Carcere e rieducazione. Quando prenderemo sul serio la Costituzione italiana? di Renato Balduzzi Avvenire, 30 dicembre 2016 Vi sono alcuni temi sociali sui quali, per quanto sia stato raggiunto un largo consenso a livello culturale e scientifico, risulta poi difficile tradurlo in condivise scelte politiche, legislative o amministrative. Uno di questi è certamente la sanzione penale, in particolare quella detentiva. A settant’anni dalle prime discussioni in Assemblea costituente, che sfociarono in un modello coerente e omogeneo di concezione delle pene (funzione rieducativa e di extrema ratio, umanità dei trattamenti, divieto di violenze fisiche e morali nei confronti delle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà), riscontriamo più d’un’incertezza nel percorso di attuazione costituzionale, nonostante il punto fermo dell’ordinamento penitenziario del 1975 e le meritorie innovazioni in tema di alternative alla detenzione. A ciò si aggiunge un’infinita stagione emergenziale, accompagnata da ricorrenti problemi (come il sovraffollamento carcerario) e scandita dalle minacce ora della criminalità organizzata, ora del terrorismo di matrice islamista, ora di entrambi. Riflettevo sul tema a seguito della lettura di una relazione del professor Gianmaria Flick, già ministro della Giustizia e presidente della Corte costituzionale, opportunamente pubblicata, con il titolo "Una nuova cultura della pena", sulla rivista on-line dell’Associazione italiana dei costituzionalisti. La relazione è dedicata alla memoria di Alessandro Margara, uno dei più importanti attuatori del modello costituzionale di ordinamento delle pene, a suo tempo nominato da Flick a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e con il quale ebbi modo di sperimentare, quasi vent’anni fa, una proficua collaborazione in tema di riforma della sanità penitenziaria. Un profilo, tra i molti, di tale sensazione di incompiutezza è offerto dalla cosiddetta giustizia riparativa, già altre volte affrontata su queste colonne e in questa stessa rubrica. Nonostante il consenso a livello culturale, l’appoggio dato dal Ministro della giustizia e le proposte operative emerse dal recente lavoro all’interno degli Stati generali della esecuzione penale, il collegamento tra precetto costituzionale sulla funzione rieducativa della pena e posizione della vittima e dei suoi familiari resta ancora largamente sulla carta. Ai critici e incerti verrebbe da dire: la valorizzazione della funzione rieducativa e delle proposte di giustizia riparativa, e il loro reciproco intreccio, non nascono da malinteso buonismo, o da suggestioni della coscienza cristiana impropriamente e senza mediazioni calate nell’organizzazione penitenziaria, ma sono una risposta concreta e plausibile a problemi altrimenti irrisolvibili, oltre ad essere (e di per sé basterebbe) un modo per prendere sul serio la Costituzione. Istat: meno condannati e detenuti, 3 reclusi su 10 lavorano Ansa, 30 dicembre 2016 Continua il calo dei condannati iscritti nel casellario giudiziario e dei detenuti. L’anno scorso - segnala l’annuario Istat 2016- i primi sono stati 314.550, in diminuzione del 10% rispetto al 2013 e del 3,1% rispetto al 2014. Mentre i secondi si sono attestati a 52.164, oltre 10 mila in meno rispetto al 2013. Quasi un detenuto su tre è di cittadinanza straniera (33,2%), con forti differenze però tra le varie aree del Paese: a Nord i non italiani sono il 46,9%, al Centro il 42,6% e solo il 17% nel Mezzogiorno. Sale invece al 29,8% (tradotto in numeri 3 su 10) la quota di detenuti che svolgono un’attività lavorativa, nella maggior parte dei casi alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (84,6% dei detenuti lavoranti). Lo scorso anno è proseguita anche la discesa dell’indice di affollamento delle carceri, da 108 nel 2014 a 105,2%. Malgrado però un notevole miglioramento solo 8 regioni e una sola provincia autonoma (Trento) hanno un indice di affollamento inferiore a 100. In Puglia si conferma il maggior sovraffollamento (131 detenuti per 100 posti letto regolamentari). Orlando: misure per aumento agenti penitenziari "Nel Consiglio dei Ministri di questa mattina abbiamo approvato il Decreto Mille Proroghe che contiene una norma importante per la Polizia Penitenziaria". Lo scrive in un post su Facebook il ministro della Giustizia Andrea Orlando. "È stata infatti prevista - spiega Orlando - la proroga della validità delle graduatorie di idonei sino alla fine del 2017. Terminato l’iter legislativo l’amministrazione penitenziaria potrà così utilizzare queste graduatorie per avviare le procedure finalizzate all’assunzione nel corso del prossimo anno fino a 900 donne e uomini che andranno a colmare in parte il vuoto in organico del corpo di polpen. Si tratta di un primo passo, ma molto importante per migliorare le condizioni di lavoro nelle nostre carceri, garantirne maggior sicurezza ed un miglior trattamento per i detenuti". La denuncia del Garante: quel detenuto è in isolamento dal 2011 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 dicembre 2016 L’uomo, sofferente di una "grave patologia psichica", ora ospitato in Piemonte, ha vissuto nelle strutture in uno stato di degrado fisico e materiale. senza un’adeguata assistenza in un luogo che ne consenta il trattamento e il recupero. Anni di isolamento e in completo stato di degrado fisico e materiale. La denuncia arriva direttamente dall’ultimo rapporto pubblicato da Mauro Palma, il Garante nazionale dei detenuti. Grazie a una specifica segnalazione, la delegazione del Garante nazionale ha effettuato sia nella Casa circondariale di Voghera che in quella di Torino, "Lorusso e Cutugno", visite specifiche finalizzate alla verifica delle condizioni di detenzione e salute del detenuto sofferente di una "grave patologia psichica" e costretto a condurre una detenzione in isolamento protratta interrottamente per anni. A ottobre, all’arrivo della delegazione presso l’istituto di Voghera, il detenuto non era presente in quanto trasferito il giorno precedente presso la casa circondariale di Torino "Lorusso e Cutugno". Durante la visita - si legge nel rapporto, con grande stupore la delegazione ha appreso dal medico di turno che ogni traccia informatica relativa al fascicolo sanitario del detenuto era stata cancellata nel pomeriggio precedente. Per questo la delegazione ha deciso di richiedere alla direttrice e al responsabile sanitario dell’istituto di Voghera, in forma scritta, di inviare con sollecitudine la documentazione necessaria per l’analisi delle complessive condizioni di detenzione negli ultimi anni. Nel rapporto si legge che la delegazione del Garante, nel riscontrare la cooperazione "carente" da parte della polizia penitenziaria presente e "scarsissima" da parte del medico di turno, ha dovuto prendere atto della mancanza di informazioni in merito all’istituzione del Garante nazionale da parte del personale operante nella Casa circondariale di Voghera. Il rapporto parla di "una grave situazione riscontrata", per questo il Garante nazionale raccomanda alla direzione della casa circondariale di "mettere a effettiva conoscenza di tutto il personale dell’Istituto la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del 18.05.2016 n. 3671/6121 che ha per oggetto l’informazione sull’istituzione e sui poteri del Garante nazionale e che prescrive il necessario rapporto di collaborazione dell’amministrazione nei confronti dell’isti- di garanzia". La delegazione del Garante ha comunque avuto conferma del fatto che il detenuto durante i periodi detentivi effettuati nei diversi istituti penitenziari è stato ristretto in isolamento ininterrottamente dal 6 aprile 2011. "Indipendentemente da ogni valutazione circa le motivazioni delle singole decisioni - denuncia il rapporto -, il Garante nazionale deve sottolineare che il prolungato isolamento di una persona può facilmente rientrare in quella definizione di trattamento contrario al senso di umanità vietato sia dall’articolo 27 c. 3 della Costituzione italiana, sia dall’articolo 3 della Convenzione europea per la tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali (Cedu)". Il Garante nazionale al fine di una complessiva valutazione della gestione del caso nel periodo di permanenza del detenuto presso la Casa circondariale di Voghera, onde evitare il ripetersi di situazioni simili, chiede di avere documentazione circa le informazioni sul caso fornite dalla direzione dell’Istituto alla magistratura di sorveglianza e di ricevere informazione da parte dell’amministrazione penitenziaria centrale sul perché non si sia provveduto nel corso degli anni a una allocazione del detenuto in ambienti più idonei al suo stato clinico: in particolare, se ciò sia stato determinato dalla mancanza di un esauriente informazione da parte delle autorità responsabili dell’istituto o da valutazioni di altro tipo da parte della direzione generale dei detenuti e del trattamento. Dopo la visita del carcere di Voghera, la delegazione è andata a visitare il carcere torinese "Lorusso e Cotugno" dove ha potuto incontrare la persona reclusa all’interno della sua stanza detentiva nel reparto di osservazione psichiatrica. Nel rapporto viene denunciata la condizione igienica della stanza che è apparsa scadente e mancante di arredo. Il letto è allestito esclusivamente con una coperta, senza lenzuolo, perché, come riferito dagli agenti del reparto, trattandosi di persona ad alto livello di sorveglianza viene applicata la cosiddetta "rimozione", cioè la privazione di tutto quello che può essere usato per farsi del male. Il Garante nazionale, nel rapporto inviato al Dap e al ministero della Giustizia, conseguentemente a quello che ha visto, raccomanda che "nel caso qui considerato e in tutti gli altri casi simili nel territorio nazionale, l’amministrazione penitenziaria provveda a fornire gli Istituti di lenzuola, reperibili in commercio, di materiale idoneo a evitare un uso autolesivo e che nessuna persona detenuta venga tenuta, soprattutto per periodi prolungati, sistemata nella propria camera con il solo materasso e coperta; chiede inoltre di ricevere copia delle disposizioni che governano la cosiddetta "rimozione", unitamente a copia dei pareri medici acquisiti all’atto della loro definizione". Il dirigente sanitario e psichiatra ha integrato la documentazione sanitaria già inviata al garante illustrando il quadro complessivo della patologia manifestata dal detenuto. Ha peraltro precisato che, secondo quanto a lui risulta, il trasferimento all’Istituto torinese non è stato disposto ai sensi dell’art. 112 Reg. Es. (d.p.r. 230/2000), come invece emerge dal provvedimento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma per osservazione "fino a miglioramento del quadro clinico". Queste affermazioni - si legge nel rapporto - confermano le perplessità del Garante circa l’incongruità di un provvedimento di assegnazione a una sezione di osservazione psichiatrica senza un limite temporale fissato. Il Garante nazionale chiede pertanto che "l’Amministrazione penitenziaria chiarisca la connotazione legale del provvedimento adottato e chiarisca altresì l’ipotesi di percorso tratta-mentale all’interno del quale tale provvedimento è stato assunto". Nel rapporto il Garante nazionale denuncia che l’eventuale rientro in un Istituto come quello di provenienza, dove al detenuto sarebbero presumibilmente riproposte le stesse condizioni di isolamento e di degrado con le quali è stata condotta la precedente vita detentiva, costituirebbe "un’evidente violazione del diritto del detenuto a ricevere l’assistenza e la cura sanitaria di cui ha bisogno e, con ragionevole certezza, aggraverebbe ancora le già compromesse condizioni di salute mentale, oltre a ledere senz’altro i parametri essenziali della dignità della vita detentiva". Per questo motivo raccomanda al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - previa acquisizione della valutazione conclusiva della direzione sanitaria della casa circondariale di Torino e fatta salva l’eventuale dichiarazione di incompatibilità con la detenzione in carcere - di assegnare il detenuto in una struttura dotata di adeguata articolazione per la salute mentale che ne consenta il trattamento e il recupero. Giustizia: che fine ha fatto la "prepotente urgenza" di 5 anni fa? di Laura Arconti* L’Opinione, 30 dicembre 2016 Giovedì 28 e venerdì 29 luglio 2011, nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, al Senato della Repubblica, si tenne il convegno dal titolo "Giustizia! In nome della legge e del popolo sovrano" - promosso dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito - per la riforma della giustizia italiana. L’intervento del Presidente Giorgio Napolitano, rimasto famoso per la sua intuizione rappresentata efficacemente come "prepotente urgenza" sembrava autorizzare, o addirittura suggerire, la speranza di una immediata attenzione - da parte dei parlamentari - al disastro dell’ingorgo giudiziario e delle carceri sovraccariche. Per quanto prepotente fosse quell’urgenza, sta di fatto che passarono due anni abbondanti prima che accadesse qualcosa: e furono due anni in cui i Radicali non cessarono mai le azioni nonviolente coordinate in Satyagraha, per tener vivo il dibattito sul tema scottante di giustizia e carceri, che li impegnava da molti anni. Fioccavano le condanne, da parte della Corte europea dei diritti Umani, nei confronti dello Stato italiano colpevole di ripetute violazioni della Convenzione europea firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata negli anni da vari Paesi: ben 44 alla fine del 2003. I Radicali diffondevano frasi drammatiche, che venivano ripetute affinché venissero comprese e memorizzate: il divieto di "pene o trattamenti inumani e degradanti" sancito dall’articolo 3 della Convenzione. E il diritto ad una causa "esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole, da un Tribunale indipendente e imparziale costituito per legge" prescritto dall’articolo 6 della Convenzione. Molto limitata l’attenzione di giornali e televisioni, nessun ascolto da parte dei "rappresentanti del popolo sovrano" installati sui seggi parlamentari, ininterrotta la "moral suasion" da parte di Marco Pannella e dei suoi Radicali. E finalmente la prepotente urgenza dell’estate 2011 sfociò nel solenne messaggio alle Camere - a norma di Costituzione - da parte del Presidente Napolitano, nell’ottobre del 2013: due anni e tre mesi dopo. Nel Natale immediatamente successivo il Partito Radicale, affiancato da un imponente numero di associazioni ed istituzioni popolari e da gente comune, marciò in silenzio da San Pietro verso la sede del Governo, chiedendo amnistia, indulto, giustizia. La Presidente della Camera dei deputati, dottoressa Laura Boldrini, rispondendo ad una mia lettera, mi spiegò che il Parlamento stava animatamente dibattendo in commissione i problemi segnalati da noi Radicali, e mi assicurò testualmente: "… il lavoro proseguirà con grande impegno nei prossimi mesi per giungere a quelle risposte concrete e risolutive che possano consentire all’Italia di voltare pagina e di garantire anche negli istituti di pena il pieno rispetto dei diritti umani". Apprezzai molto la lunga lettera della presidente Boldrini e la sua gentilezza nel dedicare tanto tempo alle mie preoccupazioni. Tanto più apprezzavo la risposta della presidente dei deputati, in quanto alla stessa lettera, che avevo indirizzato anche al senatore Pietro Grasso, il presidente del Senato non aveva dato alcun cenno di risposta. Fedele evidentemente al suo costume di ex magistrato, non aveva ritenuto necessario rispondere ad una semplice cittadina europea tanto scostumata da dichiararsi "militante radicale". Poiché avevo deciso di apprezzare la risposta ricevuta dalla presidente Boldrini, decisi anche di affidarmi fiduciosa alle sue promesse, certa che ben presto - grazie all’intensa attività dei deputati - l’Italia avrebbe "voltato pagina ed avrebbe garantito anche negli istituti di pena il pieno rispetto dei diritti umani", così come lei mi aveva scritto: ma non smisi di insistere, come i miei compagni, sulla nostra richiesta di giustizia e di amnistia. Dalla "Marcia di Natale 2013" alle visite ispettive che i militanti e dirigenti radicali stanno effettuando in questi giorni in 29 istituti penitenziari italiani, sono passati altri tre anni. Nelle carceri c’è ancora una folla di detenuti che hanno meno spazio vitale di quello regolamentare, pochissimi di loro hanno un lavoro, centinaia di detenuti vedono raramente il magistrato di sorveglianza e saltuariamente lo psicologo; molti detenuti ammalati anche gravemente non sono curati in modo adeguato, e il personale di sorveglianza è spesso sottodimensionato. Tuttora si verificano suicidi: non solo da parte di carcerati, ma anche da parte di carcerieri, vittime - insieme - delle continue difficoltà quotidiane, della mancanza di luce naturale, della noia di ore immobili, della nausea del tempo che non passa mai. Nei Tribunali, i magistrati rinviano già i processi alla fine del 2017 ed al 2018: ogni giorno si trovano in udienza dieci, venti cause, nella impossibilità materiale di svolgere il dibattimento. Le cancellerie rigurgitano di faldoni destinati alla prescrizione, con buona pace del diritto ad un processo equo in tempi ragionevoli. Dalla "prepotente urgenza" di luglio 2011 a questo dicembre 2016 sono passati cinque anni e mezzo, e nulla lascia sperare che in un prossimo futuro Camera e Senato vogliano dibattere di amnistia, di indulto, di riforma della giustizia: i parlamentari sono troppo occupati a discutere sulla convenienza di indire nuove elezioni, mentre la legge elettorale vigente è dichiarata anticostituzionale, e nessuno sa come sostituirla. E, per di più, qualcuno si ricorda che una nuova legge elettorale non può essere applicata ad una consultazione popolare prima che trascorra almeno un anno dalla sua approvazione. Intanto, il tempo passa: passa veloce, al di fuori delle mura carcerarie. Dentro, invece, il tempo è inchiodato al nulla. *Militante del Partito Radicale Meno carichi pendenti nei tribunali: la fotografia Istat del pianeta giustizia Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2016 Anche se i dati non sono recentissimi, l’Istat nel suo rapporto annuale fornisce l’identikit del mondo giudiziario, mettendo a fuoco anche la percezione di sicurezza delle famiglie. Prosegue la diminuzione dei processi arretrati. Nel 2014 il numero dei procedimenti pendenti a fine anno è in calo, rispetto al 2013, del 6,9% presso i giudici di pace, del 9,8% presso i tribunali ordinari e del 9,0% presso le corti di appello. Si conferma anche una drastica riduzione dei ricorsi pendenti in primo grado presso i Tar : da 671.288 ricorsi in attesa di decisione del 2008 a 267.247 del 2014. La durata media di un ricorso presso il Tar nel 2014 si attesta a 3,5 anni da 9,6 anni del 2008. Nel 2015 prosegue il calo del numero di titoli di credito protestati (- 18,8% sul 2014) e del loro valore complessivo (circa 1 miliardo 385 milioni di euro, 25,3%). In calo omicidi e rapine, aumentano i furti - Nel 2014, sono stati 2.812.936, circa 46 ogni mille abitanti, i delitti denunciati dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria (- 2,7% rispetto al 2013). Diminuiscono ancora gli omicidi volontari consumati (- 5,4%) e, al loro interno, quelli di tipo mafioso (-13,5%) che nel decennio 2004-2014 raggiungono il loro minimo. In calo anche le violenze sessuali denunciate (-5,1%) e lo sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione (- 6,0%), a conferma di un trend che ha portato negli ultimi cinque anni a un calo complessivo del 30,6%. Tra i delitti contro il patrimonio, crescono, rispetto al 2013, i furti (+1,2%), e soprattutto le estorsioni (+19,4% sul 2013; +37,2% sul 2010). Sono invece in diminuzione rapine (-10,3%), truffe e frodi informatiche (-5,2%) e la ricettazione (-1,3%), anche se questi cali compensano solo parzialmente gli incrementi registrati negli anni precedenti. Cresce la percezione del rischio criminalità - Nel 2016 sono il 38,9% le famiglie italiane che indicano il rischio di criminalità come un problema presente nella zona in cui abitano (30,0% nel 2014). Nel Lazio una famiglia su due percepisce tale rischio (50,0% delle famiglie), seguono Veneto (45,7%), Emilia -Romagna (45,5%) e Lombardia (44,3%); quest’ultima occupava la prima posizione nel 2014 c on il 37,2%. La Campania risulta in quinta posizione, come nel 2014, ma la quota di famiglie è ben superiore (43,5% contro 33,3%). Prosegue la riduzione del numero di condannati - Nel 2015 i condannati iscritti nel casellario giudiziale centrale per reato sono Stati 314.550, in diminuzione del 10,7% rispetto al 2013 e del 3,1% rispetto al 2014. I condannati per delitto, per i quali sono previste pene mediamente più gravi, sono stati 220.965 (uomini nell’83,4% dei casi), in diminuzione dal 2011, con un decremento più accentuato nel 2014 rispetto al 2013 (-8,1%). I condannati per contravvenzione, 93.585 nel 2015, diminuiscono sia rispetto al 2012 (-11,8%) sia rispetto al 2014 (- 4,3%). Alla fine del 2015 risultano in corso 26.159 misure alternative alla detenzione, l’1,6% in più rispetto all’anno precedente; quelle più frequentemente applicate sono state l’affidamento in prova al servizio sociale (46,2%) e la detenzione domiciliare (36,3%). Ancora in calo il numero di detenuti, tre su dieci lavorano - Alla fine del 2015 nelle strutture penitenziarie sono presenti 52.164 persone, oltre 10 mila in meno rispetto al 2013 (-16,7%). Quasi un detenuto su tre è di cittadinanza straniera (33,2%) ma le differenze territoriali sono forti: i detenuti stranieri sono il 46,9% nell’Italia settentrionale, il 42,6 % in quella centrale e solo il 17,0%nel Mezzogiorno. Sale al 29,8% la quota di detenuti che svolgono un’attività lavorativa, nella maggior parte dei casi alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (84,6% dei detenuti lavoranti). Prosegue nel 2015 la discesa dell’indice di affollamento delle carceri (rapporto tra detenuti presenti e posti letto previsti), da 108 nel 2014 a 105,2. Malgrado un notevole miglioramento, solo 8 regioni e una delle due province autonome (Trento) hanno un indice di affollamento inferiore a 100. In Puglia si conferma il maggiore sovraffollamento (131 detenuti per 100 posti letto regolamentari). Sui tempi delle indagini è scontro tra penalisti, pm e Csm di Giulia Merlo Il Dubbio, 30 dicembre 2016 Le Camere penali contro l’Anm e il vicepresidente del Csm Legnini: "no a limiti sui tempi per la formulazione dell’opzione sull’azione penale". Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni lo ha confermato, durante la conferenza stampa di fine anno: la riforma della giustizia "andrà avanti". Le sue parole fanno eco a quelle del ministro per la Giustizia Andrea Orlando. A fronte della spinta del governo, però, Camere penali e magistratura si dividono sull’articolo che prevede l’avocazione delle indagini, se il pm non formula l’opzione sull’azione penale nei termini stabiliti. Il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini spera "che sia espunta dal provvedimento". Le Camere penali, invece, la norma permetterebbe di incidere "sulle lungaggini della fase delle indagini preliminari".. Il presidente del Consiglio lo ha ripetuto: la riforma della giustizia "andrà avanti". Nel corso della conferenza stampa di fine anno, il premier non si sottrae allo spinoso problema del ddl sul processo penale, arenato tra i due rami del Parlamento da oltre due anni, ricordando che "ci sono molti interventi in programma, tutti molto rilevanti: sul processo penale, sul diritto fallimentare, sul codice civile e su quello antimafia". Un elenco corposo, che verrà calendarizzato "in questi giorni, prima dell’epifania", "in base ai calendari parlamentari". Le parole di Gentiloni riprendono quelle del ministro Andrea Orlando, che nei giorni scorsi era tornato a ribadire che "la possibilità di approvare la riforma del processo penale è a portata di mano", dopo lo stop cautelare imposto da Matteo Renzi, durante la fase delicata della campagna referendaria. Del resto - è stato il commento sibillino del Guardasigilli - "il referendum ha interrotto il senso della legislatura, ma è ancora possibile completare i dossier aperti" A fronte di un governo che apre ad un binario parlamentare il più rapido possibile, sui contenuti della riforma tornano a darsi battaglia i fronti opposti di magistratura e avvocatura. Non tutto il testo è pacificamente condiviso o - per dirla con Orlando - "non tutte le questioni hanno trovato un orientamento comune" e a riaprire il dibattito è stato il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini che, dalle pagine del Sole 24 Ore, censura apertamente uno degli articoli più controversi del ddl. "Mi auguro che il disegno di legge sia approvato al più presto, poiché contiene molte norme che consentiranno un processo più celere ed equo. Quanto alla norma sull’avocazione, non la condivido e spero sia espunta dal provvedimento", ha dichiarato il magistrato. La norma controversa è prevista all’articolo 18 del ddl e prevede l’avocazione del procedimento, nel caso in cui il pubblico ministero non formuli l’opzione sull’azione penale, nei termini stabiliti di tre mesi dalla chiusura indagini per l’esercizio dell’azione penale. In altre parole, si tratta di una previsione che escluderebbe la potenziale "imprescrittibilità" dell’esercizio dell’azione penale, imprimendo tempi necessariamente contingentati al lavoro delle procure. Secondo Legnini, infatti, l’automatica avocazione dell’inchiesta da parte della procura generale nel caso di mancato tempestivo esercizio dell’azione penale provocherebbe "una fortissima gerarchizzazione" all’interno degli uffici. La posizione del Csm incontra quella dell’Associazione Nazionale Magistrati, da sempre fortemente critica con la previsione normativa definita "irragionevole": secondo l’Anm, infatti, le indagini spesso si accumulano e le procure sono costrette a operare scelte di priorità e una "costrizione" a rispettare i tempi - pena provvedimenti disciplinari e avocazione dell’inchiesta - provocherebbe una "paralisi degli uffici", con i pm che finirebbero per preoccuparsi solo di rispettare i termini, sclerotizzando il lavoro. Di parere opposto l’Unione Camere Penali. L’associazione degli avvocati penalisti ha censurato le dichiarazioni del vicepresidente Legnini, rigettando l’ipotesi di espungere l’articolo 18 dal testo. "Non vi può essere condivisione alcuna sull’irragionevole allungamento dei termini di prescrizione nelle fasi di impugnazione, tanto più se si rinuncia ad intervenire - come chiedono Csm e Anm - sulle lungaggini della fase delle indagini preliminari, nella quale si prescrive la maggior parte dei procedimenti". Per i penalisti, la norma ha ancora "blandi" effetti sanzionatori ma - se approvata - segnerà una "rivoluzione" nel modo di svolgere le indagini, imprimendo al processo accusatorio i tempi certi previsti e auspicati sia dalla Carta costituzionale "che dal buon senso". Posizioni distanti e difficilmente conciliabili sulle quali il ministro della Giustizia dovrà trovare la quadra, potenzialmente scontentando una delle parti in causa. Un "Osservatorio sulla giustizia" di Mauro Mellini L’Opinione, 30 dicembre 2016 Patrizio Rovelli, noto avvocato e giurista di Cagliari, con il quale abbiamo avuto modo di condurre diverse battaglie non solo su questioni strettamente di diritto e di giustizia, mi ha mandato il testo di un manifesto per un Osservatorio sulla giustizia. Credo che l’iniziativa di Rovelli giunga in un momento in cui essa è non solo opportuna e lodevole, ma indilazionabile. Può darsi che la mia gran voglia di non chiudere gli occhi con uno spettacolo di sfacelo e di dissipazione di un po’ tutti i valori nei quali ho creduto ed ai quali ho cercato di ispirare la mia vita politica e professionale mi faccia velo ai tanti limiti ed ostacoli che si frappongono alla realizzazione piena e ambiziosa di questo progetto. Ma credo che esso, se sviluppato "alla grande", possa svolgere un ruolo che va oltre gli stessi propositi di Patrizio e quelli che già in passato egli ha manifestato in proposito. Mi spiego. La giustizia, che per l’invadenza della casta che la amministra e per una distorta ed aberrante concezione dell’indipendenza di giudici e di magistrati del "Partito dei Magistrati", è divenuta potere politico che finisce, per motivi di cui spesso ho fatto analisi e colto le espressioni più rilevanti, per operare in modo privo di ogni controllo e di ogni valutazione anche complessiva dei suoi risultati e della sua rispondenza all’essenza della funzione affidatagli. Mentre i provvedimenti giudiziari vengono pronunziati "in nome del Popolo Italiano", non c’è altra attività di organismo pubblico che sia così manifestamente sottratta alla corrispondenza della volontà popolare. Non si tratta solo e tanto di "dipendenza" nel senso ordinario del termine. Difetta anche quella corrispondenza logica, morale, culturale con una ben concepita ed espressa volontà popolare. E naturalmente, in tale situazione avviene quello che si verifica in tutte le dittature, in tutte le forme di assolutismo: sono le peggiori, più fatue, distorte "esigenze" di una pubblica opinione, condizionata proprio da tale assolutismo a condizionare a loro volta gli indirizzi generali e particolari della casta "indipendente" al potere, e in realtà prevaricatrice. Manca ogni forma di critica che, non ignorando, ma rendendo meno inconcludente ed astratta quella di una tradizione scientifica che va decadendo gravemente e rapidamente, eviti alla casta giurisdicènte di racchiudersi in una sorta di visione esoterica del proprio ruolo, almeno, valuti il risultato, l’andamento generale della giustizia. È questa una funzione che nessun Organo costituzionale svolge. Il Parlamento rifugge da ogni conato al riguardo, senza nemmeno mostrare attenzione per il progressivo suo assoggettamento al cosiddetto "contratto generale di legalità" che la magistratura si vuole attribuire. L’iniziativa dell’"Osservatorio" può, dunque, sul piano dell’esercizio di un mero diritto di conoscenza e di critica dei cittadini, sopperire in parte al difetto di una funzione istituzionale di controllo e di valutazione dei risultati della giustizia. Detto tutto questo non vorrei aver turbato il necessario ottimismo di Patrizio Rovelli, prospettando un livello ed una dimensione dell’Osservatorio che implica impegno e difficoltà enormi. La sola raccolta dei dati aberranti del funzionamento della giustizia comporta il lavoro di molti esperti, un apparato informatico ben impostato. E non poco denaro. Denaro che quelli che ne hanno non hanno la minima volontà di investire in un’impresa civile di questa portata e queste finalità. È chiaro che il discorso non si arresta qui e che molto c’è da aggiungere, da studiare e, soprattutto, da realizzare. Intanto, quale che debba essere l’esito di tutto ciò, un grazie da parte di tutti noi a Patrizio Rovelli. Ed un augurio di pieno successo. Facebook elimini i falsi ma non diventi un giudice di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2016 Facebook mostra di voler contribuire alla eliminazione dei contenuti falsi o illeciti presenti sulla piattaforma, tuttavia le modalità con cui questo intento verrà realizzato rischiano di generare una responsabilità a suo carico. Con un lungo post, il fondatore di Facebook ha spiegato di volere contribuire a limitare il fenomeno delle notizie false diffuse anche attraverso il social network. Esiste già, ed è cosa nota, un meccanismo che consente, sia autonomamente attraverso l’utilizzo di algoritmi, sia a richiesta degli utenti, la cancellazione di contenuti non in linea con il regolamento di utilizzo della piattaforma. In questo caso, tuttavia, si tratta di un passo in avanti, soprattutto rispetto alla posizione, sempre tenuta rigorosamente ferma da parte di Zuckerberg, di non essere una "media company", un’azienda editoriale, ma di limitarsi a fornire uno spazio per contenuti realizzati e organizzati da terzi. E, infatti, finché Facebook si limitava - limitava per modo di dire, tenuto conto dei numeri impressionanti di una simile operazione - a censurare parole o immagini chiaramente illecite, come insulti o appunto materiale pedopornografico, si trattava di una attività tutto sommato meccanica, che non aveva altro scopo che uniformarsi alla legge, evitando le più grossolane violazioni. La facile riconoscibilità di queste ultime consente di ritenere che in fondo poco importi che l’attività di "pulizia" sia compiuta su richiesta degli utenti o autonomamente dal sito. Se il social network dovesse davvero procedere alla eliminazione o alla marginalizzazione - nelle varie forme in cui ciò è possibile - delle notizie false dovrebbe inevitabilmente compiere scelte assai più opinabili. Senza entrare, infatti, nel merito di cosa sia la verità - da Pilato a Tarsky, sono stati in molti a chiederselo - è intuitivo come un simile "passo" imponga di compiere scelte di valore relative al rilievo da attribuire ai vari contenuti pubblicati. È difficile dire se un simile servizio possa essere assimilato o meno alla attività editoriale vera e propria. Forse non è nemmeno utile saperlo. Quel che importa davvero, e che crediamo interessi anche al gruppo di Menlo Park, è se ciò possa comportare una responsabilità del social network per i contenuti pubblicati. In assenza di una normativa specifica, viene spesso assunto come riferimento per l’individuazione della disciplina il Dlgs n. 70 del 2003 sul commercio elettronico. Più precisamente, l’articolo 16 del decreto prevede una esenzione di responsabilità per il provider rispetto ai contenuti pubblicati dagli utenti, a meno che la illiceità non sia manifesta e non vi sia stato un ordine di rimozione dell’autorità non adempiuto. Se però il social network interviene a controllare quanto viene pubblicato, soprattutto prima della sua diffusione, o anche dopo, ma non in seguito a specifica richiesta di un qualche utente, questa condotta rischia di far "saltare" la esenzione di cui si diceva. Come - in base a una certa giurisprudenza - il blogger risponde dei commenti di terzi se modera il sito, poiché la sua valutazione positiva ha un legame causale diretto con la pubblicazione, così un controllo capillare da parte di Facebook potrebbe indurre un giudice ad attribuire alla società californiana una sorta di "paternità" del messaggio. E se questo indirizzo prendesse piede, ciò potrebbe avere un effetto di rimbalzo che determinerebbe la crisi del sistema. Trovandosi direttamente responsabile, è facile immaginare che il social network a quel punto pretenderà di verificare ogni messaggio, modificando per sempre la natura del sito, in particolare restringendo questo spazio di libertà che è una delle novità più importanti della comunicazione nel XXI secolo. Facebook diventerebbe una sorta di Suprema corte del web. Una conseguenza tanto poco auspicabile, quanto inevitabile in quanto l’attribuzione di una responsabilità implica il conferimento di un potere di controllo. Esiste tuttavia un’esigenza concreta di porre un freno agli illeciti commessi in rete. La soluzione più funzionale allo scopo pare però un’altra, ovvero quella di potenziare il sistema di riscontro alle richieste degli utenti circa la eliminazione di contenuti illeciti o notizie false, sul modello adottato da Google dopo la nota sentenza della Corte Ue "Google Spain" per il diritto all’oblio. In altri termini, Facebook dovrebbe attrezzarsi affinché chiunque lamenti una scorrettezza abbia, in un tempo ragionevole, una risposta ed, eventualmente, una rimozione o una correzione di quanto si riveli illegale o falso. Questo ci pare il miglior compromesso tra gli interessi in gioco: una esigenza effettiva di tutela dagli illeciti o dalle notizie false accanto alla tutela di spazi di libertà ormai aperti. Detenuto con problemi psichiatrici: serve perizia per valutare l’incompatibilità col carcere quotidianogiuridico.it, 30 dicembre 2016 Cassazione penale, sezione I, sentenza 21 dicembre 2016, n. 54448. Pronunciandosi su un ricorso contro l’ordinanza del tribunale di sorveglianza che, nel confermare il provvedimento del magistrato di sorveglianza, respingeva la richiesta di un detenuto finalizzata ad ottenere, da un lato, il differimento della pena ovvero, in subordine, l’applicazione della misura della detenzione domiciliare, la Corte di Cassazione (sentenza 21 dicembre 2016, n. 54448) - nell’accogliere la tesi difensiva secondo cui sarebbe mancato un serio accertamento da parte del giudice del profilo psichiatrico del detenuto e della sua compatibilità con il regime carcerario -, ha ribadito il principio di diritto secondo cui sussiste l’obbligo per il magistrato di sorveglianza, a fronte di dati o documentazione clinica che giunga a divergenti conclusioni sulla compatibilità tra il quadro patologico ed il regime restrittivo di un detenuto, di approfondire la questione, ricorrendo all’ausilio specifico della perizia, ciò in ragione del livello squisitamente tecnico delle indagini medico-legali richieste. La musica ad alto volume è ancora reato di Francesca Milano Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2016 Sentenza n. 55096/2016 della Cassazione. "Turn up the radio", cantava Madonna. Ma sarebbe meglio non seguire il consiglio della pop star perché il reato di "disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone" previsto dall’articolo 659 del Codice penale non è stato depenalizzato ed è quindi perseguibile. A ribadirlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 55096/2016con la quale ha respinto il ricorso di un uomo che era stato condannato a pagare un’ammenda di 220 euro per aver ripetutamente disturbato il riposo e le occupazioni dei suoi vicini di casa tenendo la musica ad alto volume anche di notte. La vicenda risale al 2013, quando alcuni condòmini avevano chiamato i carabinieri a causa del rumore proveniente dall’appartamento di un vicino. Uno di loro aveva spiegato alle forze dell’ordine che il vicino ascoltava spesso la musica "a volume altissimo già dal mattino" e che suo figlio di tre anni manifestava segni di nervosismo perché sempre disturbato nel sonno dai rumori. Un altro condomino aveva aggiunto che il proprio figlio, studente universitario, era stato costretto a uscire per andare a studiare in un luogo più silenzioso. I condòmini si erano anche rivolti all’istituto diocesano proprietario dell’appartamento per segnalare il comportamento dell’inquilino. I giudici della Cassazione spiegano che "l’intensità dei rumori, che ha portato intere famiglie a uscire dalla casa per trovare un po’ di pace, e la lettera esposto alla Curia inducono a ritenere che il disturbo sia avvenuto nei confronti di un numero indeterminato di persone o comunque potenzialmente idoneo a infastidire tutto lo stabile e anche oltre". Nella sentenza di chiarisce infatti che il reato è configurabile solo se il disturbo non sia limitato agli appartamenti sovrastanti e sottostanti a quello del disturbatore. Inoltre, nel caso in esame la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto non è valida perché il reato era stato commesso reiteratamente per un periodo di tempo prolungato. Scudo fiscale, non punibilità esclusa per chi ha pagato in ritardo di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2016 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 29 dicembre 2016 n. 55106. La presentazione della dichiarazione per avvalersi dello scudo fiscale ed il pagamento dell’imposta sostitutiva in data successiva all’avvio dell’attività di controllo da parte dell’amministrazione finanziaria impedisce di beneficiare della non punibilità ai fini penali. A precisarlo è la Corte di Cassazione, sez. 3 penale, con la sentenza n. 55106 depositata ieri. La Procura della Repubblica ricorreva avverso la decisione del Tribunale della libertà di revocare il sequestro dei beni eseguito nei confronti di due persone imputate del reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di false fatture, di cui all’articolo 2 del Dlgs 74/2000. Secondo i giudici del riesame, l’avvio della verifica fiscale in data successiva all’entrata in vigore della norma (3/8/2009) comportava l’applicazione della non punibilità penale in quanto gli interessati successivamente si erano legittimamente avvalsi della normativa sullo scudo fiscale presentando le relative dichiarazioni riservate. La Procura ricorreva per cassazione avverso tale decisione, lamentando in sostanza che il Tribunale non aveva considerato l’esistenza di altre cause ostative alla fruizione dei benefici penali derivanti dall’adesione allo scudo fiscale. In particolare il rimpatrio delle attività non produceva gli effetti premiali, allorché, alla data della presentazione della dichiarazione riservata, una delle violazioni fosse già stata constatata o comunque fossero stati avviati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività di accertamento tributario o contributivo di cui gli interessati avevano avuto notizia. Nella specie l’attività ispettiva nei confronti dei due imputati era iniziata l’11 agosto e l’11 settembre 2009 mentre le dichiarazioni riservate erano presentate il 30 settembre in un caso e il 26 novembre nell’altro, nessun versamento poi era stato eseguito. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della Procura Secondo i giudici di legittimità la normativa sullo scudo fiscale escludeva la punibilità per i reati tributari in caso di rimpatrio dei capitali cd. scudati e si perfezionava con il pagamento dell’imposta (art 13 bis del DL 78/2009). Il rimpatrio non produceva gli effetti estintivi della punibilità quando, alla data di presentazione della dichiarazione riservata, le violazioni fossero state già constatate o comunque fossero già iniziati accessi, ispezioni e verifiche o altre attività di accertamento tributario e contributivo di cui gli interessati avevano avuto formale conoscenza. Nel caso in esame il procedimento penale non era sicuramente iniziato alla data di entrata in vigore della norma (3/8/2009) e quindi sarebbe stato possibile perfezionare il rimpatrio mediante il pagamento dell’imposta e non già con la mera presentazione della dichiarazione riservata, peraltro inoltrate tutte successivamente rispetto all’avvio ufficiale dei controlli. In sostanza, rileva la sentenza, non era stato eseguito il pagamento e le istanze erano pure successive all’inizio dei controlli. Da qui l’accoglimento del ricorso. L’assenza di contrassegno Siae sul software non porta sempre alla condanna di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2016 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 29 dicembre 2016 n. 55107. L’assenza del contrassegno Siae, tra il 1983 e il 2009, non è elemento determinante dei reati di duplicazione o detenzione di programmi informatici. Se però quest’assenza ha portato alla condanna, anche passata in giudicato, l’autorità giudiziaria deve intervenire per la revoca interpretando in maniera estensiva il Codice di procedura penale. In ogni caso la richiesta di revoca deve essere valutata in camera di consiglio dal giudice dell’esecuzione in contraddittorio tra le parti. Sono queste le conclusioni della Corte di cassazione con la sentenza n. 55107della Terza sezione penale depositata ieri. La Corte ha così annullato l’ordinanza con la quale il Gip di Firenze, in qualità di giudice dell’esecuzione, aveva dichiarato inammissibile la domanda di revoca della sentenza emessa dopo patteggiamento per il reato sanzionato dall’articolo 171 bis della legge n. 633 del 1941 (la misura sanziona l’abusiva duplicazione, distribuzione, possesso di software). La domanda era stata presentata facendo valere la pronuncia della Corte Ue dell’8 novembre 2007, Schwibbert, che ha disposto la disapplicazione delle norme che hanno come elemento costitutivo la mancata applicazione del contrassegno Siae. A venire contestata, nel capo d’imputazione, era la detenzione, attraverso l’installazione su 18 computer della società amministrata da condannato, di copie non autorizzate di programmi per elaboratore. La Cassazione chiarisce però che l’ordinanza di inammissibilità non ha seguito una procedura corretta. Il Gip, cioè, non ha disposto la fissazione dell’udienza in camera di consiglio, ma ha deciso senza contraddittorio al di fuori dei casi espressamente previsti. La pronuncia pertanto è viziata da una nullità che può essere rilevata in ogni stato e grado di giudizio. Tanto più che ci sono precedenti della stessa Cassazione che stabiliscono come la procedura camerale è necessaria quando il giudice dell’esecuzione respinge per motivi di merito l’istanza di revoca della condanna presentata facendo valere un’asserita abolitio criminis. Quanto alla mancanza del bollino Siae, la Cassazione ribadisce che quelle norme della legge sul diritto d’autore che la prevedevano e tuttora la prevedono come elemento costitutivo del reato non possono trovare applicazione nel periodo che va dalla direttiva n. 189 del 1983 al completamento della notifica della regola tecnica alla Commissione (Dpcm n. 31 del 2009). La rilevanza penale tuttavia rimane per tutte quelle disposizioni che non hanno l’assenza del contrassegno come elemento della condotta illecita. Inoltre, la Cassazione sposa una lettura estensiva di quanto disposto dall’articolo 673 del Codice di procedura penale (revoca della sentenza per abolizione del reato). Un’interpretazione che la Corte considera costituzionalmente corretta anche quando non si tratta di una dichiarazione di incostituzionalità della norma penale, ma anche quando quest’ultima è diventata inapplicabile per effetto di una pronuncia della Corte europea. Emilia Romagna: a colloquio con il Garante regionale dei detenuti Marcello Marighelli di Giuseppe Malaspina listonemag.it, 30 dicembre 2016 Scuola, formazione e cultura come strumenti per bonificare il degrado. Vigilare sulle condizioni di vita delle persone private della libertà personale, o comunque trattenute nei luoghi di detenzione dell’Emilia Romagna, per concorrere ad assicurare il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali previsti dalla Costituzione italiana e dalla normativa internazionale, nazionale e regionale di riferimento. Ricevere inoltre segnalazioni in merito a diritti violati, intervenendo per chiedere chiarimenti. E promuovere la conoscenza e l’esercizio dei diritti attraverso la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle istituzioni. Le attività del Garante regionale dei detenuti si muovono lungo diversi campi d’intervento e sono riassunte nel sito dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna. Una figura che verrà ricoperta dal ferrarese Marcello Marighelli, già Garante comunale nella città estense. Un nuovo ruolo, del quale abbiamo discusso proprio con lui. Rispetto al compito svolto a Ferrara, quali nuove funzioni sarà chiamato ad assolvere? "L’ordinamento penitenziario consente al garante dei diritti dei detenuti ‘comunque denominato’ di visitare le carceri e di avere colloqui con i detenuti. Il garante regionale può quindi intervenire in tutte le carceri della regione, mentre il garante comunale è attivo nel carcere della città. La più evidente differenza è quindi l’ambito territoriale. Anche le relazioni con le istituzioni si allargano a tutta la regione e hanno come principale riferimento il Consiglio regionale. Rispetto al lavoro svolto a Ferrara cambia quindi il punto di vista sulle carceri, che diventa più ampio e rende possibile un confronto tra le diverse situazioni, la proposta di progetti regionali e la diffusione delle più utili esperienze". Fra i problemi che colpiscono maggiormente la popolazione carceraria, ce ne è uno che necessita di una maggiore attenzione? "La maggior parte dei detenuti è povera, non ha risorse materiali e ha perso, o nel tempo perderà, le relazioni sociali. A settembre 2016 i detenuti in Emilia Romagna erano 3212, con 1560 cittadini stranieri, circa un terzo non ha istruzione. Credo che se vogliamo un carcere che punisce, ma sostiene il cambiamento delle persone, che rieduca e non emargina, che difende la società e non produce e riproduce la cultura criminale dobbiamo più adeguatamente investire in scuola, in formazione professionale, in cultura". Nel corso degli anni, quanto è cambiata la figura del Garante delle persone private della libertà personale? "Negli ultimi anni c’è stata una importante diffusione della figura del Garante dei diritti dei detenuti, molti comuni l’hanno istituita, nella nostra regione oltre a Ferrara è presente a Bologna, Parma, Piacenza e Rimini, è prevista in quasi tutte le regioni. Nel 2015 è stato nominato il Garante nazionale delle persone private della libertà personale ed è pienamente operativo. Si è quindi costituita anche nel nostro Paese una rete di figure indipendenti prevista dalle convenzioni internazionali per la tutela dei diritti umani e la prevenzione della tortura". In virtù della sua esperienza, le attività di laboratorio teatrale promosse da associazioni che operano in carcere quanto contribuiscono alla rieducazione del condannato? "Nel lavoro svolto a Ferrara ho conosciuto da vicino l’attività teatrale in carcere prodotta da Horacio Czertok e dai suoi collaboratori, presenti nel carcere di Ferrara da più di dieci anni, che operano nell’ambito di un coordinamento regionale e sono inseriti in importanti progetti europei. La parola chiave è forse cambiamento: attraverso la dura disciplina del lavoro teatrale molte persone detenute cercano, e spesso trovano, la possibilità di conoscersi e vedere una nuova prospettiva di vita. Il teatro in carcere è anche straordinariamente capace di far comunicare tra loro tutte le culture presenti e di trovare un linguaggio per far conoscere all’esterno, alla città, la realtà del carcere". Perché la tutela dei diritti dei detenuti è importante per la società che vive fuori? "La tutela dei diritti dei detenuti è importante per tutti, per chi è ‘dentro’ e per chi è ‘fuorì. Se a chi è stato condannato a subire una pena detentiva, oltre alla libertà si tolgono anche altri diritti, si praticano delle inutili sofferenze aggiuntive, delle vessazioni e non si offre una vera possibilità di aspirare al cambiamento della propria condizione ed un percorso di pacificazione, si autorizza chi ha sbagliato a sentirsi vittima della società, a pensare solo alla propria sofferenza e non a quella procurata agli altri, vanificando così ogni sforzo rieducativo. In generale, il rispetto della dignità della persona in carcere è il termometro di come le istituzioni considerano i diritti di tutti i cittadini, di come chi amministra sente il dovere di realizzare i principi costituzionali, per questo penso che la tutela dei diritti degli ultimi garantisca i diritti di tutti". Lecce: riesumata la salma di Antonio Fiordiso. I familiari: "Un altro caso Cucchi" La Repubblica, 30 dicembre 2016 La Procura aveva chiesto l’archiviazione dell’inchiesta su sei medici e due psichiatri accusati di omicidio colposo per "avere causato la morte per negligenza, imperizia e imprudenza". È stato riesumato a un anno e dieci giorni dal decesso il corpo di Antonio Fiordiso, 31enne di San Cesario morto per cause mai chiarite mentre scontava una condanna per rapina nel carcere di Taranto. Aperta la tomba nel cimitero del suo paese, prende corpo quello che in Salento viene considerato come un nuovo "caso Cucchi". Anche la famiglia Fiordiso, come quella di Stefano Cucchi, il giovane romano morto nel 2009 dopo alcuni giorni trascorsi tra carcere e ospedale, non si è arresa al tentativo degli inquirenti di accantonare il decesso di Antonio come un evento "accidentale" e ha iniziato a fine 2015 una dura battaglia legale con l’assistenza degli avvocati Paolo Vinci e Pantaleo Cannoletta. Sono stati i due professionisti a contestare la richiesta di archiviazione fatta dalla Procura di Taranto, nell’ambito dell’inchiesta su sei medici e due psichiatri del penitenziario locale accusati di omicidio colposo per "avere causato la morte per negligenza, imperizia e imprudenza". Nell’esposto presentato subito dopo il decesso di Antonio dalla zia Oriana Fiordiso veniva ricostruita una storia con molto punti oscuri: i passaggi dal carcere di Lecce all’ospedale Vito Fazzi, poi nel carcere di Taranto, dopo in quello di Asti, di nuovo a Taranto e da lì all’ospedale della stessa città. Sul corpo del nipote ricoverato la donna sostenne di avere notato lividi: gli agenti di custodia spiegarono con una rissa tra detenuti avvenuta però molti mesi prima. Nella denuncia la donna mise in evidenza lo stato di denutrizione in cui il giovane si trovava durante il ricovero e la mancanza di cure adeguate da parte del personale medico che lo ebbe in cura. Non a caso furono proprio medici e psichiatri i primi a finire sul registro degli indagati dopo che, nello scorso ottobre, il gip Pompeo Carriere rigettò la richiesta di archiviazione, disponendo nuove indagini che mirassero ad accertare in particolare se Fiordiso fosse stato picchiato in carcere e se non fosse stato curato bene in ospedale. Fin dall’inizio - sostenne il giudice - sarebbe stato necessario interrogare i familiari del detenuto, i medici, gli agenti penitenziari e, soprattutto, effettuare l’autopsia che avrebbe potuto rivelare le cause della morte, al di là della generica dicitura "arresto cardiocircolatorio" riportata sul certificato di morte. Da qui la riesumazione del cadavere e il trasferimento presso una struttura privata di Lecce, dove sarà sottoposto a una tac al fine di verificare l’esistenza di traumi e lesioni e accertare il possibile collegamento con il decesso. Anche se quel corpo già provato dalla denutrizione al momento della morte è oggi in uno stato che l’avvocato Vinci definisce "pietoso", c’è ancora la possibilità che possa fornire elementi utili per ricostruire la verità. Pesaro: il carcere di Villa Fastiggi sovraffollato e carente per manutenzione di Paolo Montanari viverepesaro.it, 30 dicembre 2016 A fine 2016 i detenuti ospitati nel carcere di Villa Fastiggi a Pesaro, sono 222 di cui 73 in attesa di giudizio e 149 con condanna definitiva. Gli stranieri sono attualmente 97 mentre la sezione femminile ospita 16 donne. Questi sono i dati forniti dall’autorità garante per le carceri, della Regione Marche, Andrea Nobili. Dati che confermano un fatto cronico per lo stabilimento penitenziario pesarese: il sovraffollamento degli ospiti in carcere, visto che la struttura è idonea a chi è in attesa di giudizio e deve scontare una pena inferiore ai 5 anni. Già alcuni anni fa scattò l’allarme di scarsità anche di materiale igienico, compresa la carta igienica per i detenuti e Andrea Nobili conferma queste precarietà: "La struttura di Villa Fastiggi avrebbe bisogno di interventi di manutenzione, per gli spazi d’aria per i detenuti, l’impianto di riscaldamento e i servizi igienici. Ma il problema più grave è la mancanza di psicologi che possono svolgere una attività educativa e di recupero nel carcere. L’idea e la percezione avute nell’ultima visita al carcere di Pesaro, è quella di un sovraffollamento che incomincia a diventare anche anomalo. Da una parte i nostri dati monitorati affermano che vi è un 30% in più di popolazione carceraria. Ma la direzione della struttura penitenziaria smentisce perché il calcolo è stato fatto su celle per un solo detenuto mentre a Villa Fastiggi le celle sono per due tenuti". In ogni caso il sovraffollamento carcerario con tutti i problemi correlati rimane e bisogna ringraziare la Caritas, con i suoi operatori, l’associazione Bacciaperte e il settimanale d’informazione inter-diocesano Il Nuovo Amico, che ha aperto una piccola redazione fra i detenuti. Piccoli tentativi umani di non far perdre l’umanità e il contatto con l’esterno per queste persone, alcune molto giovani. Pavia: polo psichiatrico in carcere. Cgil: "la struttura così non può aprire" vogheranews.it, 30 dicembre 2016 Una delegazione composta da Fabio Catalano Puma, Fp Cgil Pavia, e Calogero Lo Presti, Fp Cgil Lombardia ha visitato il reparto del carcere di Pavia "Articolazione per la salute mentale maschile", di imminente apertura. I sindacati dopo il sopralluogo mostrano scetticismo. "Abbiamo sempre nutrito forti dubbi sul fatto che entro il 16 gennaio 2017, data prevista per l’apertura del Polo Psichiatrico, ci sarebbero state le condizioni basilari per garantire adeguati livelli di assistenza sanitaria agli utenti e dignitose condizioni di lavoro per il personale, poliziotti e sanitari - segnala Fabio Catalano Puma -. La situazione che abbiamo trovato è veramente allarmate". Calogero Lo Presti rileva ancora: "È davvero impensabile prevedere l’apertura di questa struttura sanitaria, che ospiterà soggetti affetti da gravi patologie psichiatriche, con le deficienze strutturali che abbiamo riscontrato. I lavori di ristrutturazione del reparto non sono ancora terminati, mancano gli spazi dedicati alle attività socio-ricreative (salette socialità e cortili passeggi), e le soluzioni provvisorie prospettateci non risultano assolutamente adeguate: la sala destinata alle attività socio-ricreative è sprovvista di finestre e quindi manca l’areazione del locale, gli spazi per i cortili passeggi sono sottodimensionati e non adeguati per dieci persone, con grosse difficoltà logistiche relative al percorso per il raggiungimento degli stessi, tali da poter mettere a rischio anche la sicurezza dell’Istituto e degli operatori penitenziari". "Interesseremo della questione - concludono i due sindacalisti - anche il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, perché riteniamo che le condizioni con le quali è prevista l’apertura del Polo Psichiatrico mettano in discussione alcuni principi fondamentali della Costituzione, in particolare gli articoli 3, 27 e 32, tesi a garantire che il diritto universale alla salute trovi completo dispiegamento anche per le persone sottoposte a limitazioni della propria libertà". La Fp Cgil comunica anche segnalerà tutte le criticità riscontrare alle autorità competenti in materia di sicurezza e salubrità dei posti di lavoro e chiederà ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria di posticipare l’apertura del reparto almeno fino a quando non saranno terminati i lavori di ristrutturazione. Trani: delegazione pugliese dei Radicali in visita al carcere statoquotidiano.it, 30 dicembre 2016 "Entriamo nel carcere di Trani alle 10.30 del 26 dicembre, dopo aver superato qualche difficoltà: pare non si trovassero le nostre autorizzazioni - scrive Maria Rosaria lo Muzio militante pugliese del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale, Transpartito; siamo in tre, con me ci sono Anna Briganti e Daniela Corfiati. Nella sezione "Italia", i detenuti ci ricevono nei corridoi e le celle sono tutte aperte. È la modalità che prevede una sorta di carcere a "regime aperto" che, per i detenuti a media e bassa pericolosità, potenzi gli spazi dedicati a lavoro, sport, attività ricreative e culturali, si definisce anche "vigilanza dinamica" e dovrebbe puntare all’aspetto riabilitativo della pena. Qui ci sono i detenuti con pene inferiori ai cinque anni, molti di loro sono a pochi mesi dalla scarcerazione. E dopo i rituali convenevoli, il caloroso benvenuto e le frasi di cortesie il discorso va a finire là, la legge 199/2010, Detenzione domiciliare pene non superiori a diciotto mesi stabilizzata dal dl 23 dicembre 2013 n. 146. La norma prevede che ai condannati con pena detentiva (anche residua) non superiore a diciotto mesi, può essere concessa dal Tribunale di sorveglianza la possibilità di scontare la pena presso la propria abitazione o un altro luogo, pubblico o privato. I detenuti del carcere di Trani lamentano un uso troppo restrittivo di questa norma da parte della Magistratura di Sorveglianza, qualcuno dice che nelle Carceri del nord Italia la 199/2010 è applicata con maggiore frequenza. Molti di loro sarebbero già a casa, qualcuno fa anche i conti, in quel corridoio rimarrebbero 3 detenuti. A chi giova tenere in carcere fino agli ultimi giorni questi individui? Qual è il motivo di questa scelta? Ha forse a che fare con quello che potremmo definire il "business del detenuto". In Italia il costo per lo Stato di un mese di detenzione si aggira mediamente sui 3.500 euro al mese, di cui poche briciole nella misura di circa 250 euro al mese sono utilizzate per le esigenze del detenuto, la restante e preponderante parte finisce nel "sistema". Hanno voglia di parlare i detenuti di Trani e lo fanno apparentemente con grande libertà. Raccontano delle lunghe ore vuote, giornate, settimane, mesi ed anni vuoti, nelle carceri pochissimi lavorano, la gran parte di loro ozia tutto il giorno, un ozio forzato e avvilente. Prima di lasciarli li ringraziamo per la massiccia adesione al digiuno del 5 e 6 novembre, svoltosi in occasione della marcia per l’amnistia organizzata a Roma il 6 novembre, nella Giornata del Giubileo dei detenuti, conclusasi con Rita Bernardini, Paola Di Folco, Irene Testa e Maurizio Bolognetti, in digiuno da settimane, che hanno portato lo striscione con la scritta AMNISTIA in piazza San Pietro. Li salutiamo e andiamo mentre scroscia un applauso in ricordo di Marco, Anna Briganti ed io ci guardiamo: ci hanno fatto commuovere. Incontriamo, a piano terra, quattro "permessanti" al rientro dopo il Natale trascorso in famiglia. Sorridono, ci raccontano che da un po’ c’è un bravo Magistrato di sorveglianza che ha lavorato con impegno per consentire a molti di loro di trascorrere le festività a casa. Andiamo poi dall’altra parte, nella sezione Blu, dove le condizioni dei detenuti sono completamente diverse. Chi finisce qui, e non è chiaro quali siano le dinamiche che ti destinano dall’una o dall’altra parte, è costretto a vivere in condizioni inumane e degradanti, in celle affollate, invase da letti a castello, chiuse per la gran parte del giorno, con la possibilità di uscire per 4 ore d’aria da farsi entro delle gabbie, i "passeggi". Molti di loro ci hanno detto che non escono mai, preferiscono restare in cella. E andiamo a vederli questi "passeggi", queste gabbie con il cemento a terra e sui muri ed il cielo che si vede a quadretti dietro una rete. Accanto un campetto da calcetto, che ci spiegano è costato 50.000 euro e in condizioni tali da farmi chiedere: e degli altri 49.000 euro cosa ne è stato fatto?- Perché il problema vero è anche come le risorse messe a disposizione vengano impiegate, chi controlla o chi dovrebbe controllare che i soldi vengano spesi bene? Ma torniamo alle celle, nelle quali i bagni sono aperti, cioè c’è un water, accostato al muro, con accanto un lavandino. Così i bisogni corporali si fanno "a vista", a Trani, in Italia nell’anno 2016. Neanche una tenda davanti alla cancellata della cella è consentita. Ci sono solo poche docce comuni, non tutte funzionanti, in luridi ambienti con piastrelle scrostate, con postazioni divise da bassi muretti. Così vivono per anni esseri umani chiusi entro pochi metri quadrati. Dov’è la funzione rieducativa della pena, dove sono le condizioni per la riabilitazione di chi ha infranto la legge? E lo Stato non infrange ogni giorno le sue stesse leggi costringendo suoi cittadini, perché i detenuti restano dei cittadini, a vivere senza poter tutelare la propria dignità? Questa detenzione odora solo di vendetta e menefreghismo, la punizione va ben oltre la privazione della libertà personale, diventa accanimento e tortura, già quel reato che in Italia continua a non esistere nell’anno 2016. Andiamo nelle cucine, dove lavorano 5 detenuti, ci portano anche nel piccolo laboratorio dove si fanno i taralli, grazie alla Cooperativa sociale Campo dei Miracoli: vi lavorano 5 detenuti, 4 di loro scendono al mattina e preparano i taralli, mentre un altro nel pomeriggio li imbusta. Ce ne regalano un pacco a testa ed uno che apriamo a mangiamo già durante la visita. I taralli sono buonissimi. Arriviamo in infermeria, ci spiegano che il medico è presente in Istituto 24 ore al giorno e che ad intervalli regolari arrivano anche alcuni specialisti. Incontriamo un medico, ci racconta quel che già sappiamo, perché lo abbiamo visto e sentito tante altre volte, i farmaci scarseggiano, i detenuti fanno grande uso di psicofarmaci, soprattutto per affrontare le notti, il servizio sanitario nelle carceri è peggiorato da quanto è stato affidato alle ASL ed è stata soppressa la Medicina penitenziaria. D’altra parte il Servizio Sanitario in Puglia vive una stagione di grossi cambiamenti e tagli. Ma un dolore di denti nel carcere non è come un dolore di denti fuori - dice il medico. Lo sappiamo, nel carcere la percezione del dolore, le emozioni e le paure hanno una consistenza diversa: i detenuti, privati della libertà personale, tornano in una sorta di stato di minorità, costretti come sono per tanto tempo a non poter prendere decisioni per se stessi, diventano molto più fragili e a volte hanno delle reazioni quasi da bambini. La soglia del dolore si abbassa, la richiesta del farmaco, l’affidamento al potere taumaturgico della sostanza diventa pressante. Chi lavora nelle carceri lo sa, l’aspetto sanitario è uno dei grandi problemi degli Istituti di detenzione. In carcere purtroppo non ci si ammala soltanto, capita pure di morirci. Nel 2016 le morti in carcere di detenuti sono state 109, tra suicidi, morti per cause da chiarire, casi di overdose o semplicemente esiti di una assistenza sanitaria inefficiente. Nella nostra visita non incontriamo né il Direttore, né il Comandante, sono giorni di festa, è rosso sul calendario, non ci sono neanche gli educatori, ci accompagna un Ispettore e alcuni agenti, ci raccontano di essere drammaticamente sotto organico, di essere obbligati a turni molto ravvicinati, di essere costretti anche ad affrontare situazioni che li mettono a rischio, spesso ad intervenire in tentativi di suicidi, a volte senza riuscirci. Raccontano qualche episodio, come l’ultimo suicidio sventato di un detenuto che aveva tentato di impiccarsi con le lenzuola. Ormai sono trascorse alcune ore, chi ci ha accompagnato ha fretta di andare a casa. Noi anche questa volta usciamo dal carcere con la consapevolezza di dover percorrere ancora tanta strada per l’affermazione dei diritti di questi cittadini dimenticati", conclude Maria Rosaria lo Muzio. Crotone: il sindaco Pugliese in visita al carcere cittadino cn24tv.it, 30 dicembre 2016 Il sindaco Ugo Pugliese ha voluto portare, in questo periodo festivo, la sua vicinanza e quella della comunità cittadina, ai detenuti del carcere in località Passovecchio. Accompagnato dall’assessore ai Quartieri Caterina Caccavari e dai consiglieri Comunali Alberto Laratta, Angela Familiari e Enrico Pedace, il sindaco, accolto dal direttore della struttura Maria Luisa Mendicino, ha incontrato gli ospiti della casa circondariale. "Questi sono giorni particolari ed è giusto essere vicino a quanti stanno vivendo una esperienza difficile. Anche chi ha sbagliato ha diritto a non sentirsi solo in queste ore che dovrebbero essere di festa per tutti. Il carcere non è una "casa di pena" ma un luogo dove poter intraprendere un percorso di reinserimento nel tessuto sociale. Tutti hanno diritto a questa possibilità". "Debbo dare atto al direttore che questa è una struttura che consente di poter intraprendere questo percorso. Il Comune sarà vicino all’amministrazione penitenziaria nel sostenere progetti che sono orientati verso il reinserimento di queste persone, che sono e restano persone, perché il recupero sociale è fondamentale per loro stessi ma lo è anche per tutta la comunità" ha detto il sindaco Pugliese al termine dell’incontro". Padova: Angelo, lo scrittore del carcere Due Palazzi, vince il premio "Silvano Belloni" di Mattina Fabretto Il Mattino di Padova, 30 dicembre 2016 È un redattore della rivista "Ristretti Orizzonti", detenuto nel carcere Due Palazzi, il vincitore del premio letterario "Silvano Belloni", indetto dal Comune di Villanova di Camposampiero. Il concorso, giunto alla terza edizione, si è aperto quest’ anno per la prima volta a livello nazionale ed e intitolato allo storico, dialettologo, insegnante e giornalista scomparso nel 2011, che ha collaborato anche con il Mattino di Padova. Il consenso della giuria, presieduta da Florindo Zabbeo, ex alunno di Silvano Belloni e a sua volta insegnante e preside, è confluito unanimemente su Angelo Meneghetti per il racconto "Lo chiamavano Lord Brummel". Un racconto picaresco, che parla di avventura e di amicizia, di nostalgia e di rimpianti, come una confidenza raccolta tra le mura del Due Palazzi. Il protagonista è Romeo, bandito romantico, profondamente legato al proprio paese di origine, Villanova stessa, "il più bello del mondo, con due campanili e la piantagione di kiwi dietro casa". Romeo entra nel mondo del crimine quasi senza rendersene conto, durante una rapina in una banca svizzera, e affronta così un percorso che attraverso numerose avventure lo porterà alla reclusione. Nel racconto si avverte il peso per gli errori commessi, da cui indietro non si torna, e la consapevolezza che per chi sbaglia non c’è comprensione e il sentiero per la riabilitazione è in salita e irto di ostacoli. Un racconto, come lo ha definito la commissione, che restituisce un alone cii umanità a figure spesso marchiate da una sola etichetta. Angelo, con la profonda umanità e l’efficacia della sua scrittura, ha sbaraglialo una nutrita schiera di valenti avversari, ma non ha potuto, per ovvi motivi, partecipare alla premiazione, svoltasi a Villanova. Il premio gli è stato consegnato mercoledì pomeriggio al Due Palazzi dalla giuria del concorso, alla presenza del sindaco di Villanova Cristian Bottaro, dell’assessore Federica Carraro, di Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, di Angelo Ferrarini, insegnante di scrittura creativa all’interno del carcere e di altri detenuti. In una cerimonia profondamente sentita ed emozionante. Roma: storie e gusti di un pranzo di Natale "stellato", in carcere di Marinella Bandini aleteia.org, 30 dicembre 2016 A Rebibbia lo chef Cristina Bowerman ai fornelli, attori e cantanti sono i camerieri. L’iniziativa di Rns e Prison Fellowship in altre 4 carceri. Maria* ha 19 anni, è in carcere da un paio di settimane, ma sa già che tra pochi giorni potrà tornare a casa, ai domiciliari. Spera per Natale. Sara di anni ne ha 20. È stata coinvolta dal ragazzo in un giro di spaccio, ed è stata arrestata. Dopo un mese ai domiciliari non ce l’ha fatta ed è uscita di casa e così si è presa anche un anno in più per evasione. Ora è in carcere, incinta di 5 mesi. Antonia invece è qui da 15 anni: "Ho sbagliato, e sono qui". Il marito è morto da qualche anno, le rimane la consolazione di "averlo amato tanto" anche se dentro questa storia c’è finita per lui. La sua famiglia l’ha perdonata, i suoi figli vengono a trovarla, e da poco è diventata nonna. Sono più di 300 le donne detenute a Rebibbia, con storie, volti, accenti così diversi… e Natale è venuto anche quest’anno, anche per loro. Il 22 dicembre scorso per la prima volta ho varcato le porte di un carcere per un pranzo di Natale "stellato", organizzato da Rinnovamento nello Spirito Santo e dall’associazione Prison Fellowship Italia Onlus: "L’Altra cucina… per un pranzo d’amore" il titolo dell’evento. Ai fornelli la chef Cristina Bowerman, del Ristorante "Glass Hostaria" e di "Romeo chef&baker", con alcuni collaboratori e l’aiuto di una squadra di una decina di detenute. Mescolano il purè di patate dolci nei grandi pentoloni, ma l’uso dei coltelli gli è vietato. E anche sulle lunghe tavolate le posate sono argentate ma rigorosamente di plastica. A Rebibbia non c’è un refettorio, i pasti vengono serviti e consumati nelle celle, quindi è stato adattato il grande corridoio che dalle cucine porta alle celle. Tovaglie rosse, albero di Natale, anche l’amplificazione e un piccolo palco, su cui si alternano alcuni artisti, che oggi sono qui non solo per portare un po’ di allegria, ma anche per servire ai tavoli, con tanto di grembiule e cappello da Babbo Natale. Amedeo Minghi, che non è nuovo a questo genere di iniziative, ha molte fan sia tra il personale di vigilanza e amministrativo, sia tra le detenute, che cantano a squarciagola le sue canzoni e vogliono essere immortalate al suo fianco. "Le stelle oggi sono queste ospiti - ha detto il presidente di Rns, Salvatore Martinez - fratelli e sorelle a cui è stato possibile portare il meglio della nostra società, in una straordinaria gara di solidarietà". A Rebibbia, le donne detenute brillavano, letteralmente. Truccate, come nelle grandi occasioni, con il "vestito della festa" se così si può dire, quello più bello. Sono arrivate a piccoli gruppi, dai vari reparti, portando con sé lo sgabello per sedersi. Insomma, non era possibile dimenticare di essere in carcere. Ma la festa era vera, anche tra loro: saluti, baci, abbracci, l’amica che ti tiene il posto a tavola. Anche le guardie della Polizia penitenziaria, pur con occhio vigile, non hanno mancato di partecipare con calorosità a questa festa di Natale. In fondo sono loro le prime a partecipare a gioie e dolori delle detenute, a comunicare loro le belle notizie e quelle brutte, il primo e a volte unico contatto con il mondo esterno, l’argine ma anche il primo abbraccio. Quello che succede a Rebibbia succede anche in altre quattro carceri italiane (Milano, Modena, Palermo e la new entry, Salerno) e questo è la terza edizione dell’iniziativa. *i nomi delle detenute sono di fantasia Sondrio: "Voci nel tempo", la musica che abbatte ogni confine di Alberto Gianoli La Provincia di Sondrio, 30 dicembre 2016 Il concerto di mercoledì sera ha chiuso le iniziati ve natalizie per avvicinare la realtà carceraria alla città. Si sono conclusi mercoledì sera gli appuntamenti musicali e culturali che hanno caratterizzato questo periodo di feste nella casa circondariale di via Caimi. L’esibizione del coro "Voci nel tempo" di Cortenova (Lecco) ha permesso un incontro tra le persone detenute e la cittadinanza. Ogni appuntamento, infatti, non è stato rivolto solo ai detenuti, ma ad un pubblico più ampio, che accanto a momenti di intrattenimento ha avuto la possibilità di conoscere la realtà carceraria. Incontrato in occasione di una serata a Mandello del Lario sul tema della misericordia, cui avevano partecipato la direttrice e il cappellano del carcere, don Ferruccio Citterio, il coro è stato invitato ad esibirsi nella palestra dell’istituto. E dopo il concerto spazio al momento conviviale con le pizze preparate dai detenuti, il taglio del panettone e il caffè. L’appuntamento è stato solo l’ultimo in ordine di tempo, che ha permesso un incontro tra cittadinanza e detenuti. Il primo è stato venerdì 16 dicembre, quando i ragazzi dell’istituto Pio XII hanno disputato una partita di calcio con i detenuti e si sono poi intrattenuti in carcere per una merenda solidale. Sabato 17 ha cominciato ad essere protagonista degli appuntamenti la musica Grazie alla disponibilità di Luca Trabucchi, responsabile didattico dell’indirizzo classico della Civica Scuola di Musica, l’Orchestra Giovanile Alpinae Gentes della Civica Scuola, con i suoi 23 elementi e i suoi coordinatori, i maestri Elia Senese e Francesca Vignato, si è esibita nella palestra del carcere. Martedì 20 è stata la volta del Coro Alpi Retiche di Civo, che ha potuto esibirsi grazie all’interessamento di Gianfranco Giambelli, presidente provinciale dell’Associazione Nazionale Alpini, e Federico Motta, responsabile per la provincia della giornata della Colletta alimentare, con cui il carcere collabora ormai da due anni. Nel corso della serata, sono stati distribuiti ai padri detenuti doni per i loro figli, acquistati grazie alle offerte raccolte al cinema Excelsior in occasione della proiezione del film "Fiore", dedicato al tema dell’affettività in carcere. Mercoledì 21 ha fatto visita alla casa circondariale il vescovo Oscar Cantoni pe r un incontro con il personale amministrativo, la Polizia penitenziaria e i detenuti. "La visita del vescovo è sempre un momento importante perché è l’incontro tra chi esprime una fede e chi, se vuole e se lo sente, è chiamato a raccoglierla e a riflettere - ha affermato la direttrice Stefania Mussio. È un importante segnale di vicinanza e solidarietà: è il desiderio di ricordarsi degli ultimi e di non escludere nessuno, neppure chi ha sbagliato. Il Natale è un momento di gioia per tutti, proprio per tutti, nessuno escluso". Cassino (Fr): due cori polifonici in concerto per i detenuti di Adriana Letta diocesisora.it, 30 dicembre 2016 Due concerti natalizi per i detenuti, in due giorni consecutivi, il 28 e 29 dicembre. Ad offrire questa lieta occasione sono stati due gruppi corali molto bravi e noti: il Coro "Annibale Messore" di S. Ambrogio sul Garigliano ed il Coro "S. Giovanni Battista Città di Cassino". Il primo giorno il gruppo polifonico ambrosiano, diretto dal M° Maria Grazia Messore e accompagnato musicalmente dal fratello Carmelo Messore, ha rallegrato l’uditorio principalmente con canti natalizi, che, come sempre, creano subito un’atmosfera speciale, intima e familiare, che parla al cuore di tutti, anche di coloro che sono di fede diversa da quella cristiana. Ed è stato un successo. Uno dei detenuti ha voluto ringraziare a nome di tutti il Coro ed il suo Direttore e nel gran finale anche i detenuti sono stati coinvolti nel cantare con tutto il fiato "Tu scendi dalle stelle". D’altronde il Coro di S. Ambrogio, che oggi porta il nome del suo fondatore di cui conserva e porta avanti l’ideale di musica e solidarietà, da sempre riserva un pomeriggio durante le feste natalizie per un concerto nella Casa Circondariale di Cassino, per dare ai reclusi un momento di gioia del cuore attraverso la musica e la compagnia. A completare il tutto, è stata, come sempre, la corista Gemma Simona De Rosa, a presentare in modo brillante e divertente i brani da eseguire, cosa che il pubblico ha molto gradito e apprezzato. Tra il pubblico, nei due giorni, oltre ai detenuti, erano presenti, su invito della Direttrice Irma Civitareale e del Funzionario giuridico-pedagogico Anna Guglielmi, anche amici, invitati e operatori di Associazioni ed Enti che collaborano con la Direzione nella realizzazione delle attività ricreative e sportive finalizzate al recupero delle persone che sono in carcere. Il secondo giorno il Coro S. Giovanni B., diretto dal M° Fulvio Venditti e accompagnato alla tastiera dal M° Paola Saroli, ha pensato bene di cambiare repertorio, per offrire una maggiore varietà agli spettatori. Così ha scelto dei gradevolissimi midley di canti popolari tradizionali e poi di W. Disney e infine, con grande soddisfazione dell’uditorio, ha fatto cantare… Napoli. Applausi ritmati, voci che si aggiungevano al Coro, entusiasmo alle stelle. Anche stavolta uno dei detenuti presenti ha ringraziato i musicisti a nome di tutti ed ha chiesto di far esibire il compagno-cantautore Rodolfo che ha eseguito la sua canzone in cui dice appunto che nella vita voleva fare il cantautore e non il rapinatore. È a lui (insieme ad un altro detenuto) che il regista Fabio Cavalli, autore del cortometraggio "Naufragio con spettatore", ha affidato la colonna sonora. Ed è stato un momento particolarmente toccante ed intenso. L’auspicio è proprio che ogni recluso, attraverso le varie attività proposte, possa ritrovare se stesso e ricostruire, anche scoprendo e coltivando i propri talenti, la sua vita e la sua collocazione sociale in modo positivo. Bari: "Calze in carcere", la Befana porta i doni ai piccoli in visita ai genitori detenuti baritoday.it, 30 dicembre 2016 Una calza piena di dolci e caramelle, un piccolo dono per regalare un sorriso ai bambini figli di persone detenute. È "Calze in carcere, la befana dei piccoli", l’iniziativa della durata di quattro giorni, che si svolgerà a partire dal 2 gennaio, nella Casa Circondariale di Bari. La manifestazione è organizzata dalla Casa Circondariale di Bari e realizzata dall’associazione "Seconda Mamma", in collaborazione con il Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Regione Puglia e la cooperativa sociale Marcovaldo. Tutti i bambini, figli di persone detenute, che andranno a far visita al proprio papà, riceveranno in dono una calza speciale consegnata dalle volontarie di "Seconda Mamma", con le quali potranno poi intrattenersi per giochi e momenti di festa insieme ai propri cari. "Desideriamo ringraziare - spiegano Benedetta Maffia e Silvia Russo Frattasi, responsabili di Seconda Mamma - per questa opportunità il direttore reggente della Casa Circondariale di Bari, Valeria Pire e per la collaborazione e la disponibilità, il comandante Francesca Demusso, il personale della polizia penitenziaria, gli educatori e il personale tutto. Si tratta di un’esperienza umana e sociale importante per tutte noi. I volontari si daranno da fare, a titolo gratuito, per donare un sorriso ai piccoli ospiti durante questi giorni di festa". Le calze sono state acquistate dall’Agebeo, associazione impegnata nell’aiuto alle famiglie di bambini affetti da leucemia. In questo modo, l’intervento svolge una funzione moltiplicativa dei benefici e mette i genitori nelle condizioni di trasmettere ai figli un messaggio di solidarietà e speranza che riguarda anche altre famiglie e altri bambini. I Garanti assicurano che, anche dopo la festa dell’Epifania, verranno proseguite e sostenute iniziative volte al miglioramento dell’accoglienza dei parenti in visita, naturalmente con una particolare attenzione rivolta ai minori. Monza: stanze dietro le sbarre, un B&B nel vecchio carcere di Riccardo Rosa Corriere della Sera, 30 dicembre 2016 Proposta del Comune: rilanciamo il turismo. Ma il proprietario vorrebbe costruire appartamenti. Letti singoli o doppi al posto delle brande a castello, stanze accoglienti al posto delle celle e un grazioso giardino al posto del cortile per l’ora d’aria. Nel futuro del vecchio carcere giudiziario di Monza potrebbe esserci la trasformazione in un nuovo bed & breakfast posizionato a pochi minuti dalla stazione ferroviaria e dal centro storico. A metà gennaio sbarcherà in Consiglio comunale la variante al Piano di governo del territorio per l’adozione finale. Sul tavolo, oltre quattrocento osservazioni da discutere e diversi nodi urbanistici da sciogliere. Uno in particolare: il recupero della casa circondariale di via Mentana 30, oltre tremila metri quadrati abbandonati nel 1992 che l’amministrazione sogna da anni di trasformare, almeno parzialmente, in una struttura ricettiva (ostello o albergo). Ma il condizionale è d’obbligo, visto che dal 2003 la proprietà dell’edificio risalente alla fine dell’Ottocento è diventata privata. "L’immobiliare che l’acquisito all’asta dal Demanio ha presentato un’osservazione con la quale chiede sostanzialmente di realizzare nuove residenze - spiega Claudio Colombo, assessore all’Urbanistica -. L’edificio è piccolo (circa otto mila metri cubi), ma strategicamente importante. Vedremmo di buon occhio una destinazione a bed & breakfast anche nell’ottica di un rilancio turistico della città". Come dire: il tavolo di confronto con la proprietà, in vista dell’adozione del Pgt, è ufficialmente aperto. L’area, fonte in passato di polemiche per lo stato di degrado, oltre che a due passi dalla stazione e dal centro città, è anche vicina all’ex Macello comunale dove dovrebbe nascere un nuovo polo scolastico. "L’idea di trasformare un vecchio carcere in un bed & breakfast sarebbe già un elemento d’attrazione - commenta Marco Lamperti, consigliere comunale Pd e presidente della commissione Urbanistica - e al tempo stesso potrebbe rappresentare un punto d’incontro fra le nostre esigenze e quelle dell’immobiliare". "L’odore del Mare", a Ischia la presentazione del documentario sul carcere di Procida ischiablog.it, 30 dicembre 2016 Venerdì 30 dicembre alle ore 16:00 verrà presentato il documentario realizzato dal direttore artistico dell’Ischia Film Festival Michelangelo Messina "L’odore del Mare: il carcere di Procida". Il lavoro sarà proiettato nel nuovo centro culturale "Navigando verso Aenaria" in Via S. Giuseppe della Croce, nel cuore di Ischia Ponte, dove sarà presente anche il dott. Giacomo Retaggio che racconterà aneddoti e curiosità del carcere di Procida. Alla presentazione interverranno anche, l’assessore comunale di Ischia, Carmen Criscuolo, e l’assessore comunale di Procida, Antonio Carrannante. "L’odore del mare" fa parte del progetto "Carceri sul mare", una trilogia di documentari realizzati in tre diversi carceri internazionali uniti dalla posizione sul mare che si sono differenziati per il regime politico con cui sono stati gestiti. Oltre al carcere di Procida (Italia) sono previsti altri due documentari che saranno realizzati nel carcere di Tallin (Estonia) e in quello di San Quintino (Stati Uniti). Il progetto mira a far conoscere le diverse tipologie di sistema carcerario nel mondo e nel contempo una riscoperta dell’identità territoriale da sempre uno degli obiettivi principali dell’Ischia Film Festival e del progetto per il recupero dell’identità del luogo "Cinema & Territorio". A seguire, sempre per le strade del borgo, vi sarà la terza ed ultima giornata dell’evento "Squarci di buon gusto ad Ischia Ponte" con le degustazioni di prodotti tipici ischitani a partire dalle ore 17.00. L’opera - Il documentario è stato girato quando il carcere era ancora in stato di abbandono, racconta la storia del penitenziario più antico del golfo partenopeo, a strapiombo sul mare, dove il dott. Giacomo Retaggio, attraverso i suoi ricordi, svela la storia del carcere e gli anni passati al suo interno come medico. Il progetto a Procida è stato realizzato dall’Associazione Culturale Art Movie & Music in collaborazione con la Ischia Film con il contributo dell’Istituto Luce-Cinecittà. 2016, le buone notizie sui diritti umani da ricordare di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 dicembre 2016 Per moltissimi versi il 2016 è stato un anno nero per i diritti umani. Ma ci sono tante buone notizie che vanno ricordate. Sono il frutto della pressione dal basso, della società civile che ogni giorno manifesta, promuove appelli, organizza iniziative spesso coronate dal successo. Nel 2016, Amnesty International ha contribuito alla scarcerazione di quasi 650 prigionieri di coscienza (una media di poco meno di due al giorno), a migliorare le leggi in 40 paesi e a far condannare criminali di guerra. Queste sono le migliori notizie dell’anno, una per mese. 21 gennaio: l’Alta corte dello Zimbabwe dichiara illegali i matrimoni di ragazze di età inferiore ai 18 anni, abrogando una norma che finora aveva consentito a bambine anche di 12 anni di sposarsi col consenso dei genitori. 26 febbraio: due ex militari dell’esercito del Guatemala sono condannati complessivamente a 360 anni di carcere per aver ridotto in schiavitù sessuale e aver torturato, nel 1982 e 1983, 15 donne all’interno del distaccamento militare di Sepur Zanco. 15 marzo: dopo oltre quattro anni di carcere e di appelli, esce dal carcere il poeta del Qatar Mohamed al-Ajami, noto come il "poeta dei gelsomini". Nel novembre 1012 era stato condannato all’ergastolo per "incitamento pubblico al rovesciamento del sistema", "sfida pubblica all’autorità dell’Emiro" e "diffamazione pubblica del principe della Corona". Nel febbraio 2013 la condanna era stata commutata in 15 anni di carcere. 9 aprile: l’attivista studentesca di Myanmar Phyoe Phyoe Aung viene rilasciata insieme a un’altra decina di studenti in carcere. Era stata arrestata nel marzo 2015 durante una manifestazione pacifica indetta dagli studenti per protestare contro una riforma universitaria. Per i reati dei quali era imputata, rischiava fino a nove anni di carcere. Amnesty International aveva inserito il suo caso tra quelli della maratona Write for rigths 2015. 3 maggio: Atena Farghadani, giovane vignettista e promotrice di campagne per la scarcerazione dei prigionieri politici in Iran, è rilasciata dopo che in appello la sua condanna a 12 anni e nove mesi di carcere, inflittagli il 1° giugno 2015, viene ridotta a un anno e mezzo, buona parte dei quali già scontati. Atena Farghadani era stata giudicata colpevole di "collusione per compiere crimini contro la sicurezza nazionale", "propaganda contro il sistema", "offesa alla Guida suprema" e "offesa a membri del parlamento". 7 giugno: dopo quasi quattro anni di prigionia, un tribunale dello stato di Sinaloa, in Messico, dispone la scarcerazione di Yecenia Armento Graciano. La donna, madre di due figli, era stata arbitrariamente arrestata dalla polizia investigativa dello stato di Sinaloa il 10 luglio 2012, picchiata, quasi asfissiata e violentata nel corso di 15 ore di torture fino a quando era stata costretta a "confessare" il coinvolgimento nell’omicidio del marito. 21 giugno: la Corte penale internazionale condanna Jean-Pierre Bemba, già ex vicepresidente della Repubblica Democratica del Congo e poi leader di un gruppo armato operante nella Repubblica Centrafricana, a 18 anni di carcere per crimini di guerra. 14 luglio: la Corte suprema di El Salvador annulla per incostituzionalità la legge di amnistia del 1993. Nei successivi 23 anni, la legge ha impedito di fare luce sui crimini commessi durante il conflitto interno tra il 1980 e il 1992, quando oltre 75.000 persone furono torturate, uccise e fatte sparire. 26 agosto: nella Repubblica Democratica del Congo vengono rilasciati Fred Bauma, Yves Makwambala, Christopher Ngoyi e Jean Marie Kalonji, quattro attivisti per la democrazia che rischiavano lunghe condanne e persino la pena di morte per accuse inventate di "complotto contro il capo dello stato". Amnesty International aveva raccolto oltre 170.000 adesioni all’appello per il loro rilascio. 27 settembre: in Italia il Consiglio di stato dichiara Ungheria e Bulgaria paesi non sicuri versi i quali rinviare persone richiedenti protezione internazionale. In entrambe le sentenze sono menzionate le preoccupazioni e le denunce di Amnesty International riguardo al trattamento riservato ai richiedenti asilo in quei due paesi. 17 ottobre: per la prima volta un tribunale della Corea del Sud assolve due obiettori di coscienza al servizio militare che in primo grado erano stati condannati a 18 mesi di carcere. Lo stesso giorno è respinto anche il ricorso della pubblica accusa contro l’assoluzione, in primo grado, di un terzo obiettore di coscienza. 17 novembre: viene scarcerato Rosmit Mantilla, parlamentare del partito "Volontà popolare" e attivista per i diritti delle persone Lgbti in Venezuela. Era stato arrestato il 2 maggio 2014, quando il suo partito era all’opposizione, con l’accusa di aver ricevuto fondi per finanziare le proteste antigovernative che avevano avuto luogo nella prima parte di quell’anno: accusa basata unicamente su una testimonianza anonima. 4 dicembre: il Genio militare degli Stati Uniti d’America annuncia il blocco della costruzione dell’oleodotto del Nord Dakota, il cui tracciato sarebbe passato sotto il fiume Missouri e nei pressi della riserva sioux di Standing Rock. Amnesty International aveva sostenuto le proteste delle comunità native, non coinvolte nella fase di progettazione, legate ai rischi per l’acqua e l’ambiente. L’anno nero dell’immigrazione: dalle morti in mare al ritorno delle frontiere Redattore Sociale, 30 dicembre 2016 Ogni giorno in media 14 persone sono morte nel Mar Mediterraneo: il numero più alto mai registrato. Ma l’aumento dei naufragi non è l’unico record negativo: quest’anno verrà ricordato anche per il ritorno dei controlli alle frontiere e per i contestati accordi bilaterali con alcuni paesi di origine e transito. L’ultimo naufragio nel mar Mediterraneo, avvenuto alla vigilia di Natale, conta almeno 100 dispersi, secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. E allunga così la lista nera delle vittime del mare nel 2016: con un totale di circa cinquemila morti è stato infatti l’anno nero dell’immigrazione. "Il peggior bilancio di sempre in termini di perdite di vite umane - sottolinea l’Unhcr. Nel 2016, ogni giorno in media 14 persone sono morte nel Mar Mediterraneo: il numero più alto mai registrato". Ma l’aumento dei naufragi non è l’unico record negativo che si porta dietro l’anno in corso: il 2016 verrà ricordato infatti anche per il ritorno dei controlli alle frontiere, che hanno ridisegnato la mappa dell’accoglienza nei paesi europei, e per i contestati accordi bilaterali fatti con alcuni paesi di origine e transito (Turchia, Afghanistan, Sudan) per controllare il flusso verso l’Europa. I corridoi umanitari: l’alternativa possibile, che ancora solo una sperimentazione. Secondo padre Camillo Ripamonti, direttore del Centro Astalli è tempo di mettere fine alle tragedie del mare creando una reale alternativa ai viaggi. "Cinquemila morti è un dato molto grave anche perché peggiora ogni anno, nonostante le operazioni di salvataggio. Questo ci dice molto sulla pericolosità dei viaggi e ribadisce la necessità di offrire a queste persone che scappano un’alternativa - sottolinea. Servono corridoi umanitari e un reale impegno allo sviluppo nei paesi di origine. Finora gli accordi con i paesi di partenza hanno avuto solo l’obiettivo di ridurre i flussi. Un atteggiamento fallimentare di chiusura: serve una politica più lungimirante. Chiudersi nella fortezza Europa non porta a nulla, bisogna invece mettere insieme le esigenze di tutela e accoglienza di tutti i paesi". E proprio all’inizio di quest’anno è partita la sperimentazione dei corridoi umanitari: un progetto ecumenico, promosso da Sant’Egidio, Tavola Valdese e Chiese evangeliche che ha l’obiettivo di portare in Italia mille migranti entro il 2017. E che verrà ampliato anche con l’apporto della Cei il prossimo anno, coinvolgendo 500 profughi sudanesi, eritrei e somali. I numeri dell’immigrazione 2016. Ma quali sono stati i numeri dell’immigrazione nel 2016? In tutto sono circa 350mila le persone che hanno attraversato il Mediterraneo quest’anno per approdare sulle coste europee: 173.208 nella rotta orientale verso la Grecia (dato Unhcr aggiornato al 26 dicembre) e 180.375 nel Mediterraneo centrale verso l’Italia (dato ministero dell’Interno aggiornato al 28 dicembre). Un numero molto inferiore rispetto al 2015, quando si è sfiorato il milione: solo verso la penisola ellenica erano più di 800mila gli arrivi. Il cambiamento è dovuto al contestato accordo tra l’Unione europea e la Turchia che ha di fatto fermato il flusso e bloccato migliaia di persone in Grecia, in attesa di essere ricollocate in altri paesi europei o, se considerate non richiedenti asilo, di essere rimandate indietro. Ma il programma di relocation non ha mai raggiunto i numeri ipotizzati all’inizio, e così i profughi (per la maggior parte siriani e afgani) sono costretti a vivere nei campi attrezzati del paese, con un senso di incertezza verso il futuro. Di contro, il numero degli arrivi in Italia è aumentato: non si può parlare, però, di un cambio di rotta, sia per i numeri nonostante tutto contenuti, sia perché le persone che attraversano il Mediterraneo centrale provengono tutte più o meno dagli stessi paesi (Eritrea, Nigeria, Gambia) mentre pochissimi continuano ad essere, negli ultimi anni, i siriani e gli afgani (che si concentrano invece sulla rotta orientale). Per l’Italia il numero è comunque il più alto di sempre: il 17,3 per cento in più rispetto al 2015 (quando gli arrivi sono stati 153mila) e il 6, 54 per cento rispetto al 2014 che con 169.304 arrivi era stato già battezzato come anno record. A preoccupare è, in particolare, l’aumento dei minori stranieri che arrivano soli nel nostro paese: sono 25mila nel 2016, erano la metà (12.360 nel 2015). "Sono sempre più piccoli e stanno aumentando anche le ragazze - spiega Antonella Inverno, responsabile Policy di Save the children. La situazione dei minori stranieri in Italia continua a peggiorare. La loro tutela deve essere una priorità". Accoglienza: quasi 180mila accolti, cresce lo Sprar ma non basta. Sul piano interno, nel 2016 anche l’accoglienza è lievitata nei numeri. Da paese di transito l’Italia sta diventando sempre di più paese di approdo, sia per l’aumento delle persone che arrivano, sia per l’entrata in vigore dell’agenda europea per l’immigrazione, che prevede il nuovo approccio hotspot (con l’identificazione all’arrivo e tutte le conseguenze che derivano dal Regolamento Dublino). Ma a incidere è anche la stretta dei controlli alle frontiere, che ha di fatto fermato il percorso migratorio di molti richiedenti asilo nel nostro paese. Dall’inizio dell’anno ad oggi sono 175mila i migranti in accoglienza: erano 103mila nel 2015 e appena 66mila nel 2014. La maggior parte dei posti continuano ad essere messi a disposizione attraverso i cosiddetti Cas (Centri per l’accoglienza straordinaria) mentre solo il 20 per cento (circa 27mila posti) fa capo al Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar). Proprio per aumentare la rete dello Sprar il ministero dell’Interno, di concerto con l’associazione dei comuni sta modificando le regole per aderire ai progetti: non sarà più necessario partecipare al bando biennale e sono previsti anche bonus economici. Frontiere e accoglienza dal basso: mentre gli Stati si chiudono i cittadini continuano ad aiutare i rifugiati. Ma proprio per il rafforzamento dei controlli ai confini degli stati europei molti migranti che sono approdati nel nostro paese, con il progetto di continuare il viaggio verso il nord Europa, si sono trovati di fronte una porta sbarrata. Diversi sono stati i luoghi improvvisati per l’accoglienza informale: da Como a Ventimiglia, fino a Roma dove è continuata l’esperienza degli attivisti e volontari del Baobab. Un’accoglienza dal basso che nonostante tutto continua a crescere e fare rete, per dimostrare che esiste un’altra Europa, che non alza i muri, ma accoglie e dà quelle risposte che molti Stati non riescono più a dare. Profughi, i Comuni pronti a ospitare. Ora tocca alla Ue dire se li finanzierà di Milena Gabanelli Corriere della Sera, 30 dicembre 2016 I centri per identificare e formare chi arriva. Serve un piano pragmatico e a gestione pubblica che sfrutti ex ospedali, caserme e luoghi tolti alla mafia per convogliare i flussi. E vanno assunti docenti per corsi di lingua, formatori, medici, addetti alla gestione. "La situazione è esplosiva", "L’Italia non può farcela da sola", "La popolazione è impaurita, si rischia la rivolta sociale". Queste sono le conclusioni dei vertici politici sul tema: presa d’atto del problema. Ma la soluzione qual è? Gli sbarchi sono quotidiani, e il numero di disperati destinati a restare in Italia cresce: senza documenti in regola, dalle frontiere verso il nord Europa, non si passa più. Nel mondo ideale se ne uscirebbe fermando guerre e persecuzioni, in quello reale si negozia e basta, mentre milioni di disperati fuggono dai bombardamenti, e altrettanti in cerca di lavoro. L’Italia ha proposto all’Europa il "migrant compact", che vuol dire: aiutiamoli creando occupazione a casa loro. Gli investimenti in Africa - Ma chi va a investire in Africa se non vede un ritorno economico? Paradossalmente chi ci sta aiutando è la cinica Cina, che da 10 anni, dall’Angola allo Zambia, sta finanziando infrastrutture ripagate in risorse minerarie. Ora hanno costruito in Etiopia un polo industriale che impiega 7.000 persone; collegato con autostrada, ferrovia e il nuovo porto di Gibuti. Sono entrate in produzione 23 aziende: cinesi, indiane, olandesi, e il gruppo Unilever. Stanno investendo 500 milioni di euro nella nuova città industriale di Huajian, con la creazione diretta di 50 mila posti di lavoro. La convenienza sta nella manodopera a basso costo nell’industria manifatturiera. Possiamo chiamarlo neocolonialismo, ma è dentro alle organizzazioni sindacali nate nelle fabbriche che si sviluppa la consapevolezza necessaria a trasformare i regimi in democrazie; senza contare che per un africano un posto di lavoro malpagato è sempre meglio del nulla. Europa e Stati Uniti hanno regalato denaro per 70 anni, senza curarsi del fatto che serviva ad arricchire i dittatori senza creare posti di lavoro. L’Africa oggi ha bisogno di tutto, mentre il nostro mercato è saturo, e nel mondo si sta facendo strada una nuova visione di sviluppo, però i tempi sono lunghi e intanto gli sbarchi nel 2016 rasentano i 190.000, contro i 153.000 del 2015. Questo è la situazione che ci attende per i prossimi 10 anni, e la nostra posizione geografica non ci consente di chiudere frontiere: il mare non lo puoi recintare. Di fatto siamo diventati l’hub d’Europa. I centri di identificazione ed espulsione - Lo sa il ministro dell’Interno Minniti, che 3 giorni fa ha deciso la riapertura dei Centri di identificazione ed espulsione, in parte dismessi fra mille polemiche e violenze. La delega è passata al prefetto Morcone: "I tempi per la riapertura sono lunghi, perché le strutture sono state vandalizzate". Intanto lo Stato continua a fare quello che ha sempre fatto, smista gli sbarcati nei Cara, nei comuni, negli alberghi o parrocchie, fra gestioni mafiose e umanitarie, con pratiche che girano da una commissione all’altra per anni. Il risultato è quello che viene raccontato dalle cronache di Milano, Roma, Torino, Bologna, Genova e di tutto il Sud: un’umanità che girovaga nei parcheggi, chiede l’elemosina, quando va bene finisce nel giro del caporalato, quando va male in quello dello spaccio, e poi in carcere, dove si radicalizza. Intanto cresce l’insofferenza della popolazione, cavalcata dalla politica più populista. L’opportunità per l’Italia - Allora proviamo a trasformare lo tsunami in una opportunità, attraverso un progetto complessivo, pragmatico e a gestione pubblica, dove il terzo settore si limita a svolgere un lavoro di supporto; un progetto da portare a Bruxelles per farcelo finanziare. Il piano deve prevedere la mappa dei luoghi in cui convogliare i flussi (stimabili in circa 200.000 persone l’anno), nei quali identificare chi ha diritto di restare e chi no, fare i corsi di lingua, di formazione al lavoro e alle regole della democrazia europea. Per una migliore razionalizzazione e controllo, sono preferibili ampi spazi, che abbiamo già: i resort sequestrati alla mafia, gli ex ospedali, l’enorme patrimonio delle caserme dismesse. La caserma Montello a Milano è già operativa, ma nelle mani delle cooperative e associazioni che non prevedono né l’identificazione né la formazione. La caserma Lamarmora, a Tarvisio, dismessa due anni fa, dove c’è già tutto: bagni, refettorio, mensa, stanze. Poi c’è la caserma Serena a Treviso, la Gasparro a Messina, la Battisti a Sulmona; poi ci sono quelle utilizzabili in parte (la Serini nel Bresciano, la Stamoto e la Perini a Bologna), altre da ristrutturare perché disabitate da tempo. I lavori si possono fare velocemente con provvedimenti d’urgenza, con personale qualificato ad evitare la solita spartizione della torta, e la supervisione di un commissario europeo delegato. Le regole per chi arriva - È necessaria poi l’applicazione di regole rigide: obbligo di frequenza quotidiana dei corsi, e tempo massimo di permanenza nelle strutture di 6 mesi, trascorsi i quali i richiedenti asilo, provvisti di status e curricula devono essere trasferiti per quote nei diversi Paesi europei e sul nostro territorio. Per attuare questo piano occorre assumere circa 25.000 professionisti, fra insegnanti, formatori, addetti alla gestione, medici, e 40 giudici dedicati a stabilire chi ha diritto a restare e chi no. Costi: circa 2 miliardi di euro per la messa in abitabilità; circa 2,5 miliardi di euro all’anno, fra stipendi, manutenzione e mantenimento. Sono calcoli approssimativi, ma fatti con la consulenza di esperti dei diversi settori coinvolti. Se l’Italia si assumesse la responsabilità dell’identificazione e formazione, l’Europa farebbe la sua parte? Il commissario europeo Avramopoulos ha dichiarato pubblicamente che i soldi per finanziarci ci sono. E i Paesi membri si prenderebbero la loro quota? I delegati all’immigrazione da noi consultati (Carina Ohlsson per la Svezia, Inhjerd Schon per la Norvegia, Marian Wendt per la Germania) hanno espresso disponibilità. I nostri sindaci invece sarebbero disponibili a mettere a disposizione dello Stato le caserme o gli ampi spazi necessari ubicati nei loro Comuni, per realizzare il progetto, e poi accogliere i migranti in piccoli gruppi, già identificati e formati, per provvedere all’integrazione sul territorio? La disponibilità dei sindaci - "Non ci sono altre alternative" hanno dichiarato il sindaco di Milano Giuseppe Sala e quello di Bologna Virginio Merola. Favorevole a questa impostazione l’assessore al Welfare del Comune di Torino Sonia Schellino, l’assessore all’Urbanistica del Comune di Roma Paolo Berdini, il sindaco di Livorno Filippo Nogarin, quello di Prato Matteo Biffoni, di Pietrasanta Massimo Mallegni, di Zeri Egidio Pedrini. Il sindaco di Vicenza Achille Variati afferma: "Questo è un esodo che durerà anni, se non vogliamo riempirci di un popolo di disgraziati e di clandestini, che vengono buttati nelle braccia della delinquenza, dobbiamo prendere per mano il fenomeno. Ci sto!". Ci sta anche il sindaco leghista di Cecina Susanna Ceccardi, anche se preferirebbe non vedere nemmeno un migrante sul suo territorio, e pure il sindaco di Novara Alessandro Canelli. Con tutti i distinguo del caso, anche Matteo Salvini è favorevole a una gestione pubblica centralizzata. I migranti economici - Resta aperta la questione più complessa: i migranti economici. Il rimpatrio è costoso perché gli accordi con i Paesi d’origine prevedono una contropartita. Un ricatto che finora non abbiamo mai affrontato in modo energico, e coordinato. Abbiamo fatto accordi con l’Egitto, il Gambia, e intavolato un dialogo con la Nigeria, ma le rotte si sono spostate in Libia. In quella polveriera con chi dialoghi? Sui tavoli internazionali c’è la proposta di allestire i controlli direttamente alla frontiera dei Paesi coinvolti. Ma chi ci deve pensare? L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati? Forse. E mentre si discute, noi abbiamo un problema dentro casa che ci riporta al punto di partenza. Sono i Comuni che devono fare pressione sul governo affinché chieda all’Europa il finanziamento di un "progetto d’impresa" che crei le basi per una vera integrazione degli aventi diritto, in modo che anche il migrante economico, in attesa di rimpatrio, possa essere gestito tramite l’organizzazione complessiva. Vantaggi: una maggiore percezione di sicurezza da parte dei cittadini, la creazione di posti di lavoro e la rivalutazione di un patrimonio, oggi destinato alla svendita o alla fatiscenza. È l’occasione per riprenderci dignità e dimostrare al mondo che sappiamo diventare un modello, là dove gli altri hanno fallito. Egitto. Caro Regeni, le confessioni del delatore non portano a nessun colpevole di Andrea Milluzzi Il Dubbio, 30 dicembre 2016 Mancano le testimonianze della polizia e i filmati delle telecamere. Giulio venduto per vendetta. "Sì, ho denunciato io Giulio Regeni ai servizi segreti e ne sono orgoglioso" : ha detto proprio così Mohammed Abdallah, il leader del sindacato autonomo degli ambulanti egiziani in un’intervista all’edizione araba dell’Huffington Post. L’uomo al centro delle indagini sull’omicidio del ricercatore friulano scomparso a Il Cairo il 25 gennaio scorso e riapparso cadavere una settimana dopo, inserisce un altro tassello nel mosaico che la Procura di Roma sta ricostruendo in collaborazione con i colleghi egiziani. "Ho visto Regeni sei volte, l’ultima il 22 gennaio - ha detto Abdallah. Era uno strano straniero che stava sempre in mezzo agli ambulanti e faceva un sacco di domande che riguardano la sicurezza dell’Egitto. Così ho registrato la nostra ultima telefonata e l’ho consegnata al ministero degli Interni. Solo loro si occupano di noi ed è naturale che gli apparteniamo. Ho fatto quello che ogni buon egiziano avrebbe dovuto fare". Abdallah ha ribadito ancora una volta l’accusa di spionaggio a Regeni: "Dopo la mia denuncia ho fatto saltare la sua copertura, quindi l’avranno fatto uccidere le persone che lo avevano mandato qua". Sostenere che Regeni fosse stato una spia al soldo degli italiani o degli inglesi, visto che era in Egitto per un dottorato di Cambridge "è l’ennesimo tentativo di depistaggio - ha commentato Abdel Halim Henish, legale rappresentante della famiglia Regeni in Egitto. Piuttosto le sue dichiarazioni confermano il coinvolgimento del Ministero degli Interni e degli apparati di sicurezza". Regeni partecipava alle assemblee dei sindacati autonomi, oggetto della sua ricerca, e in quella dell’ 11 dicembre si accorse di essere fotografato. Uno dei suoi interlocutori era Abdallah e i rapporti fra i due erano più che buoni finché Abdallah chiese a Regeni di poter tenere per sé parte delle 10mila sterline che l’inglese Antipode Foundation si era impegnata a donare come supporto ai sindacati autonomi. Dopo questo litigio Regeni nei suoi appunti definì Abdallah "una misera umana". È probabilmente per vendetta che Abdallah iniziò a passare video e informazioni su Regeni ai servizi segreti. Ad inizio dicembre il quarto incontro a Roma fra gli inquirenti egiziani e quelli italiani aveva già fatto emergere il coinvolgimento della polizia cairota. Il procuratore generale egiziano Ahmed Nabil Sadek aveva ammesso che Abdallah aveva fatto numerose segnalazioni alla sicurezza centrale della capitale egiziana e che in seguito a queste la polizia aveva aperto un’indagine su Regeni. Indagine che, secondo Sadek, era durata solo tre giorni e si era chiusa con un nulla di fatto. In seguito a quell’incontro, grazie alle pressioni della procura romana, gli inquirenti egiziani avevano identificato i poliziotti con cui aveva parlato Abdallah e anche quelli responsabili della pasticciata messinscena della sparatoria di marzo in cui cinque persone vennero uccise e ingiustamente accusate dell’omicidio Regeni. Ma nel successivo incontro del 7 dicembre a Roma, Sadek e la sua delegazione non hanno fornito al procuratore di Roma Pignatone i tabulati dei loro interrogatori. Subito dopo il ritrovamento del corpo torturato di Regeni sulla strada fra Il Cairo e Alessandria, l’alto ufficiale della sicurezza nazionale Khaled Shalabi parlò di incidente stradale o omicidio a sfondo sessuale. Shalabi è la stessa persona segnalata nell’aprile scorso da un anonimo informatore di Repubblica come il mandante dell’uccisione di Regeni. Ed era lo stesso Shalabi a guidare la polizia investigativa di Giza al tempo delle denunce di Abdallah. Una pista che necessiterebbe di essere approfondita, magari andando a recuperare le denunce anonime che coinvolgevano anche il presidente egiziano al Sisi. Peccato però che dopo tutto questo tempo non siano saltati fuori nemmeno i filmati delle telecamere della fermata metro presso cui Regeni fu rapito. Ieri il premier Gentiloni ha detto che "la collaborazione con Il Cairo ha prodotto alcuni risultati" e infatti a giorni è previsto l’insediamento del nuovo ambasciatore italiano in Egitto, Giampaolo Cantini, che prenderà il posto di Maurizio Massari, richiamato in patria ad aprile per l’empasse delle indagini sul caso Regeni. I buoni risultati di cui parla Gentiloni però non comprendono ancora una piena ricostruzione di quanto accaduto, né i nomi degli assassini di Regeni. Colombia. Amnistia per guerriglia e militari, anche il Senato approva all’unanimità la legge di Geraldina Colotti Il Manifesto, 30 dicembre 2016 Una legge "storica". Così il governo colombiano ha commentato l’approvazione dell’amnistia da parte del Senato: "il primo passo per consolidare la pace", ha detto Santos, insignito del Nobel per aver portato a casa la firma degli accordi con la guerriglia marxista delle Farc. Il testo prevede un trattamento giuridico speciale, amnistia e indulto ai componenti delle Farc accusati di reati politici, e riguarda anche i militari. Esclude dai benefici i responsabili di delitti di lesa umanità, genocidio, violenze sessuali, tortura ed esecuzioni extragiudiziarie. Chi confessa i crimini più gravi davanti a un tribunale speciale che dovrà presiedere alla giustizia di transizione, potrà accedere alle pene alternative al carcere. Se non accetta e viene ritenuto colpevole, dovrà scontare una pena che va da 8 a vent’anni. Entro il 30 gennaio si saprà quanti guerriglieri verranno esclusi dalla disposizione di legge. Gli agenti dello Stato o i civili responsabili di violenze nel conflitto armato (che dura da oltre cinquant’anni) interessati dall’amnistia sarebbero circa 5.000, e circa 1.200 quelli che uscirebbero dal carcere. Il Senato ha approvato la legge con 69 voti a favore e nessun contrario. In precedenza, l’amnistia era passata alla Camera con 121 voti a favore e nessuna opposizione. L’estrema destra del Centro democratico, diretto dall’ex presidente Alvaro Uribe, in prima fila contro gli accordi di pace, ha partecipato alla discussione in entrambe le Camere, ma è uscito dall’aula al momento del voto. Le Camere hanno deliberato in sessione straordinaria, in base a una procedura d’urgenza (fast track) stabilita il 24 novembre scorso, al momento della firma dell’accordo rivisto, dopo la bocciatura al referendum voluto da Santos. Ora l’ultima parola spetta alla Corte Costituzionale la cui decisione verrà ratificata da Santos. Potrà allora cominciare la smobilitazione dei circa 5.700 guerriglieri che avevano bloccato il processo di rientro nella vita politica a causa dei ritardi nell’approvazione della normativa. Ora potranno trasferirsi nelle 26 zone stabilite dagli accordi, in attesa che si apra davvero la fase del post-accordo. Un percorso tutt’altro che lineare in un paese che, in America latina, gioca lo stesso ruolo di Israele in Medioriente. Un ruolo che, se i decisori rimangono gli stessi, avrà una ulteriore accelerazione con la firma degli accordi di partenariato con la Nato, annunciata da Santos. E resta in sospeso l’accordo con l’altra guerriglia storica, quella guevarista dell’Eln, che ha auspicato la ripresa dei negoziati.