Carceri: per l’anno nuovo, non buoni propositi ma buoni fatti di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 31 dicembre 2016 Sono anni ormai che, quando parliamo di carceri, parliamo più di metri quadrati che di altro, e poi più di apertura delle celle e “vigilanza dinamica” che di attività formative e di rieducazione vera. Ma io mi ricordo sempre la elementare verità di un mio “vecchio redattore” che, alla domanda “qual è il carcere dove si sta meglio?” aveva risposto senza esitazione “quello che ti fa uscire”. La risposta non è affatto banale, perché la persona detenuta, se è “sana dentro”, non può non pensare alla libertà, e il carcere che ti aiuta a costruirti un percorso di rientro in società, fosse pure brutto, sporco e pieno, è comunque quello dove si vorrebbe essere trasferiti. Questo non significa che le carceri possano continuare a restare, come spesso sono, brutte sporche e piene, perché il rispetto della dignità delle persone detenute passa anche dal farle vivere in ambienti decenti, ma significa, per esempio, che uno stato che, tenendo ammassate le persone in spazi inadeguati e tempo inutile, non è in grado di rispettare la legalità, deve almeno cercare in tutti i modi di alleviare la sofferenza della detenzione. E questo non sempre succede, e intanto i numeri del sovraffollamento sono tornati a crescere. Parma sta cambiando, Opera sta cambiando… Mi capita ogni tanto di rileggere le parole che Filippo Turati pronunciò alla Camera dei Deputati il 18 marzo 1904, in un discorso memorabile, che poi fu pubblicato sotto il titolo “Il cimitero dei vivi”: “Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolito la tortura, ma i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, ma la pena di morte che ammanniscono, goccia a goccia, le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice. Le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento dei malfattori”. Non voglio dire che le carceri italiane siano ancora così, ma tutto al loro interno cambia troppo lentamente. Di recente ho invitato a Parma, nella redazione di Ristretti da poco aperta in Alta Sicurezza 1, Roberto Piscitello, che dirige dal 2011 la Direzione Generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Roberto Piscitello ha più volte ribadito che “anche Parma sta cambiando”, ed è certamente vero, ma c’è qualcosa in quel concetto di “cambiamento” che non mi convince. Se si cambia perché il sistema non funziona, a un detenuto che vive da qualche anno in un carcere come Parma, che non funziona come dovrebbe, non può bastare la promessa del cambiamento, quel detenuto ha bisogno di un cambiamento rapido e radicale, soprattutto della qualità della vita quotidiana, che è l’unico modo per essere “risarcito” in qualche forma per gli anni buttati via in un carcere dove ancora domina la sicurezza, vissuta spesso come un’ossessione. Serve qualche esempio? puoi tenere in cella non più di cinque paia di calzini e cinque paia di mutande, se te ne mandano da casa di nuove devi consegnare le tue mutande vecchie; puoi usare un computer messo a disposizione in una saletta ma non puoi stampare nulla, quindi uno scrive al computer e poi si copia a mano i testi; non puoi consegnare o ricevere direttamente materiale cartaceo, ma il volontario o insegnante di turno deve consegnare tutto all’agente e poi presentare domanda per avere indietro quel materiale (così devo fare per consegnare copie di Ristretti Orizzonti) e via di seguito. Mi viene da pensare che se la fantasia usata in tema di sicurezza fosse adoperata invece per migliorare la vita delle persone detenute, avremmo a Parma un carcere quasi perfetto. Nel 2009 con la sentenza Sulejmanovic, nel 2013 con la sentenza Torreggiani la Corte europea dei diritti dell’uomo ci ha inchiodato alle nostre responsabilità rispetto alla qualità della vita detentiva. “Nostre” nel senso del nostro Paese, ma come spesso succede le responsabilità restano generiche: bisognerebbe, come si richiede al detenuto la revisione critica del suo passato deviante, così chiedere che emergano i nomi e cognomi di chi ha permesso di arrivare a un degrado tale delle carceri, da costringere l’Europa a richiamarci, sanzionarci, metterci sotto tutela. Certo, ci sono state responsabilità politiche, leggi che hanno aggravato il sovraffollamento. Ma l’Amministrazione c’era davvero sempre quando bisognava in tutti i modi dare segnali che, pur sovraffollate, le nostre carceri erano comunque proiettate verso il cambiamento, l’apertura, l’abbandono dei vecchi modelli incentrati sulla custodia, la sicurezza, la deresponsabilizzazione delle persone detenute? Riporto qui un botta e risposta tra me e Roberto Piscitello che, lo ricordo, dal 2011 è il massimo dirigente della Direzione Detenuti e Trattamento del DAP, durante un incontro nella redazione di Ristretti Orizzonti a Padova: Ornella Favero: Sì però quando lei dice che probabilmente “è necessario un periodo di permanenza in Alta Sicurezza per far capire….”, forse bisognerebbe mettere in discussione anche come sono le sezioni di Media Sicurezza. Roberto Piscitello: Certo! Proprio questo dicevo quando dicevo “Siamo sicuri che la Media Sicurezza è meglio dell’Alta Sicurezza?”, proprio questo dicevo! Questo è un mea culpa! dico questo cospargendomi il capo di cenere perché la colpa è nostra evidentemente. Devo dire che queste affermazioni mi fanno pensare, perché la Direzione generale dei detenuti e del trattamento è quella che “ha competenza in materia di assegnazione e trasferimento dei detenuti e degli internati all'esterno dei Provveditorati regionali; di gestione dei detenuti sottoposti ai regimi speciali; di servizio sanitario e attività trattamentali intramurali”, cioè praticamente è il nostro più importante interlocutore rispetto alle carceri. E afferma, attraverso il suo Capo, che nelle carceri troppe cose non funzionano affatto. Allora, bisogna cominciare a chiedere quotidianamente delle risposte, carcere per carcere, caso per caso, detenuto per detenuto, a quelli che HANNO IL DOVERE di far funzionare le carceri decentemente e in questi anni forse non l’hanno fatto. E la prima risposta la vorremmo avere sugli orari. A un incontro che ho avuto di recente, in rappresentanza delle Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, con il Capo del DAP Santi Consolo, una risposta importante ci è stata data: “Effettivamente quello degli orari in cui in carcere finiscono le attività del Volontariato è un problema, su questa questione noi dobbiamo preparare una lettera circolare a tutti i provveditori e a tutti gli istituti per dire che le attività di volontariato dovranno essere consentite anche nelle ore pomeridiane, almeno fino alle 18”. Aspettiamo con fiducia questa circolare, ben sapendo che non sarà semplice conciliare le esigenze di carceri, che non possono “morire” alle tre del pomeriggio, con quelle del personale. Ma ricordiamo anche che nel nostro Paese, ogni volta che si è messo mano agli orari del Pubblico impiego, si sono scatenate delle guerre, e però alla fine i bisogni degli utenti sono stati fondamentali per il cambiamento, e non è un caso che in carcere invece sia ancora così difficile toccare gli orari, perché gli UTENTI non contano pressoché nulla. E questo ci permette di porre un’altra questione all’attenzione dell’Amministrazione, quella della RAPPRESENTANZA delle persone detenute. Finalmente, parliamo di rappresentanza delle persone detenute Io credo che sia importante mettere a punto un meccanismo di rappresentanza delle persone detenute, in cui le associazioni di volontariato abbiano il ruolo di occuparsi del coordinamento e della formazione di questa attività, perché non si impara dall'oggi al domani a fare i rappresentanti, tanto più in carcere, dove uno per sopravvivere pensa sempre “io, io, io… e gli altri”, e quindi cominciare invece a occuparsi proprio degli altri è un passo avanti difficile e importante. Ma quel che è certo è che le persone che vivono in luoghi così complessi come le galere hanno bisogno di rappresentare direttamente le condizioni in cui vivono, e non è un caso che Roberto Piscitello, ascoltando le testimonianze dei detenuti di Padova, abbia sostenuto che “è molto interessante per me capire il vostro punto di vista, con la maturità che avete acquisito forse voi sapete di carcere molto più di quello che ne so io”. La rappresentanza è quindi un terreno fondamentale su cui misurarsi, una forma di rappresentanza è già attiva a Bollate e sta per essere sperimentata a Padova, e dovrebbe partire un po' dappertutto, perché forse costituirebbe anche un argine a questa assurda pratica per cui ancora oggi ogni carcere è “una repubblica a sé”. E non è semplicemente una questione che un carcere ha delle attività e un altro carcere ne ha altre... no: è che ci sono carceri che assomigliano a deserti e altre dove invece è, almeno in parte, garantito un percorso di rieducazione e di reinserimento. Voglio portare in proposito un esempio significativo: “C’era una volta il carcere di Opera”, un carcere da cui tutti volevano fuggire, per approdare magari a Bollate. Oggi Opera non è un paradiso, ma sta davvero cambiando MOLTO RAPIDAMENTE, si respira un’aria diversa, ci sono spazi nuovi ristrutturati, aree verdi utilizzate dalle persone detenute, entrano molti ospiti dall’esterno, gli orari sono più ampi. Miracolo a Milano? No, la dimostrazione che se si vuole, si può cambiare, e che al cambiamento va data un’accelerata in TUTTE LE CARCERI. E il DAP lo deve promuovere e sostenere, questo cambiamento, non solo a Opera, ma ovunque, sollecitando i direttori che tardano a promuovere una apertura vera dei loro istituti e appoggiando quelli che, come a Parma, tentano di smuovere una situazione pesantemente incancrenita e deteriorata da anni di immobilismo. La Costituzione parla di un’unica funzione della pena, quella rieducativa, perciò non mi pare che si possa scappare da questo: un direttore che non “rivoluziona” il suo carcere mettendo al centro la rieducazione non sta rispettando la Costituzione, quindi è FUORI LEGGE. Nessuno cambia da solo Roberto Piscitello, nell’incontro di Parma, ha esordito con parole di apprezzamento per l’esperienza di Padova, che lui ha definito di forte “contaminazione con la realtà”. È una strana parola, “contaminazione”, perché ha significati profondamente negativi, e poi però, quando si parla di letteratura o di arte o di vita, esprime invece l’idea di un confronto, di un arricchimento reciproco che produce cambiamento e crescita. Questa è la “contaminazione” promossa a Padova, tra detenuti di Alta Sicurezza e detenuti di Media Sicurezza, e tra detenuti e mondo esterno, e questa soprattutto è la contaminazione sana tra il carcere e la società, che è osteggiata sempre quando parliamo di circuiti di Alta Sicurezza, ma lo è spesso pure nelle sezioni di Media Sicurezza: parlo anche di tutte le difficoltà che incontra lo stesso Volontariato, che incarna la società civile, a essere riconosciuto come soggetto autonomo, in grado di garantire qualità e sicurezza della vita detentiva, e non certo di metterla a rischio, la sicurezza. “Nessuno cambia da solo” è un po’ la fotografia, fatta da un detenuto declassificato dall’Alta Sicurezza, di quello che davvero spesso manca nelle carceri italiane: il confronto. Eppure, nessun processo educativo, o rieducativo ha un senso se chi è finito in carcere non può misurarsi con l’esempio di persone che hanno stili di vita diversi, se non può confrontarsi, rispondere alle loro domande, costruire relazioni “significative”. Per il nuovo anno dobbiamo prima di tutto chiedere con forza un ampliamento generalizzato delle opportunità per i detenuti di aver cura dei loro affetti, che sono appunto le prime relazioni “significative” che hanno, la prima possibilità di salvezza e anche la vera forma di prevenzione dei suicidi: quindi colloqui via Skype, più telefonate, colloqui straordinari per pranzare con le famiglie, cioè tutto quello che si deve fare da subito aspettando una nuova legge su questa questione. E poi dobbiamo soprattutto porci due obiettivi: per la Media Sicurezza, stimolare un’apertura delle carceri vera, dove per “apertura” si intende una presenza massiccia del Volontariato, delle scuole, della società; per l’Alta Sicurezza, cominciare almeno a ripensare ai tempi di permanenza in quelle sezioni-ghetto e ai processi di declassificazione. Del resto, sempre Roberto Piscitello afferma che “un momento iniziale di permanenza in Alta Sicurezza è necessario, ma è parimenti necessario, anzi forse lo è addirittura di più, il controllo che le norme dicono essere semestrale, che in realtà semestrale non lo è stato mai. Dopo sei mesi è necessario che questo controllo sia stringente e sia in grado di selezionare le persone che invece possono andar via dall’Alta Sicurezza, ma anche proprio per ragioni di sicurezza”. Da qui, la nostra proposta di un Osservatorio su pene lunghe, ergastolo, circuiti di Alta Sicurezza, 41 bis, che sono temi che finora non sono mai stati sotto i riflettori, ma i tempi sono maturi per accendere le luci e andare a guardare. Più responsabilità uguale più sicurezza Voglio, per finire, raccontare una piccola sperimentazione che apre a grandi prospettive. A Padova abbiamo provato a sperimentare di usare lo strumento della mediazione per affrontare un conflitto fra due giovani detenuti. Un conflitto di quelli non da poco, con un pestaggio e tanta violenza. L’esperienza, gestita dal professor Adolfo Ceretti, uno dei massimi esperti di Giustizia riparativa, e dai suoi collaboratori, è stata semplicemente straordinaria perché ha detto una cosa davvero nuova: che anche in carcere, se al male si risponde con altrettanto male, la spirale della violenza non si interromperà mai (questa è stata anche l’indicazione del Tavolo 2 degli Stati Generali dell’Esecuzione penale, che invita a introdurre in carcere Uffici per la mediazione dei conflitti). Dopo anni di volontariato, in cui ho visto valanghe di rapporti disciplinari, perdita della liberazione anticipata, divieti di incontro tra detenuti, esclusione dalle attività, denunce e condanne per lesioni e pestaggi avvenuti in carcere, vite rovinate insomma, mi si allarga il cuore a vedere che due detenuti, che conoscevano prima di tutto il linguaggio della violenza, hanno incontrato la strada della mediazione e ne sono usciti più consapevoli e, si spera, responsabili. Io non so se questa mediazione “terrà”, so che è una strada nuova che va perseguita con forza. E ricordo, in proposito, quanto detto da Francesco Cascini, magistrato, Capo del Dipartimento di Giustizia minorile e di Comunità: “Io spesso incontro la polizia penitenziaria, facciamo continuamente corsi di formazione. La sensazione, parlando con loro, è che si sentano ancora in larga misura parti di un conflitto. (…) ed è qui che può nascere una contrapposizione insanabile tra quella che viene definita sicurezza negli ambienti penitenziari e il trattamento, se non si sa andare oltre, se non si accetta l’idea che il momento dell’esecuzione penale, che sia in carcere o nel territorio, è il momento in cui i conflitti si risolvono”. Questa è la cultura nuova che vorremmo vedere nelle carceri e sul territorio. Facciamo che l’anno che verrà sia l’anno in cui si inizia a dire addio alla cultura del conflitto e si apre la stagione dell’ascolto, della mediazione, del confronto, del dialogo. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Allarme carceri, jihadisti in crescita: già 373 detenuti "contagiati" dall’Isis di Angelantonio Rosato Il Mattino, 31 dicembre 2016 In 650 a "rischio estremismo". È quanto emerge da una relazione del Dap - il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria istituito dall’art. 30 della Legge 395/1990, nell’ambito del ministero della Giustizia - sul fenomeno radicalizzazione e proselitismo in carcere, relazione aggiornata al 2016. I 39 detenuti per reati di terrorismo sono ristretti in diverse carceri italiane e tra loro vi sono anche 4 donne. Le carceri di molti Paesi europei con grandi comunità musulmane - come Francia, Belgio, Germania - sono diventate negli anni luogo di reclutamento dei terroristi islamici. Oggi corrono lo stesso rischio i penitenziari italiani. Lo ha confermato già da tempo il Sappe (sindacato autonomo degli agenti penitenziari), che sul suo sito web ha lanciato ripetuti allarmi sul rischio fondamentalismo islamico nelle carceri. Come scrive il segretario del Sappe, Domenico Capece, "il carcere è un terreno fertile, nel quale fanatici estremisti, in particolare ex combattenti, possono far leva sugli elementi più deboli e in crisi con la società, per selezionare volontari mujaheddin da inviare nelle aree di conflitto, grazie a un meticoloso indottrinamento ideologico. Non è un caso la radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, i quali non avevano manifestato nessuna particolare inclinazione religiosa al momento dell’entrata in carcere, ma poi si sono trasformati gradualmente in estremisti". Più recentemente è stato Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia, a rilanciare l’allarme. Il magistrato - che nel 2013 ha preso la guida della Dna, la Direzione nazionale antimafia ed antiterrorismo - aggiunge un elemento di particolare interesse: la contiguità tra estremismo islamico e mafia. Secondo il procuratore le storie personali dei più giovani militanti islamici fanno intuire come mafiosi e terroristi non siano poi così diversi: hanno lo stesso modus operandi, gli stessi interessi criminali e spesso collaborano fra loro. Roberti lancia un messaggio urgente: l’Italia deve agire subito per prevenire la radicalizzazione dei giovani musulmani. "È la questione fondamentale ? sostiene il procuratore in un’intervista a Repubblica dello scorso aprile - Cito un dato allarmante che mi è stato trasmesso pochi giorni fa: metà dei reclusi nei penitenziari minorili italiani sono musulmani. In cella ci sono circa cinquecento ragazzi, abituati a stare su Internet come tutti i loro coetanei. E per questo possono facilmente entrare in contatto con i siti che predicano la jihad: sono a rischio altissimo di radicalizzazione. In Italia pensiamo di correre pericoli inferiori ai francesi e ai belgi. Probabilmente è vero: la comunità musulmana nel nostro paese è diversa, le seconde generazioni qui sono ancora adolescenti". "Se non interveniamo subito - ha avvertito il procuratore - tra cinque-dieci anni ci troveremo nella stessa situazione di Bruxelles o delle banlieue parigine. Già oggi la minaccia crescente sono i giovani che dall’Italia vogliono andare a combattere in Siria, superiore al numero che conosciamo. Un fenomeno che stiamo cercando di fermare". La forte concentrazione di islamici nelle carceri minorili italiane e l’utilizzo diffuso di internet da parte delle giovani generazioni si intreccia con un altro dato allarmante: l’80% delle persone che hanno aderito all’organizzazione dello Stato islamico sono state reclutate attraverso i social media. Questa dato interessante è contenuto in un rapporto dell’estate scorsa ad opera dell’Osservatorio delle fatwa takfiriste e delle opinioni estremiste, appartenente alla Dar al-Ifta egiziana, l’istituzione ufficiale per la promulgazione delle sentenze religiose. Secondo lo stesso rapporto, i siti web ascrivibili all’Isis e organizzazioni similari sono saliti da 12 nel 1997 a 150mila nel 2015. Dunque un fenomeno inquietante ed in crescita quello del e-terrorismo (terrorismo elettronico) che rappresenta, conclude il rapporto, "la causa principale della diffusione della violenza e dell’estremismo". Di solito si imputa la radicalizzazione dei giovani musulmani nelle carceri solo alla contiguità fisica con altri detenuti, già militanti islamici. La verità è che questo può essere vero in una prima fase, quando il giovane da reclutare arriva in cella a seguito di piccoli furti o per lo spaccio di droghe. Ma la vera radicalizzazione in molti casi si completa attraverso internet. Insomma le carceri rappresentano il luogo dell’iniziazione per il giovane futuro jihadista, ma l’indottrinamento completo avviene nel mondo virtuale dove le prediche degli imam più fanatici e convincenti circolano liberamente, specialmente nel cosiddetto dark web, la parte più oscura di internet. Dunque, la questione più importante non è tanto se bisogna isolare i giovani musulmani nelle carceri italiane, misura impraticabile e potenzialmente controproducente. Ma semmai come funzionano il reclutamento e la propaganda virtuali dello Stato Islamico e quali potrebbero essere le contromisure da adottare. La e-propaganda dello Stato islamico si caratterizza per due elementi: uno, quantitativo, che si sostanzia nell’incredibile mole di messaggi che Daesh è in grado di disseminare sulla rete, il che rende qualsiasi tentativo di censura inattuabile. Il secondo, qualitativo, si esplica nel fatto che la metanarrativa del Califfato è semplice, chiara ed efficace, pur variando nel tempo e nello spazio per aderire meglio alle necessità ed ai bisogni dei proseliti e dei soggetti reclutabili. Cosa fare allorà Alcune semplici contromisure operative possono essere le seguenti: smontare e neutralizzare la propaganda dell’Isis, offrendo al contempo modelli culturali alternativi. La metodologia da adottare dovrà essere basata su una metanarrativa che utilizzi messaggi, simboli semplici, chiari ed indirizzati ad un pubblico giovane di istruzione medio-bassa, socialmente borderline. Occorre costruire linee di persuasione basate sui bisogni e le vulnerabilità dei soggetti: giovani musulmani nati in Italia o di recente immigrazione. Infine, bisognerà utilizzare la tecnica del Media Mix: pubblicazioni su giornali ed online, social network engagement (ingaggio sui siti social), predicazione di imam moderati e simposi con giovani coetanei autorevoli, seminari e confronti faccia a faccia (Face to Face) in moschee, scuole, stadi calcio, discoteche e altri luoghi di socializzazione per giovani musulmani, senza dimenticare le carceri minorili. Tali contromisure dovrebbero essere adottate nel quadro di una strategia nazionale unificata. Il che al momento non sembra all’orizzonte. Carceri, armi spuntate contro la radicalizzazione di Francesco Peloso lettera43.it, 31 dicembre 2016 Il fondamentalismo prolifera grazie alla esclusione sociale. Garantire la libertà religiosa può contrastarlo. Ma non senza un’assistenza qualificata. Che spesso le carenze croniche del sistema non permettono. Marginalità, esclusione sociale e infine carcere: i luoghi in cui crescono i nuovi attentatori fondamentalisti stanno cambiando e ora le prigioni, sovraffollate, dove covano rabbia e frustrazione, e all’interno delle quali si mischia ogni forma di violenza - sopruso, criminalità, estremismo religioso - sembrano diventate uno dei centri di reclutamento favoriti dal fondamentalismo. È di certo una religione spuria quella che alleva i nuovi militanti, autentici o semplici imitatori dell’Isis di al Baghdadi, un coacervo di convinzioni spesso poco ortodosse che parlano di vendetta, di sangue. È questo anche il caso dell’attentatore di Berlino, Anis Amri, entrato appunto in contatto con il radicalismo a sfondo religioso nelle carceri siciliane dove è rimasto per alcuni anni per poi far perdere le sue tracce. Controlli crescenti nelle moschee clandestine. I luoghi di preghiera improvvisati, le moschee "clandestine", o a volte riconosciute, sono al contrario sempre più controllate, in parte dalle forze di sicurezza, in parte ormai dagli stessi imam che prendono le distanze dai loro confratelli più estremisti o lanciano l’allarme quando individuano personalità pericolose. Anche le comunità di fede o tradizione musulmana cercano spesso di rendere nota la loro estraneità di fronte a episodi efferati. Da una parte temono ritorsioni, dall’altra non si riconoscono nel gesto nichilista estremo che cancella forme di convivenza ormai acquisite (il caso dell’attentato di Nizza del 14 luglio scorso è il più clamoroso: vi trovarono la morte infatti una trentina di musulmani, cioè in gran parte di francesi di fede islamica). Sempre più condanne dagli Imam. E poi ci sono accordi come quello che la Francia ha stretto con il Marocco, per la formazione di imam che siano lontani da una visione fondamentalista. Da non sottovalutare, inoltre che, nel corso dell’ultimo anno, si è assistito a un salto di qualità nella critica e nella condanna sollevate dalle comunità musulmane europee contro gli attentatori più o meno kamikaze che hanno devastato il Belgio, la Francia e ora la Germania. Non più una presa di distanza formale, ma una condanna assoluta per quella che da molti viene giudicata una sorta di perversione diabolica dell’Islam, un’eresia. Qualcosa si è visto l’estate scorsa, il 26 luglio, quando vicino Rouen, nella parrocchia di Saint Etienne du Rouvray, è stato ucciso in chiesa padre Jacques Hamel, sacerdote amico da sempre dei musulmani della regione che infatti ha partecipato in massa alle sue esequie separandosi così, in modo pubblico, dal fondamentalismo marcato Isis. Tutto questo complica non poco il problema del proselitismo da parte dei gruppi radicali; il giornale cristiano libanese L’Orient le jour, attento osservatore del mondo arabo, qualche anno fa, quando l’Isis cominciò a diffondere le immagini delle raccapriccianti esecuzioni che metteva in atto, parlò di una strategia costruita sulla "pornografia della violenza". Non a caso l’attentatore di Nizza, Mohamed Lahouaiej Bouhlel, si nutriva di questo materiale, aveva trascorso anche lui un periodo in prigione ed era a tutti gli effetti noto nella sua stessa comunità, nel suo quartiere e fra i suoi vicini di casa, come un emarginato. Anche la Chiesa, che vanta una ramificata presenza di cappellani e volontari nelle carceri, ha affrontato il tema della radicalizzazione nelle prigioni. Il vertice europeo di giugno. Già nel giugno scorso, un nutrito gruppo di sacerdoti cattolici che operano nei penitenziari, insieme a cappellani di chiese ortodosse e protestanti e operatori pastorali di fede musulmana, con rappresentanti del Consiglio d’Europa, si sono ritrovati a Strasburgo, su invito del Consiglio delle conferenze episcopali europee (Ccee), per concordare una strategia comune. Nel frattempo lo stesso Consiglio d’Europa - organismo del quale sono membri 47 Stati - ha messo a punto delle linee guida "per i servizi carcerari e di libertà vigilata in materia di radicalizzazione ed estremismo violento", segno che il problema è sentito eccome. Il nodo da sciogliere resta quello di condizioni di vita nelle prigioni spesso proibitive alle quali si aggiunge, trovando terreno fertile, la diffusione di propaganda fondamentalista. Il nodo della libertà religiosa in carcere. Per questo viene sollevata la questione della libertà religiosa nei penitenziari: garantirla significa contrastare il fondamentalismo, instaurare rapporti fra operatori religiosi, volontari e detenuti. Non a caso le linee guida del Consiglio d’Europa, si spiega nel documento redatto dai cappellani dei penitenziari, "incoraggiano la creazione di accordi con le denominazioni religiose al fine di consentire a un certo numero di rappresentanti religiosi approvati, opportunamente formati, di entrare nelle istituzioni; sottolineano l’effetto benefico del coinvolgimento di rappresentanti religiosi, volontari, colleghi e familiari in vista di un efficiente reinserimento di coloro che hanno commesso un reato". Il testo elaborato dall’organismo europeo nel 2016, insomma, è un primo riferimento importante. Il tema naturalmente non è nuovo: il carcere che trasforma il detenuto, magari arrestato per piccoli reati come furti o danneggiamenti, in criminale a tutto tondo, capace di commettere atti impensabili, con la spinta psicologica derivata da confuse e perverse motivazioni religiose. In questo contesto, osservano i cappellani delle prigioni appartenenti a varie confessioni, "la libertà religiosa nelle carceri è inattuabile senza l’assistenza dei rispettivi rappresentanti religiosi. Questa assistenza è essenziale affinché i detenuti possano esercitare i loro diritti religiosi. Secondo la nostra esperienza, il rispetto del diritto alla libertà religiosa non solo è compatibile con le condizioni di vita in carcere, ma rappresenta anche un fattore decisivo nella lotta contro l’estremismo violento". Le carenze croniche del sistema. Personale religioso qualificato, ruolo dei cappellani cristiani nel dialogo con queste persone e gruppi, anche i più violenti, presenza di esponenti qualificati di altre fedi, percorsi riabilitativi, tutela dei diritti fondamentali dei detenuti, denuncia dei maltrattamenti subiti in carcere, capacità di seguire l’iter delle persone più pericolose anche fuori dalla prigione (cosa che, stando alle prime ricostruzioni, non è avvenuta proprio nel caso di Anis Amri): è un percorso complesso quello di cui c’è bisogno, che si scontra con carenze croniche anche dei nostri sistemi penitenziari o più semplicemente con l’incomunicabilità fra i diversi settori dell’amministrazione o fra i Paesi europei e i loro alleati (dopo la strage del Bataclan nella capitale francese si rincorsero le notizie relative al fatto che la Turchia e altri Paesi avevano avvertito - senza esito - Parigi della pericolosità di alcuni individui). Un brodo di coltura pericoloso. Tuttavia, come emerge sempre di più dalla ormai lunga serie di violenze terroristiche fondamentaliste, marginalità sociale e clandestinità, assenza di ogni forma di cittadinanza e di dialogo come comunità musulmane e rappresentanti religiosi islamici (chiamati ad assumere insieme ai diritti anche i doveri) diventano il brodo di coltura migliore per le organizzazioni jihadiste. Alessio Scandurra (Associazione Antigone): "il carcere radicalizza gli ultimi degli ultimi" di Marco Magnano riforma.it, 31 dicembre 2016 Dopo l’attentato di Berlino si è parlato di "radicalizzazione" nelle carceri italiane. Un fenomeno dal nome nuovo ma già conosciuto in altre forme, secondo Alessio Scandurra di Antigone. Nei giorni immediatamente successivi all’attentato di Berlino dello scorso 19 dicembre, nel quale sono state uccise 12 persone, si è parlato molto del fatto che la possibile radicalizzazione di Anis Amri, il presunto responsabile del gesto, sia avvenuta durante la sua detenzione in un carcere italiano. Amri, infatti, era arrivato in Italia nel 2011, durante il periodo delle cosiddette "primavere arabe", ed era stato arrestato e condannato a quattro anni di carcere per avere causato alcuni danni e un incendio nel centro di accoglienza di Belpasso, vicino a Catania. Nei suoi confronti le autorità italiane avevano anche spiccato un provvedimento di espulsione, che però non venne mai attuato, come spesso succede nel nostro Paese. Secondo alcune testimonianze, infatti, era stata l’esperienza in carcere ad avvicinare Amri alla religione, e le stesse autorità penitenziarie di Palermo avevano segnalato "atteggiamenti sospetti tendenti alla radicalizzazione". Subito dopo l’uccisione di Anis Amri, avvenuta nella notte tra il 22 e il 23 dicembre a Sesto San Giovanni, vicino a Milano, è invece emersa un’altra narrazione, quella sull’eccellenza del sistema di prevenzione antiterrorismo italiano, in grado di evitare lo sviluppo di una rete di relazioni tra jihadisti nel nostro territorio. È difficile pensare che queste due dimensioni possano convivere, eppure che il carcere sia un sistema slegato dalle logiche e dalle dinamiche del "fuori" non dovrebbe stupire più di tanto. Con Alessio Scandurra, responsabile dell’osservatorio Antigone sulle condizioni di detenzione, si riparte proprio dal concetto di "radicalizzazione in carcere". Per chi monitora le condizioni delle carceri italiane questo fenomeno è una novità? "Diciamo che per noi che ci occupiamo di carcere è una parola nuova. L’idea è quella di una persona detenuta, verosimilmente musulmana ma non necessariamente, entra in contatto con persone o gruppi che predicano un islam radicale e aderisce a un’interpretazione radicale che predica la guerra santa. È una parola nuova, d’accorso, però la storia italiana ci racconta fenomeni diversi nei termini ma non così differenti nella sostanza: pensiamo al proselitismo del terrorismo politico degli anni Ottanta nelle carceri italiane, un fenomeno molto forte e molto importante, che ha visto tante persone aderire alla lotta armata durante la detenzione, con detenuti comuni che diventavano detenuti politici. Un altro processo che storicamente ha interessato il nostro Paese è l’adesione alle grandi organizzazioni criminali durante la detenzione dei piccoli criminali, soprattutto nelle grandi carceri del Sud: il piccolo delinquente entra senza essere nessuno, ma in carcere trova il sostegno e la solidarietà economica delle mafie, perché la famiglia magari si trova in difficoltà, e questo fa sì che venga arruolato. Insomma, "radicalizzazione" è una parola nuova, che racconta un fenomeno parzialmente nuovo ma rispetto al quale abbiamo già qualche tipo di esperienza". Questa tendenza ad affidarsi alle grandi organizzazioni e alle grandi ideologie va cercata nel desiderio di protezione in carcere? "Non sono sicuro che l’idea di avere maggiore sicurezza rispetto alla strutture spieghi questa dinamica. Dobbiamo andare più in profondità: certo, in carcere ci sono grandi criminali e figure molto pericolose, ma la massa dei detenuti è formata in realtà dagli ultimi degli ultimi, che erano già gli ultimi degli ultimi quand’erano fuori e ancora di più quando sono in carcere. Non c’è quindi solo un bisogno di sicurezza, ma anche di soddisfare bisogni materiali elementari, per esempio trovare qualcuno che presti un po’ di soldi per comprare il detersivo o le sigarette, e non dimentichiamo il bisogno di rivalsa, la necessità di accedere a un’identità più forte per chi sente di non essere nessuno. Credo che questa componente sia davvero molto forte". Pensando più strettamente al fenomeno della radicalizzazione, la carenza di assistenza spirituale in carcere può essere un rinforzo? "Sì, perché l’assistenza spirituale dovrebbe essere una delle strade possibili per dare alle persone una prospettiva, una speranza, e nelle carceri italiane è del tutto inadeguata rispetto ai numeri e alla composizione della popolazione detenuta. Sì, c’è il cappellano cattolico più o meno ovunque, ma al di là di questo c’è molto poco, perché ci sono realtà in cui soprattutto i territori sono più avanzati e più attrezzati, quindi qualche rappresentante delle comunità religiose presenti sul territorio riesce a entrare, però non è un servizio strutturato in maniera omogenea, che non è in grado di raggiungere tutte le persone detenute". In base a questi due aspetti, dove bisognerebbe intervenire in modo prioritario? "È banale, ma ridurre i numeri della detenzione ridurrebbe innanzitutto la carenza di risorse, che si traduce in inadeguatezza del personale e dei servizi. Su un numero più limitato di persone le stesse risorse permetterebbero di creare meno danni. Inoltre bisognerebbe puntare a ridurre la presenza nelle carceri di quegli "ultimi degli ultimi" che proprio in quanto persone che non vedono una speranza e non vedono una via possono essere attratte da risposte identitarie estreme e radicali come quelle di cui si parla in questi giorni. Un criminale strutturato, con un’identità certamente criminale ma forte, possa più difficilmente decidere di cambiare vita, convertirsi alla guerra santa e lanciare la guerra all’Occidente. Il rischio riguarda in modo più forte le persone particolarmente deboli, che forse in carcere potrebbero direttamente non starci". Intervista al ministro Andrea Orlando: "basta gogne mediatiche per chi è solo indagato" di Liana Milella La Repubblica, 31 dicembre 2016 Lavora "a una rete contro le campagne di odio sui social". A pm e giudici chiede di "vigilare sui rischi di cortocircuiti mediatici". È convinto che la riforma del processo penale sconfigga la prescrizione. E sulle intercettazioni il Guardasigilli Andrea Orlando annuncia che "seguirà le circolari delle procure". Da giorni lei batte sui social, da Facebook a Twitter, come veicoli di propaganda d’odio. Perché lo ritiene importante? "Non ho la pretesa di affrontare tutti i problemi che lo sviluppo della rete ha generato e non mi sfuggono le grandi opportunità che ha aperto. Mi limito, sulla base di un confronto con i ministri della Giustizia europei, a segnalare il fatto che i social sono diventati il principale strumento per veicolare messaggi di odio che sono spesso il presupposto per la radicalizzazione violenta. La giurisdizione, con gli strumenti tradizionali, non ce la fa. Questi messaggi sono troppi, è incerta la competenza, spesso gli autori si nascondono dietro false identità e si diffondono con una rapidità impressionante". E cosa ci si può inventare? "L’Ue, su istanza di Italia e Germania, ha chiesto ai gestori dei provider di cooperare con le autorità competenti rimuovendo su segnalazione questi contenuti. A maggio è stato siglato un accordo con Facebook, Microsoft, Google e Twitter. Ma i primi risultati non sono ancora soddisfacenti. Su questo filone, pur consapevoli della specificità dello strumento, dobbiamo lavorare ancora aumentando il grado di responsabilità dei gestori". Si potranno bloccare pure le tante bufale in circolazione? "Credo che tutte sia impossibile. Vanno fermate quelle funzionali alla propaganda d’odio. Qui non ci può essere una verità di Stato, ma lo Stato può aiutare i soggetti colpiti e discriminati per etnia, religione, orientamento sessuale, a reagire costruendo gli anticorpi che agiscano in modo tempestivo sui social. Per questo ho convocato nei giorni scorsi, in collaborazione con l’Unar, la struttura antidiscriminazione della presidenza del Consiglio, l’insieme delle associazioni che si occupano di questi temi, per creare una vera e propria alleanza". Si parla di corruzione, delle inchieste sulla politica, ma di politica della giustizia si parla pochissimo. Come se lo spiega? "Siamo in una fase di transizione, in cui i temi dello scontro per fortuna tramontano, e su questo rivendico qualche merito, ma non si è ancora affermata una discussione sul tema della riorganizzazione della giustizia. Non se ne parla in termini adeguati rispetto ai cambiamenti in parte iniziati e che si dovranno ancora produrre". È una stagione usurata? "La stagione in cui se ne parlava era campo di battaglia dello scontro politico e dello scontro tra politica e giustizia. È positivo il fatto che questo dibattito sia finito per due ragioni. La prima: nessuno può parlare di un assedio della politica sulla giustizia. La seconda: sulla scena ha fatto irruzione un altro conflitto ben più grave, quello delle disuguaglianze che ha rubato la scena al primo". Ma per le inchieste che toccano la politica, vedi Consip, il complotto si ripropone. "Di teorie del complotto non ha mai parlato nessuno e non ci può affidare ai retroscena. Ma i fatti sono incontrovertibili. In questa stagione nessuno si è mai sottratto alla giustizia e nessuno ha mai cercato di depotenziare il lavoro dei magistrati. Quello che si chiede è solo che almeno fino alla pronuncia di un giudice terzo, pm e giudici vigilino sui rischi di cortocircuiti mediatici o sulle strumentalizzazioni politiche prima di tutto nell’interesse dell’esito processuale. Parole in questo senso sono venute pochi giorni fa da un autorevole consigliere del Csm, Luca Palamara, già presidente dell’Anm, segno che le cose sono davvero molto cambiate rispetto al passato". Lei sarà ministro per qualche mese. Basterà per chiudere il suo programma e portare a casa una legge contestata come quella sul processo penale? "Tutto il programma certamente no. La riforma del Csm resterà un’ipotesi da consegnare alle prossime legislature. Sul processo penale siamo all’ultimo miglio, anche se decisamente non semplice. Sulle riforme del civile e del fallimentare si può fare davvero rapidamente perché sono emerse ampie convergenze". Pure lei ammette che discutere al Senato di prescrizione e intercettazioni non sarà semplice. La sua maggioranza terrà? "Discuterò di questo nei prossimi giorni con Gentiloni e Finocchiaro. Partiamo però da un fatto: il testo che va in aula è il frutto di un accordo tra tutte le forze della maggioranza, che è la stessa che sostiene l’attuale governo". Voti e rischi di imboscate a parte, è convinto che questa riforma serva? La futura prescrizione non è, come dice l’Anm, un pannicello caldo? E che senso ha approvare una delega sulle intercettazioni quando tanto il governo cambia? "Intanto la riforma non è riducibile a questi due punti. Ci sono molti strumenti di deflazione del processo penale e di razionalizzazione degli appelli. Ci sono previsioni finalizzate a contrastare i furti negli appartamenti, c’è una riforma dell’ordinamento penitenziario, e in generale una razionalizzazione del processo. Cioè la vera risposta strutturale al fenomeno della prescrizione". Ma le intercettazioni? "Abbiamo già una falsariga sulla quale muoverci. Sono le circolari emanate dalle procure per evitare le fughe di notizie". Insomma è ottimista? "Sono realista e penso che ci siano le condizioni". In vista di questa battaglia non sarebbe stato meglio accontentare le toghe sull’età pensionabile? Lo aveva promesso a Davigo per iscritto. "Si è ritenuto che il Milleproroghe non fosse la sede più idonea per intervenire su questioni di carattere ordinamentale. Il nostro impegno è sempre stato quello, una volta concluso il confronto con l’Anm, di agire in sede di approvazione del ddl penale". Però una ventina di alte toghe hanno ottenuto la proroga mentre altri colleghi andranno a casa. Questo rispetta la Costituzione? "Lo dirà eventualmente la Corte. Per ora i Tar hanno rigettato la questione. Esisteva una specificità che deriva dalle condizioni in cui versa la Cassazione, il tema che l’Anm ha posto è quello del rischio di uno svuotamento degli organici. Vorrei ricordare che sono stato il primo ministro dopo molti decenni a rideterminare le piante organiche di tutti gli uffici di primo grado con un parere positivo e unanime del Csm". A proposito di Costituzione e di Consulta si approssimano due decisioni importanti sul referendum della Cgil per l’articolo 18 e sull’Italicum. Che previsioni fa? "Non ne faccio ma sono certo di una cosa. Si tratta di due passaggi importanti ma che non possono sciogliere tutti i nodi su due questioni così cruciali". In che senso? "Nel senso che la politica deve assumere un’iniziativa. Sulla legge elettorale, come ha ipotizzato il presidente del Pd Orfini, avviando un confronto tra le forze politiche al più presto su iniziativa del mio partito. Sul Jobs act credo che una valutazione su ciò che ha funzionato e ciò che non ha funzionato debba essere fatta dal governo a prescindere dalla scadenza referendaria". "Tradito dal governo", Davigo minaccia di bloccare i tribunali di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 31 dicembre 2016 La decisione del governo di lasciare a 70 anni l’età pensionabile dei magistrati - e non a 72 come richiesto - ha scatenato le ire di tutte le associazioni. A cominciare dai davighiani di "Autonomia& Indipendenza" che hanno proposto lo sciopero. Non si è fatta attendere la risposta della magistratura associata. Appena si è sparsa la voce che il Governo, nell’ultimo Consiglio dei ministri del 2016, all’interno del decreto mille proroghe non aveva inserito le modifiche richieste da mesi con insistenza dalle toghe, e cioè portare a 72 anni l’età massima per il trattenimento in servizio e ripristinare a 3 anni il periodo minimo di permanenza in un ufficio giudiziario per poter poi essere legittimati nel presentare domanda di trasferimento, si è scatenata la dura reazione dell’Associazione nazionale magistrati. Nel mirino sono finiti, nell’ordine, il governo, ed in particolare il ministro della Giustizia Andrea Orlando, con cui ad ottobre erano state concordate le modifiche, e i vertici della Corte di Cassazione che hanno "beneficiato" della proroga, da 70 a 71 anni, dell’età pensionabile. Con un comunicato diramato nella tarda serata di giovedì, la Giunta esecutiva centrale dell’Anm rappresentava che "contrariamente a quanto annunciato, il Governo non ha adottato alcun intervento correttivo né sul lato delle pensioni né su quello del termine per la legittimazione ai trasferimenti, neanche per i magistrati più giovani". Ed infatti, "dopodomani diversi colleghi saranno collocati a riposo, andando a peggiorare la drammatica carenza di organico, con la consapevolezza di essere stati discriminati e aver subito le conseguenze di una inspiegabile norma che ha stabilito, in contrasto con la Costituzione, che alcuni uffici giudiziari sono più importanti di altri". "La scelta dell’Esecutivo - prosegue la nota non ha tenuto per nulla in considerazione gli impegni politici assunti dal Governo e in modo ufficiale dal Ministro della Giustizia: si sta valutando ogni possibile iniziativa da adottare in conseguenza di questo incomprensibile vulnus alla positiva interlocuzione che sembrava essersi concretizzata negli ultimi mesi nell’interesse superiore dei cittadini". Anche Magistratura Indipendente, la corrente di centrodestra delle toghe, ha voluto commentare a caldo la decisione del Governo. "Nonostante - si legge in una nota - l’alto senso istituzionale mostrato nel condividere un percorso non semplice e aperto al dialogo, il Governo, come già sottolineato dal comunicato della Anm, non ha inteso porre rimedio alle distorsioni provocate dall’entrata in vigore del Decreto Legge n. 168/ 2016 ( quello che proroga l’età della pensione per i soli vertici della Corte di Cassazione, n. a.) e alla gravissima violazione dei principi base della Carta su cui è fondato il nostro Stato: dalla separazione dei poteri, all’autonomia della Magistratura, dalla uguaglianza dei cittadini, alla pari ordinazione dei singoli magistrati". Pertanto, "a fronte dell’inerzia del Governo, vi è un solo modo per evitare che tale vulnus all’indipendenza della Magistratura si concretizzi: i beneficiari di tale proroga scrivano l’ennesima splendida pagina della Magistratura italiana, rifiutando gli effetti delle citate norme dimettendosi entro il 31 dicembre 2016". Il comunicato si chiude con il "rammarico che su tale invito (le dimissioni del presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio e del procuratore generale Pasquale Ciccolo, n. a.) non si sia riusciti a raggiungere una posizione unitaria nella Giunta dell’Anm". La nota più dura, che non lascia spazio a repliche, è quella di Autonomia& Indipendenza, la corrente del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo e del togato del Csm Aldo Morgigni: "Le misure adottate dal Consiglio dei Ministri non appaiono per nulla corrispondenti all’impegno "scritto" assunto dal Ministro della Giustizia e dell’allora presidente del consiglio Renzi". "È gravissimo - proseguono le toghe davighiane - sul piano istituzionale la violazione di questo formale impegno, in quanto ciò denota l’assoluta mancanza di ogni forma di rispetto verso la funzione giudiziaria, il suo corretto ed efficace svolgimento e chi è chiamato a rappresentarla". Pertanto "è allo stato impossibile ogni forma di dialogo con chi omette ogni intervento per migliorare le condizioni del servizio da rendere ai cittadini, preoccupandosi di adottare solo misure e riforme che hanno avuto l’effetto di peggiorare le condizioni di lavoro dei magistrati senza produrre alcun beneficio". Anzi, "è particolarmente grave l’elevazione del periodo di legittimazione necessario per ottenere il trasferimento di sede e il mancato intervento correttivo, soprattutto con riferimento ai magistrati di prima nomina". In conclusione, "è inutile ogni forma di confronto con interlocutori privi di ogni affidabilità perché non rispettosi degli impegni assunti, ritenendo lo sciopero l’unica forma di protesta da adottare". Non poteva mancare, infine, la nota del gruppo di Area, la corrente progressista: "Il Governo, inerte di fronte alle gravissime disfunzioni degli uffici, disattende ancora una volta gli impegni formalmente assunti. E questa è solo l’ultima di una serie di promesse mancate". Al riguardo, "auspichiamo che gli effetti di una proroga così gravemente lesiva dell’immagine di autonomia e indipendenza della magistratura non siano accettati da coloro che dovrebbero beneficiarne e che i magistrati valutino ferme manifestazioni di protesta attuandole, prima ancora che con la proclamazione di uno sciopero, anche disertando le imminenti inaugurazioni dell’anno giudiziario cui non siano tenuti a prendere parte per dovere d’ufficio". A parte i comunicati, dettati dalla tensione del momento e che evidenziano la sconfitta di Davigo nei confronti del governo, la vera partita si giocherà nella prossima riunione della Giunta dell’Anm, convocata subito dopo Capodanno. In quella sede si vedrà se la spunteranno i "duri" o i "filogovernativi". Perché, come dice un autorevole esponente dell’Anm, se "queste riforme l’avesse fatte il governo Berlusconi ci sarebbero già le barricate all’esterno dei tribunali". Cosa vuole il partito dei Pm? Vuole il potere politico di Piero Sansonetti Il Dubbio, 31 dicembre 2016 Il governo ha due strade: o arrendersi e accettare lo stravolgimento giudiziario della Costituzione, oppure varare una riforma radicale della giustizia. Nel giro di 24 ore, prima il ministro Orlando e poi il premier Gentiloni hanno annunciato che è loro intenzione mandare in porto la riforma del processo. Cioè di fare quel che non riesce a nessuno da più di un quarto di secolo. Non riesce perché è una cosa che non piace mai ai Pm, i quali temono di perdere potere. E infatti a poche ore dalla conferenza stampa di Gentiloni, l’Anm, cioè il sindacato dei Pm, ha annunciato che sta preparandosi ad una azione clamorosa, lo sciopero, che per i magistrati è un atto assolutamente inusuale ( come per la polizia e i carabinieri), una specie di dichiarazione di guerra. In prima linea a chiedere lo sciopero è la corrente che fa capo a Davigo, cioè al capo dell’Anm, e che, evidentemente, da Davigo è ispirata. Davigo non annuncia la guerra al governo per via della riforma del processo, ma per un’altra ragione difficilmente comprensibile al vasto popolo: la riforma delle pensioni dei magistrati. I quali, per decisione del governo Renzi, sono costretti ad andare in pensione a 70 anni e non più a 75. I magistrati non vogliono andare in pensione così presto, perché perdono soldi e soprattutto potere "ruolo pubblico" e rispetto. Per molti magistrati la pensione è un colpo durissimo: smettere la toga, spesso, è un dramma esistenziale. E dunque, sebbene gli altri mortali in pensione ci vanno a 65 anni (e a moltissimi di loro piacerebbe andarci magari a 60 o anche prima...) i magistrati vogliono che la pensione sia allontanata il più possibile. Così avevano strappato la promessa dal governo Renzi di ottenere un nuovo decreto che spostasse il limite d’età almeno a 72 anni. Il governo Gentiloni, al momento, ha detto di no. Apriti cielo. È guerra. Naturalmente è guerra non solo per la pensione, che in fondo riguarda da vicino solo una parte della categoria. È guerra per la riforma del pro- cesso e perché l’Anm ha l’impressione - non sappiamo se giusta o sbagliata - che il governo intenda interrompere l’atteggiamento che fin qui hanno avuto tutti i governi: la subalternità alla magistratura, e la delega su tutte le materie di legge che riguardano la giustizia. Del resto lo stesso Renzi, tre anni fa, aveva designato come ministro della giustizia un Pm, anzi uno dei più "fondamentalisti" tra i Pm in circolazione, e cioè Nicola Gratteri, che dalle sue parti è soprannominato lo sceriffo. Fu Napolitano a opporsi, spiegando che almeno un velo di separazione tra i poteri doveva restare, e non si poteva, senza fiatare, cedere persino formalmente il potere politico alla magistratura. Non sappiamo naturalmente se ora il governo Gentiloni e il ministro Orlando terranno duro. Cioè se eviteranno di farsi intimidire dall’azione di protesta dei Pm, che effettivamente è un atto che mette una certo timore e appare, nella sostanza e nella forma, alquanto sovversivo. È un potere dello Stato che per motivi di interesse di corporazione si oppone al potere legislativo e all’esecutivo, e mostra i muscoli contro di loro. Quali muscoli? Magari un giorno di sciopero può non essere la fine del mondo ( anche se migliaia di cittadini lo pagheranno sulla propria pelle, vedendo rinviati probabilmente di mesi i loro processi che erano fissati nel giorno dello sciopero), ma il partito dei Pm, con lo sciopero, annuncia un conflitto a tutto campo. E la politica sa bene cosa vuol dire un conflitto a tutto campo: avvisi di garanzia, forse arresti, campagne di delegittimazione come quelle che già in passato Davigo ha realizzato. È chiaro che non è facile per la politica resistere a una minaccia di offensiva così ampia. Le forze sono deboli. Le istituzioni molto infiacchite. I partiti politici, che una volta erano l’ossatura della democrazia, sono stati ormai rasi al suolo (e in gran parte proprio su impulso di una parte della magistratura). Le vie di uscita sono due. O la politica si arrende, e accetta il trionfo dei settori più reazionari della magistratura, che sono quelli che guidano questa offensiva. E lascia che si compia la rivoluzione giudiziaria e lo stravolgimento della Costituzione. Oppure la politica decide di mettere in campo la controffensiva. Cioè di varare una riforma seria della giustizia, che ponga fine agli sconfinamenti, che separi le carriere, che rafforzi la responsabilità civile, che ridimensioni le intercettazioni e soprattutto la loro pubblicazione, che limiti fortemente le possibilità di usare il carcere come strumento di indagine o, peggio, di pressione politica e mediatica. Insomma una riforma che riporti i Pm al loro ruolo, liberandoli dalla pulsione all’onnipotenza. Perché questo avvenga serve una iniziativa coraggiosa del governo. Ma occorre anche che almeno una parte dell’opposizione - l’opposizione liberale - converga e accetti di sostenere la riforma. Pura utopia? Probabilmente. Il delitto di Garlasco, misteri e bugie nove anni dopo di Giusi Fasano Corriere della Sera, 31 dicembre 2016 Depositata la sentenza di condanna contro l’ex maresciallo Marchetto che indagò i primi giorni sulla morte di Chiara Poggi. Un giallo le sue falsità in aula: "Eliminazione di una fonte di prova". Il mistero attorno alla bicicletta non sequestrata. Il punto è questo: "La solerzia del maresciallo Marchetto nel non sequestrare (ma neppure fotografare) un bicicletta che a poche ore dall’omicidio aveva assunto un indubbio interesse investigativo (...), si è concretizzata nell’eliminazione di una fonte di prova". Non dettagli secondari, quindi. Ma una questione gravissima: "Eliminazione di una fonte di prova", appunto. Questo dicono i giudici sulla responsabilità dell’ex maresciallo dei carabinieri Francesco Marchetto a proposito del mancato sequestro della bicicletta nera da donna che due testimoni avevano visto sul luogo del delitto. Parliamo dell’omicidio di Garlasco, ovviamente. Di Chiara Poggi che la mattina del 13 agosto 2007 fu ritrovata uccisa nella sua villetta dall’allora fidanzato Alberto Stasi, poi ritenuto l’assassino da una sentenza passata in giudicato un anno fa. "Ottimo investigatore" - E parliamo dell’allora maresciallo - cacciato dall’Arma perché condannato in via definitiva per sfruttamento della prostituzione - che "aveva fama di ottimo investigatore", come scrivono i giudici nella sentenza che lo ha condannato in primo grado a due anni e sei mesi di reclusione: per aver detto il falso sul non-sequestro della bici e aver creato così una "falsa rappresentazione della realtà" che "ebbe rilevante efficacia probatoria nel corso dell’intero procedimento (cioè del processo contro Stasi)e fu in grado di influire sulla decisione, deviandone il corso dall’obiettivo dell’autentica e genuina verità processuale". Di quella bicicletta nera da donna "Stasi non ne aveva affatto parlato" mentre i suoi genitori "la collocavano in posti diversi", ricorda la sentenza appena depositata. Ora: "Già questo avrebbe dovuto imporre il sequestro di tutte le biciclette degli Stasi ovunque si trovassero" premettono i magistrati. Ma "al contrario ciò non è avvenuto per una valutazione quantomeno opinabile del maresciallo Marchetto, autore di un atto di cui sfugge anche la definizione. Venivano invece sequestrate, a distanza per altro di una settimana, due biciclette di cui una completamente diversa da quella descritta dai testimoni". A rileggere l’elenco dei fatti che hanno portato a questa sentenza ci si imbatte in una lunga serie di inspiegabili bugie dell’ex carabiniere. Una bici nera da donna - La prima la raccontò al giudice che celebrò il primo grado contro alberto Stasi, Stefano Vitelli, e che "sembrava riporre evidente incondizionata fiducia" nei suoi confronti. Gli disse, Marchetto, che aveva assistito alla deposizione della teste che descrisse abbastanza dettagliatamente la bicicletta e che - quando il giorno dopo andò nell’officina del padre di Alberto a controllare una bici nera da donna - decise di non prenderla per analizzarla proprio perché aveva sentito la deposizione della testimone (signora Bermani)e perché partendo da quella deposizione la bici che aveva visto gli era parsa troppo diversa da quella descritta. Peccato che Marchetto in realtà non aveva mai assistito alla testimonianza della signora Bermani e che, al contrario, la bicicletta tenuta nell’officina era molto simile a quella vista davanti a casa Poggi la mattina del delitto. "Non è dato conoscere le ragioni per le quali Marchetto scelse deliberatamente di mentire" sul tipo di bicicletta che ritenne "differente" scrivono i giudici oggi. Non ci sono "elementi univoci di favoreggiamento", aggiungono, tutt’al più "sospetti nati dall’esistenza di un legame di conoscenza con il padre di Stasi". La cosa più verosimile è che abbia raccontato falsità sul modello e similitudine "per sottacere il macroscopico errore compiuto nel lasciare la bicicletta nella disponibilità degli Stasi". Ma perché lasciarla in officina? ci sarebbe da chiedersi. Non gli sarebbe costato nulla scrivere la verità sull’annotazione di servizio... E invece la "bici nera da donna" è diventata il fantasma del processo di Garlasco. Finché non è stata sequestrata per il processo d’appello bis ed è entrata a pieno titolo fra le fonti di prova della sentenza di condanna contro Alberto Stasi. Altra bugia agli atti - Altra bugia agli atti: Marchetto disse che la richiesta del sopralluogo nell’officina in cui era custodita la bici venne dal capitano suo superiore. Falso, ha stabilito il processo: ci andò con il padre di Alberto (che probabilmente, ipotizzano i giudici, gli chiese direttamente di intervenire). E, non ultimo, un comportamento decisamente strano: Marchetto - si scopre - andò da solo e in borghese a trovare la dottoressa che era medico curante della signora Bermani, le chiese se la paziente assumesse farmaci particolari per patologie psichiche, la dottoressa disse di no e lui non verbalizzò una riga. Dopodiché definì Franca Bermani "inattendibile" in un’intervista. Come se fosse più importante screditarla che accertare ciò che aveva da dire. Saluzzo: il lavoro di un anno della Garante comunale dei detenuti di Vilma Brignone targatocn.it, 31 dicembre 2016 Relazione di Bruna Chiotti, garante comunale nel carcere Morandi, ad un anno di attività in questo ruolo. Il suo lavoro apprezzato da maggioranza e minoranza. All’interno del penitenziario servono lavoro e scuola per la rieducazione. Bruna Chiotti, garante comunale dei diritti dei reclusi nel penitenziario saluzzese Rodolfo Morandi, ad un anno di lavoro sul campo, ha presentato la sua relazione di attività nell’ultimo consiglio comunale del 2016. Mezz’ora di presentazione per una fotografia a tutto tondo della realtà carceraria di Saluzzo dai dati di popolazione al quesito nodale aperto alla cittadinanza sul come considerare la comunità penitenziaria nel territorio. L’istituto Morandi ospita 260 detenuti, in 7 sezioni due di alta sicurezza, 5 di media, nella prima il 90 per cento sono italiani, nella seconda il 50 per cento di stranieri di Albania, Marocco, Romania, Tunisia. Alla cifra si aggiungeranno a breve, nel nuovo padiglione di alta sicurezza che ha inaugurato il 10 dicembre scorso due delle 4 sezioni previste, 96 detenuti che arrivano da altre regioni italiane. La relazione come già segnalato dalla direzione stessa del carcere, evidenzia una carenza del personale di sorveglianza e sicurezza composto da 195 uomini e 15 donne, una sessantina in meno rispetto al previsto. Diversificato l’elenco dei corsi e laboratori in carcere, frequentati da una cinquantina di detenuti e gestiti da associazioni di volontariato e volontari, quest’ultimi una vera forza numerica: 20 operatori autorizzati a seguire tutte le attività e 172 autorizzazioni tra coloro che si occupano di sostegno alla persona e attività trattamentali. Dai corsi di alfabetizzazione, scuola media, recupero scolastico a quelli professionali di falegnameria, panificatore, addetto alla ristorazione e del carcere, con la punta di diamante nella sezione carceraria del liceo artistico Soleri Bertoni di Saluzzo. Sono presenti un microbirrificio che impiega 2 detenuti e uno part-time e tra i progetti in fieri, illustra Chiotti, quello di utilizzo delle aree verdi del carcere: un orto sociale per 10 detenuti. Per altrettanti si è tenuto un corso di grafica. È attivo inoltre un corso di scacchi e un laboratorio di sartoria che produce borse e da anni un laboratorio teatrale. All’interno il progetto "Oltre l’incrocio" promuove percorsi di salute e risocializzazione. Tra le attività trattamentali (attività che coinvolgono il detenuto con la collaborazione del personale interno e risorse esterne) ha ricordato la garante, lo sportello Acli per informazioni pratiche pensionistiche e tra le proposte culturali della garante stessa, il favorire l’accesso alle pubblicazioni e alle attività della biblioteca dell’istituto e del territorio. In questo ambito anche la collaborazione con il Comune per la rassegna "Un libro per the" da farsi con le stesse modalità proposte al pubblico esterno. Da anni con il Salone del libro di Torino e il Soleri, si attua l’iniziativa dell’ incontro con l’autore. Dal 2011 è attivo con il Mieac di Cuneo una collaborazione per seguire percorsi di studio universitari di detenuti". Presidio sanitario - È presente all’interno 5 giorni su sette un medico per 4 ore giornaliere, mentre la medicina di base è garantita da professionisti dell’AsCn1. Le visite specialistiche, sono una delle criticità sottolineate dalla garante, per i tempi piuttosto lunghi. Manca la fisioterapia anche se prescritta e inoltre dal 2014 manca la psicologa. Tema lavoro: con la scuola ha una grandissima valenza nel carcere, come strumento di rieducazione, umanizzazione del carcere e di dignità della persona. La maggior parte dei detenuti è inattiva e con scarsa disponibilità economica, serve quindi un aumento di occupazione. A partire dal lavoro socialmente utile, previsto a titolo gratuito in progetti di pubblica utilità. Nel comune di Saluzzo, illustra Bruna Chiotti sono coinvolti attualmente una persona alla Fondazione Bertoni e un’ altra nella squadra operai dell’ufficio tecnico del Comune di Saluzzo. "Ma non sempre è percorribile questa possibilità sia per mancanza di enti disponibili sia perché essendo un lavoro gratuito spesso il detenuto che lavora all’interno del carcere percependo 100 euro al mese preferisce non rinunciare a quel misero e spesso unico aiuto economico." Per i permessi esterni i detenuti possono contare sulla Casa di Donatella, minialloggio gestito dall’associazione "Liberi Dentro" che si trova nell’area di proprietà comunale, dietro il cimitero (attigua alla casa del custode) attualmente oggetto di intervento di ristrutturazione (lo ha ricordato il sindaco Calderoni) che migliorerà l’accoglienza nel caseggiato. Bruna Chiotti, nominata all’unanimità lo scorso anno in consiglio comunale, unica candidatura pervenuta per il ruolo di garante del rispetto dei diritti dei detenuti all’interno del Morandi e per seguire da vicino la loro situazione, come vuole il regolamento comunale studiato ad hoc, ha effettuato con il garante regionale Bruno Mellano un incontro a Cuneo con i Magistrati di Sorveglianza, per sollecitare i colloqui con i detenuti e le risposte alle istanze. Sempre il garante comunale si farà carico di verificare un’altra criticità emersa dal progetto "Oltre l’incrocio": il mancato aggiornamento del fine pena e la percezione che a Saluzzo siano molto scarsi i permessi o le uscite in art. 21. Nel primo anno ha svolto circa 150 colloqui con i detenuti che facevano richiesta, compresi i 29 traferiti dal carcere di Alba a Saluzzo per la chiusura dello stesso. Dai colloqui sono emersi problematiche, lamentele, ma anche proposte. L’elenco comprende richieste di lavoro, sollecito di trasferimenti nel proprio paese per l’esecuzione della pena, problemi di salute, richieste per l’ottenimento di misure alternative al carcere, sollecito per avere colloqui con i magistrati di sorveglianza, sollecito di poter telefonare a parenti o avvocato. Problematiche di vita quotidiana dietro le sbarre: la mancanza di acqua calda nei bagni, prezzi del sopravvitto troppo alti, palestre poco attrezzate, difficoltà a telefonare alla famiglia soprattutto per i detenuti stranieri. "Quasi tutti ammettono di aver sbagliato e si propongono per qualche azione di volontariato come forma di riparazione" - afferma la garante. Ma come percepisce il carcere l’opinione pubblica saluzzese e che carcere vuole? Domanda di snodo e di impostazione del suo ruolo, quella posta pubblicamente da Bruna Chiotti : "Si vuole un carcere dove prevale l’esigenza di controllo sociale, contenitore di persone scomode o si parte da un altro punto di vista: far mente locale che in questa realtà vivono e lavorano tra detenuti e personale circa 600 persone, quindi una comunità viva con dei limiti, ma anche risorse". Tra gli altri impegni da lei assunti quello di prendere contatto con la direzione, l’area educativa, polizia penitenziaria, area sanitaria interna, commissione di vigilanza per il vitto, Sert penitenziario, magistrati di sorveglianza di Cuneo. Sarebbe opportuno un monitoraggio delle scadenze di fine pena continua il report che segnala la disponibilità dell’area educativa a lavorare in tal senso, coinvolgendo il personale di polizia penitenziaria che ha mostrato disponibilità. La direzione del Morandi seguendo "Le linee di indirizzo programmazione piano territoriale 2016" si è prefissata il miglioramento generale della detenzione con adeguamenti strutturali e percorsi trattamentali. In ultimo le proposte per migliorare condizioni di vita e lavoro, elemento cardine con la scuola per abbassare la soglia della recidiva. "Perché non utilizzare le competenze acquisite dagli allievi e la nota disponibilità de liceo artistico Bertoni interno per trasformare le celle in ambienti dignitosi e accettabili. Perché non prevedere la presenza dei detenuti ai tavoli di lavoro per renderli protagonisti del loro futuro e responsabilizzarli e recuperare un possibile cambiamento per diventare altri cittadini. Si potrebbe utilizzare il campo da calcio per partite con squadre esterne o valorizzare le competenze acquisite dai detenuti dei corsi di ristorazione per aprire un punto di ristoro anche per l’esterno sull’esempio di "Liberamensa" nel carcere Lorusso di Torino". Il lavoro della garante comunale è stata apprezzato da tutto il Consiglio comunale, Maggioranza ed Opposizione, rientrando nell’ottica per cui nato il ruolo, trait-union con l’esterno. Portavoci del ringraziamento il primo cittadino Mauro Calderoni, con la consigliera Fiammetta Rosso e il capogruppo dell’opposizione Carlo Savio che hanno sottolineato l’impegno di tempo e di competenza profuso. "Un lavoro che interpreta lo spirito del regolamento che vede la pena come rieducazione, dando ruoli fondamentali a lavoro e scuola - afferma Savio - Non solo dal punto di vista umano e morale, ma di interesse generale, perché rientrando le persone nel circuito sociale e produttivo, diventano anche un costo in meno per la collettività". Parma: arriva la carta dei servizi dell’Ausl per la salute dei detenuti Gazzetta di Parma, 31 dicembre 2016 Un breve opuscolo di facile lettura, per presentare tutti i servizi di assistenza sanitaria di base e specialistica presenti in carcere, oltre a tutte le attività assicurate dagli operatori sanitari per la salute dei detenuti. È la Carta dei Servizi Sanitari negli Istituti penitenziari di Parma, un nuovo strumento informativo per contribuire ulteriormente alla tutela della salute di chi vive nella struttura penitenziaria. Oltre a presentare attività e servizi, assicurati dai professionisti della "Unità operativa salute negli Istituti penitenziari" dell’Azienda Usl, la Carta dei Servizi contiene informazioni utili e indicazioni sulle varie figure sanitarie presenti in carcere, sugli impegni assunti dagli operatori sanitari nei confronti degli assistiti, sulle modalità per l’accesso ai servizi sanitari, sulle regole comportamentali per consentire il migliore funzionamento dell’assistenza e facilitare la fruibilità delle prestazioni sanitarie. La Carta dei Servizi Sanitari è stata prevista dal Protocollo d’intesa siglato il 2 agosto dall’Azienda Usl e dalla Direzione degli Istituti Penitenziari di Parma, per garantire e tutelare l’integrità psico-fisica delle persone detenute, in coerenza con la programmazione sanitaria della Regione Emilia-Romagna. Oltre alla versione italiana già disponibile, sono in corso di stampa versioni della Carta nelle principali lingue parlate (francese, inglese, arabo, albanese, rumeno) nella struttura penitenziaria. Caltagirone (Ct): visita di Rizzo (M5S) "nel carcere gravi condizioni igienico-sanitarie" blogsicilia.it, 31 dicembre 2016 Visita del deputato 5 stelle, Gianluca Rizzo nel carcere di Caltagirone che è oggetto di una interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia, Andrea Orlando sullo stato in cui versano alcune parti della struttura di recente costruzione. Il deputato con la direzione e i rappresentanti sindacali ha visitato diversi ambienti di vita comune dei detenuti e i servizi accessori ponendo attenzione sulle "gravi condizioni igienico-sanitarie e strutturali in cui versano i blocchi 25 e 50 che ospitano oltre 350 detenuti, nonché la block-house di accesso al perimetro carcerario che ospita il personale della polizia penitenziaria". "Qui il ministro non è mai venuto, è evidente, lo invito a visitare insieme a me, nuovamente, la struttura", dice Rizzo che segnala anche come l’organico previsto in pianta sia sottodimensionato rispetto al numero di detenuti. "Sappiamo che sono molte le strutture penitenziarie in Sicilia che versano in condizioni similari - ha aggiunto ma alla luce degli ultimi avvenimenti che dimostrano come l’integralismo religioso viene coltivato anche dentro le carceri siciliane, riteniamo necessario che venga posta maggiore attenzione da parte del Ministro Orlando e della direzione penitenziaria". Il deputato 5 Stelle ha lanciato inoltre un appello sia al Comune di Caltagirone che alle organizzazioni di volontariato del territorio in grado di offrire percorsi di integrazione e di utilità sociale di quanti vogliano e possano rendersi disponibili tra i detenuti per queste iniziative. Firenze: per i detenuti colloqui via Skype, parte il progetto della Caritas di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 dicembre 2016 Colloqui via skype tra detenuti e familiari al carcere Mario Gozzini di Firenze. Ora è possibile grazie al progetto "Connessioni via Skype" promosso dalla Caritas Diocesana, che si prefigge di agevolare l’utilizzo di Skype mediante un sostegno di carattere psico-legale rivolto non solo ai detenuti ma anche alle rispettive famiglie. L’obiettivo è quello di migliorare i rapporti del detenuto con l’esterno favorendo quelle relazioni che lo coinvolgono sia come padre o partner che come figlio. Il progetto si rivolge quindi sia ai detenuti che alle relative famiglie, ma in prima istanza comprende la formazione degli operatori penitenziari quali soggetti indispensabili per la buona riuscita dell’intervento. Gli agenti saranno quindi adeguatamente formati sulla tecnologia e saranno chiamati a monitorare e sorvegliare le comunicazioni attraverso Skype. I contatti via Skype sono una preziosa risorsa per i reclusi anche perché potranno sostituire le telefonate, molto più fredde e senza la possibilità di un contatto visivo. Attualmente, secondo i dati forniti dalla direzione dell’istituto, su 63 detenuti comuni (di cui 35 italiani e 28 stranieri), con un’età media di circa 45 anni, vengono richiesti al mese solo 3-4 colloqui a mezzo Skype e quasi esclusivamente da stranieri con famiglie geograficamente lontane. Si è quindi ritenuto necessario agevolare questa opportunità di relazione, potenzialmente più facile delle normali visite ed emotivamente più significativa rispetto alle telefonate, sostenendola con un adeguato percorso di accompagnamento per i detenuti e di monitoraggio dei risultati attraverso il personale coinvolto. In realtà tale progetto è servito per concretizzare le recenti direttive ministeriali ancora poco applicate. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone sulla situazione carceraria, solo in due carceri i detenuti possono telefonare via skype ai familiari: la percentuale di attuazione della legge è pari all’ 1, 03 per cento. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva emanato la circolare del 2 novembre 2015, a firma di Santi Consolo, indirizzata a tutti i direttori degli istituti penitenziari per dare il via libera all’utilizzo di Skype. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, verificato che sono sempre più numerose le iniziative di natura trattamentale che richiedono l’utilizzo delle moderne tecnologie informatiche nel campo del lavoro, dell’istruzione e formazione e nella gestione del servizio di biblioteca interno e considerato che l’esclusione dalla conoscenza dell’utilizzo della tecnologia potrebbe costituire un ulteriore elemento di marginalizzazione per i ristretti, aveva stabilito otto punti: i detenuti possono accedere ad internet solo nelle sale comuni dedicate alle attività trattamentali, con esclusione delle stanze di pernottamento; la navigazione è consentita verso siti selezionati in funzione delle esigenze legate ai percorsi tratta-mentali individuali; è consigliabile la presenza di un tutor di sostegno durante le attività, adeguatamente formato dagli operatori specializzati presenti in tutti i Provveditorati Regionali; i controlli sull’hardware, sul software e sulla navigazione devono essere garantiti periodicamente; l’accesso deve essere effettuato su rete separata rispetto a quella dell’istituto ed esclusivamente mediante collegamento via cavo: per cui non permesso il wi-fi e i dispositivi usb; l’accesso a internet è consentito nei circuiti a custodia attenuata e Media sicurezza. Per i detenuti appartenenti al circuito Alta sicurezza o sottoposti a regimi particolari, le Direzioni devono decidere caso per caso. Non consentito, invece, l’accesso ai detenuti sottoposti al regime ex art. 41-bis; i soggetti pubblici e privati ( istituzioni, professionisti, imprese e cooperative) che offrono ai detenuti opportunità trattamentali che prevedono l’utilizzo di internet devono essere informati sulle modalità individuate; la direzione dell’Istituto deve eseguire tutte le verifiche sull’affidabilità dei soggetti esterni e dei detenuti ammessi al percorso: qualora i controlli dessero esito positivo, verrà trasmessa tempestivamente una segnalazione al Magistrato di Sorveglianza con la proposta di censura. Per finire, su richiesta del vice capo vicario di informazioni sulle eventuali criticità di Skype, il Dap ha chiarito dopo un controllo che non sono emersi particolari problemi, invitando le strutture a implementare l’utilizzo di quel servizio o in alternativa quello fornito da Microsft Lync. Roma: i Radicali questa sera a Rebibbia per salutare il nuovo anno insieme con i detenuti Il Dubbio, 31 dicembre 2016 Continuano le visite negli istituti di Rita Bernardini e degli altri militanti. Quest’anno, nelle carceri italiane toccate dal tradizionale tour natalizio dei Radicali, è mancato il consueto saluto che i detenuti immancabilmente rivolgevano a Marco Pannella durante le sue visite. Nessun ‘ Marco uno di noi’ è risuonato tra le pareti degli istituti di pena, ma i carcerati incontrati dai radicali hanno ugualmente ricordato la "presenza viva" del leader scomparso nel maggio scorso, che resta per tutti loro "un punto di riferimento". "Ci manca terribilmente", ha detto più d’uno. Dopo Natale e Santo Stefano le visite nelle carceri degli esponenti radicali sono proseguite in tutt’Italia: Genova, Bari, Taranto, Palermo. Oggi una delegazione sarà a Rebibbia per salutare il 2017 insieme ai detenuti. Più di cento tra militanti e dirigenti del partito si sono messi in moto per garantire le visite in circa 40 istituti in tutta Italia, da Nord a Sud, passando per la Sardegna e la Sicilia. I radicali, anche senza Pannella, non mollano la presa su quelle che lui chiamava le "infami carceri italiane" e continuano, in sintonia con il leader storico, a dare speranza agli ultimi. "Non sono solo visite per i detenuti - precisano i dirigenti radicali - ma anche per gli agenti e gli educatori costretti a lavorare in condizioni disumane". "Il nostro entrare nelle patrie galere è il tentativo di difendere lo stato di diritto e il rispetto della Costituzione". Sovraffollamento, condizioni igieniche pessime, assistenza sanitaria, mancanza di educatori e reinserimento sociale, sono tra i principali problemi che sono stati riscontrati nel corso delle visite. Ma tra le criticità i radicali sottolineano anche la lunghezza dei processi e l’uso della custodia cautelare. L’iniziativa è "il proseguimento - ha dichiarato Maurizio Turco, della presidenza del Partito - della marcia per l’Amnistia che abbiamo tenuta in concomitanza con il Giubileo dei carcerati di Papa Francesco". "Le carceri rappresentano un’appendice di una giustizia mal funzionante in Italia! ha sottolineato Giuseppe Candido militante radicale impegnato nel tour delle carceri in Calabria. Sergio D’Elia, segretario dell’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino, ha ribadito: !Il carcere è il luogo delle lotte di una vita di Marco Pannella, attraversato, vissuto, abitato da Marco (e Rita è stata la sua coinquilina) come fosse la sua casa, dove vivevano i suoi figli, i suoi fratelli, e quindi se ne è preso cura, come un padre di famiglia si prende cura della sua casa oltre che della sua famiglia di detenuti e detenenti. Anche in questo, continuando a visitarle, cerchiamo di mantenere vive le "fissazioni" di Marco Pannella, tra le quali quella delle carceri che era sempre in cima ai suoi pensieri, sentimenti e azioni". Frosinone: momenti di musica e cultura all’interno del carcere laprovinciaquotidiano.com, 31 dicembre 2016 Due i punti salienti della giornata: il convegno ed il concerto. Il primo ben moderato da un figlio d’arte, Federico Vespa; il secondo una performance della giovanissima cantante Ilaria accompagnata dal suo gruppo, composto da ottimi musicisti, ma, ci si passi il termine, rinforzato da due pesi massimi della musica italiana, Beppe Carletti fondatore con Augusto Daolio dei Nomadi e Massimo Vecchi che oltre grande bassista anche vocalist della band emiliana. Significativa una frase-richiesta del direttore della Casa Circondariale il quale, anche se con i titoli di coda già in arrivo…"ragazzi fate suonare ancora altre canzoni dei Nomadi. Troppo belli questi momenti di musica e di amore proprio alla vigilia del Santo Natale. Bravi e commoventi Ilaria con la sua band e con la straordinaria presenza di due Nomadi, come Beppe Carletti e Massimo Vecchi". Altissima l’audience ben supportata dagli amici che in quel momento non si sentivano detenuti ma libere persone compartecipi di ciò che stava accadendo nella sala teatro. E dopo i saluti del Garante dei detenuti del Lazio portati dal suo vice Sandro Compagnoni, ad intervenire il professore Fabio Pierangeli della facoltà di Lettere dell’Università Tor Vergata, già attiva da diversi anni in alcuni penitenziari per garantire il diritto allo studio dei detenuti oggi finalmente anche a Frosinone. Il professore ha precisato orgogliosamente di avere fisicamente nella sua tasca la convenzione stipulata, tra la Casa Circondariale, l’Università e una delle associazioni di volontariato che opera nell’Istituto, Idee in movimento e che permetterà per la prima volta anche ai detenuti di Frosinone di diventare "Dottori" e di mettere un altro tassello nel loro percorso rieducativo. A chiudere il convegno Germana De Angelis, vice presidente dell’associazione Gruppo Idee e presidente dei Bisonti Rugby Frosinone, squadra composta dai detenuti dell’alta sicurezza dell’Istituto e che milita nel campionato di serie C, che dopo aver illustrato tutte le attività di volontariato che l’associazione svolge nel carcere di Frosinone, ha raccontato l’impegno di Gruppo Idee anche all’esterno del carcere, sottolineando commossa, quanto sia difficile aiutare le persone una volta che escono e quanto sia emozionante e gratificante vederle reinserite nella società e riprendere in mano la propria vita. E qui ha preso la parola l’assessore alle politiche sociale del comune di Frosinone Giampiero Fabrizi, ricordando quanto il suo comune sia vicino alle problematiche sportive e culturali delle carceri. L’intervento si è chiuso con una promessa a Federico Vespa e Beppe Carletti, da parte del direttore Francesco Cocco di organizzare un altro appuntamento all’interno della casa circondariale. Quindi i ringraziamenti al Direttore della Casa Circondariale, Francesco Cocco, al Comandante, Commissario Rocco Elio Mare e tutta la Polizia Penitenziaria, l’Area Educativa e gli operatori del carcere ed anche i ragazzi della squadra dei Bisonti che hanno garantito che nel loro spogliatoio canteranno le canzoni dei Nomadi. Un ringraziamento alla vice direttrice Pesante con la Chiara Guerra sua stretta collaboratrice. Ottimo il servizio del personale della Casa, attento e vigile. Bravissimi ed educati e molto compartecipi gli ospiti delle carceri di Frosinone. Presenti il sindaco di Boville Piero Fabrizi che ha portato il saluto della sua città, raccogliendo applausi quanto ha toccato il tasto dell’amnistia. L’assessore del comune di Frosinone Fabrizi ha ricordato l’affetto che il suo assessorato lo lega ai detenuti. Per il Comune di Veroli l’assessore alle politiche sociali, Luca Renzi con il funzionario comunale Mauro Ranelli. Per il Rotary club Frosinone insieme con il presidente Pietro Raimondi il dottore Massimo Uccioli. La nostra vita cambiata dal terrore. E niente tornerà più come prima di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 31 dicembre 2016 Divieti e metal detector non stupiscono, i militari si guardano con affetto. E si è quasi contenti di sentirsi un po’ prigionieri. Si è modificato il rapporto con i luoghi che per definizione sono sempre stati aperti. Ed è impensabile che si torni indietro. A Milano si entra in piazza Duomo attraverso sette varchi presidiati da uomini armati. Sui lungoteveri di Roma spuntano barriere di cemento, mentre l’ingresso di via del Corso da piazza del Popolo è chiuso per oltre metà da un enorme blindato dell’esercito con gli alpini che controllano pure i documenti dei netturbini. Sono le prime festività di fine anno blindate, in tutta Italia. E se la presenza degli uomini in divisa o in tuta mimetica con i fucili mitragliatori spianati oggi conforta, anziché produrre ansia come nei nostri bui anni di piombo, dobbiamo essere tutti consapevoli che niente nelle nostre città sarà più come prima. I terroristi ci privano delle nostre certezze più intime - Lo spettacolo di questi giorni nelle strade e nelle piazze, con i mezzi militari in assetto di battaglia, l’hanno visto i nostri nonni e forse i nostri genitori durante la seconda guerra mondiale. Noi no. Negli ultimi settant’anni il Paese ha dovuto fare i conti con molte emergenze dell’ordine pubblico, certo. Pure con lo stragismo canaglia e le bombe vigliacche nelle piazze, nelle stazioni e sui treni. Mai però si era confrontato con la necessità di fronteggiare un simile pericolo esterno, capace di infiltrarsi nel nostro mondo attraverso modalità sempre imprevedibili. Privandoci così delle certezze più intime. I fanatici non hanno vinto, ma noi ci siamo dovuti adeguare - Il terrorismo non ha piegato l’Occidente come i fanatici dell’orrore si auguravano, ma un risultato l’ha ottenuto: ha cambiato forse per sempre certi nostri stili di vita, l’approccio con determinate abitudini, perfino il profilo umano delle metropoli. Ci è riuscito pian piano, trasformando in normalità cose che normali non sono mai state, né mai nel mondo conosciuto prima dell’esplosione del terrore sarebbero state considerate tali. Qualcuno ancora si stupisce del fatto che non si possa viaggiare in aereo con dei liquidi in borsa o in tasca? Niente affatto: la misura è in vigore ovunque da anni dopo che si era scoperto un passeggero con un tipo particolare di esplosivo, e non è stata mai più revocata. Come nessuno ormai a Parigi o nelle altre città europee si meraviglia dei metal detector all’ingresso del Louvre e dei principali musei. Ci sono oggi e ci saranno sempre. Del resto, anche per superare il colonnato del Bernini in piazza San Pietro, a Roma, si deve sottostare alla stessa procedura. E la strada che conduce al medesimo colonnato è sbarrata non da uno, ma addirittura da due blindati dell’esercito. Scene che finora si potevano considerare familiari magari a Bagdad o Kabul. E lo sono diventate anche per la capitale d’Italia. Per non parlare di aspetti che forse colpiscono meno l’immaginario, ma comunque incidono sulle abitudini. Nelle stazioni ferroviarie delle più grandi città, a partire da Milano e Roma, si accede ai binari solo mostrando il biglietto e anche in questo caso occorre superare appositi varchi. Dunque è cambiato anche il nostro rapporto con quei luoghi che per definizione sono sempre stati storicamente aperti. Ed è impensabile che un giorno si possa tornare indietro. Rassicurati anche dai cestini dei rifiuti trasparenti. Brutti ma necessari - Né è stato risparmiato, per restare alle questioni apparentemente marginali, l’arredo urbano. Un esempio? I cestini dei rifiuti modellati in ghisa che popolavano le strade, ben disegnati per conferire almeno un po’ di decoro alla loro vile funzione, sono stati sostituiti da orribili trespoli con buste di plastica trasparente che espongono bene alla vista tutto il contenuto di immondizia. Una questione di sicurezza: ne siamo coscienti, e meno male che ci hanno pensato. Ma è un fatto che il terrore possa arrivare a condizionare perfino il design di un cestino dei rifiuti. Eppure anche quella brutta busta di plastica trasparente ci rassicura, come gli angeli armati che hanno preso a popolare le città e osserviamo con affetto. Contenti, per un triste paradosso, di sentirci anche un po’ prigionieri. A Capodanno le città italiane sono blindate per l’allerta terrorismo La Stampa, 31 dicembre 2016 Capodanno blindato nelle grandi città italiane così come nelle capitali europee. A Londra, per esempio, l’ultima notte dell’anno per la prima volta poliziotti armati viaggeranno sulla metro e circa tremila agenti saranno impegnati nelle strade della capitale britannica. "Non siamo preoccupati ma occupati", ha detto oggi, parlando del terrorismo in visita ai luoghi e alle popolazioni colpite dal terremoto, il ministro dell’Interno Marco Minniti. "La guardia resta altissima e non si sottovaluta nulla ma allo stesso tempo è giusto consentire ai cittadini di vivere serenamente le loro vacanze", ha sottolineato. A Roma sorvegliati speciali saranno il Colosseo e Circo Massimo, secondo quanto prevede il piano di sicurezza per Capodanno disposto dal questore di Roma Nicolò d’Angelo. È previsto un "consistente" afflusso di persone al Circo Massimo per gli eventi che inizieranno a partire dalle 22.30 di domani. Cinque i varchi di accesso all’area dove saranno effettuati i controlli di sicurezza. Fioriere antisfondamento e controlli di polizia con metal detector saranno poi predisposti sui ponti di Roma; oltre mille agenti, in uniforme e in abiti civili, vigileranno tra la gente. Le iniziative per l’ultimo dell’anno, sparse in vari punti della città, renderanno più complesso il lavoro di controllo da parte delle forse dell’ordine. In campo ci saranno anche tiratori scelti, pattuglie a cavallo e poliziotti in bicicletta. A Firenze metal detector e controlli saranno rafforzati in piazzale Michelangelo, dove si terrà il concerto con Marco Mengoni. Non ci sarà, come di consueto, alcuna ordinanza anti-botti ma "forte vigilanza in particolare sull’aspetto della vendita", ha garantito il sindaco, Dario Nardella. Non solo una piazza del Duomo "blindata" a Milano in occasione del concertone di San Silvestro, ma telecamere ad alta definizione, tiratori scelti ed agenti in borghese con uno speciale smartphone che permette la "diretta" delle immagini. A Capodanno a Milano inoltre saranno in servizio 214 agenti della polizia locale; l’ordinanza che proibisce i botti sarà in vigore solo in piazza Duomo. Effetto Berlino anche sul Capodanno torinese. Per assistere al concertone di piazza San Carlo, le persone saranno infatti sottoposte ai rigidi controlli previsti dalla Questura, che ha disposto l’impiego di metal detector portatili ai cinque varchi della piazza. L’area sarà inoltre protetta da barriere anti-sfondamento, i cosiddetti "betafence". Ci saranno i carabinieri dell’Api, l’aliquota primo intervento, e del Sos, squadra operativa di supporto, per rendere più sicuro il capodanno dei genovesi che decideranno di trascorrere l’ultimo giorno dell’ anno in strada. Niente brindisi con bottiglie di spumante e bicchieri in vetro nelle piazze e sui ponti di Venezia la notte di Capodanno, come ha stabilito un’ordinanza firmata dal sindaco Luigi Brugnaro. A Verona sono state posizionate in corso Porta Nuova le barriere di cemento (new-jersey) che, fino alle ore 9 di lunedì 2 gennaio, per motivi di sicurezza, bloccheranno il transito in piazza Bra. A Napoli i festeggiamenti partiranno da piazza del Plebiscito con il "concertone" che vedrà salire sul palco artisti nazionali e locali. I festeggiamenti si sposteranno poi sul lungomare con 5 palchi che offriranno musica per soddisfare tutti i gusti. Tutto pronto anche a Bari, dove sul grande palco allestito davanti al Teatro Piccinni saliranno J-Ax e Fedez e l’artista rivelazione dell’anno, Fabio Rovazzi. Dalle zone colpite dal sisma domani sera a partire dalle ore 21.00 Canale 5 presenterà "Capodanno con Gigi D’Alessio". Quest’anno l’arrivo dell’anno nuovo si terrà a Civitanova Marche in provincia di Macerata, che ospita parte degli sfollati dalle zone limitrofe, colpite dal recente terremoto. Intanto in tutta Italia proseguono i maxi sequestri di botti scaduti o illegali: solo oggi a Napoli sono stati sequestrati 3 quintali, a Roma 700 kg, 400 kg a Ferrara. Migranti. Via a retate ed espulsioni. Minniti: "Un Cie in ogni regione" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 31 dicembre 2016 Capodanno blindato. La circolare di Gabrielli per il controllo nelle città: schierati cecchini, in campo droni e metal detector. La direttiva: "Subito controlli e rimpatri". Pattugliamenti "per il rintraccio degli stranieri e allontanamento degli irregolari dal territorio nazionale". Appena pochi giorni dopo l’individuazione della "rete" disponibile a favorire la fuga dell’attentatore di Berlino Anis Amri, il capo della polizia Franco Gabrielli dirama una circolare urgente per effettuare "attività di controllo straordinaria per un’azione di prevenzione e contrasto a fronte di una crescente pressione migratoria e di uno scenario internazionale connotato da instabilità e minacce". È il primo passo di una strategia più ampia messa a punto in accordo con il ministro dell’Interno Marco Minniti che prevede entro poche settimane l’apertura di almeno un Cie, centro di identificazione e di espulsione, in ogni Regione. Luoghi dove chi non ha i requisiti per ottenere l’asilo dovrà rimanere in attesa di essere riportato nel Paese d’origine. Anche tenendo conto che il 2016 è stato un anno record per gli sbarchi con oltre 200 mila arrivi (compresi gli oltre 25 mila minori non accompagnati), in un trend che nei prossimi mesi si annuncia stabile o addirittura peggiore. I Comitati - Le disposizioni impartite dal prefetto Gabrielli vengono emanate "per intercettare fenomeni di sfruttamento e inquinamento dell’economia del territorio collegati a forme di criminalità organizzata di livello nazionale e transazionale". È la definizione che serve a dettare la linea indicando gli ambienti - piazze di spaccio, luoghi di vendita di materiale contraffatto - in cima alla lista delle zone da perlustrare. Un’attività che dovrà essere "pianificata al fine di ottimizzare le risorse disponibili" coinvolgendo tutte le forze di polizia, compresa quella locale e non escludendo di poter ottenere "rinforzi di unità specialistiche". Per questo dovranno essere i prefetti, in sede di comitato provinciale ad "attivare piani straordinari di controllo del territorio volti non solo al contrasto dell’immigrazione irregolare, ma anche allo sfruttamento della manodopera e alle varie forme di criminalità che attingono dal circuito della clandestinità". I nuovi Cie - Attualmente è previsto che i Cie possano ospitare 1.600 persone ma in realtà la capienza è molto ridotta, i posti disponibili sono appena 360. Quali siano i problemi è ben chiaro nella circolare di Gabrielli quando specifica che dovrà essere la Direzione Centrale per l’Immigrazione a occuparsi del coordinamento con le questure "per l’assegnazione dei posti nei Cie" tenendo conto "della complessità e articolazione del dispositivo che, anche in ragione dell’eventuale numero di stranieri irregolari rintracciati, può rivelarsi complesso e delicato sotto il profilo organizzativo e per i conseguenti riflessi sul piano dell’ordine e della sicurezza pubblica". Nel comitato che si è svolto due giorni fa a Milano, Minniti ha anticipato la sua strategia per le prossime settimane. Spiegando che l’intenzione del governo è di arrivare all’apertura di un Cie in ogni Regione che possa far fronte all’esigenza di tenere sotto controllo gli irregolari evitando, come spesso è accaduto sinora, di doverli lasciare andare proprio perché non ci sono strutture in grado di trattenerli come invece prevede la legge. È possibile - in attesa che vengano ristrutturati quelli già esistenti - che si decida di utilizzare le caserme o comunque stabili del demanio. Gli irregolari - Riportare gli irregolari nei Paesi d’origine non è affatto semplice. Sono i dati del 2016 a dimostrarlo: a fronte di circa 40 mila stranieri senza permesso rintracciati in Italia, per circa 30 mila è stato firmato il provvedimento di espulsione, ma appena 5 mila sono rientrati a casa. Le difficoltà riguardano i costi per i rimpatri, ma soprattutto le resistenze degli Stati a concedere il nulla osta. Attualmente soltanto l’Egitto, la Tunisia e la Nigeria accettano di riprendere i propri connazionali, sia pur tra mille difficoltà e sempre con l’impegno di Roma a organizzare i voli charter per il rientro. Per questo subito dopo le festività Minniti partirà per una missione in Africa che abbia come obiettivo la firma di accordi bilaterali con altri governi che prevedano anche l’avvio di progetti di sviluppo in quelle aree e la concessione di aiuti proprio per cercare di scoraggiare le partenze. Un progetto che necessariamente ha come punto di partenza la Libia, lì dove si ammassano le persone che vogliono raggiungere l’Europa e transitano per l’Italia Migranti. Tutto ciò che manca, a cominciare dalla cittadinanza di Filippo Miraglia* Il Manifesto, 31 dicembre 2016 Il 2016 è stato un anno orribile per i migranti e per i loro diritti. I morti di frontiera sono stati più di 5 mila e stampa e opinione pubblica, salvo alcune eccezioni, non ci fanno nemmeno più caso. Prima di Natale sono morte o scomparse, nell’ennesimo naufragio, almeno 100 persone. Tuttavia quasi nessuno ne parla, come fosse il giusto prezzo da pagare per essere nati dalla parte sbagliata. I morti sono aumentati nonostante una diminuzione consistente di arrivi, segno che arrivare in Europa è sempre più difficile e pericoloso, mentre guerre, persecuzioni, diseguaglianze, disastri ambientali sono aumentati e sempre più persone sono costrette a lasciare la propria casa. Ma vanno quasi tutti altrove: rimangono nei pressi delle regioni d’origine o emigrano verso Paesi di più facile accesso. Pochissimi, in percentuale, sono quelli che arrivano alle nostre frontiere. Per farlo, l’unica possibilità che hanno è rivolgersi a trafficanti privi di scrupoli. Alto è il prezzo da pagare. E non ci sono possibilità alternative, perché tali non sono le chiacchiere dell’Ue, i progetti di esternalizzazione di controlli e frontiere, il cinismo dell’"aiutiamoli a casa loro", i Migration Compact e il potenziamento degli strumenti di controllo, respingimento e rimpatrio. L’Italia ha il merito di aver salvato decine di migliaia di vite umane nel Mediterraneo, anche grazie all’impegno volontario di tante organizzazioni umanitarie. Allo stesso tempo, però, il nostro governo ha continuato a promuovere accordi con regimi dittatoriali, considerando quello con la Turchia di Erdogan il modello. Una vergogna intollerabile che bisogna fermare subito. Uno sguardo più generale alle politiche riguardanti le persone di origine straniera nel nostro Paese non fa che confermare un giudizio negativo sull’azione del governo. In primo luogo la vergogna di non aver licenziato la riforma della legge 91 del 1992 sulla cittadinanza. Approvata nell’ottobre del 2015 alla Camera, la legge di riforma doveva ottenere un rapido via libera del Senato, secondo quanto la maggioranza e parte dell’opposizione si erano impegnate a fare. Ma le preoccupazioni per le sorti di Renzi e del referendum hanno bloccato la riforma per un anno e oggi, come avevamo purtroppo previsto, è ancora ferma e rischia di scomparire con la fine annunciata della legislatura. Una grave responsabilità soprattutto del Pd e del suo gruppo dirigente. Un errore strategico grave, che produce forte disagio in quelle centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze di origine straniera, italiani senza cittadinanza (è il nome del movimento che sta animando le piazze e i social network per la riforma), che rappresentano un pezzo importante del nostro comune futuro. C’è poi la questione centrale degli ingressi per lavoro. Da anni oramai, per scelta del ministero del Lavoro, non è emanato il decreto flussi, che consentirebbe ai lavoratori stranieri di accedere a un regolare visto d’ingresso. Il risultato è che si produce irregolarità, lavoro nero e sfruttamento. È urgente, per rimediare a questo enorme buco legislativo e ai fallimenti delle politiche d’accoglienza, con il carico d’irregolarità che stanno producendo (il combinato disposto di soggetti incompetenti che gestiscono numerosi centri d’accoglienza prefettizi e di commissioni territoriali inadeguate e non indipendenti per la richiesta di protezione internazionale, ha prodotto un numero elevato di potenziali irregolari),ricorrere ad una sanatoria ampia e aperta. Basta pensare a tutte le persone straniere impiegate nei lavori domestici e di cura, spesso in nero. C’è solo da augurarsi che il nuovo presidente del Consiglio abbia maggiore lungimiranza. Noi ci prepariamo a rafforzare la nostra azione di contrasto al razzismo e al populismo xenofobo. Anche nella consapevolezza che l’anno appena trascorso non è stato particolarmente brillante neanche per le forze sociali e le organizzazioni antirazziste e che servono un impegno e un lavoro straordinario, se non ci si vuole arrendere all’egemonia culturale delle destre razziste. *vicepresidente nazionale Arci Disarmo nucleare, l’Italia cambia e dice sì di Giorgio Nebbia Il Manifesto, 31 dicembre 2016 Il 24 dicembre, vigilia di Natale, all’assemblea generale delle Nazioni Unite a New York è stata approvata la risoluzione L.41 che impone l’avvio di negoziati per mettere fuori legge le armi nucleari, primo passo per la loro abolizione totale. La risoluzione è stata approvata con 113 voti a favore, 35 contrari e 13 astensioni; Hanno votato contro le potenze nucleari (ma la Cina si è astenuta), che non intendono privarsi delle loro bombe nucleari, molti paesi europei. L’Italia ha votato a favore, cambiando il voto contrario alla stessa risoluzione espresso nella commissione disarmo il 23 ottobre scorso. Il governo italiano, con il voto a favore del disarmo nucleare, ha ascoltato la voce di tante associazioni e persone che hanno chiesto tale svolta nella politica italiana e la voce del papa Francesco che domenica prossima, nella giornata della pace, ripeterà l’appello proprio in favore "della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari", denunciando che la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca non assicurano la coesistenza pacifica fra i popoli. Nel mondo nove paesi possiedono armi nucleari; ce ne sono 15.000, molte su missili intercontinentali, pronte a portare morte e distruzione in qualsiasi parte del pianeta; alcune bombe termonucleari americane sono anche in Italia a Ghedi e Aviano. Tutto questo dovrebbe gradualmente cessare con i negoziati per l’eliminazione delle armi nucleari che cominceranno nel 2017, settantadue anni dopo il lancio della prima bomba atomica americana su Hiroshima; molti problemi tecnici, economici, ecologici e politici, dovranno essere risolti, il cammino sarà lungo e difficile ma è cominciato. Con l’eliminazione delle bombe nucleari, le centinaia di miliardi di dollari che ogni anno le potenze nucleari spendono per l’aggiornamento e il perfezionamento dei loro arsenali, potrebbero diventare disponili per assicurare cibo, acqua e case ai due miliardi di poveri del mondo. Quante cose possono succedere se si preme il tasto giusto, quello del disarmo e della pace, durante la votazione in una aula delle Nazioni Unite, in un freddo giorno invernale. Medio Oriente. L’anno della resa dei conti: chi ha vinto e chi ha perso di Chiara Cruciati Il Manifesto, 31 dicembre 2016 Il ritorno della Russia nella regione ha stravolto i destini delle guerre per procura, i progetti delle potenze regionali e le reti di alleanze. Dodici mesi di stragi sanguinose, assedi brutali e civili ridotti alla fame in Siria, Yemen e Iraq, Stati moribondi. Aleppo, Manbij, Diyarbakir, Istanbul, Sana’a, Mosul, Baghdad: nomi che scorrono tra le pagine dei quotidiani, nelle agenzie online, sui social network, con un bagaglio di sangue che accappona la pelle. L’anno che si chiude sopra il Medio Oriente ha portato con sé il ribaltamento delle alleanze, la sconfitta dei progetti delle potenze regionali, un’escalation di violenza che ha travolto le vite di milioni di civili. Raid, assedi, attentati, controffensive, tentati putsch hanno accompagnato la regione per tutto il 2016. Ma per comprendere gli sviluppi attuali è necessario un passo indietro, al punto di svolta: autunno 2015, il prepotente ritorno della Russia. In due mesi - con la creazione del centro di coordinamento a Baghdad con Siria, Iraq e Iran, l’intervento militare al fianco del presidente Assad e l’abbattimento del jet Sukhoi da parte di Ankara - la faccia della composita guerra per procura di scena in Medio Oriente è cambiata. L’esercito dispiegato in Siria da Putin non ha solo salvato Assad, in piedi sul baratro di una guerra potenzialmente infinita, ma ha modificato l’intero equilibrio dei poteri. La contradditoria strategia Usa (un mix di dialogo senza prospettive politiche, sostegno a Stati-canaglia, il mantra del "no boots on the ground") è spazzata via. Fino all’esclusione palese dal negoziato siriano, a meno di un mese dall’entrata in carica del presidente Trump. Uno schiaffo che ha forse il suo massimo esempio nel rapporto Chilcot, presentato a settembre dal parlamento britannico: se sulla graticola è finito l’allora premier Blair, è il tandem Washington-Londra a restare nudo, accusato di aver lanciato un’invasione militare - quella dell’Iraq, 13 anni fa - che ha provocato il fallimento degli Stati-nazione creati artificialmente dal colonialismo europeo un secolo fa e la crescita repentina di movimenti jihadisti sunniti tra le macerie delle istituzioni nazionali. Accanto agli Stati Uniti piangono sconfitte cocenti i paesi che da anni incendiano il conflitto regionale finanziando a man bassa fazioni salafite e islamiste in chiave anti-sciita: Turchia e Arabia Saudita. Dov’è Riyadh? Un anno fa re Salman teneva ancora in mano i fili del fronte anti-Assad, tirando fuori dal cilindro l’Alto Comitato per i Negoziati, innaturale alleanza di salafiti, laici, socialisti, da far sedere al tavolo evanescente di Ginevra. E si inventava una coalizione di 34 paesi sunniti da impiegare contro lo Stato Islamico, novello Frankenstein foraggiato per un decennio e ora ribellatosi al ventre che l’ha covato. Ma Assad non è caduto, l’asse sciita non si è indebolito, l’Egitto accalappiato con prestiti e greggio in regalo si è defilato e lo Yemen si è trasformato in un Vietnam. Le folli spese militari e il crollo del prezzo del petrolio hanno costretto Riyadh a rivedere le proprie politiche economiche per far fronte ad un buco di bilancio senza precedenti. A pagare le spese della guerra fallita all’Iran via Sana’a è la popolazione yemenita: l’operazione militare che taglia il traguardo del secondo anno, costellata di stragi di civili, non ha portato che ad un’avanzata di al Qaeda a est e una tenuta della resistenza Houthi a nord. Un destino simile a quello della Turchia. Il presidente Erdogan ha investito nella guerra ad Assad il sogno di un sultanato sunnita, un neo-impero ottomano di cui essere stella polare, burattinaio che avrebbe sguazzato nelle macerie dei paesi storicamente leader culturali e politici regionali, Egitto e Siria. Ha trascinato il paese sull’orlo della guerra civile interna, lo ha esposto al voltafaccia dei gruppi islamisti ingrassati per anni e alla rappresaglia russa dopo la rottura delle relazioni a novembre dell’anno scorso. Per uscire dal tunnel, Erdogan ha ripiegato su un riavvicinamento di comodo alla Russia e una messa in dubbio della storica alleanza Nato, accanto ad una campagna epurativa che ha colpito 100mila persone dopo il fallito golpe del 15 luglio, la migliore delle occasioni per mettere definitivamente a tacere opposizioni, media indipendenti e voci critiche. Da salvare c’era l’altro grande obiettivo: la "turchizzazione" del paese, una nuova identità omologata e omogenea che passa per l’annullamento del progetto di unità kurda. In un anno Ankara ha avviato operazioni militari di una violenza inaudita contro il sud est, per poi allargare le operazioni al nord della Siria e al nord dell’Iraq, contro la galassia del Pkk. Già, l’Iraq, paese palcoscenico del confronto dei molteplici interessi globali. La controffensiva su Mosul ne è esempio lampante, con ogni soggetto armato - esercito governativo, coalizione anti-Isis, truppe turche, peshmerga di Erbil, milizie sciite - portatore di un’agenda che non combacia con quella degli alleati di turno. Sullo sfondo, attentati brutali (difficile dimenticare gli oltre 200 morti di fine Ramadan a Baghdad) che hanno allargato i settarismi confessionali e le proteste sciite contro il governo: l’assalto al parlamento, a maggio, è il volto di uno Stato moribondo, preda succosa per gli appetiti regionali. Egitto. Giulio Regeni e le "verità" ambulanti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 31 dicembre 2016 Un incidente stradale. Una rissa. Movente omosessuale. Droga. I servizi britannici, attraverso l’università di Cambridge. O quelli americani. Una banda di criminali (per inciso, cinque innocenti ammazzati). "Quelli che ce l’hanno mandato". Da 11 mesi su ciò che è accaduto al Cairo dal 25 gennaio al 3 febbraio di quest’anno a Giulio Regeni (l’arresto, la detenzione, la sparizione, la tortura e l’omicidio) ascoltiamo versioni ridicole, improponibili, offensive, tutte aventi l’obiettivo di scagionare da ogni responsabilità istituzioni, quelle egiziane, che peraltro si rendono responsabili ogni giorno di violazioni dei diritti umani analoghe a quelle compiute contro Giulio. Arrivano dall’Egitto "verità" mutevoli, ambulanti. Come colui che è diventato il deus ex machina di questa maledetta storia: Mohamed Abdallah, per l’appunto capo del sindacato degli ambulanti del Cairo. Quest’uomo (che Giulio definì "una miseria umana" e che ora singolarmente è l’eroe della letteratura cospirazionista italiana e non) da mesi racconta, poi smentisce, poi denuncia, poi rettifica. Ma siccome abbiamo la memoria dei pesci rossi, sembra che ogni volta dica qualcosa di nuovo. Nelle sue ultime dichiarazioni, rilasciate tre giorni fa all’Huffington Post di lingua araba, Mohamed Abdallah (da non confondere con l’Abdallah buono, Ahmed, rappresentante della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, l’associazione per i diritti umani che collabora con i legali della famiglia Regeni) racconta con orgoglio patriottico di aver fatto "ciò che ogni buon egiziano avrebbe fatto": insospettito dal comportamento di Giulio (in Egitto viene visto come sospetto chiunque faccia domanda in giro, che sia un ricercatore universitario, un giornalista, un avvocato o un attivista per i diritti umani), lo ha braccato, spiato, registrato e poi consegnato agli uomini del ministero dell’Interno (quello diretto da Magdy Abd el-Ghaffar, sotto il cui dicastero dal marzo 2015 i casi di sparizione e tortura si sono moltiplicati). Il passaggio successivo dovrebbe essere logico e chiarificatore: coloro cui Abdallah "consegna" Giulio fanno il resto. E invece no. Secondo Abdallah, che si attribuisce il merito di aver fatto uscire allo scoperto il "vero" ruolo di Giulio, il resto lo fanno "quelli che ce l’hanno mandato". Dunque, un altro depistaggio offensivo. Che ci riporta alle versioni iniziali. Il deus ex machina Abdallah resta l’anello debole della catena. Manovrato, forse ricattato a sua volta. O protetto e istruito a dire la "verità" ambulante del momento. Quella che, è un’ipotesi, potrebbe essere stata commissionata da qualche funzionario egiziano che avverte il pericolo di essere sacrificato in nome di quella "verità" di comodo (che nessuno voleva e che, alla fine, non scontenterebbe le nostre istituzioni) che vedrebbe implicati sì dei rappresentanti delle istituzioni ma senza alcuna catena di comando e mandato ufficiale. Sul perché questa "verità" di comodo non regga, si legga qui. Siamo lontani dalla verità-quella-vera, dalla verità senza virgolette, dalla verità scomoda. E siccome ad aprile, per premere affinché quella verità venisse fuori, il governo aveva deciso di richiamare temporaneamente l’ambasciatore al Cairo, non si capisce perché adesso quella decisione dovrebbe essere riconsiderata.