anni hanno subito un boom arrivando alle 82mila del 2015. Ed è anche per questa ragione che il Fondo Monetario Internazionale, all’interno del Detailed Assessment Report elaborato al termine dell’ispezione realizzata nel corso del 2015, riporta tra le "azioni raccomandate" al nostro paese quella di "riconsiderare le attuali risorse investigative, giuridiche e giudiziarie, e garantire che esse siano commisurate alla natura e alla dimensione dei rischi di riciclaggio identificati". Piccole banche e professionisti. Guglielmo Muntoni, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Roma (quella che si occupa dei sequestri dei beni) non ha dubbi: "Nel 90% dei sequestri fatti abbiamo riscontrato che prestiti e mutui riconosciuti dagli operatori bancari a soggetti della criminalità organizzata sono dati in malafede". Una circostanza confermata da una fonte interna alla Banca d’Italia. "Le maggiori irregolarità nella segnalazione delle operazioni sospette - confessa - emergono proprio dalle banche più piccole. La prassi è simile in molti istituti: viene segnalato quasi tutto, ma in modo stringato e confuso, proprio per rendere più difficile l’attività d’indagine". La stessa criticità si ripresenta quando entrano in gioco le categorie professionali. Nel 2015 le segnalazioni arrivate alla Banca d’Italia dai professionisti sono state 5.979, in crescita del 150% rispetto al 2014. In effetti, nell’attività di riciclaggio della criminalità organizzata il ruolo dei colletti bianchi è ormai strategico. "È sempre più comune - dichiara il tenente colonnello Gerardo Mastrodomenico, comandante del Gico di Roma (il Gruppo investigativo contro la criminalità organizzata della Guardia di Finanza) - assistere a fenomeni per cui qualificati professionisti mettono a disposizione delle organizzazioni criminali il loro know how, andando così a costituire una vera e propria borghesia mafiosa". Il progetto di una procura europea rischia di non vedere la luce (per colpa dei populismi) di Francesco Grignetti La Stampa, 4 dicembre 2016 Il Parlamento olandese ha votato contro, mentre giungono segnali di fortissima contrarietà anche da Ungheria, Polonia e Svezia. A un passo da un clamoroso fallimento. E anche stavolta protagonisti sono i populismi che soffiano sul Continente. Rischia seriamente di non nascere la Procura europea - in codice Eppo - che avrebbe dovuto affiancare le procure nazionali per vigilare sull’uso dei fondi europei, come sulle frodi internazionali all’Iva. Un progetto che finora è rimasto sottocoperta perché tantissime erano le ritrosie. Ma ora che il Parlamento olandese ha votato contro, e che giungono segnali di fortissima contrarietà anche da Ungheria, Polonia e Svezia, la Procura europea è davvero a un passo da abortire. Il punto è che occorre l’unanimità dei Paesi per questo varo. E l’unanimità non c’è. La commissaria europea agli Affari di Giustizia, Vera Jourovà, assieme al ministro Andrea Orlando, ha incontrato i giornalisti per lanciare un ultimo appello. "Si stima - dice la Jourovà - che ogni anno ci siano frodi sui fondi strutturali europei per 50 miliardi di euro. Una procura europea sarebbe davvero utile. Non perdo la speranza, ma al momento non ho idea di quale possa essere la procedura per sbloccare la situazione. Ci sono in corso consultazioni con i diversi ministri della Giustizia". L’Italia ha ingaggiato un braccio di ferro sulla nascente Procura europea. Anche ora il ministro Orlando dice: "Non siamo affatto soddisfatti, vorremmo un organismo forte e autorevole. Detto questo non faremo venire meno il nostro spirito di collaborazione". Il governo resta convinto che una forte Procura europea potrebbe dare un buon contributo alle magistrature nazionali anche in tema di mafia, criminalità transnazionale e terrorismo. Ma se ne parlerà in un secondo momento, quando l’Italia proporrà forme di cooperazione rafforzata ai partner europei che vorranno partecipare. Per il momento, quindi, - conclude Orlando - "noi collaboreremo con gli sforzi non protocollari della commissaria Jourovà". La settimana prossima si annuncia decisiva. Del Turco: "sinistra complice di un enorme errore giudiziario, Renzi si liberi dei giustizialisti" di Paola Sacchi Il Dubbio, 4 dicembre 2016 Parla l’ex governatore e sindacalista: "Il populismo giudiziario è una malattia di questa Repubblica. Chi è stato complice della mia vicenda non può offrire l’atto riparatore che ha fatto la Corte di Cassazione". Il figlio Guido, nostro caro collega, giornalista politico del Tg5, su Facebook scherzando ha confessato di stare ancora bevendo litri di caffè per annullare l’effetto dei calmanti presi ieri notte (tra il 2 e il 3 dicembre) prima della sentenza della Cassazione. Ottaviano Del Turco al telefono, che gli squilla ininterrottamente da questa mattina (3 dicembre) alle 6 risponde a "Il Dubbio", dichiarando tutta la sua "gioia" per l’annullamento (con rinvio) del reato più infamante, caposaldo di tutto l’impianto accusatorio nell’inchiesta sulla sanità abruzzese, ovvero quello di associazione a delinquere. L’ex governatore parla anche del suo Sì al referendum, di Lama, Craxi e Renzi. Onorevole Del Turco (ex di tante importanti cose: numero 2 di Luciano Lama alla Cgil, ultimo segretario del Psi, presidente di Regione, senatore) è soddisfatto? Sono molto contento di concludere la mia vicenda politica con una dichiarazione che dice: io non sono il capo di un’associazione a delinquere ma un uomo che ha dato qualcosa di sé alla storia della Repubblica, alla storia delle istituzioni della Repubblica. È una cosa che mi riempie di gioia, che probabilmente è anche la sanzione giusta al termine di un processo incominciato con una montagna di fango e che finisce con una montagna di riconoscimenti alla dirittura della mia esperienza alla guida della Regione Abruzzo. Purtroppo non è ancora del tutto finita la sua odissea giudiziaria. La questione fondamentale è che era rimasto in piedi un reato grande come un palazzo: l’associazione a delinquere. Ora questo reato non c’è più. Questa è la grande vittoria della sentenza di ieri. Una cosa che veramente mi riempie di gioia. Si è sentito abbandonato dalla sinistra in questi lunghi e amari anni? Sì e continua nella sua ostinazione. Perché la sinistra è stata complice di un errore giudiziario pazzesco. E dunque quelli che sono stati complici di questo non possono offrire l’atto riparatore che ha fatto la Corte di Cassazione. La sinistra ha abbandonato la battaglia garantista? Sì, il garantismo è una cosa penosa in questo Paese. Si è garantisti spesso con le cause dei tuoi amici, invece il garantismo è una regola costituzionale fondamentale che consente una vita e una dialettica civile mettendo insieme idee anche molto diverse. Però, insomma non si può avere tutto dalla vita. A me piacerebbe avere una sentenza che mi cancella i reati e che cancella dal dibattito tutti i giustizialisti cresciuti nel corso di questi anni. C’è una formula usata da Luciano Violante che io trovo molto bella. Violante ha parlato di populismo legato alle vicende giudiziarie. Il populismo giudiziario è una malattia di questa Repubblica. Tutte le sentenze che riaffermano sia i valori del garantismo sia i valori della Repubblica sono sentenze che vanno benedette. E quella di ieri è una di queste. Chi l’ha chiamata? Qualche nome ce lo può dire? No, intanto perché non voglio dimenticare nessuno e ci rimarrei male, perché sono state veramente tante le persone che mi hanno chiamato. E poi soprattutto non voglio far torto a chi avrebbe voluto chiamarmi e non ha potuto farlo. Io ringrazierò tutti quanti, uno ad uno, con la telematica, le lettere, le cartoline, le telefonate, tutto, non tralascerò niente e nessuno. Telefonate bipartisan? Sì, è da stamattina alle 6 che rispondo al telefono. Lei esprime una grande storia della sinistra riformista italiana, alla Cgil era il segretario generale aggiunto di Lama. Che ricordi ora le vengono in mente? Non mi faccia commuovere parlandomi di Luciano, perché è stata una delle persone più importanti della mia vita. Domenica 4 dicembre intanto si vota per il referendum. Che farà? Domenica si vota e io ho una ragione in più per votare Sì. Anche al premier Renzi, che è segretario del Pd, consiglia di battersi di più per il garantismo? Sì, spero che lui sia sempre garantista. D’altro canto per essere molto rispettati quando sei garantista devi essere molto severo con i giustizialisti. Renzi dovrebbe correggere quella definizione su Bettino Craxi liquidato come "la sinistra dell’opportunismo", mentre Enrico Berlinguer è stato chiamato "la sinistra dell’opportunità? Penso proprio di sì! Però queste polemiche della sinistra sono cose che drammaticamente non interessano più a nessuno. Nessuno più si entusiasma per una rissa tra ex socialisti e ex comunisti. Ma sono storie che avrebbero bisogno di altro. Io sono orgoglioso della mia storia dentro la quale c’è quella bella, gloriosa, piena anche di errori, del Partito socialista. Ma io sono nato in quella storia. E quella storia mi seguirà finché vivo. Del Turco, cade un’altra accusa. "I miei otto anni contro il fango" di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 4 dicembre 2016 La Cassazione annulla la condanna per associazione a delinquere e rimanda gli atti alla corte d’Appello per riformulare la pena. Della Sanitopoli abruzzese restano tre episodi su ventuno, ma non sono mai stati trovati i soldi. "Ci sono voluti otto anni per smontare questa montagna di fango, ma un pezzo alla volta ci siamo riusciti grazie all’ostinazione e al lavoro dei miei avvocati". Ottaviano Del Turco non trattiene la felicità. La Cassazione ha annullato con rinvio la condanna per associazione a delinquere che l’aveva portato in carcere nel luglio 2008 nella cosiddetta Sanitopoli abruzzese. Dopo il falso ideologico, l’abuso d’ufficio e 18 episodi di concussione sui 21 che gli venivano contestati, cade anche il reato più grave. E dai nove anni di condanna in primo grado, già ridotti a quattro, si può ora scendere sotto la soglia dei tre per arrivare alla sospensione della pena. Spetta alla corte d’Appello di Perugia ridefinirla: entro un anno va tutto prescritto, ma il suo avvocato Giandomenico Caiazza punta all’assoluzione. L’entusiasmo dell’ex presidente della Regione Abruzzo travolge anche il fratello in ospedale. "Piangeva dalla gioia, era felice in modo preoccupante. Gli ho detto di restare tranquillo, ha bisogno di riposo". Che significa questa sentenza per lei? "Che sono stato fortunato a trovare magistrati scrupolosi dopo averne avuti altri che su accuse false quasi minacciavano l’ergastolo". Otto anni di attesa come sono passati? "Era il 14 luglio del 2008 quando mi hanno arrestato, anzi no, scusi, il 16. Sa, accanto a me c’è mia moglie che è francese e non accetta inesattezze sulla data della Bastiglia. Il percorso per ristabilire la verità non è ancora completo ma ora siamo a una pena giudiziariamente accettabile". Restano in piedi tre episodi di concussione. Li rimarca anche l’ex capo della procura di Pescara, Nicola Trifuoggi, per dire che il reato resta e anche il danno alla sanità pubblica. Non è poco. "Qui bisogna essere chiari. Anche la corte d’Appello che mi ha condannato a quattro anni ha detto con onestà che non c’è un solo euro tracciabile di questi presunti passaggi di denaro e che però non si può escludere che siano avvenuti. Dai sei milioni iniziali si è scesi a 800 mila euro. Ora mi dovete dire come sia possibile che un’accusa unitaria si dimostri diciotto volte falsa e tre no. Ma resto fiducioso, la magistratura ha mostrato di saper ripensare le sue condanne". Nei tre episodi c’è quello basato sulle foto scattate dall’autista a Vincenzo Maria Angelini, re delle cliniche private e suo grande accusatore. Entra in Regione con una busta di soldi, ne esce con una di mele. I suoi sostenitori parlano di messa in scena dell’imprenditore per nascondere la vera origine della sua bancarotta (per la quale è stato poi condannato 10 anni). "Guardi, era chiaro dal primo momento chi fosse il mandante di quelle accuse e quali interessi c’erano dietro. Luigi Pierangeli, il presidente dell’Aiop l’associazione dell’ospedalità privata, si è costituito parte civile dopo una campagna diffamatoria tramite i suoi giornali e tv. Ma ora anche per i risarcimenti andranno riviste molte cose". Il deputato di Cor, Daniele Capezzone, sostiene che debba essere lei a essere risarcito. Cosa le resta sul piano umano e politico? "C’è una ferita profonda per la grande slealtà. Il Pd abruzzese chiese a me, un socialista, di candidarsi contro la destra che vinceva sempre, e io presi il 60%. Un risultato che mise in guardia chi pensava di continuare la "politica del caminetto". Eravamo una giunta autorevole e credibile e quindi indebolivamo la capacità ricattatrice. Abbiamo risanato i conti della sanità regionale, ma dopo l’arresto sono spariti tutti". Mi pare di capire che se dovesse tornare in politica non sarebbe col Pd... "No, anzi. Io nel Pd ci sto benissimo. Sono altri che mi chiedo come fanno a restarci. Sono loro a doversi sentire in imbarazzo". Dove festeggerà? "A Collelongo, il mio paese, dove tanti in strada mi hanno abbracciato commossi. Ma so anche che tanti altri sono rimasti in casa nel timore di incrociarmi...". Bologna: agente di Polizia penitenziaria si spara al pronto soccorso di Alessandro Cori e Rosario Di Raimondo La Repubblica, 4 dicembre 2016 Era stato visitato per un codice bianco: ricoverato in condizioni disperate. Ha 44 anni. Un agente di polizia penitenziaria di 44 anni, in servizio al centro di prima accoglienza e comunità minorile del Pratello, si è sparato questa mattina al pronto soccorso del Sant’Orsola di Bologna. L’uomo, originario di Napoli, è arrivato al policlinico in ambulanza perché lamentava un problema alla bocca, dovuto sembra a una recente caduta in bicicletta. Dopo un primo controllo, si è seduto in attesa di essere visitato dai medici. Dopo pochi minuti ha estratto la pistola d’ordinanza, l’ha rivolta verso di sé e si è sparato. È successivamente stato portato nel reparto di rianimazione dell’ospedale Maggiore in condizioni disperate. I motivi del tentativo di farla finita sono per ora sconosciuti, ma le prime ipotesi farebbero pensare a problemi di natura personale L’agente, celibe, "si era recato in ospedale accusando dei fastidi fisici", ha fatto sapere Francesco Campobasso, segretario regionale del sindacato di polizia penitenziaria Sappe. "Ritenuto da codice bianco, ha chiesto di poter attendere in una saletta del pronto soccorso. Dopo alcuni minuti si è udito uno sparo ed il personale medico ha trovato l’uomo riverso su una barella. Non si conoscono i motivi. Ha più di vent’anni di servizio e recentemente aveva partecipato alla prova scritta del concorso interno per vice ispettore. Davvero non si comprendono le ragioni di questo tragico gesto". Donato Capace, segretario generale del Sappe, spiega che "dall’inizio dell’anno sono stati cinque i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita, oltre cento i casi di suicidio nel corpo di polizia e dell’amministrazione penitenziaria dal 2000. È luogo comune pensare che lo stress lavorativo sia appannaggio solamente delle persone fragili e indifese". Salerno: magistrati e detenuti recitano assieme, lo spettacolo al carcere di Fuorni Ansa, 4 dicembre 2016 Magistrati e detenuti assieme sul palco nel carcere di Salerno. Per il terzo anno consecutivo in prossimità del Natale, una compagnia teatrale di magistrati, arrivata da Milano, ha recitato nel carcere di Salerno su iniziativa del direttore del penitenziario Stefano Martone. Uno spettacolo gratuito, con tre atti unici di Eduardo De Filippo, dedicato ai detenuti ma anche un’occasione di incontro e scambio reciproco di esperienze. Per la prima volta quest’anno anche gli ospiti della casa circondariale di Fuorni si sono cimentati nella recitazione. "Per la prima volta in venti anni - commenta il giornalista Angelo Vitale che fa parte della compagnia teatrale - i detenuti della sezione di alta sicurezza hanno recitato, anche molto bene, mettendo in scena "Gennareniello" sotto la regia di Francesco Granozi. Poi è toccata alla nostra compagnia della Luna Nuova (ex Lunatici), guidata dal regista Oscar Magi, rappresentare "Sik Sik e l’artefice magico" e "Pericolosamente", due esilaranti pièce eduardiane. Benevento: "Streghe in luce", consegnati i pannelli luminosi realizzati dai detenuti ilvaglio.it, 4 dicembre 2016 Sono stati consegnati al Comune i pannelli luminosi riproducenti i disegni dei bambini che sono stati realizzati dai detenuti della casa circondariale di Benevento nell’ambito dell’iniziativa "Streghe in luce". Si tratta di oltre 30 pannelli, costruiti da 12 detenuti (alcuni dei quali di Benevento), che saranno collocati come elementi decorativi sull’albero di Natale tecnologico di circa 20 metri di altezza, attualmente in fase di allestimento in piazza Castello. Alcuni pannelli - ricorda la nota diffusa dall’ente locale - saranno collocati anche in un padiglione dell’ospedale "Gaetano Rummo" e presso la casa di riposo per anziani "S. Pasquale". Nella mattinata di sabato 3 dicembre il sindaco Clemente Mastella, accompagnato dal direttore artistico di "Streghe in luce" Filippo Cannata, si è recato in visita presso la casa circondariale di Benevento per visionare i pannelli luminosi realizzati dai detenuti e ringraziare quest’ultimi, oltre alla direttrice Maria Luisa Palma, per il contributo che hanno inteso dare per la riuscita delle iniziative natalizie in programma nel capoluogo sannita. Pisa: "Cena libera tutti" al circolo L’alba La Nazione, 4 dicembre 2016 L’appuntamento solidale pensato in collaborazione con la casa editrice Mds si terrà il 7 dicembre 2016 alle 20. Mds editore presenta "Cena Libera Tutti", l’appuntamento solidale al circolo L’Alba di via delle belle torri, in programma mercoledì 7 dicembre alle 20. La serata prevede un banchetto di finanziamento per i progetti di reinserimento lavorativo dei detenuti del Don Bosco di Pisa e la presentazione dell’ultimo volume edito Msd "Gabbie". Nell’arco della serata saranno venduti i disegni originali Michele Bulzomì che illustrano il libro. L’editore. MdS Editore continua la propria attività all’interno della casa circondariale Don Bosco di Pisa con un nuovo corso di scrittura che fa seguito a "Favolare" dello scorso anno, realizzato con i detenuti, e personalità del mondo accademico, del giornalismo, della politica che, anche quest’anno, non hanno voluto far mancare il loro contributo. Il libro. Il progetto del 2016 si intitola "Gabbie"; l’editore ha chiesto di riflettere sulla "Gabbia" intesa non solo come momento coercitivo della propria libertà personale, ma anche come paura, come falsa coscienza di sé e del mondo di cui ognuno è portatore. Pierantonio Pardi, nella nota al volume, sostiene che la gabbia più insidiosa del nostro tempo sta dentro di noi; è la smodata voglia di apparire, di esserci, di mostrarsi nei social media, come rimedio a un destino di solitudine prodotto dalla percezione della propria irrilevanza. Gli autori. Curata da Antonia Casini, giornalista, da Giovanni Vannozzi e Michele Bulzomì, il quale lo ha anche arricchito di disegni a china che ne interpretano con rara sensibilità questo senso di straniamento e di angoscia che emerge da quest’opera corale. Per la qualità dei testi dell’antologia alla quale ha deciso di contribuire gratuitamente, fra gli altri anche lo scrittore Stefano Benni e Francesco Mati storico vivaista del distretto di Pistoia, il professore di filosofia alla Università California, Ermanno Bencivenga e il professor Alfonso Maurizio Iacono dell’università di Pisa. L’evento. Per l’importanza dell’intero progetto dopo la presentazione al Pisabookfestival coronata da uno straordinario interesse e successo di pubblico, inizia un tour di raccolta fondi che saranno interamente devoluti al carcere Don Bosco. La prima tappa cittadina è al circolo Arci l’Alba di via delle belle torri, meritoria associazione che svolge attività sociale, con efficacia e da molti anni, nel mondo del disagio mentale. La cena che comprende anche il libro costerà 30 euro. Alla cena parteciperanno anche alcuni detenuti il cui racconto è compreso nell’antologia. Televisione. Così si vive affrontando un ergastolo, la storia di chi non uscirà di prigione La Stampa, 4 dicembre 2016 Speranza contro ogni speranza. È la sfida di chi è condannato all’ergastolo ostativo, quello del "fine pena mai", che nega al detenuto ogni beneficio penitenziario e non lascia prospettive di una vita fuori dal carcere. Parte da qui il racconto di "Spes contra spem - liberi dentro", il film in onda domenica 4 dicembre alle 23.15 su Sky Atlantic HD e disponibile anche su Sky On Demand. Per la regia di Ambrogio Crespi, "Spes contra spem - liberi dentro", racconta l’ergastolo attraverso la voce di chi lo vive sulla propria pelle. Detenuti, ma anche agenti e operatori dell’amministrazione penitenziaria, che, grazie ai programmi di recupero dei condannati, provano a restituire a queste persone un’aspettativa per il futuro. Le parole chiave della narrazione sono "colpa" ed "espiazione", ma anche, appunto, "speranza" e "cambiamento". Realizzato all’interno del carcere milanese di Opera, "Spes contra spem - liberi dentro" - titolo tratto dalla lettera di San Paolo ai Romani sull’incrollabile fede di Abramo che "ebbe fede sperando contro ogni speranza" - dà voce a uomini condannati all’ergastolo, alcuni all’ergastolo ostativo, che oggi sono un manifesto delle istituzioni e ringraziano senza dubbi chi li ha sottratti alle loro vite "libere" perdute. Il film - presentato in anteprima alla 73° edizione della biennale del cinema di Venezia, alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando - vuole essere un manifesto contro la criminalità: attraverso le parole di chi ha commesso reati gravi, "Spes contra spem - liberi dentro" sgretola il mito del criminale stesso, senza nessuna clemenza, nessun buonismo e nessuna posizione ideologica preconcetta. Libri. "Torturo", un saggio di Donatella Di Cesare di Wilodek Goldkorn L’Espresso, 4 dicembre 2016 Non solo Inquisizione e Pinochet. Di fronte agli attentati il sadismo del potere trova nuove ragioni. In un saggio Donatella Di Cesare denuncia la violenza nascosta che infetta anche le democrazie. Facile indignarsi per la tortura, considerarla un retaggio del Medioevo, un’odiosa eredità dell’Inquisizione che non dovrebbe aver luogo nel nostro mondo civile e progredito, quando a praticarla sono regimi dittatoriali o (fino a pochi decenni fa) Paesi colonialisti nelle loro lontane propaggini africane o asiatiche. E ancora, tutti noi restiamo sgomenti e troviamo difficili da sentire e leggere i racconti delle donne schiave vendute, brutalizzate, stuprate, distrutte nel corpo e nell’animo dai maschi guerrieri del califfato, tra Raqqa e Monte Sinjar. Ma che dire quando la tortura viene applicata là dove le autorità sono legittime, democraticamente elette, e quando il tormento estremo inflitto al corpo del prigioniero (e la tortura consiste nel ridurre l’essere umano al mero corpo, al corpo dolente, al dolore che annienta ogni altra percezione e cancella il futuro perché l’unico desiderio del torturato è morire, per porre fine al supplizio e alla vergogna), che dire appunto quando la tortura viene giustificata con le necessità della lotta di una democrazia al terrorismo? E in fondo, quante volte abbiamo visto, stampata sui giornali, trasmessa in Rete e nelle tv la domanda: è lecito, allo scopo di salvare vite umane, torturare un terrorista (mai si usa la parola uomo in quei casi) a conoscenza di una bomba che sta per scoppiare? Di tutto questo e di molto altro parla Donatella Di Cesare nel suo fondamentale libro, intitolato semplicemente "Tortura", senza sottotitolo né spiegazioni, a sottolineare lo scandalo e la forza della parola stessa, uscito da Bollati Boringhieri. Filosofa, romana, allieva di Hans-Georg Gadamer, esegeta critica di Martin Heidegger (si veda il caso dei "Quaderni neri"), in questo testo radicale nel suo impianto politico e coraggioso nell’affacciarsi sull’abisso dell’indicibile, Di Cesare sostiene una cosa semplice: la tortura ha sempre proliferato nelle democrazie; solo che è una pratica occulta, "fenice nera" la chiama lei, nascosta nei suoi dettagli ai nostri occhi: una vicenda intima in apparenza, tra il carnefice e la vittima, e che tuttavia risulta l’epifania del potere. All’Espresso confida: "E un’illusione di stampo illuministico pensare che con la conquista della democrazia e il progredire delle libertà si abolisca la tortura". E poi riferendosi alla situazione italiana spiega: "Certo, sarebbe molto bello introdurre il reato di tortura nel nostro Codice penale, ma non basta, perché c’è qualcosa che va oltre la questione giuridica e che permette il proseguimento di questa pratica". E allora, come chiamare quel qualcosa che va oltre i codici penali? Forse si tratta della necessità, intrinseca in ogni potere, di controllare il corpo e i ritmi della vita dei cittadini. La tortura in fondo non è altro (proprio per la sua manifesta e radicale brutalità) che un esercizio di controllo estremo sul corpo dell’Altro, del prigioniero, del terrorista, del sospetto e potenziale attentatore. Il carnefice lavora la carne della vittima in uno spazio concreto e definito, ma al contempo simbolico, proprio per affermare: anche se sei un cittadino, qui, in questa camera chiusa, sei solo il corpo dolente, e sono io a determinare la misura del tuo dolore e sono solo io a poterti liberare da quel dolore, procurandoti la morte oppure rilasciandoti. Il mio arbitrio contro il tuo corpo: è quella la situazione che si crea tra il boia e il torturato; dove l’arbitrio non è emanazione di una personalità perversa (anche se capita), ma l’espressione appunto più radicale possibile dello Stato. In altre parole: la tortura, annullando il cittadino come categoria, annulla anche lo spazio pubblico. Ecco perché nelle democrazie si tortura in segreto. Ma segreto fino a un certo punto. Antonin Scalia, scomparso qualche mese fa, è stato un giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti. Conservatore, in una discussione ebbe a dire (la citazione è tratta da "The Atlantic Monthly"): "Jack Bauer ha salvato centinaia di migliaia di vite umane (...) C’è un Tribunale capace di condannare Jack Bauer? Io penso di no". Jack Bauer è un personaggio fittizio, ed è proprio quel dettaglio a rendere la situazione interessante: protagonista della serie tv "24", agente del controterrorismo, fa largo uso di tortura per prevenire, appunto, gli attentati. La sua popolarità in America è dovuta anche al fatto che il suo ruolo è recitato dall’affascinante ed elegante Kiefer Sutherland. Jack Bauer, insomma è il carnefice simpatico. E ancora, in "Screening Torture. Media Representations of State Terror and Political Domination" ("La tortura va in onda. Come i media rappresentano il terrorismo di stato e il dominio politico") a cura di Michael Flynn e Fabiola Salek, vengono elencati e analizzati decine di film prodotti all’epoca della lotta al terrorismo, in cui si fa uso, e talvolta apologia, della tortura. È nota la polemica attorno a "Zero Dark Thirty" di Kathryn Bigelow, dove la regista suggerirebbe che il nascondiglio di Osama Bin Laden fu scoperto grazie all’interrogatorio "duro" di un prigioniero. Ma nel libro si parla anche del "buon carnefice" interpretato da Denzel Washington (un altro attore simpatico e intelligente) in "Men on fire". Lui tortura per sapere dove si trova una bambina rapita in Messico. E alzi la mano chi non sarebbe d’accordo nell’applicare l’estrema brutalità per salvare la vita a una ragazzina incarnata dalla tenera (all’epoca aveva dieci anni) Dakota Fanning. C’è un abissale contrasto tra l’immaginario hollywoodiano del Ventunesimo secolo e "Garage Olimpo", film canonico per quanto riguarda la tortura (paragonabile allo status canonico di "Se questo è un uomo" rispetto ad Auschwitz), girato alla fine del secolo scorso dal regista Marco Bechis. Bechis raccontava la storia di una desaparecida in Argentina. La protagonista, Maria (l’allora diciannovenne Antonella Costa) è legata nuda a un tavolaccio di ferro arrugginito. Non c’è giustificazione al supplizio e le immagini sono delicate, mai esplicite. La brutalità accennata senza epifania di sangue finisce per produrre smarrimento, estraniamento e paura della morte. Spiega Bechis: "La tortura non ha immagini". L’idea del film fu concepita durante un viaggio nella Bosnia in guerra, dove "i soldati avevano più paura della tortura che della morte". E qui siamo nel cuore di tenebra e nel focus del libro di Di Cesare. La filosofa mette insieme riflessioni attorno a opere di letteratura e cronaca. Contesta l’approccio cosiddetto "pragmatico", alla questione. Critica il guru dell’America liberai Michael Walzer che in un saggio (per la verità risalente a una quarantina di anni fa) sostiene che chi governa, qualche volta debba "sporcarsi le mani". Se la prende con un altro liberai, Michael Ignatieff, e con la sua teoria del "male minore" per cui talvolta sono lecite azioni moralmente ripugnanti. Il male minore è sempre un male, ricorda la filosofa, riecheggiando Hannah Arendt. E annota che la "teoria della bomba a orologeria", per cui tutto è lecito per salvare le vite umane, si basa su ipotesi non verificabili, estremizzate e abusate da filosofie che vogliono spacciarsi per pragmatiche e realiste, senza esserlo. Perché alla fine resta la nuda realtà e i nudi corpi, e la morte che è preferibile alla sofferenza. C’è Abu Ghraib e Guantanamo; la caserma Bolzaneto e le percosse subite in tante carceri di democrazie funzionanti. La tortura è un corpo a corpo tra il boia e la vittima; e c’è poco da teorizzare e niente da giustificare. Negli anni Cinquanta in Francia fu celebre il caso di Henri Alleg, ebreo di origini polacche, militante comunista in Algeria, che subì torture orrende e ne parlò in un libro "La Question", confiscato dalla censura, con la postfazione di Jean-Paul Sartre. Alleg non tradì, resistette. Sartre lo elogiò, perché in fondo, la sua attrazione per il nichilismo comprendeva pure l’ammirazione della figura dell’eroe comunista. Scrisse: "Colui che cede all’interrogatorio, non soltanto è costretto a parlare, ma gli è stato imposto per sempre uno status: quello del sotto-uomo". Anche Di Cesare nel suo libro spiega quanto lo scopo della tortura non è ottenere informazioni o punire. Dice però che alla tortura non si resiste. Ma allora a muovere il boia è il piacere, lo stesso piacere sadico che provavano gli uomini dell’Inquisizione mentre interrogavano la strega nuda, o il boia argentino che, come racconta una sua vittima, chiamava la picana, lo strumento di tormento, con il nome femminile e intimo Carolina? "Io non entro nella questione della radice del Male. In questo libro ho voluto solo fare la fenomenologia della tortura, perché ripeto, fare una legge che la dichiari reato va bene, ma non basta", risponde. E con questo riapre la questione. L’impegno più grande: sottrarre i ragazzi al destino criminale di Ernesto Mazzetti Il Mattino, 4 dicembre 2016 Ci piacerebbe tanto sapere cosa passava per le teste di quel centinaio di giovani detenuti nel carcere di Poggioreale mentre la scorsa settimana assistevano alla proiezione loro riservata di "Robinù", il docu-film di Michele Santoro. Narra storie di camorristi in erba o aspiranti tali che con uso delle anni rapinano, minacciano, estorcono. E che difendono il loro quartiere - novelli Robin Hood - dall’intrusione di coetanei, con pari violenza impegnati ad affermare un loro protagonismo sulla scena criminale napoletana. Presumo che i responsabili dell’istituzione carceraria che hanno favorito l’iniziativa abbiano visto in essa occasione per secondare nei giovani spettatori riflessioni tali da suscitare pentimento e volontà di redenzione. Spero che l’intento pedagogico abbia successo e che almeno qualcuno dei giovani carcerati ne tragga profitto bastevole per non rientrare rapidamente a Poggioreale, o istituto consimile, una volta uscitene. Mi resta però qualche dubbio. Di qui la curiosità verso i pensieri che attraversavano la mente di quegli spettatori. Nell’ovvia impossibilità di tale percezione, tocca lasciar spazio a qualche congettura e, come si dice, ad indizi esterni. Anzitutto taluni forniti dalla cronaca. La quale ci mostra come, ormai decimati da arresti o uccisioni i tradizionali capibanda nell’area metropolitana di Napoli, si siano creati dei vuoti di potere camorristico. Onde s’è aperta una sorta di gara alla conquista di tale potere. Da parte di discendenti diretti, ma anche di estranei che scendono in campo negando riconoscimento a siffatte eredità familiari. Un secondo indizio, non suffragabile con statistiche, ma con indicazioni credibili di persone attive in indagini e fatti giudiziari, è la reiterazione nei reati da parte di giovani che pur avevano avuto esperienze di carcere: quello minorile, a Nisida e Airola; ancor più quello ordinario. D’altronde, e qui m’addentro in congetture, i cattivi, e non di rado tragici, esempi non sempre ingenerano ripulsa e timore. Anzi. Non pochi coetanei ostentano ammirazione verso la memoria di quell’Emanuele Sibilio di Forcella, ucciso a 19 anni agli albori della carriera camorristica. Ci sono forme di ammirazione limitate a segni esteriori: barba, tatuaggi. Ricordate Genny Savastano? Il chiattone con la cresta protagonista del Gomorra televisivo: quanti giovani, non necessariamente malavitosi, si fecero acconciare i capelli nello stesso modo. C’è poi l’imitazione nefasta; l’arruolamento in bande criminali. Ora limitato al coinvolgimento nelle "stese", le scorribande in moto sparando raffiche, fenomeno che dalla Sanità s’è spostato m altri quartieri. Ancor peggio, la partecipazione ad omicidi Al docu-film di Santoro sui giovani criminali, si è aggiunto un docu-romanzo di Roberto Saviano. A "Gomorra", libro che gli conferì fama, ha fatto ora seguire "La paranza dei bambini". Gli adolescenti che individua come partecipi della "paranza" - scrive - non hanno domani e nemmeno ci credono. Non temono il carcere ne la morte. Vogliono i soldi, perché garantiscono un potere, sia pur ristretto nell’ambito d’un quartiere e destinato a durare poco. Se tale idea di potere restava comunque accettabile obiettivo esistenziale nella mente dei giovani detenuti mentre assistevano alla proiezione di "Robinù", toccherà malinconicamente ammettere che Napoli è destinata ad uscire sconfitta da una grande sfida: riassorbire nell’alveo civile un’aliquota rilevante dei suoi figli. Il messaggio che Santoro e Saviano lasciano trasparire nei loro lavori è che al riguardo vi sia una responsabilità diffusa dell’intera società. Trovo che ciò sia proponibile solo nella misura in cui tale società non è riuscita negli ultimi decenni a rendersi protagonista di processi di sviluppo economico che irrompessero, offrendo possibilità di lavoro e di crescita sociale, nelle aree di degrado materiale ed anche, per conseguenza, culturale, sconvolgendone l’atavica estraneità al progresso morale. Ma troppe sono state le vicende storiche che a tale degrado hanno contribuito. Onde altrettanto lungo ne risulterà il risanamento. Anche perché quel che la scuola ed altre istituzioni pur riescono a costruire nella coscienza di tanti giovani, purtroppo viene sovente distrutto quando essi si ritrovano immersi in ambiti familiari e rionali che nel degrado e nella devianza sono ormai irrimediabilmente radicati. Onde, unica salvezza sarebbe sottrarre tali giovani a siffatti contesti. Missione, allo stato, impensabile. Il terrorismo islamista in Italia tra fede e spaccio di Floriana Bulfon L’Espresso, 4 dicembre 2016 Nel nostro paese il proselitismo dell’Isis si intreccia sempre di più con la criminalità comune. E cresce soprattutto dietro le sbarre e tra chi ha difficoltà ad integrarsi. Tinello, tende rosse, mattonelle bianche e sul fornello acceso si sperimenta l’esplosione. L’ordigno è stato appena assemblato nella stanza accanto. Taglierino, martello, lo zolfo ricavato dai fiammiferi e poi un cilindro cavo da riempire. Tutorial di prototipi di bombe e inneschi fai-da-te. Si trovano sul profilo di Farees Alfqeeh, alias Alfaqi Abdulkhaleq, yemenita ma forse somalo, ventinovenne trapiantato a Trieste. Li illustra in canottiera dal suo appartamento, nel centrale quartiere a ridosso dell’Ospedale Maggiore. Farees in città è conosciuto. Una sera con un suo amico ha fatto volare i tavolini di un bar e picchiato due ragazze. Ha anche precedenti per furto, rapina e ubriachezza. Ora si diverte sui social, garantisce che è solo un gioco. Fa il segno di vittoria dalla camera trasformata in sala di preghiera. Il letto accanto è quello di Karim, giovane iracheno già in contatto con i foreign fighters Pirabl Shwan rientrato a Bolzano, sottoposto a perquisizione, e infine salito su un volo per la Turchia, e Sheikhani Mohamed. Lui era partito da Brescia e, dopo aver militato sotto la bandiera nera del Califfato, ha raggiunto Trieste con la preparazione di un combattente. Da gennaio 2015 sono state espulse dall’Italia per motivi legati al terrorismo jihadista 123 persone, più di una cinquantina solo negli ultimi otto mesi. Oltre la metà di loro ha precedenti di polizia per reati minori. Vite comuni di delinquenti comuni. Soldi quando tutto fila liscio e carcere quando il piano non riesce. E poi un motto di spirito: fare la guerra santa in casa nostra. È su questa strada che si muovono gli investigatori dell’Antiterrorismo: intercettare "born-again Muslims", giovani musulmani di nascita non praticanti con trascorsi legati a spaccio di droga e pratiche non conformi ai dettami dell’Islam in cerca di "redenzione" o che vedono nel sedicente Stato islamico la possibilità di avere, almeno per una volta, un ruolo da protagonisti. "La presenza di soggetti con precedenti nei gruppi terroristici è in crescita e, in un momento in cui lo Stato islamico perde progressivamente il controllo del territorio in Iraq e Siria, potrebbero concretizzare il jihad proprio dove vivono, usandolo per dare una veste di rispettabilità a comportamenti violenti", sottolinea un esperto del nostro Antiterrorismo. E così non viene sottovalutata la lettera in cui un detenuto segnala: "Tre tunisini che conosco sono pronti a immolarsi". Qualche giorno dopo la polizia giudiziaria si precipita all’ufficio matricola del penitenziario e lui svela che quei suoi connazionali vivono da anni in una tranquilla provincia del nord Italia, campano spacciando e ora si sono buttati nel business dei migranti. "Al solito prezzo di 400 euro" Mohamed Kamel Eddine Khemiri, tunisino di San Marcellino nel casertano, che si definiva "issiano finché avrò vita", è stato arrestato dal Ros perché procurava contratti di lavoro e buste paga fittizie rilasciate da aziende tessili compiacenti. Un intreccio, quello tra criminalità comune e terrore, delineato in una recente analisi dall’International centre for the study of radicalisation and political violence di Londra che evidenzia come "già oggi più del 40 per cento delle cellule terroristiche in Europa siano finanziate attraverso i proventi di spaccio e furti". Gran parte degli ultimi attentati nel Vecchio Continente ha visto protagonisti giovani con un passato di criminalità comune, lupi solitari o cellule autogestite che hanno colpito "soft target", ossia obiettivi con bassi livelli di sicurezza, con armi comuni o ordigni da costruire nel garage di casa seguendo istruzioni reperibili su Internet come quelle descritte da Alfqeeh. Gli investigatori hanno quindi modificato gli indici spia di radicalizzazione: "Non ci concentriamo solo su cambiamenti quali farsi crescere la barba, non bere alcolici o indossare abiti tradizionali", rivelano. "Gli attentatori del Belgio erano delinquenti abituali con condotte apparentemente non distanti da quelle di altri criminali non musulmani. È necessario condividere i dati tra le forze dell’ordine, tener conto, in Italia in particolare, del ruolo della criminalità organizzata nel gestire le attività più remunerative e prestare attenzione ai flussi di finanziamento". Seguire il denaro e facilitare lo scambio di informazioni, la lezione di Giovanni Falcone. Soldi che viaggiano attraverso operazioni di money transfer e carte prepagate. Così a Bari un quarantenne di Erbil, già noto alla Digos perché vicino a un suo connazionale ritenuto responsabile di "favoreggiamento all’ingresso in Europa di persone collegate alla cellula italiana di Ansar Al Islam, sarebbe stato incaricato di procurare visti d’ingresso. Obiettivo: "Favorire l’immigrazione e la permanenza clandestina di personaggi che starebbero pianificando azioni di tipo terroristico". "Questi criminali sono i falliti di cui parlava il Profeta", denuncia Ahmed El Balazi, l’imam di Vobarno, paesino del bresciano dove è cresciuto Anas El Abboubi, il giovane rapper marocchino andato a combattere in Siria. Qualche mese fa alcuni suoi amici avrebbero cercato di fare proselitismo in particolare tra ragazzi con precedenti per minacce e rapina. Per El Balazi: "Sono giovani non seguiti dalle famiglie, che non vivono bene né in Italia né nel loro paese di origine. Si sentono non accettati, inutili". Una condizione che si può acuire proprio nel luogo che dovrebbe fermare ogni violenza: il carcere. "Fratello farò un po’ di soldi e andrò. Non voglio più stare dietro a questo mondo", scriveva in chat il macedone Karlito Brigande, uno dei tanti alias di Vulnet Maqelara. Un passato da militante dell’UçK - l’Esercito di liberazione nazionale che si prefiggeva la costituzione di una Grande Albania etnica - poi la criminalità e infine il carcere di Velletri. Una volta in libertà s’è messo a cercare in rete i discorsi di Abu Bakr al-Baghdadi, un fucile mitragliatore m48 e ha organizzato il suo viaggio destinazione Iraq con l’obiettivo di immolarsi. Quando i Carabinieri lo fermano nel suo appartamento, tra i palazzoni della periferia sud-est di Roma, trovano manoscritti in lingua araba, contatti con utenze macedoni, monegasche, saudite e anche quelle di due giovani che abitano nel quartiere, sospetti jihadisti alla fine arrestati per possesso di documenti contraffatti e cocaina. Sul tavolo c’è anche un foglio con annotato "Barhoumi Firas" l’imam fai-da-te che in carcere gli scriveva "sai non tutti gli uomini sono uomini, il leone rimane leone, il cane rimane cane" e Karlito era pronto a sentirsi leone: "Ripeto tante volte la parola Allah perdonami dal peccato mi purifico per te". In Italia i detenuti sono circa 54mila, 11mila quelli provenienti da aree di religione musulmana, ma solo 6.600 praticanti. "A questi vanno aggiunti altri 1.400 che non dichiarano la propria appartenenza religiosa al momento dell’ingresso in carcere, forse anche per ragioni prudenziali", spiega Santi Consolo, a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il timore è quello di esporsi a un controllo maggiore dichiarando di essere musulmani. 41 sono i reclusi con l’accusa di terrorismo internazionale e si trovano solo in parte nel circuito AS2, "Alta sicurezza, livello 2", del carcere di Rossano Calabro. "Per curare il percorso di deradicalizzazione - nota Consolo- si devono evitare eccessive concentrazioni, per questo motivo li abbiamo destinati anche ad altri istituti attrezzati per percorsi rieducativi mirati". Altri 380, di cui alcuni italiani, sono monitorati. Oltre mille agenti vengono dedicati al controllo del fenomeno e si pone particolare attenzione alle seconde generazioni: "Su 480 detenuti nelle carceri minorili ne stiamo attenzionando una decina e circa la metà di questi sono nati in Italia", rivela Consolo. Per evitare che si diffondano messaggi violenti, soprattutto tra i più giovani e vulnerabili, la preghiera deve svolgersi correttamente. "Come avviene per i detenuti di altre confessioni anche per i musulmani che si trovano in carcere, la religione può aiutare a superare l’avvilimento divenendo in qualche modo anche un fattore di riabilitazione", nota Mohammed Khalid Rhazzali, docente di sociologia della politica e della religione presso l’università di Padova e autore della prima e più completa ricerca sul tema, "L’Islam in carcere". A novembre 2015 il Dap ha siglato un protocollo d’intesa con l’Unione delle comunità e Organizzazioni islamiche, ad oggi in carcere però sono autorizzati ad entrare solo 14 imam e poco più di una ventina di mediatori che parlano arabo e possono intercettare eventuali incitazioni all’odio o segnali di radicalizzazione. I crimini informatici in Italia crescono del 9 per cento rispetto al 2015 di Luca Indemini La Stampa, 4 dicembre 2016 Il rapporto Clusit segnala un incremento degli attacchi ad aziende italiane. E dal convegno del Csi su cybersecurity e Pa emerge la necessità di un costante scambio di informazioni tra pubblico e privato per arginare il fenomeno. "Basta una ricerca veloce: digitando su Google "Viagra e anagrafe", di solito emergono almeno una decina di siti dei comuni che sono stati bucati", racconta Claudio Telmon del Clusit, mentre presenta il rapporto 2016 sulla sicurezza Ict, dell’Associazione Italiana per la Sicurezza Informatica, durante il lunch seminar del Csi "Cybersecurity: evoluzione e nuove sfide per la Pa". Nel primo semestre del 2016 il cybercrime cresce del 9% sull’ultimo semestre del 2015; si impennano del 144% gli attacchi nel settore della Sanità; segnano + 129% i Malware e i Ransomware e + 1500% Phishing e Social Engineering. I primi mesi del secondo semestre hanno invece evidenziato un incremento esponenziale degli attacchi DDoS, che hanno segnato una serie di record di intensità: a giugno è stato lanciato un attacco da 360 Gbps contro un’azienda italiana, pochi mesi dopo l’asticella si è alzata a 600 Gbps. E con il diffondersi dell’Internet of Things, il numero di oggetti insicuri e non aggiornabili è destinato a crescere, facendo così aumentare il numero si oggetti connessi da utilizzare per guidare attacchi a basso costo. Questa è infatti una delle altre tendenze emerse: si riducono gli attacchi complessi e sofisticati. "Perché sviluppare attacchi complicati quando si può entrare in un sistema facilmente, con un semplice messaggio di posta elettronica?", si chiede Claudio Telmon. Dai numeri del Clusit emergono due problemi, che spesso viaggiano a braccetto: da una parte scarsi investimenti in "security", nella convinzione che gli attacchi capitino agli altri, mentre, come ha sottolineato Riccardo Rossotto, Presidente del CSI: "Il problema non è se succederà, ma quando mi succederà che strumenti avrò adottato per difendermi?". O spostando ancora l’asticella, come evidenziato da Mario Terranova di AgID: "Il vero problema non è tanto quando succederà, ma quando è successo, considerando che in media passano 8 mesi dall’attacco a quando i diretti interessati se ne rendono conto". Accanto alla componente tecnologica, è altrettanto importante la formazione delle persone e la capacità di avere una visione complessiva del problema, perché, come ha concluso Claudio Telmon, "la sicurezza non è un tema solo IT". Sull’importanza trasversale della sicurezza torna, in apertura della tavola rotonda, Antonio Lioy, professore del Politecnico di Torino, Dipartimento di Automatica e Informatica: "Fino a pochi anni fa l’Unione Europea finanziava progetti verticali sulla cyber security, poi con Horizon 2020 i progetti di cybersecurity sembravano spariti. Semplicemente, perché il tema sicurezza è diventato trasversale: qualunque progetto deve avere una parte di cybersecurity, per essere approvato". Altro tema sempre più ricorrente quando si affrontano i temi legati alla cybersecurity è quello dell’inquadramento normativo e della cyber insurance: "Attualmente non esistono assicurazioni efficienti contro il cybercrime - sottolinea l’avvocato Giuseppe Vaciago -. Tema complesso, ma che bisogna iniziare ad affrontare". Sul versante normativo, potrebbe avere impatti interessanti anche sul tema sicurezza, il Gdpr - General Data Protection Regulation, regolamento con cui la Commissione europea vuole rafforzare e unificare la protezione dei dati personali all’interno dei confini dell’UE. "Potrebbe rivelarsi una buona scusa per incrementare la sicurezza - ribadisce Vaciago. Le aziende che adottano misure adeguate, verrebbero sollevate dall’obbligo di notificare e rendere pubblici gli attacchi e i danni subiti, diversamente previsto. E in settori delicati, come quello bancario, ad esempio, questo potrebbe essere un buon incentivo ad adottare tutte le misure di sicurezza necessarie". Per scoprirne l’efficacia però, dovremo aspettare ancora alcuni mesi: adottato nell’aprile 2016, il regolamento verrà applicato a partire dal 25 maggio 2018. Sul Gdpr punta molto anche il professor Lioy: "Il regolamento introdurrà il concetto di privacy by design e di conseguenza la sicurezza dovrà essere integrata nel processo. Non sarà più una scelta successiva, ma come la cintura di sicurezza sulle macchine dovrà essere di serie, poi al massimo uno può scegliere di non usarla". Un nuovo elemento di sfida la inserisce Stefano Gallo della Città della Salute: "Sarà fondamentale passare alla gestione di servizi esternalizzati standardizzati, attraverso privacy level agreement, che garantiscano rispetto della privacy e sicurezza, non solo nella trasmissione di documenti sensibili come le cartelle cliniche, ma in molti casi già a livello delle apparecchiature, come nel caso di interventi a distanza attraverso la fibra ottica". E in questo caso l’unica risposta possibile è innalzare il livello degli investimenti, perché come rimarca Franco Carcillo della Città di Torino, "Spesso la gratuità si paga in termini di sicurezza e la prevenzione vuol dire risorse". Risorse da investire non solo in tecnologia, ma anche e soprattutto in persone e formazione. "Alla fine, l’elemento umano ha un peso importantissimo - sottolinea Paola Capozzi, della Polizia Postale. Le falle nei sistemi, nella maggior parte vanno imputati a errori umani". E le fa eco Terranova di Agid: "In Italia mancano persone competenti, anche perché quelli che formiamo li perdiamo, se ne vanno all’estero dove vengono pagati meglio". Una possibile risposta al problema sicurezza, la propone il professor Lioy: "Recentemente a Bruxelles abbiamo proposto un progetto che però non è stato colto dalle aziende italiane, mentre ha convinto Hewlett-Packard e Telefonica, che metteranno sul mercato un prodotto derivante dai nostri studi. Si tratta di un oggetto da frapporre tra il dispositivo utente, qualunque esso sia, e il resto del mondo". Il progetto cerca di definire la sicurezza per conto del singolo individuo e standardizzarla in tutte le situazioni, inserendolo però in un sistema gerarchico di controllo multilivello, perché con le politiche Byod - Bring Your Own Device, anche l’azienda deve poter stabilire vincoli e limiti di sicurezza, sui dispositivi dei dipendenti. Così come un genitore che paga la connessione del figlio minorenne, deve poter intervenire sul tema security. Accanto agli strumenti, servono le norme, evidenzia Vaciago: "Non ci sono incentivi per sviluppare sistemi di cybersecurity. È fondamentale definire degli standard e prevedere poi delle forme di incentivo anche economico per le aziende che investono in cybersecurity". Ma al momento, uno degli elementi centrali nella lotta al cybercrime è la coordinazione. "Serve una rete continua di scambio di informazioni tra pubblico e privato - spiega Paola Capozzi. È nata in quest’ottica la Polizia Postale: attraverso un’attività di monitoraggio continuo sulle strutture critiche e ricevendo le segnalazioni dei privati, che subiscono attacchi, è possibile intervenire con tempestività, limitare i danni e trovare rimedi e soluzioni efficaci". E sulla stessa lunghezza d’onda la chiusura di Carcillo: "Un Consorzio come il CSI ha proprio questa funzione: mette a fattore comune diverse esperienze, propone regole e standard di controllo omogenei, offrendo una grande opportunità per i consorziati". E proprio questa esperienza il Csi è pronto a condividerla a livello nazionale, con il Team per la Trasformazione Digitale : "A inizio 2017 abbiamo un incontro con Diego Piacentini per metterci a disposizione, portando la nostra esperienza su temi delicati come quello della sicurezza". Non è un caso che il Manifesto dei principi tecnologici e operativi del team, reciti al primo punto: Sicurezza e privacy sono i principi più importanti; mai, per nessuna ragione, scenderemo a compromessi. I tormenti di un’Europa che gioca sempre in difesa di Franco Venturini Corriere della Sera, 4 dicembre 2016 Il referendum italiano e le presidenziali austriache sono gli ultimi episodi di un anno difficile vissuto dall’Ue, insanguinata dal terrorismo jihadista, avvilita dalle divisioni interne, offesa dalla Brexit, intimorita dall’elezione del successore di Obama, incapace di contenere le minacce che l’assediano. Dall’odierno voto degli italiani e da quello concomitante degli austriaci verranno forse (è d’obbligo una scaramantica prudenza) gli episodi conclusivi dell’ennesimo annus horribilis vissuto dall’Europa. Insanguinata dal terrorismo jihadista, avvilita dalle crescenti divisioni interne sul fenomeno migratorio e sui rapporti con la Russia, offesa dalla Brexit e da una marea populista fortemente presente anche al di qua della Manica, intimorita infine dall’elezione di Trump e dai suoi scomodi propositi, in questi undici mesi del 2016 l’Europa ha giocato sempre in difesa senza peraltro riuscire a contenere le minacce che l’assediavano. Non deve accadere lo stesso quando le urne italiane e quelle austriache avranno emesso i loro verdetti. Le due votazioni, beninteso, sono assai diverse l’una dall’altra. In Italia si vota pro o contro una riforma costituzionale che in ogni caso non cambierà più di tanto il volto del Paese. In Austria è in gioco l’elezione del primo Presidente di estrema destra dalla fine della Seconda guerra mondiale, può vincere il rappresentante di un partito creato da un gruppo di ex nazisti negli Anni cinquanta, si dovrà verificare fino a che punto Norbert Hofer sarà riuscito nella sua operazione doppiopetto. Mentre sono fuori gioco i due partiti tradizionali socialista e popolare, possono esserci conseguenze per l’Italia (di sicuro un "muro" al Brennero, forse persino una richiesta di "riunire" il Tirolo) e possono cambiare gli equilibri europei se l’Austria andrà a raggiungere il gruppo di Visegrad guidato dal duo polacco-ungherese. E soprattutto, la lente di osservazione europea valuterà con una certa ansia l’effetto Brexit e l’effetto Trump in vista dei prossimi esami elettorali in Olanda e in Francia. Riflettori tutti sull’Austria, dunque? No di certo, perché a riequilibrare la contabilità dei rischi c’è l’incomparabile peso specifico dei due Paesi, le loro dimensioni assai diverse, il fatto che la popolazione austriaca è meno di un sesto di quella italiana, la consapevolezza che la nostra economia è la terza dell’eurozona e che un naufragio dell’Italia potrebbe far crollare l’intera costruzione europea. Dall’Italia una Ue con i nervi a fior di pelle si aspetta una garanzia di stabilità per il "dopo", ed è questo il vero auspicio che ha indotto alcune capitali europee (e anche quella statunitense) ad esprimere fugaci preferenze di schieramento. Diventa possibile, allora, l’individuazione delle responsabilità di ognuno dopo che le urne del 4 dicembre avranno parlato. Le istituzioni e le forze politiche italiane (tutte) avranno la responsabilità di non spingere il Paese verso una imprevedibilità politica ed economica che non possiamo permetterci se vogliamo continuare ad avere una voce in Europa e continuare a riceverne i benefici (sì, i benefici, malgrado le strumentalizzazioni menzognere in Italia e la catastrofica comunicazione di Bruxelles). E avranno anche la responsabilità, le nostre forze politiche (tutte) di farci superare le parole troppo forti pronunciate in una pessima campagna elettorale, le volgarità troppo avvilenti, le spaccature troppo profonde che certamente ostacoleranno la ripresa di un dialogo nel dopo-referendum. E non ci consoli l’accostamento al devastante esempio americano, perché semmai dovremmo marcare una differenza che invece si è vista poco. In Austria, a giochi fatti e indipendentemente dal risultato, si porrà il problema di una nuova leadership e di nuovi programmi nei due partiti che hanno dormito sugli allori fino al suicidio. Anche perché, chiunque vada ad insediarsi nella Hofburg che fu sede e simbolo del potere imperiale di Vienna, nel 2018 ci saranno elezioni legislative che potrebbero proiettare il nazionalpopulista Heinz-Christian Strache (il vero ispiratore di Hofer) verso la Cancelleria. E allora l’Oxit (versione austriaca della Brexit) diventerebbe una concreta possibilità. Paradossalmente, mentre il temuto afflusso o transito di migranti è praticamente cessato con il blocco della "via dei Balcani". E l’Europa, quali responsabilità avrà da domani? Intanto quella di prendere atto dei risultati senza prestarsi a catastrofismi autolesionisti e senza chiudersi come fa da tempo in una fortezza sbrindellata e destinata a cadere. Più che mai ora che Angela Merkel ha deciso di essere nuovamente candidata alla cancelleria di Berlino, e che a Parigi sarà François Fillon ad affrontare Marine Le Pen nella corsa per l’Eliseo, l’Europa può ragionevolmente sperare in un 2017 meno traumatico di quanto si era paventato. Ma se il credo della Ue continuerà ad essere una sopravvivenza senza azione e senza reazione la condanna a morte sarà soltanto rinviata. Ovunque in Europa, anche in Italia e in Austria, sono emerse istanze popolari che non sono tutte distruttive e che non devono essere ignorate. Un progetto per una difesa più coordinata non può bastare se si continua a litigare sull’unione bancaria e sulle garanzie per i risparmiatori, se continua a mancare una politica coerente sui flussi migratori che investono Grecia e Italia, se l’Europa continua a mostrarsi distratta mentre all’interno è in forse il consenso dai suoi popoli e all’esterno minacciano di sgretolarsi l’ordine del dopoguerra e quello, in realtà mai nato, del dopo-Muro. Italia e Austria siano uno stimolo per l’Europa, l’ennesimo avvertimento che paura e paralisi non possono durare fin dopo le elezioni tedesche in calendario tra dieci mesi. Mine antiuomo, un altro anno da incubo di Vincenzo Giardina L’Espresso, 4 dicembre 2016 Meno fondi e molti più morti, mai così tanti da almeno un decennio. Dalla Siria allo Yemen, dalla Libia alla Nigeria, il 2015 è stato una mattanza. E con i donatori che tirano la cinghia, le bonifiche rallentano. A Santiago del Cile ne discutono i delegati di 162 Paesi, guidati dall’Italia. Aspettando di conoscere le intenzioni della presidenza Trump. "I morti aumentano mentre i fondi per le bonifiche e l’assistenza alle vittime sono sempre di meno" denuncia Jeff Abramson, coordinatore dell’ultimo rapporto di International Campaign to Ban Landimines (Icbl), l’alleanza globale di organizzazioni non governative Premio Nobel per la pace. A l’Espresso risponde da Santiago del Cile, dove in questi giorni i delegati di 162 Paesi stanno provando a capire cosa non funziona. Perché il rapporto parla chiaro: le mine antiuomo uccidono sempre di più. Tra il 2014 e il 2015 il numero dei morti e dei feriti causati da questo tipo di ordigni è aumentato del 75 per cento, raggiungendo, secondo i dati disponibili alla Icbl, 6461. Una mattanza mai vista negli ultimi dieci anni, indiscriminata come sempre: le vittime sono civili nel 78 per cento dei casi, bambini quattro volte su dieci. Questi dati sono al centro del XV Meeting (a Santiago) degli Stati membri del Trattato di Ottawa, l’accordo che dal 1999 vieta l’impiego, lo stoccaggio, la produzione e il trasferimento delle mine. Uno strumento ratificato da 162 Paesi ma non da Stati Uniti, Russia, Cina, India e Israele. Schiacciato, anno dopo anno, da conflitti e geopolitica. Per capirlo basta spiegare la mappa. "L’aumento improvviso del numero dei morti è dovuto ai conflitti armati in Libia, Siria, Ucraina e Yemen, ma pesa anche un cambiamento nelle tecniche di guerra", sottolinea Abramson: "Soprattutto in Medio Oriente è sempre più diffuso l’uso delle mine e degli "Ied", gli ordigni improvvisati". La responsabilità ricade anzitutto sugli Stati produttori, a cominciare da India, Myanmar, Pakistan e Corea del Sud, spesso fonte di forniture illecite ad "attori non-statali": macellai all’opera in almeno dieci Paesi, dall’Afghanistan alla Colombia, dall’Iraq alla Nigeria, l’ultimo fronte aperto dagli islamisti di Boko Haram. Poi c’è il crollo dei finanziamenti: un ostacolo insormontabile perché, come promesso, nel 2025 il mondo sia davvero libero dalle mine. I dati, riferiti ai 35 governi donatori, non lasciano spazio ad ambiguità. I fondi sono calati per il terzo anno di fila e per la prima volta dal 2005 siamo sotto la soglia dei 400 milioni di dollari. Per l’esattezza a 340 milioni, circa 77 in meno rispetto al 2014. Un crollo del 25 per cento, con riflessi inevitabili sulle bonifiche dei territori infestati da mine, "Ied" o bombe a grappolo. "In un anno - annotano gli esperti - l’estensione delle aree decontaminate si è ridotta da 201 a 171 chilometri quadrati principalmente a causa della forte riduzione dei fondi disponibili". E adesso? Avanti con l’assistenza alle vittime, le bonifiche e la distruzione degli arsenali. A Santiago lo ha chiesto anche la delegazione dell’Italia, che dal 1° gennaio 2016 in sede Onu coordina i Paesi donatori come presidente del Mine Action Support Group. "L’appello a far fronte all’emergenza umanitaria si è affiancato negli ultimi due anni a una crescita del 35 per cento dei fondi nazionali", conferma a l’Espresso Giuseppe Schiavello, responsabile della Campagna italiana contro le mine. Convinto che, però, il cammino da percorrere resta lungo. Tanto per capire: solo 26 Paesi hanno mantenuto gli impegni di bonifica assunti con la firma del Trattato; e appena quattro, Algeria, Cile, Repubblica Democratica del Congo ed Ecuador, potrebbero farcela in tempi relativamente brevi. Senza contare chi gli impegni non li rispetta affatto, come l’Ucraina, e le incognite. Legate solo in parte alle incertezze dell’economia globalizzata. Prendete gli Stati Uniti, non firmatari del Trattato ma comunque primi donatori con due miliardi e 600 milioni trasferiti tra il 1993 e il 2015 a 95 Paesi. A Santiago hanno annunciato altri 40 milioni per le bonifiche in Colombia. Ma come si muoverà Donald Trump? È presto per capire in che misura si concretizzeranno le minacce nazionaliste e isolazioniste. Di certo Barack Obama è stato il primo presidente degli Stati Uniti a visitare il Laos, devastato dai bombardamenti che dovevano isolare il Vietnam comunista. Il 7 settembre scorso ad accogliere l’ospite americano c’era anche Thoummy Silamphan, un signore con gli occhiali e la protesi al braccio, sorpreso bambino da una mina mentre raccoglieva germogli di bambù. Quarant’anni e due milioni di tonnellate di bombe dopo, più di quelle cadute sulla Germania e il Giappone durante la Seconda guerra mondiale, non ha sentito pronunciare scuse. Almeno, però, una promessa: "Il dovere morale di aiutare". Libia: Tripoli in mano alle milizie. E a Bengasi nuovo asse tra il generale Haftar e Mosca di Francesco Battistini Corriere della Sera, 4 dicembre 2016 Libia allo sbando a un anno dagli accordi per un governo d’unità. Venerdì il premier è rimasto barricato nella sua casa mentre si scatenavano le milizie islamiste e lealiste. Sabato è stata siglata una tregua ma nessuno sa quanto durerà. Dicevano: è un primo passo verso la pace della Libia. Più o meno, è stato anche l’ultimo. La metà di dicembre d’un anno fa, in Marocco, c’erano sei ministri degli Esteri e centoventi deputati libici e i flash e i fiori: a quattro anni dalla fine di Gheddafi, si preparava finalmente la lista del primo governo d’unità nazionale voluto dall’Onu (quello del premer Serraj, che di lì a qualche mese sarebbe approdato a Tripoli su un gommone). Un anno dopo, risiamo all’anno zero: venerdì notte, Serraj è rimasto sbarrato con le bodyguard nell’unico angolo di capitale che controlla, il suo letto, mentre sul lungomare di fronte si scatenavano le milizie islamiste e lealiste. Sparatorie come non se ne vedevano dal 2014. A pesare non è il bilancio d’otto morti e venti feriti, due giorni d’ordinaria paura per gli abitanti intorno agli albergoni, i tank nelle strade, le pompe di benzina in fiamme. È che nessuno sa bene se durerà, e quanto, la tregua siglata sabato 3 dicembre. "È stata l’ultima battaglia per il potere", dice adesso Serraj: uno scontro in strada fra gl’islamisti e un cartello di sei brigate più o meno fedeli al governo Onu, un regolamento di conti dopo l’uccisione d’un imam salafita, l’occasione per stanare un po’ di tagliagole scappati da Bengasi e da Derna. Piovono preoccupazioni, da Kerry come da Gentiloni, dai francesi come dall’inviato internazionale Kobler: Serraj è ormai un’anatra amputata, più che zoppa, e a Tripoli non sopravvive altro potere che quello ricattatorio delle milizie. Perfino l’ex premier islamista Khalifa Ghwell, che l’Onu aveva sfrattato in marzo e che quest’autunno ha tentato di rientrare con un golpe, bivacca nei palazzi che ha occupato. Nessuno osa, o sa, schiodarlo. Gli spari sopra sono per noi. Una sveglia per gli europei. Perché nell’inerzia internazionale e sui tre focolai d’una guerra mai incendiaria eppure mai spenta - Tripoli, Sirte e Bengasi, qualcosa invece si muove. Una diplomazia alternativa e creativa. Un nuovo attore che non è detto ci favorisca: Mosca. "La Russia rafforza il suo ruolo in Libia", ha titolato qualche giorno fa un giornale egiziano, Al Hayat. Il Cremlino sta trattando col grande nemico di Serraj, il generale Khalifa Haftar, e secondo gl’israeliani vuole aprire una base militare a Bengasi. Per avere uno sbocco uguale a quello sul Mediterraneo siriano di Latakia. Gli ultimi viaggi a Mosca del padrone di Tobruk, ricevuto tre volte in sei mesi e con gli onori che si devono a un capo di Stato, fanno sospettare che ci sia del vero. Che Putin stia costruendo col generalissimo - e con l’Egitto di Al Sisi, che lo sostiene - un asse anti jihadista molto simile a quello con Assad in Siria. Il negoziato russo, seguito di persona dal ministro degli Esteri, Lavrov, è piuttosto scoperto: il signore della Cirenaica offre accesso al petrolio e alla futura ricostruzione; in cambio chiede armi e consiglieri militari per chiudere gli assedi a Bengasi e a Sirte, per poi tornare a marciare su Tripoli nel caso la comunità internazionale revochi - su pressione dello stesso Putin, per ora cauto - l’embargo che dal 2011 impedisce di vendere materiale bellico alla Libia. "Ho tanti amici a Mosca", ripete Haftar. L’uomo parla russo, ha ufficiali cresciuti nelle accademie post-sovietiche e vede una chance nella possibile dottrina russofila di Trump: "Putin è l’unico in grado di combattere davvero il terrorismo". Ora l’Orso russo e le battaglie di Tripoli spingono a mutare gioco: "Siamo disposti ad aiutare chi ce lo chiede", avverte Mosca. "Bisogna parlare con Haftar", ha cambiato da un po’ di tempo parere anche il governo italiano: parlargli, prima che sulle spiagge di fronte ci troviamo i cosacchi. Haftar&Zar, che strana coppia: prima che se ne andasse dalle nevi moscovite, il cerimoniale del Cremlino ha regalato all’amico libico un bel colbacco. Il generale l’ha guardato con curiosità. Non se ne farà molto, nel deserto. O forse sì.