Speranza e non odio dentro le carceri risorgimentoitaliano.news, 2 dicembre 2016 Ieri il messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ai detenuti di Poggioreale, a favore di una sostanziale revisione del sistema penitenziario, istituzione statale non derogabile ma da capovolgere. Il carcere non come luogo d’odio, ma di speranza. Queste le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel corso del suo videomessaggio di ieri al carcere di Poggioreale. "A nessuno, tanto meno ai giovani, deve essere tolta la possibilità di riabilitarsi - ha dichiarato ai detenuti dei padiglioni Firenze e Livorno del penitenziario napoletano, in occasione della proiezione del film documentario di Michele Santoro sul fenomeno dei baby boss della camorra. Dopo il primo Ministro Matteo Renzi e Papa Francesco, anche il Capo dello Stato interviene sulla questione carceraria. E se il primo solo il mese scorso aveva promesso nuove iniezioni di personale, chiudendo poi su indulto e amnistia ai fini di una politica di contrasto al sovraffollamento carcerario, il Pontefice negli stessi giorni chiedeva clemenza per quei casi di detenzione meritevoli di una possibilità fuori dalle sbarre. "Una giustizia penale non esclusivamente punitiva, ma aperta alla prospettiva di reinserimento del reo nella società - dichiarava Papa Francesco durante il Giubileo dei detenuti di tutto il mondo. Moltiplicare le occasioni per la formazione e il reinserimento, avviando un percorso di sviluppo di un sistema alternativo di pene. Queste le linee guida indicate da Mattarella che ha poi ribadito perché un comportamento gravemente contrario alla legge è giusto che sia affrontato dallo Stato attraverso percorsi riabilitativi che si allontanino il più possibile dal concetto di vendetta sociale. Il ricorso all’istituzione carceraria è una necessità non derogabile, sottolinea l’esponente del Colle. Le porte dei penitenziari non si chiuderanno, sembra probabilmente voler dire tra le righe, ma il suo assist è in direzione di un’importante restaurazione del sistema attualmente in vigore. A mancare, ad oggi, è senza dubbio uno slancio proattivo verso il post fine pena, a vantaggio della deprimente prospettiva d’ingresso in un girone infernale che, anziché recuperare il valore dell’individuo quale componente sana di una collettività, concorre ad alimentare la spirale di rabbia e depressione sociali con cui il detenuto entra nel penitenziario, trovando in esso unicamente rinforzo positivo e, quindi, fallimento dell’ideale riabilitativo che dovrebbe in prima battuta orientarne la finalità. Lo afferma la nostra Costituzione quando, all’articolo 27, richiama a chiare lettere la funzione rieducativa della pena e il fondamento di spirito umanitario su cui dovrebbe poggiare il trattamento del reo. Sappiamo bene quanto oggi non sia così. Sovraffollamento, scarsità di lavoro interno, condizioni igienico-sanitarie precarie e carenza di personale lo rendono una polveriera in grado di aggiungere unicamente disagio al disagio. Noi di Risorgimento italiano rimaniamo dalla parte del rispetto dei Diritti umani fondamentali e dei princìpi costituzionali che, talvolta, andrebbero semplicemente rispettati. Adottare la Carta Ue per figli di genitori detenuti, l’appello degli europarlamentari blogsicilia.it, 2 dicembre 2016 "Con l’intesa sulla Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti, siglata nel 2014 e rinnovata qualche settimana fa, l’Italia ha dato vita a una best practice fortemente ispirata dal principio del superiore interesse del minore sancito nella Convenzione Onu sui diritti del fanciullo, dando concretezza all’esigenza di assicurare la continuità affettiva e relazionale tra i bambini e gli adolescenti da un lato e i loro genitori in carcere dall’altro. Il problema riguarda circa 800mila minori in tutta Europa. Oggi lanciamo alle istituzioni dell’UE e ai paesi membri l’invito a prendere in considerazione l’istituzione di un analogo protocollo a livello europeo, in modo da avviare la costituzione di un quadro normativo uniforme che, superando le disomogeneità esistenti, assicuri il mantenimento dei rapporti familiari e consenta ai genitori anche di essere presenti nelle fasi importanti del percorso formativo dei loro figli". Ad affermarlo è Caterina Chinnici, co-presidente dell’intergruppo per i diritti dei minori, intervenuta a Bruxelles al dibattito organizzato dal gruppo S&D per la presentazione della dichiarazione scritta che propone l’adozione di una carta europea dei minori figli di persone recluse e di cui la stessa eurodeputata è promotrice insieme con altri nove colleghi. "È molto importante - aggiunge Caterina Chinnici - che le istituzioni europee si impegnino al massimo, in linea con i valori fondanti dell’UE, per tutelare i diritti dei minori figli di detenuti e fare sì che questi bambini e ragazzi possano crescere senza smarrire il rapporto con i genitori. L’Italia ha avviato un’esperienza che può rappresentare un valido spunto per creare una regolamentazione europea utile anche a rafforzare, in chiave generale, l’integrazione sociale". Oltre a Caterina Chinnici, primi firmatari della dichiarazione sono Patrizia Toia, Sergio Cofferati, Silvia Costa e Luigi Morgano per il gruppo S&D, Anna Maria Corazza Bildt ed Elisabeth Morin-Chartier del PPE, Nathalie Griesbeck e Marian Harkin del gruppo Alde e Jean Lambert del gruppo Verdi/ALE. Il documento sarà sottoposto per l’adesione a tutti i membri del Parlamento Europeo. Medicina penitenziaria. I batteri delle carceri, una realtà spesso ignorata di Salvatore Gemmellaro oxfordjournals.org, 2 dicembre 2016 Rispetto alle persone in libertà, i detenuti di recente hanno mostrato un aumentato della prevalenza di infezioni umane da virus dell’immunodeficienza, da virus dell’epatite B, dell’epatite C, della sifilide, della gonorrea, della clamidia e da Mycobacterium tuberculosis. Durante la prigionia, i detenuti sono esposti ad un a rischio maggiore di acquisizione di agenti patogeni, malattie sessualmente trasmissibili, di infezioni da Staphylococcus aureus meticillino-resistente (Mrsa), e infezioni da organismi presenti nell’aria, come il M. tuberculosis, il virus dell’influenza, e il virus varicella-zoster. Questo articolo presenta una breve rassegna di alcune delle più importanti sfide di controllo delle infezioni e delle opportunità all’interno delle carceri. La maggior parte delle carceri e delle prigioni sono state costruite per massimizzare la sicurezza pubblica, non per ridurre al minimo la trasmissione di malattie o per fornire in modo efficiente l’assistenza sanitaria. Le probabilità di trasmissione di microrganismi potenzialmente patogeni aumenta con l’affollamento, con i ritardi nella valutazione medica e del trattamento, con l’accesso razionato al sapone, all’acqua e alla biancheria pulita, con l’insufficiente competenza del controllo delle infezioni e con i divieti contro l’uso di collaudati strumenti di riduzione del danno come ad esempio preservativi e siringhe sterili. Il trasferimento brusco di detenuti da un luogo all’altro complica ulteriormente la diagnosi di un infezione, l’interruzione della trasmissione, il riconoscimento di un focolaio e l’eradicazione della malattia. L’alta prevalenza della malattia mentale tra i detenuti spesso complica la corretta gestione delle malattie contagiose. Precauzioni standard e informazioni base sulla trasmissione in istituti penitenziari - Carceri e prigioni spesso mancano di aree sufficienti per il lavaggio delle mani. Una singola struttura ospita spesso i detenuti che necessitano di cure e che includono sia infermerie che strutture di salute mentale e ospizi. Sviluppare strategie di controllo delle infezioni che possono essere implementate facilmente in tali impostazioni complesse possono mettere in difficoltà anche i professionisti nel controllo delle infezioni più preparati. Le cucine - Malattie di origine alimentare a causa di Norovirus, Campylobacter, Salmonella, Shigella, Staphylococcus e Streptococcus pyogenes sono state spesso riportate in istituti penitenziari. Tutte le strutture di correzione dovrebbero aderire alle linee guida di controllo delle infezioni di base in materia di servizi culinari. La maggior parte della preparazione dei cibi viene eseguita dai detenuti sotto la supervisione del personale. Ai detenuti che hanno ferite aperte sulle loro mani o nelle braccia, infezioni respiratorie, ittero, vomito o diarrea dovrebbe essere vietato lavorare; così come a persone con problemi mentali o a coloro che non hanno la capacità intellettuale di aderire a standard appropriati di igiene. I lavoratori culinari dovrebbero essere istruiti e testati per assicurare la comprensione dei concetti base di pulizia e prevenzione delle malattie. Quando si verifica un focolaio di malattie gastrointestinali, è importante prendere in considerazione altre fonti di cibo, tra cui il negozio e i pacchetti inviati da fuori della struttura in loco al prigioniero. Le lavanderie - Indumenti e biancheria sono strettamente razionati per evitare che i detenuti costruiscano dell’armamentario (ad esempio delle corde) per la fuga a partire da confezioni di abiti non omologate o dalle tende. Nonostante queste preoccupazioni, i detenuti dovrebbero essere dotati di un adeguato apporto di abbigliamento e biancheria, e questi elementi devono essere lavati frequentemente. I detenuti comunemente lavano i propri vestiti con acqua e sapone in un lavandino, in un secchiello o in sacchetto di plastica. Questo processo può rimuovere lo sporco e gli odori, ma fa poco per uccidere gli organismi patogeni. L’unico modo per rimuovere in modo affidabile gli organismi che possono causare le malattie è quello di utilizzare la lavanderie istituzionali. Tolettatura - Sono i detenuti a svolgere la maggior parte dei tagli di capelli nelle carceri e nelle prigioni, e spesso ricevono poca o nessuna istruzione sul controllo delle infezioni. Gli strumenti per la rasatura e il taglio dei capelli possono essere riutilizzati senza adeguata disinfezione, facilitando la trasmissione di malattie. Per ridurre al minimo questi rischi, tutti i potenziali barbieri dovrebbero ricevere una formazione, essere sottoposti ad un test, ed essere osservati periodicamente per assicurare l’aderenza con le pratiche di controllo delle infezioni. Ai detenuti barbieri dovrebbe essere consentito l’accesso a strumenti e forniture di disinfezione necessari. Controllo degli ectoparassiti - Ectoparassiti, come scabbia e pidocchi, sono problemi comuni negli istituti penitenziari. Tutti i detenuti che hanno prurito, eruzioni cutanee o lesioni cutanee devono essere prontamente valutati da un medico. Una gestione adeguata dei casi sospetti comprende farmaci per via orale o topica, abbigliamento e cambio di biancheria, accesso doccia e cambiamenti di alloggio, che richiede una stretta collaborazione tra il personale clinico e di custodia. Mrsa è iperendemico nella maggior parte delle strutture di correzione. I fattori di rischio includono la carcerazione prolungata, le lacerazioni della pelle e le abrasioni, il precedente uso di antibiotici, la scarsa igiene della pelle. Per controllare questa infezione bisognerebbe liberalizzare l’accesso al sapone, a docce e ad abiti puliti. Inoltre, la valutazione delle ferite e il trattamento clinico può portare ad una più rapida diagnosi; il trattamento e la guarigione delle lesioni cutanee può portare a minori possibilità di trasmissione secondaria. Anche se ci sono dati sufficienti per sostenere gli sforzi di decolonizzazione di routine, la pratica può essere utile a coloro che sviluppano ripetuti episodi di infezione. Inoltre, bisogna saper distinguere una ferita da Mrsa da un semplice morso di ragno, per evitare lo sviluppo della malattia. Varicella-Zoster (Vzv) - Vzv è introdotto negli istituti penitenziari da parte dei dipendenti, di visitatori o di detenuti che hanno la varicella. Per ridurre il rischio di epidemie istituzionali, a tutti i dipendenti e ai detenuti non immuni dovrebbe essere offerta la vaccinazione contro VZV. I detenuti che sviluppano la varicella dovrebbero essere ospitati in isolamento respiratorio fino a quando non sono più contagiosi. Se le camere a pressione negativa non sono disponibili, i detenuti con varicella dovrebbero essere alloggiati con coloro che hanno già avuto l’infezione VZV. Il personale non immune non dovrebbe partecipare alla cura dei detenuti che hanno un’infezione attiva da VZV, a meno che il membro del personale non indossi un respiratore. Mycobacterium tuberculosis (MTB) - Fino al 25% dei detenuti americani hanno un’infezione tubercolare latente (LTBI), e l’incidenza di infezione MTB attiva tra i detenuti è di 6-10 volte superiore a quello della popolazione non incarcerata. L’infezione da HIV, che è il fattore di rischio più forte per la progressione da LTBI a malattia attiva, è 10-20 volte più diffusa tra la popolazione carceraria rispetto alla popolazione non incarcerata. Le persone infette da HIV possono progredire rapidamente da LTBI a malattia attiva contagiosa. Il sovraffollamento, la scarsa ventilazione, la diagnosi ritardata e l’incapacità di aderire a standard riconosciuti per la prevenzione e di contenimento hanno contribuito alla trasmissione di MTB all’interno di carceri e prigioni e, da lì, alla popolazione non incarcerata. Misure di prevenzione e controllo delle infezioni includono l’identificazione precoce delle persone con LTBI e con la malattia attiva, l’isolamento delle persone contagiose, l’uso appropriato delle precauzioni nell’aria, veloci indagini di contatto e il completamento con successo di trattamenti per LTBI e per l’infezione da MTB attiva. Epatite virale - Fino al 40% di tutti gli americani con epatite virale cronica sono stati incarcerati, e la prevalenza di epatite virale tra i detenuti è significativamente più alta di quanto non sia tra la popolazione generale. Qualsiasi strategia nazionale globale per la prevenzione, la diagnosi precoce e il trattamento di epatite virale deve includere carceri e prigioni. L’immunizzazione di coloro che sono non immuni, il trattamento di coloro che sono cronicamente infetti, il trattamento dell’abuso di sostanze possono beneficiare la popolazione non incarcerata, diminuendo i costi associati con l’epatite virale cronica e riducendo la trasmissione. Infezione da HIV - La prevalenza di Aids è almeno 5 volte maggiore tra i prigionieri di quanto non sia tra la popolazione libera, e l’infezione da HIV e conseguente AIDS rimane una delle più comuni cause di morte tra i detenuti negli Stati Uniti. Un trattamento efficace dell’infezione da HIV nelle carceri ha portato una riduzione del 75% della mortalità per AIDS. L’identificazione dei detenuti con infezione da HIV può incoraggiare gli altri ad essere testati per l’infezione da HIV e potrebbe potenzialmente ostacolare la diffusione del virus. Rivolta in aula contro il giudice, una crepa nella coesione sociale di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2016 "Condanna troppo mite", caos al Tribunale di Roma. Anzitutto i fatti. Ieri mattina, in un’aula del Tribunale penale di Roma, al termine di un processo per femminicidio il pubblico presente si è scagliato come una furia contro l’imputato e contro il giudice che lo aveva condannato a "soli" 20 anni di carcere, e non all’ergastolo come chiedeva il pubblico ministero. Per un’ora circa, nell’aula di udienza si è scatenato il caos: al grido di "infami", "vergogna", "fra pochi anni sarà libero", "fatecelo linciare", amici e parenti della vittima hanno bloccato l’aula, hanno insultato e minacciato il giudice, hanno tentato di aggredire l’imputato lanciandogli contro oggetti e urlando parolacce. Soltanto l’intervento di un massiccio numero di carabinieri, poliziotti e agenti della polizia penitenziaria ha impedito alla folla di farsi giustizia da sé contro Yoandro Medina Nunez, il cubano ventiquattrenne che nel novembre dell’anno scorso, nel rione Testaccio, sparò un colpo di pistola mortale alla testa di Nicole Lelli, la sua compagna italiana che viveva nella periferia della capitale. La giustizia popolare, insomma, reclamava il massimo della pena, il carcere a vita. Tanto più che a chiederlo - nonostante la scelta del "rito abbreviato", che per legge comporta uno "sconto" della pena - era stato anche il Pm, contestando all’imputato l’omicidio volontario con una serie di aggravanti, tra cui la premeditazione. Quanto basta per giustificare l’ ergastolo, sia pure con lo "sconto" dell’"isolamento diurno". Il giudice Claudio Carini non è stato d’accordo: ha escluso la premeditazione e ha bilanciato le aggravanti con le attenuanti generiche, per cui è partito dalla pena base di 30 anni prevista per l’omicidio volontario e poi ha applicato lo sconto di un terzo per effetto del "rito abbreviato". Risultato: "anni 20 di reclusione". Sentenza pronunciata, come di rito, "in nome del popolo italiano" ma rifiutata violentemente da quello stesso "popolo" che reclamava, invece, una pena esemplare per "vendicare" la vittima e i suoi parenti. Fin qui la cronaca. Ma i fatti di ieri raccontano anche molto altro. Raccontano di una giustizia delegittimata al punto tale che le aule giudiziarie sono diventate luoghi in cui si spara, come avvenne a Milano il 10 aprile del 2015 quando fu ucciso il giudice Fernando Ciampi, o si aggredisce, com’è accaduto nel luglio scorso a Palermo quando i familiari di due imputati condannati a pene pesantissime colpirono con un pugno in faccia il Pm e costrinsero la Corte a barricarsi in camera di consiglio. La violenta reazione di ieri è la conferma di una progressiva caduta, non tanto di fiducia nella funzione giurisdizionale, quanto di cultura istituzionale. Con conseguenze gravissime, perché per questa via si logora - fino appunto a delegittimarlo - uno degli strumenti fondamentali della coesione sociale e di una democrazia. Il diritto penale nasce per non lasciare la giustizia nelle mani delle vittime: appartiene alla civiltà di un popolo avere un giudice terzo che valuti i fatti con imparzialità e che decida. Decisioni non sempre infallibili e certamente criticabili, ma sempre nel rispetto dell’istituzione. Il giudice non deve rincorrere il consenso popolare. Dev’essere indipendente. Ma la sua professionalità - funzionale all’indipendenza - deve condurre a decisioni che possano quanto meno "aspirare" all’accettazione sociale, anche per scongiurare il pericolo di una giustizia fai da te. Tanto più in casi di rito abbreviato, come quello di ieri, nei quali non è neanche possibile che il Pm impugni in appello la sentenza. Perciò, ad esempio, non può non destare qualche perplessità la decisione di non riconoscere la "premeditazione", visto che normalmente non si esce da casa con una pistola, o quella di aver bilanciato le aggravanti con le attenuanti generiche. Il libero convincimento del giudice è un principio sacrosanto e va rispettato, ma a volte anche il convincimento di un giudice può essere sbagliato o border line. Altrettanto sacrosanto, quindi, è il diritto di critica purché non sconfini nella violenza delegittimante. Sia chiaro: venti anni di carcere non sono una bazzecola e la cosiddetta "certezza della pena" non ha a che fare con la quantità ma con la qualità della pena da espiare, perché il suo obiettivo non è la "vendetta" ma - come dice la Costituzione - il reinserimento sociale del condannato. Questo vale anche per reati odiosi come il femminicidio e, in generale, le violenze sulle donne. Contro i quali nessuna "pena esemplare" potrà mai essere efficace quanto un diverso modello culturale maschile. La risposta, in fondo, è più amore per le donne e meno passione per il diritto penale. La norma che obbliga i poliziotti a riferire ai capi le indagini segrete di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 2 dicembre 2016 Il decreto del governo e i dubbi dei magistrati. Spataro: "Ci sono rischi di incostituzionalità". La norma è nascosta in un decreto legislativo di mezza estate che parla d’altro, "Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato", approvato il 19 agosto scorso. Inserita all’articolo 18, tra le norme transitorie e finali. Al quinto comma si stabilisce che l’inserimento dei forestali nell’Arma dei carabinieri partirà dal 1° gennaio 2017. Poi ecco il secondo periodo: "Entro il medesimo termine, al fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti a evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento informativo, il capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato, trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale". Tradotto, significa che ogni poliziotto, carabiniere o finanziere che consegna un rapporto o l’esito di un accertamento alla magistratura, deve comunicarlo al suo superiore. Il quale a sua volta informerà il proprio. Una novità che aggira, attraverso un’esplicita deroga, il segreto sugli atti d’indagine fissato dal codice. Giustificata dalla necessità di coordinare gli organismi investigativi, evitare doppioni e razionalizzare le attività. Ma il coordinamento spetta già ai pubblici ministeri titolari delle inchieste, non ai capi dei corpi di polizia che a loro volta hanno rapporti diretti con l’autorità politica, cioè i rispettivi ministri di riferimento. A ben vedere la norma estende alla polizia di Stato ciò che il Testo unico dell’ordinamento militare del 2010 prevedeva per i soli carabinieri: con parole quasi identiche, in una legge che affronta tutt’altre questioni, si stabilì che debbano riferire alla "scala gerarchica" le "informative di reato" comunicate alla magistratura. Ora quella regola viene applicata a tutti i Corpi, e il capo della polizia Franco Gabrielli ha diramato l’8 ottobre una circolare di cinque pagine che illustra contenuti, modalità e limiti entro cui la polizia giudiziaria dovrà adempiere a questo compito. Seguendo la lettera del decreto, si precisa che il nuovo obbligo scatta quando viene trasmessa una notizia di reato, ma "non si esaurisce con la fase dell’invio dell’informativa"; dura per l’intera inchiesta, e ricomprende tutto ciò che "rappresenta uno sviluppo" dell’atto iniziale e"fino alla conclusione dell’indagine preliminare". Tuttavia Gabrielli, che da poliziotto ha svolto importanti indagini con l’autorità giudiziaria, si mostra consapevole dei rischi connessi alla "limitata eccezione al regime di riservatezza" introdotta, e chiarisce che dev’essere applicata avendo cura di "preservare il buon esito delle iniziative di indagine in corso". Per questo motivo, secondo "i principi di proporzionalità e di leale collaborazione istituzionale", il capo della polizia specifica che "le comunicazioni alla scala gerarchica dovranno essere circoscritte ai soli dati e notizie indispensabili a garantire un adeguato coordinamento informativo". E raccomanda una "graduale selezione delle comunicazioni, in modo da far affluire alla struttura di vertice di ciascuna forza di polizia solo quelle riguardanti situazioni che appaiono di particolare rilievo". Una sorta di self-restraint per salvaguardare i rapporti con la magistratura e non compromettere le inchieste. Soprattutto quelle dai risvolti complessi o delicati, che magari coinvolgono politici o persone legate agli apparati dello Stato. Gabrielli delinea anche i singoli passaggi che dai "presidi territoriali" devono risalire i gradini della scala gerarchica, fino eventualmente ad arrivare, "verificatane la particolare rilevanza", al direttore generale della pubblica sicurezza. Cioè lui stesso, al palazzo del Viminale. Più di un magistrato si mostra perplesso e preoccupato per questa "norma a dir poco sorprendente", come spiega il procuratore di Torino Armando Spataro: "Ci sono possibili profili di incostituzionalità, ma c’è un contrasto anche con alcun norme del codice di procedura che attribuiscono al pm il ruolo di dominus esclusivo dell’indagine. Qui invece si stabilisce, attraverso un’evidente forzatura, che un atto non ancora valutato dal pm finisca sul tavolo di strutture direttamente dipendenti dal potere esecutivo. Così il segreto investigativo rischia di diventare carta straccia". Secondo Spataro, "è un’ulteriore evoluzione della generale tendenza a spostare ogni attività verso l’esecutivo, persino la guida della polizia giudiziaria". Sembra trapelare il timore di fughe di notizie verso il governo, e il procuratore spiega: "Non si tratta affatto di pregiudiziale sfiducia verso i vertici delle forze di polizia, è invece un problema di sistema. Tra l’altro, non è previsto alcun divieto per quei vertici di riferire all’autorità politica. È vero che per l’Arma esiste già una normativa simile, ma direttive interne richiamano la doverosa attenzione al rispetto del segreto investigativo. In questo modo si rende obbligatoria la comunicazione dell’esito delle indagini, e se ne amplia l’applicazione. In alcune indagini a me è capitato di impartire l’ordine scritto agli ufficiali di pg di non riferire ai propri superiori; in questa nuova norma bisognerebbe almeno prevedere una simile possibilità". Violenza politica, "l’antagonismo giovanile" non salva dai domiciliari di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2016 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 1° dicembre 2016 n. 51276. La revoca degli arresti domiciliari per un indagato per "rissa aggravata" e "percosse" non può essere disposta in nome del "tollerabile antagonismo politico giovanile". Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 1° dicembre 2016 n. 51276, accogliendo, sotto questo profilo, il ricorso del Procuratore della Repubblica di Bologna ed alzando così il livello di guardia contro l’estremismo politico. La vicenda partiva da una rissa scoppiata nel 2014 presso la discoteca Rio Grande di Rimini fra un gruppo di estrema sinistra - i "Collettivi autorganizzati Rimini" - ed uno di estrema destra - il "Bellaria Skinheads" - nel corso della quale alcuni dei partecipanti avevano riportato lesioni personali. Il giovane, di sinistra, era anche indagato per il delitto di percosse ai danni di un avversario politico di destra e per danneggiamento dell’auto del segretario del movimento "Forza nuova". Il tribunale di Bologna, pur confermando i gravi indizi di reato, aveva però concluso per l’insussistenza delle esigenze di cautela "individuate dal Gip nella matrice politica dei fatti", dal momento che "erano trascorsi oltre due anni" e che gli indagati erano di giovane età, incensurati e che "un solo, pur grave, episodio non consentiva di affermare, in assenza di concrete successive recidive, l’attualità del pericolo di reiterazione della condotta". Il Procuratore, al contrario, ha ravvisato un difetto di motivazione "in quanto i requisiti della attualità e della concretezza del pericolo di reiterazione delle condotte dovevano essere contestualmente esaminati". Se infatti la concretezza del pericolo "dipendeva dalle ragioni, politiche, del reato, il permanente inserimento dei due indagati in quel mondo rendeva il pericolo anche attuale". Un ragionamento fatto proprio dalla Suprema corte secondo cui il Tribunale "non aveva adeguatamente valutato il fatto, sottolineato dal Gip nell’impugnata ordinanza, che l’indagato aveva preso parte a numerose manifestazioni politiche (o sportive ma con connotazione politica), durante tutto il 2014, tutto il 2015 ed i primi mesi del 2016, nel corso delle quali si erano verificati episodi di violenza collettiva che avevano determinato la segnalazione di alcuni giovani", fra i quali l’indagato. Un dato, prosegue la sentenza, che "non può essere superato dall’affermazione che l’indagato non avrebbe travalicato il "tollerabile antagonismo politico giovanile" perché tale limite di "tollerabilità" non trova alcun fondamento normativo o interpretativo". Non solo, conclude sul punto, "l’avere così motivato lascia intendere che una qualche forma di adesione agli episodi di violenza vi sia stata". Per la Cassazione vi è dunque un "evidente" difetto di motivazione. Non solo, il giudice del rinvio dovrà anche "valutare se il ritrovamento di materiale cartaceo e di un’arma bianca" nell’abitazione dell’indagato "siano anch’essi indici rivelatori di un pericolo concreto ed attuale di reiterazione dei fatti". Illecita gestione di rifiuti, la reiterazione esclude la non punibilità di Carlo Melzi d’Eril e Giulia Rota Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2016 Con sentenza n. 48318 del 16 novembre 2016 la III sezione penale della Cassazione ha delineato i confini applicativi della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista all’articolo 131 bis del Codice penale in relazione al reato di gestione non autorizzata di rifiuti. In particolare la Corte ha anzitutto stabilito che l’abitualità del comportamento richiesta dalla norma è individuabile nella anche reiterazione di condotte omogenee oggetto del medesimo procedimento. Poiché poi il reato in questione è considerato "eventualmente abituale", solo una effettiva reiterazione costituisce ostacolo alla causa di non punibilità. Vediamo la vicenda. Alla responsabile di un’attività di gestione di rifiuti veniva contestato di aver raccolto e trasportato, sin dall’inizio del 2012, rottami ferrosi in assenza del necessario titolo abilitativo. Il Tribunale, valutando sussistente la tenuità dell’offesa e l’assenza di "precedenti", proscioglieva per tenuità del fatto. Avverso tale pronuncia il procuratore proponeva ricorso per Cassazione. Più precisamente, quest’ultimo deduceva che l’abitualità doveva essere esclusa sulla base della reiterazione della condotta. Nel ritenere fondato il ricorso, la Corte muove dall’analisi dell’articolo 131 bis C.p., che impone al giudice di rilevare se, sulla base dei due "indici-requisiti" della modalità della condotta e dell’esiguità del danno e del pericolo, sussistano gli "indici-criteri" della tenuità dell’offesa e della non abitualità del comportamento. La sentenza in commento si esprime poi su cosa debba intendersi per abitualità della condotta. Il terzo comma dell’articolo 131 bis non reca alcun indizio che consenta di ritenere che l’abitualità presupponga un precedente giudicato. Di conseguenza, ai fini del giudizio sull’abitualità qui in esame, sono rilevanti pure condotte realizzate nell’ambito del medesimo procedimento. Da qui, la Corte passa a esaminare la fattispecie di trasporto di rifiuti in assenza di autorizzazione, di cui all’articolo 256, comma 1 del Dlgs n. 152 del 2006. Quest’ultimo è reato "eventualmente abituale", sicché può essere integrato con una singola condotta o con una pluralità. Ebbene, solo qualora il fatto sia realizzato con una unica condotta, il parametro della non abitualità - di per sé in antitesi con qualsivoglia ripetizione - potrà dirsi rispettato. Tuttavia, nel caso in esame, la reiterazione era evidente, tanto che l’attività di gestione illecita di rifiuti era stata ripetuta nel tempo per ben quattro volte, e lo stesso giudice del merito aveva, anzi, espressamente riconosciuto come l’attività illecita fosse stata reiterata. La Corte, dunque, conclude annullando la sentenza impugnata con rinvio. I Supremi giudici, con questo "arresto", operano una certa qual estensione del concetto di abitualità, che risulta quindi piuttosto ampia. Di certo, tale orientamento si pone quale limitazione dell’ambito applicativo della nuova causa di non punibilità, tanto da ridurlo alle sole ipotesi di reati istantanei. E ciò incide certamente sulla frequenza di applicazione dell’istituto alle numerose contravvenzioni ambientali le cui fattispecie sono quasi tutte ricomprese, se si considerassero i soli limiti di pena stabiliti al comma 1 dell’articolo 131 bis. Insomma, anche in questo caso la Corte assume il compito di limare i contorni di meccanismi che il moderno legislatore non sempre delinea con precisione cartesiana. Contrasto di giudicati, si riapre il processo sulla scalata Antonveneta di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2016 Corte di Cassazione, sentenza 51274 della Quinta Sezione penale. La Corte d’appello di Venezia dovrà decidere se riaprire il processo e annullare la condanna di Antonio Cesare Bersani, 59 anni di Pavia, coinvolto nella scalata Antonveneta del decennio scorso. Lo ha stabilito ieri la Quinta sezione penale della Corte di Cassazione che ha depositato le motivazioni sul ricorso di Bersani, ricorso finalizzato ad annullare il suo patteggiamento che all’epoca gli era costato una pena pecuniaria e la confisca dei conti sequestrati per il reato di manipolazione del mercato. Secondo i legali di Bersani si è creato infatti un "contrasto di giudicati" (cioè di sentenze) tra il destino dell’investitore pavese e il gruppo dei "lodigiani" che, come lui, facevano riferimento a Fiorani. Questi ultimi, condannati in primo grado, erano poi stati assolti in appello "per non aver commesso il fatto" in quanto "non era stata provata la consapevolezza, da parte di ciascuno, che la propria condotta (di rastrellamento sotto traccia di azioni Bpl, ndr) si inserisse in un disegno complessivo volto a consentire a Fiorani la scalata della banca al di fuori dei parametri di legalità". Alla luce di questa assoluzione "di gruppo", Bersani aveva quindi chiesto alla Corte d’appello di Brescia di rivedere l’esito del suo patteggiamento per un evidente contrasto di giudicati, considerato che il medesimo fatto aveva portato a conclusioni giudiziarie diametralmente opposte. I giudici bresciani, però, il 18 febbraio scorso avevano respinto l’istanza di revisione per "inammissibilità", sostenendo che la questione riguardava solo l’aspetto psicologico degli imputati (come del resto si evince dalla formula di proscioglimento) ma sullo sfondo di identici fatti oggettivi. La Cassazione ha cancellato l’ordinanza bresciana sulla base, soprattutto, del fatto che i giudici non avevano nemmeno ammesso il contraddittorio, cioè non avevano consentito ai legali di Bersani di spiegare la portata delle presunte "nuove prove decisive", facendo piuttosto e al contrario "un’ anticipazione della valutazione di merito". Tra gli elementi non valutati dalla Corte bresciana spiccano le dichiarazioni dibattimentali dei coimputati Fiorani e Boni che avevano permesso, tra l’altro, l’alleggerimento della posizione dei "lodigiani" fino a determinarne l’assoluzione in appello per la mancata prova della consapevolezza di partecipare a una scalata illegale. Ora la questione tornerà nuovamente in un’aula giudiziaria, ma in un distretto diverso, a Venezia. Tra capacità d’intendere e volere e volontà di comprendere di Osservatorio Carcere Ucpi camarepenali.it, 2 dicembre 2016 Un malato d’Alzheimer prima di morire per decadimento fisico derivato dal concorso di diverse patologie cliniche, era stato in custodia cautelare in carcere per sei giorni. Ha destato il consueto clamore la vicenda di Franco, il malato d’ Alzheimer di Busto Garolfo (MI) che prima di morire, per decadimento fisico derivato dal concorso di diverse patologie cliniche, era stato oggetto di un provvedimento cautelare in carcere a seguito di un’ aggressione effettuata a carico della propria moglie. Ha destato il nostro consueto stupore, non tanto apprendere, da notizie non smentite, che le invocate esigenze cautelari avrebbero trovato fondamento sulla asserita "abitualità delle condotte criminose" del cautelato, quanto venire a sapere che le condizioni mentali del prevenuto sarebbero state note al G.I.P. che, senza dare peso alla circostanza, affermava nella medesima ordinanza custodiale come le stesse fossero "gravemente compromesse in quanto egli è affetto da Alzheimer". Ha destato immenso stupore il verificare, nella triste storia di Franco, la disapplicazione da parte del Giudice della cautela (in uno con il PM) del disposto dell’articolo 85 del Codice Penale: "Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità d’intendere e di volere." È qui, secondo il nostro parere, che è stato compiuto il primo, ma vedremo purtroppo non il solo, errore da parte dell’autorità giudiziaria, che ha ignorato il dato clinico della malattia demenziale, la conseguente incapacità d’intendere e volere, la stessa (non) imputabilità di Franco. Oltre alla capacità d’intendere e di volere del prevenuto, ha fatto difetto, nel caso di Franco, la capacita di comprendere da parte del giudice che il carcere non poteva, né doveva, costituire il luogo di contenimento di un soggetto incapace d’intendere e di volere e - come avrebbe altresì accertato la successiva consulenza del PM - non "socialmente pericoloso". Ecco il secondo, e forse più grave, errore che emerge dalla vicenda e che, ancora una volta, indica come per certa parte della magistratura la custodia in carcere costituisca la panacea di tutti i mali. Lo andiamo denunciando da tanto tempo ma, nel caso di specie, con una nuova e più tremenda declinazione: carcere come gestione della malattia mentale, con buona pace dei principi affermati dalla recente riforma della materia che, oltre ad abolire gli OPG, ha stabilito, con la legge 81 del 2014, che non nella segregazione (per quanto nelle REMS, che sono strutture sanitarie sulla carta ben diverse dal carcere), ma nella presa in carico da parte dei Servizi di Psichiatria territoriale, deve sostanziarsi la risposta ai problemi di gestione del disagio mentale. La malattia in carcere è, ad oggi, uno dei temi cruciali dell’impegno dell’osservatorio a garanzia del diritto alla salute dei detenuti, la storia di Franco ci impegna affinché tale diritto non sia calpestato. Puglia: libri ai detenuti con il progetto "Parole senza barriere" di Antonella Gaeta La Repubblica, 2 dicembre 2016 Molte delle loro storie potrebbero stare nelle pagine di un libro: strade smarrite, baratri, punti di ripartenza. I detenuti, la lettura e la scrittura sono il cuore del nuovo progetto, "Parole senza barriere", che mette insieme Presìdi del Libro e Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero di Giustizia. Iniziative negli istituti di Trani, Bari, Altamura e Turi, e presto anche nelle altre sei realtà pugliesi. "Una maniera per creare un canale di comunicazione con se stessi, un premio sulla fiducia della comunità a ciascuno di loro" spiega l’assessore all’Industria Culturale, Loredana Capone. E si comincia da subito, il 6 dicembre nel penitenziario femminile di Trani con un laboratorio di poesia sensoriale tenuto da Claudia Fabris. Gli altri appuntamenti di questa serie prevedono la presentazione del libro di Carmela Formicola, "Sinfonia dell’odio" il 19 e, il giorno dopo, lo spettacolo "Pulcinella" di Paolo Comentale. Nella sezione maschile il 7 gennaio va in scena "Sudorazione" di Giampiero Borgia con un contributo di Confindustria Bat che compra libri per l’infanzia. Sempre qui, da febbraio a dicembre, con il Pastificio Granoro si torna a professionalizzare i detenuti e si leggono due libri: "Spaghetti cozze e vongole" di Nicola Lagioia e "Fulmine" di Lello Gurrado, autori che incontreranno il particolare gruppo di lettura detenuti/ studenti. A gennaio, Trani ospita "Memoria e madeleine", scrittura di ricordi e sapori. E, infine, uno dei progetti più interessanti, è dedicato alla scrittura autobiografica e alla lettura espressiva, da aprile a Bari, Altamura e Turi con la Asl Bari. 108 detenuti scriveranno un diario, ragioneranno sui propri traumi e condivideranno esperienze di lettura. Tramite analisi del sangue e controlli medici si cercherà di verificare quanto la pratica autobiografica produca effetti benefici sulla loro salute. Verona: suicidio nella Rems. Il legale del detenuto "aveva già tentato di ammazzarsi" Alto Adige, 2 dicembre 2016 Paul Johann Oberkofler aveva già cercato di togliersi la vita durante il periodo di detenzione trascorso in carcere dopo l’aggressione a martellate alla moglie. "Anche all’epoca, poco dopo l’arresto, non si trattava di una finta - rivela l’avvocato difensore Paolo Fava - dalla perizia medico legale che avevamo commissionato per il processo di primo grado era emerso che Oberkofler, già all’epoca sconvolto per quanto accaduto e disperato, si era tagliato le vene dei polsi "per lungo". Una chiara dimostrazione di volontà di farla finita. In valle Aurina era stato volontario della Croce Bianca e sapeva come avrebbe potuto più rapidamente perdere sangue e morire. All’epoca venne salvato in extremis dalle guardie che si accorsero della presenza di sangue sotto il letto, in cella. Questa volta quando il personale del centro di cura psichiatrica veronese si è accorto di quanto accaduto era troppo tardi". Probabilmente l’uomo che non ebbe pietà nel massacrare a colpi di martello la moglie Brigitte Steger (ridotta in coma irreversibile) non ha retto all’idea di dover rientrare in carcere come aveva disposto la Corte di Cassazione, dichiarando esecutiva la condanna inflitta in secondo grado (10 anni di reclusione per tentato omicidio) pur disponendo la ripetizione parziale del processo d’appello. Oberkofler era stato informato della decisione della Cassazione alla presenza di uno psicologo proprio per scongiurare reazioni disperate. "Ci siamo però trovati a fare i conti - spiega l’avvocato Paolo Fava - con una sentenza veramente anomala perché i giudici hanno annullato il giudizio d’appello limitatamente alle riduzioni di pena concesse dichiarando però la stessa sentenza esecutiva pur in attesa di una possibile riforma in negativo per l’imputato". Milano: detenuto nel carcere di Opera rischia la sedia a rotelle, gli negano i domiciliari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 dicembre 2016 Francesco Di Dio è un ergastolano di 44 anni, recluso a Opera. Ha una malattia degenerativa che causa l’atrofizzazione delle parti del corpo. Rischia di rimanere sulla sedia a rotelle, ma la sua richiesta dei domiciliari è stata respinta. Il caso è stato denunciato con una lettera da un suo compagno di cella, Alfredo Sole - uno dei protagonisti del docufilm "Spes contra Spem". Si stanno atrofizzando gradualmente parti del corpo, un pezzo di piede è stato amputato e presto, se non verrà curato adeguatamente, l’altro piede potrebbe subire la stessa sorte. Una degenerazione lenta, graduale, senza possibilità di salvarsi e con il rischio di rimanere per sempre con la sedia a rotelle. Ma nonostante ciò è costretto a rimanere in galera, senza la possibilità di essere curato giornalmente e assistito in casa, magari dai suoi cari. Per la magistratura, oltre che essere compatibile con il carcere, è ritenuto pericoloso ed esiste ancora il pericolo di fuga. Parliamo di un ergastolano ostativo rinchiuso nel carcere milanese di Opera. Si chiama Francesco Di Dio, ha 44 anni e varcò le soglie del carcere nel lontano 1991 quando aveva poco più di 18 anni. In carcere ne ha già passati ventisei, di anni. Soffre di una grave patologia, ovvero il morbo di Burger. È una malattia che provoca l’infiammazione dei vasi sanguigni nelle gambe e braccia, in particolare nelle mani e piedi. Causa un restringimento e ostruzione dei vasi sanguigni tanto da mandare in cancrena sia gli arti inferiori che superiori. A quel punto, se non curata in tempo, l’unica soluzione che rimane è l’amputazione. Francesco, per potersi curare, ha fatto richiesta di arresti domiciliari o ospedalieri. Il magistrato di sorveglianza ha respinto la richiesta. Poi l’ergastolano ha fatto ricorso al Tribunale di Sorveglianza, ma anche questo è stato respinto con una lunga serie di motivazioni. C’è un particolare di non poco conto: il presidente del Tribunale di Sorveglianza è lo stesso magistrato di sorveglianza che aveva respinto l’istanza. Tra le varie motivazioni per il rigetto, quella principale è che il tribunale rammenta la gravità della condanna in esecuzione, la pericolosità del detenuto e il concreto pericolo di fuga. Il magistrato ritiene, inoltre, che non esistono dubbi sulla compatibilità del recluso con il regime detentivo. Poi evidenza anche una "colpa": il ristretto non vuole smettere di fumare, quindi peggiorerebbe di sua volontà la patologia. A denunciare questa situazione è stato l’ergastolano Alfredo Sole - tra l’altro uno dei protagonisti del docufilm "Spes contra Spem" di Ambrogio Crespi - con una lettera che noi de Il Dubbio abbiamo potuto visionare. Il detenuto affetto da questa grave patologia è il suo compagno di cella e scrive una serie di riflessioni che provano a "smontare" una ad una le motivazioni del Tribunale. Vale la pena di riportare qualche brano che rende l’idea della situazione nel quale riversa Francesco e la pena dell’ergastolo ostativo che è una vera e propria condanna a una lentissima pena di morte viva, come direbbe l’ergastolano Musumeci. "La sua mente è distrutta - scrive Alfredo Sole, così come il suo corpo e il suo spirito. L’uso prolungato di psicofarmaci lo ha portato ad annullare non solo il tempo che scorre, ma anche se stesso. Non ne può più fare a meno. Droghe potenti che lo Stato spaccia dentro le carceri e sono legali! Però gli si punta il dito, anche nei rigetti, che da libero, da giovanissimo, ha fatto uso di droghe pesanti. Ma quelle sono illegali". Poi continua: "Questa persona è un guscio vuoto, che all’esterno dimostra l’età che ha, ma nel suo interno è rimasto il ragazzino che hanno arrestato. Ha fermato il tempo con gli psicofarmaci. Sa che dovrà morire, ma lo comprende veramente? Io ho i miei dubbi". Alfredo Sole poi tocca l’argomento del fumo e nella lettera spiega che al recluso non rimane nulla, non vogliono farlo uscire nonostante dovrà morire tra mille dolori, e quindi "la sigaretta è l’unica cosa che gli è rimasta, sa che dovrà morire tra tremende sofferenze, perché togliersi l’unico piacere che può concedersi qui dentro?". Sul pericolo di fuga, una delle motivazioni del rigetto Alfredo Sole denuncia un particolare che il magistrato di sorveglianza ha omesso: "Non tengono conto che nel 1996, quindi ancora ragazzo, quindi ancora in forma, quindi con una buona probabilità di far perdere le proprie tracce, a causa di una scadenza di termini uscì dal carcere. Poteva fuggire e non lo fece, già condannato all’ergastolo, sapeva che sarebbe tornato in carcere". Quindi Alfredo Sole nella lettera si domanda che se non è fuggito quando poteva, come mai potrebbe pensare di fuggire adesso che non può nemmeno più camminare ed è bisognoso di cure? Poi conclude la lettera facendo l’esempio di un altro ergastolano, gravemente malato anche lui, morto su un letto d’ospedale adibito a braccetto carcerario. Nonostante i sanitari abbiano consigliato e sollecitato più volte di mandarlo a morire in casa, un altro magistrato di sorveglianza aveva deciso che era pericoloso, esisteva il pericolo di fuga. Quindi si era preferito lasciarlo morire senza nemmeno far trascorrere gli ultimi attimi di vita vicino ai proprio cari. "Come negare ormai che Italia esiste a tutti gli effetti una condanna a morte?", si domanda amaramente l’ergastolano Alfredo Sole. Ora Francesco Di Dio ha concluso il suo ciclo di fisioterapia. Andava due volte a settimana presso l’ospedale Don Gnocchi di Milano. Ma non è una cura, solo un palliativo. Milano: un volontario ogni due detenuti, il primato milanese nelle carceri di Rossella Verga Corriere della Sera, 2 dicembre 2016 Il più alto numero di cittadini impegnati in Italia. Educatori ridotti all’osso. Il "deserto" del carcere è un po’ meno spaventoso grazie ai volontari. Senza il loro aiuto il regime delle celle aperte resterebbe privo di contenuti e verrebbe meno anche il principio della rieducazione. Sono i numeri a dirlo prima di qualsiasi considerazione politica e sociale. A Milano, tra San Vittore, Bollate e Opera, si contano 3.407 detenuti. I volontari che rendono possibili attività finalizzate al loro reinserimento nella società sono 1.345. Un fronte di generosità che fa da contraltare ai numeri risicati del personale "ufficiale" in servizio nei penitenziari. A livello nazionale, il rapporto tra educatori e detenuti è di 1 a 100: "Quale rieducazione può essere possibile con questi numeri?", si domanda avvilita Alessandra Naldi, garante dei diritti delle persone ristrette. Anche per questo si è pensato di organizzare un convegno sul volontariato in carcere, il 5 dicembre a Palazzo Reale. Sarà l’occasione per fare il punto sulla legge Gozzini che ha cambiato la vita all’interno dei penitenziari e ha aperto le porte a migliaia di volontari ogni mattina. Una giornata di confronti per celebrare i 30 anni della riforma, ma anche per raccontare tante storie sbocciate dietro le sbarre. I dati che fotografano le dimensioni del fenomeno sono stati presentati ieri a Palazzo Marino da Francesco Maisto, ex presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, testimone da tre decenni del sistema penitenziario. "Nelle tre carceri milanesi si contano 1.345 volontari - ha riferito - Un numero considerevole che non si trova da altre parti. Sono 187 a Bollate, 849 a San Vittore e 309 a Opera. Se non ci fosse il volontariato le carceri sarebbero un deserto perché gli organici di psicologi, assistenti sociali ed educatori sono irrisori". Il magistrato sottolinea che il volontariato "non può essere sostitutivo", ma riconosce che sempre di più è caratterizzato da "qualificazione e professionalità". "Per questo dobbiamo pensare di fare un passo più in là", esorta. Stando alle cifre del 2014 i volontari attivi nelle carceri in Italia sono 15 mila. "E Milano anche in questo ambito è all’avanguardia", dice la Naldi. Nel convegno di lunedì prossimo verrà lanciato il "Manifesto del Volontariato milanese". Con l’obiettivo di rendere sempre più efficace l’intervento. In prima fila per "dare un nuovo slancio" c’è l’associazione "Gruppo Carcere Mario Cuminetti", presieduta da Nicola di Rienzo, il cui campo d’azione preminente è quello della cultura. Ma ogni contributo per "costruire ponti e non muri" è benvenuto anche per Anita Pirovano, di Sel, alla guida della sottocommissione carceri di Palazzo Marino. Anche perché le condizioni di detenzione spesso "offendono la dignità umana". La consigliera comunale della Sinistra per Milano punta il dito contro il sovraffollamento più volte denunciato: a San Vittore sono 1.051 i detenuti a fronte di 750 posti. A Opera 1.242 con una capienza di 905, mentre va meglio a Bollate con 1.114 reclusi e 1.242 posti. Roma: il Dap "carcere di Rebibbia riaperto ai volontari anche di pomeriggio" Il Dubbio, 2 dicembre 2016 Tornano in vigore gli orari pomeridiani di accesso al carcere di Rebibbia per i volontari. Lo comunica il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, spiegando che la direzione dell’istituto di pena ha ripristinato tali orari che erano stati sospesi per un breve periodo, per "motivi organizzativi", dopo l’evasione di 3 detenuti avvenuta nello scorso ottobre. La questione era stata sollevata dal Garante dei detenuti della regione Lazio Stefano Anastasia dopo aver visitato il nuovo complesso del carcere di Rebibbia. La conseguenza, denunciava Anastasia, è che si sono interrotti i laboratori, bloccati i colloqui con gli assistenti sociali e gli psicologi, impedita l’attività degli sportelli di informazione legale messi a disposizione dall’associazione Antigone. La situazione, secondo il Garante, andava avanti da almeno due settimane. Sempre Anastasia ha voluto ricordare che in questo carcere si sono svolti gli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal Ministro Orlando. E concludeva nella sua denuncia: "Non può essere ridotto in questo modo un istituto come quello di Rebibbia, a lungo luogo di sperimentazioni di aperture e innovazioni nella gestione penitenziaria". Ma non è stato solo il problema della carenza del personale a creare il blocco delle attività provenienti dall’esterno. Sulla vicenda era intervenuto anche il Difensore civico di Antigone, avvocato Simona Filippi, e i responsabili dello "Sportello legale" i quali nei giorni scorsi hanno inviato una lettera alla direttrice del carcere. "Ben consapevoli della situazione di emergenza determinata dai noti recenti episodi - si legge - siamo comunque a rappresentarle la nostra contrarietà rispetto alla disposizione. Siamo fiduciosi che la stessa abbia carattere temporaneo e con la presente siamo pertanto a chiederle un chiarimento rispetto alla tempistica così da poter anche organizzare le nostre attività di volontariato che da oltre cinque anni portiamo avanti all’interno dell’istituto in una costante e proficua collaborazione con la Direzione". A ribadire questo concetto è anche il presidente di Antigone Patrizio Gonnella. "Auspichiamo - dichiara Gonnella - che questa decisione venga al più presto rivista in quanto il carcere romano di Rebibbia ha una storia antica e consolidata di apertura all’esterno che un singolo, seppur grave episodio, non deve minimamente intaccare". Infine, il presidente di Antigone conclude: "Quando avvengono fatti di questo genere non devono accadere inoltre ritorsioni di tipo generalizzato, come quelle che pare abbiano colpito la biblioteca del carcere, i cui libri pare siano stati messi a soqquadro". Ora la situazione, come ha comunicato il Dap, è ritornata alla normalità. Civitavecchia: corso per formare detenuti al sostegno relazionale nel sistema penitenziario centumcellae.it, 2 dicembre 2016 È partito ieri, presso la Casa Circondariale di Civitavecchia, un corso di formazione per i detenuti per diventare "peer supporter" e sostenere altri detenuti al fine di favorire un clima relazionale di sostegno alla fragilità all’interno del sistema penitenziario. Il corso di formazione, promosso dalla Asl Roma 4 in collaborazione con l’Amministrazione Penitenziaria, prevede 7 incontri che si svolgeranno tutti i mercoledì dalle ore 11 alle ore 13. L’intento è quello di fornire un approccio concreto ad una problematica delicata come quella dell’adattamento al contesto carcerario per i detenuti particolarmente fragili o con disagi psichici. Si vuole offrire una opportunità ad alcuni detenuti di diventare una sorta di "coach" alla quotidianità nel sostenere altri detenuti più fragili, in un rapporto relazionale di aiuto. Un peer supporter è una figura di riferimento relazionale, un promotore del benessere, una figura di riferimento rassicurante ed emotivamente contenitiva. Il progetto si focalizza soprattutto sulla prevenzione del rischio suicidario e dei rischi di aggressività. Il percorso di formazione si prefigge un duplice obiettivo da raggiungere: da una parte si da la possibilità ai detenuti partecipanti di attribuire un significato diverso al proprio tempo umano e detentivo, in un rapporto di conoscenza con le istituzioni diverso dal solito, favorevole a sfruttare le occasioni di cura e recupero personali, dall’altra, si vuol creare un sostegno concreto che contrasti la tendenza all’isolamento dei detenuti con disagio psichico. Ognuno dei sette incontri toccherà un tema diverso: empatia, alterazioni comportamentali, problemi legati alla tossicodipendenza, sicurezza nel contesto penitenziario, la prospettiva pedagogica all’aiuto, le testimonianze dei detenuti. La Dott.ssa Celozzi, Direttore F.F. della UOC Coordinamento dei CSM e la Dott.ssa Bassetto psicologa dell’Istituto Penitenziario, che seguono da vicino il progetto, precisano che la Asl Roma 4 è tra le prime aziende sanitarie in Italia ad aver dato il via a questo progetto fortemente voluto e autofinanziato e ricordano che l’isolamento è uno dei primi rischi di disagio psichico, pertanto in una prospettiva di tutela di salute mentale non si può prescindere dal contesto in cui si opera. Programmare azioni sul sistema penitenziario, parallele e correlate agli interventi clinici, significa essere orientati a promuovere salute e benessere per i detenuti e per gli operatori penitenziari stessi. Bolzano: nuovo carcere, la Garante dei detenuti chiede garanzie Alto Adige, 2 dicembre 2016 Berti: "La Provincia deve fornirci indicazioni precise sulla costruzione". "È giunto il momento che anche la Provincia - spiega Franca Berti, Garante dei detenuti e delle persone private della libertà personale - torni ad occuparsi del carcere, facendo chiarezza circa i tempi di realizzazione della nuova struttura, considerato che la gara si è conclusa ed è stata individuata la ditta che assumerà l’appalto. Adesso sarebbe utile comprendere cosa ha bloccato i lavori di realizzazione della struttura. Si potrebbe pensare ad un incontro di tutte le parti coinvolte e della comunità bolzanina in un’assemblea cittadina. Queste incertezze rappresentano sicuramente una delle cause del malessere di coloro che tutti i giorni entrano in carcere per prestarvi servizio. Ad oggi, ma da molti, troppi anni, la Casa Circondariale di Bolzano è una struttura inadeguata, al limite della fatiscenza, decisamente e gravemente inidonea tanto per chi vi è ristretto, quanto per coloro che vi lavorano. Rappresenta inoltre una vergogna per la nostra comunità, come aveva sottolineato anche il presidente Kompatscher a seguito di una sua visita in Istituto. La soluzione alle difficoltà di chi lavora in carcere non può però essere trovata nell’annullamento delle attività trattamentali riservate ai detenuti o nel tentativo di osteggiare i permessi premio, o le misure alternative alla detenzione, come proclamato da alcune sigle sindacali della Polizia Penitenziaria. Misure, queste, peraltro di competenza della Magistratura di Sorveglianza e previste per legge, come il trattamento intramurario dei detenuti. Sempre più dovrebbero essere favorite, invece, tali attività, che restano l’unico strumento per contrastare la sottocultura della devianza che sempre più permea la realtà carceraria. Così come andrebbero sempre più valorizzati gli istituti dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione, che favoriscono il graduale reinserimento socio-lavorativo accompagnato da operatori, di quelle persone oggi detenute, che comunque torneranno libere, così da favorire anche una maggior sicurezza sociale per la nostra comunità". Roma: pubblicato avviso per Garante diritti detenuti, realizzi progetti d’inclusione sociale Askanews, 2 dicembre 2016 "Assieme all’assessora Laura Baldassarre e con il Dipartimento Politiche Sociali, Sussidiarietà e salute, e d’intesa con la sindaca Virginia Raggi, abbiamo deciso di pubblicare un avviso pubblico per l’individuazione del nuovo Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, al fine al fine di promuovere la partecipazione attiva alla vita civile". Lo scrive sulla sua pagina Facebook il vicesindaco di Roma Daniele Frongia. "Il nostro auspicio - spiega - è quello di individuare una persona che possa, insieme all’amministrazione, realizzare progetti di inclusione sociale e a beneficio dell’intera collettività, e per questo è richiesta un’esperienza nel campo delle scienze giuridiche e/o nei diritti umani, oltre che ad aver svolto attività sociali negli Istituti di prevenzione e pena e/o nei Centri di servizio sociale". Bolzano: "Oltre l’odio e la vendetta", la testimonianza di Claudia Francardi e Irene Sisi Vita Trentina, 2 dicembre 2016 la moglie della vittima e la madre dei reo. Questo sono Claudia Francardi e Irene Sisi, assieme a Ornella Fa-vero (giornalista, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia) ospiti del Teatro Cristallo nell’ambito del percorso "Le vie del sacro", per un incontro in cui hanno potuto raccontare come è possibile andare "oltre l’odio", quando ci si ascolta e ci si prende sul serio. È stata un’occasione opportuna anche per riflettere sul ruolo del carcere bolzanino, partendo da alcune critiche rivolte in questi mesi alla direttrice Anna Rita Nuzzaci, cui si rimprovera, tra l’altro, di essere eccessivamente generosa nel concedere permessi ai detenuti. Ornella Favero ha sostenuto la posizione della direttrice, ricordando il testo dell’articolo 27 della Carta costituzionale: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". La sicurezza dei cittadini non la si ottiene chiudendo le persone in carcere e buttando via la chiave, ma avviando percorsi responsabili di ritorno alla vita sia per le vittime che per gli autori di reati. "Pensare ad un carcere che alle 14 chiude le attività formative e ricreative - così la presa di posizione della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia - è fuori dal tempo, è dannoso per i detenuti, per la sicurezza stessa degli agenti e per la sicurezza della popolazione che a breve vedrà quegli stessi detenuti scarcerati perché a fine pena". Padova: progetto "Università in carcere", detenuto si laurea in Ingegneria informatica padovaoggi.it, 2 dicembre 2016 Il progetto "l’Università in carcere" è nato per facilitare, un giorno, il reinserimento nella società e nel mondo del lavoro del detenuto che abbia intrapreso un percorso accademico. Prima laurea in carcere in Ingegneria informatica per uno studente detenuto iscritto al corso di laurea triennale dell’Università di Padova. "Studiare in carcere". Il progetto "l’Università in carcere" è stato fortemente voluto dall’Ateneo patavino, nell’ottica di dare ai detenuti un’opportunità di studio che potrà facilitare, un giorno, il reinserimento nella società e nel mondo del lavoro del detenuto che abbia intrapreso un percorso accademico. Il percorso dello studente-detenuto. "È per noi una grande soddisfazione - afferma la professoressa Francesca Vianello, che segue il progetto "Studiare in carcere" per l’Università di Padova - questo traguardo, innanzitutto perché si tratta di un detenuto straniero che aveva anche una pena piuttosto significativa da scontare, e poi perché questo studente ha dimostrato così di voler davvero prendere in mano la propria vita per ricostruirla partendo dalla cultura e dalla formazione. Il detenuto ha inoltre svolto un periodo di stage, previsto dal corso di laurea frequentato, in un’azienda dove ha dimostrato serietà nello svolgimento dei compiti assegnati tanto da aver concluso il periodo di tirocinio con un giudizio di pieno merito. Le sue intenzioni sono ora quelle di iscriversi a un corso di laurea specialistica". La proclamazione. Il lavoro dei docenti in questo ambito è particolarmente impegnativo, perché decidono, praticamente a titolo gratuito, di svolgere alcune lezioni nel polo universitario che si trova all’interno del carcere Due Palazzi grazie a un protocollo d’intesa siglato dall’ateneo e dall’amministrazione penitenziaria. Proprio in questo Polo si recherà oggi, giovedì 1 dicembre, alle 14.30 la commissione di laurea che proclamerà il neo-dottore. "La prima meta". Il carcere e la filosofia del rugby di Giovanni Maria Bellu notizie.tiscali.it, 2 dicembre 2016 Il film "La prima meta" di Negroni e il progetto "Tornare in Campo" coordinato dal Bologna Rugby per lo portare lo sport sul fronte carcerario. L’ultimo rapporto Antigone, l’associazione che svolge un monitoraggio permanente sulla vita nelle carceri italiane, dice che - pur con qualche lieve miglioramento - i problemi del sistema penitenziario sono quelli di sempre: sovraffollamento, suicidi, condizioni di salute precarie. Benché lo Stato spende 140 euro per ciascun detenuto (per dare un’idea, è quasi il triplo di quanto spende la Spagna) ci sono quasi 4000 posti letto in meno rispetto a quelli che sarebbero necessari. Altri 9000 detenuti vivono in meno di quattro metri quadrati ciascuno. Sono spazi così piccoli da non rispettare gli standard minimi previsti dal Consiglio d’Europa. Una situazione dove la "funzione rieducativa della pena" sancita dalla Costituzione rischia di restare una formula vuota. La pena dovrebbe consistere in una sospensione della vita normale cui viene sottoposto chi ha compiuto un reato. Una sospensione proporzionale alla gravità del fatto commesso e finalizzata a fare in modo che il reo, acquisendone consapevolezza, torni a giocare onestamente la partita della vita. Parlando in termini sportivi, la pena è un’espulsione temporanea. Nel rugby è rappresentata dal cartellino giallo. Il giocatore che ha commesso un fallo, deve e lasciare il campo per dieci minuti. Poi rientra. E ha ancora il tempo di realizzare l’ultima meta. La prima meta è appunto il titolo di un film della regista Enza Negroni (oggi viene presentato al Festival dei Popoli di Firenze di Firenze) che racconta il trasferimento della metafora alla realtà carceraria. È la storia di una strana squadra di rugby che milita nel campionato italiano di C2 e che non fa mai trasferte. Gioca in casa sia la partita di andata, sia quella di ritorno. I 40 giocatori, infatti, non possono spostarsi agevolmente. Sono tutti detenuti - condannati ad almeno quattro anni, ma qualcuno anche all’ergastolo - del carcere bolognese "Giuseppe Dozza". La loro squadra si chiama "Giallo Dozza" e mette assieme la sanzione rugbistica e il nome della casa circondariale (dedicata alla storico sindaco della città). L’idea di portare la palla ovale dietro le sbarre è venuta e dei professionisti. Il progetto "Tornare in Campo" è infatti stato pensato, ed è coordinato da suoi tecnici e allenatori, dall’Associazione sportiva Bologna Rugby, una delle più antiche squadre italiane. Che spiega così il suo impegno sul fronte carcerario: "Il rugby, sport di squadra e di combattimento, insegna che il rispetto di se stessi passa attraverso il rispetto degli altri, che da soli non si va da nessuna parte e che la disciplina è un’alleata e non un ostacolo alla vittoria. Valori importanti che fanno, di chi li recepisce, un veicolo decisivo di esempio e di contaminazione verso gli altri, mostrando che solo chi cade può rialzarsi e che per aiutare gli altri a farlo, bisogna essere ben saldi sulle gambe". Il trailer de La prima meta si apre con uno degli atleti che dice: "Questo è uno sport duro, ma se rispetto le regole diventa uno sport come tutti gli altri". Non è un caso che il protagonista sia l’allenatore, Max Zancuoghi, del quale Enza Negroni parla come di un aiuto regista: il "ponte" non solo tra la vita carceraria - che il film racconta nella sua quotidianità - e il rugby, ma tra la condizione di condannato e la vita futura. Il rugby, con la sua filosofia fondata sulla lealtà, l’altruismo, il rispetto delle regole, ha spesso incontrato l’arte, in particolare la letteratura. Un prezioso articolo di Giuseppe Ciarallo (uscito sul n.24, Ottobre/Novembre 2011, di Paginauno) riporta due definizioni "classiche" che, lette oggi, fanno sorridere per come sembrano parlare alla straordinaria storia della squadra di carcerati. Una è di Oscar Wilde: "Il rugby è una buona occasione per tener lontani trenta energumeni dal centro della città". L’altra di Pelham Grenville Wodehouse: "Segnare una meta richiede una serie di azioni che in qualunque altro contesto procurerebbe ai protagonisti una condanna a quindici anni di galera". La lista di vicende che consentono di parlare del rugby come "arte della manutenzione delle società civili" è molto lunga. Ciarallo ricorda il passato da rugbista di Ernesto Che Guevara (a cui Sergio Giuntini ha dedicato il saggio "il Che e lo sport", Sedizioni) e condivide l’ipotesi che il comandante rivoluzionario "abbia fatto tesoro di quel patrimonio di rude e spartana vita rugbistica accumulato in gioventù, per utilizzarlo durante le successive privazioni della guerriglia sulla Sierra Maestra e nelle fatali giornate boliviane". C’è poi l’utilizzo, da parte di Nelson Mandela, di questo sport, praticato in modo pressoché esclusivo dalla minoranza bianca, per superare le divisioni causate dall’apartheid. Con la popolazione sudafricana nera che nel 1995 alla fine esulta assieme a quella bianca per la vittoria della nazionale sudafricana contro la Nuova Zelanda. Ma forse il legame tra la vita, anche la vita carceraria, è il rugby è già tutto in una della regole di base del gioco. Il passaggio, al contrario che in altri sport di "squadra e palla" come il calcio e il basket, può avvenire solo all’indietro. E il buon giocatore, dunque, deve saper andare avanti, fino alla meta, senza mai smettere di riflettere sul passato. Migranti. Boom di sbarchi nel 2016, ma le migrazioni aumenteranno nei prossimi decenni di Zita Dazzi La Repubblica, 2 dicembre 2016 Il rapporto della Fondazione Ismu. Finito il flusso da Siria e Medio Oriente, gli arrivi in Italia continueranno dall’Africa SubSahariana, dove è in corso un boom demografico. Sono ormai quasi sei milioni gli immigrati in Italia, circa il 10 per cento della popolazione, con un lieve aumento degli irregolari e un forte aumento di coloro che sono riusciti ad avere la cittadinanza, perché residenti da lungo tempo. Ma il dato più rilevante del 22° rapporto della Fondazione Ismu sulle migrazioni - presentato oggi a Milano - è che il 2016 è l’anno record degli sbarchi sulle nostre coste (171mila ultimo dato disponibile al 30 di novembre, il triplo rispetto all’intero 2011). E la previsione è che - smaltito il flusso da Siria e Medio oriente - gli arrivi dall’Africa sub sahariana continueranno a crescere nei prossimi decenni, visto che è prevista in quelle aree, le più povere del mondo, un boom demografico senza precedenti. È una fotografia a tutto tondo quella tracciata dai ricercatori e demografi dell’Ismu, una delle fonti più autorevoli sull’andamento dei flussi migratori in Italia. Gli altri dati salienti dello studio riguardano gli oltre 800mila alunni stranieri, la crescita moderata ma stabile del lavoro retribuito per nove immigrati su dieci, anche se si tratta sempre di professioni di basso profilo, prevalentemente manuali Cresce anche il contributo del lavoro straniero alla produzione del Pil che arriva quest’anno all’8,7 per cento. Nel dettaglio, l’Ismu stima che al 1° gennaio 2016 la popolazione straniera in Italia abbia raggiunto 5,9 milioni (regolari e non), con un aumento di 52mila unità (+0,9%) rispetto all’anno precedente. Un incremento che è dovuto soprattutto alla componente irregolare (+31mila), che registra una leggera ripresa: al 1° gennaio 2016 Ismu stima che non sono in possesso di un permesso di soggiorno 435mila immigrati (contro i 404mila alla stessa data dell’anno precedente). Gli stranieri rappresentano il 9,58% di quella che è indicata da Eurostat come popolazione abitualmente residente in Italia. L’incremento della popolazione immigrata non è modesto come sembra, soprattutto se si tiene conto anche delle acquisizioni di cittadinanza nel 2015 che sono state 178mila (contro i 130mila del 2014 e i 60mila del 2012). Questo dato testimonia come il fenomeno migratorio in Italia sia ormai di lunga durata, tanto che chi è qui da anni riesce a diventare cittadino. Se ai 52mila stranieri presenti conteggiati in più (regolari e non) si aggiungono i 178mila immigrati che hanno acquisito la cittadinanza italiana, l’incremento del numero complessivo dei presenti sale intanto a 230mila, con un aumento complessivo del 3,9%. Fra i neo arrivati, ormai gli ingressi per motivi di lavoro sono il 9 per cento (nel 2010 erano il 60 per cento) mentre ormai i permessi di soggiorno legati ai ricongiungimenti familiari sono praticamente il 50 per cento. Un migrante su due di quelli che ottengono il permesso ha già un parente stabile in Italia da anni. In questo scenario si inserisce il dramma dei profughi che sbarcano dal mare e che sono in continuo aumento. Nel corso degli ultimi cinque anni infatti il numero dei migranti sbarcati sulle nostre coste è quasi triplicato: dai 63mila nel 2011, ai 154mila del 2015, passando per la punta dei 170mila del 2014. Ad anno non ancora concluso l’Italia ha già raggiunto un nuovo record per quanto riguarda gli sbarchi di migranti: sono 171mila gli arrivi via mare registrati tra il primo gennaio e il 27 novembre del 2016, cifra già superiore quindi a quella raggiunta nell’anno 2014 (170mila arrivi) e a quella del 2015 (154mila). Fino all’anno scorso la maggior parte cercava di andar via dall’Italia per raggiungere il nord Europa, ma con le frontiere chiuse verso il resto d’Europa, è cresciuto in modo esponenziale il numero dei richiedenti asilo. Nei primi 10 mesi del 2016 sono state presentate 98mila domande (contro 84mila nel 2015). Dramma nel dramma è quello dei "minori non accompagnati" giunti via mare: al 31 ottobre 2016 se ne contano oltre 22mila contro i 12.360 dell’intero anno 2015. Per chi è stabile in Italia, viste le problematiche di reddito dovute a impieghi mal retribuiti, diventa meno semplice fare figli. Negli ultimi anni la natalità degli stranieri è scesa gradualmente: agli 80mila nati del 2012 (massimo raggiunto) si è passati infatti da 78mila nati del 2013, ai 75mila del 2014 fino ai 72mila del 2015. Quindi, anche se il loro contributo allo svecchiamento della popolazione rimane comunque importante, è evidente che si stanno sempre più adattando al modello riproduttivo della società italiana e che la prevista rivoluzione delle culle, che qualcuno teorizzava, si è rivelata una falsa aspettativa. Sul fronte del lavoro nel 2015 c’è stato un aumento dell’occupazione straniera (+ 2,8% rispetto all’anno precedente) e, per la prima volta dopo diversi anni, una diminuzione dei disoccupati stranieri che sono 456.115 (-9.579 rispetto all’anno precedente). Gli immigrati senza lavoro rappresentano il 18% dei disoccupati complessivi. Migranti. Grandi (Unhcr): "l’Europa cambi strategia e aiuti i Paesi che sono più esposti" di Paolo Valentino Corriere della Sera, 2 dicembre 2016 L’Alto Commissario dell’Onu per i Rifugiati la prossima settimana presenterà a Bruxelles un piano complessivo per affrontare il problema delle migrazioni in Europa: "Proponiamo una maggiore prevenzione dei flussi". L’Europa deve riuscire a cambiare paradigma sui rifugiati, dandosi un nuovo modo strutturale di affrontare queste situazioni. Solo così possiamo sperare di riportare sotto controllo i grandi movimenti di popolazione". La prossima settimana, a Bruxelles, l’Alto Commissario dell’Onu per i Rifugiati, Filippo Grandi, presenterà un piano complessivo per affrontare il problema delle migrazioni in Europa. Grandi è da ieri a Roma, per prendere parte al Med2016, il forum dedicato al Mediterraneo organizzato da Farnesina e Ispi. Abbiamo incontrato l’Alto Commissario nella sede romana dell’Unhcr. "Più che un piano - spiega Grandi nell’intervista - è un documento nel quale proponiamo all’Europa un diverso modo di porsi nei confronti dei rifugiati. Non solo quindi misure concrete su accoglienza, ricollocazione, integrazione. C’è la necessità che l’Ue rafforzi il suo ruolo nella prevenzione dei flussi, supportando gli Stati fragili, sia quelli da cui hanno origine, come Siria, Afghanistan, Somalia, sia quelli che ospitano il 90% dei profughi del mondo, come Libano, Etiopia, Pakistan, Turchia. L’Europa deve proiettarsi nuovamente all’esterno, come protagonista. La stabilizzazione dei flussi nel lungo periodo è il succo dei compact, di cui il Presidente del Consiglio Renzi parla da mesi e che noi appoggiamo fortemente. Ma tutto questo non deve diventare alternativo all’accoglienza, che deve contemporaneamente migliorare perché rifugiati e migranti continueranno ad arrivare". Ma gli aiuti allo sviluppo ai Paesi fragili esistono già da tempo. "Esatto, ma occorre orientarli di più a risolvere le cause che producono i movimenti di popolazione. Deve esserci un legame più stretto, direi strategico, tra aiuti e prevenzione dei flussi migratori. Inoltre questi aiuti non devono più essere dati in modo isolato, ma devono essere europei, per avere massa critica. Su questo le istituzioni europee ci ascoltano, strumenti finanziari importanti sono in corso di sviluppo a Bruxelles. Ma vorremmo tempi più veloci, più concretizzazione e soprattutto che tutti gli aspetti del problema venissero considerati all’interno di un disegno più vasto". E cosa proponete di nuovo sull’accoglienza? "Se l’Europa dovesse abbandonare un atteggiamento solidale basato su diritti e valori, abbandonerebbe se stessa, perdendo uno degli elementi chiave della sua identità morale. Fra l’altro, il tipo di accoglienza messa in atto negli ultimi anni, frammentata paese per paese in cui alla fine si chiudono le frontiere, mette a rischio la libertà di movimento nello spazio di Schengen, quindi ha ricadute che vanno oltre il problema dei rifugiati. Noi faremo proposte molto precise per migliorare il modo in cui l’Europa accoglie chi chiede asilo: status, ricollocamento, perfino meccanismo dei rimpatri". Compresa la riforma del Regolamento di Dublino, che scarica ogni responsabilità sul Paese di arrivo? "A questo sta lavorando la Commissione. Il peso non può esser totalmente rovesciato sui Paesi di prima linea. Noi proporremo un programma di ridistribuzione obbligatoria, cosa che non è accettata da molti Stati membri. Faremo un appello forte a non abbandonare il principio dell’unità familiare, che contrariamente a quanto si crede non è un rischio, ma un vantaggio, perché favorisce l’integrazione e la protezione delle donne. E faremo proposte per migliorare uno degli aspetti più drammatici, cioè l’altissima percentuale negli arrivi di minori non accompagnati, sulla base del principio dell’interesse superiore del bambino. Inoltre suggeriremo di offrire corridoi alternativi legali a un numero maggiore di rifugiati che si trovano in Paesi di primo asilo, come il Pakistan, la Turchia, o l’Uganda, per arrivare dove possono avere un miglior futuro. Se questa operazione, che oggi interessa solo l’1% del totale, arrivasse diciamo al 10%, allora contrasteremmo con efficacia i network criminali dei trafficanti". L’accordo con la Turchia, per tenersi i rifugiati siriani, è un modello positivo o negativo? "Aiutare un Paese di primo asilo è giusto, ma non si possono più fare le cose a pezzi. I famosi 3 miliardi di euro promessi e in parte dati ad Ankara, il Paese che ospita più rifugiati al mondo, sono molto importanti. I problemi nascono dalla condizionalità legata ad altri fattori (i visti, i negoziati di adesione) e dalla mancanza di migliorie per quelli che arrivano. La criticità nasce dal subordinare gli aiuti per la gestione dei rifugiati ad altri aspetti dei rapporti fra Europa e Turchia. Inoltre, il fatto che la Turchia sia stata privilegiata ha creato uno squilibrio rispetto ad altri Paesi, che ora rivendicano lo stesso trattamento". Ma con quale argomento si può convincere l’opinione pubblica europea, preoccupata dalle ondate migratorie e spesso fagocitata da leader populisti? "Il nostro fallimento è di non aver capito abbastanza presto che le angosce di gran parte dell’opinione pubblica, di fronte alla globalizzazione e alle sue conseguenze, c he sono reali e non si possono ignorare. Non abbiamo sviluppato negli anni una cultura della spiegazione. Ma c’è ancora tempo e abbiamo il dovere di farlo. Ci sono tre aree di ansietà: la minaccia al posto di lavoro, alla sicurezza, all’identità. Occorre trovare le parole giuste, fuori dal lessico degli iniziati. Dobbiamo essere precisi nell’analisi: ci sono dati e studi che dimostrano come la presenza degli immigrati nel lungo periodo sia un vantaggio dal punto di vista economico, ma dobbiamo tradurli in un linguaggio chiaro e comprensibile. È falso che l’arrivo degli immigrati danneggi le comunità e ne abbiamo tanti esempi concreti. Secondo, ma capisco che è più difficile, credo che se spiegassimo meglio da dove arrivano, a cosa devono far fronte i rifugiati siriani, afghani, somali, non registreremmo un’opposizione radicale all’accoglienza: queste persone scappano da sofferenze atroci, condizioni disumane, rischi altissimi. I rifugiati vengono spesso visti come profittatori, ma non è così. È un dibattito da fare. Quanto meno dobbiamo provarci, anche facendo leva su uno zoccolo di solidarietà che esiste in Europa e che dovremmo mobilitare mettendolo un po’ più al centro dell’attenzione politica. Finora abbiamo piuttosto assistito alla strumentalizzazione di quelli che nutrono dubbi e preoccupazioni. I governi hanno una grande responsabilità". Che notizie avete da Aleppo? Qual è la situazione umanitaria? "In Siria ci sono centinaia di migliaia di persone intrappolate, che non hanno alcuna possibilità di mettersi al riparo, né all’interno, né fuori dai confini del Paese. Stimiamo che ad Aleppo almeno 275 mila persone abbiano un disperato bisogno di assistenza. Noi siamo pronti, ma è impossibile raggiungerli: l’ultima volta in cui siamo riusciti a distribuire aiuti umanitari è stato all’inizio di luglio. Nonostante la totale mancanza di sicurezza, continuiamo a lavorare, ma chiediamo un accesso immediato alla popolazione o la tragedia sarà immane e inevitabile". L’elezione di Donald Trump, che ha fatto campagna anche con una forte linea anti-immigrati, crea qualche problema alla vostra attività? "Non sappiamo quanto le cose dette in campagna da Trump si tradurranno in decisioni politiche. Ci sono due aspetti che osserviamo da vicino: i finanziamenti, perché gli USA sono il nostro maggior finanziatore; e i programmi di reinsediamento, visto che Obama ha portato a 110 mila l’anno la quota di rifugiati che l’America è pronta ad accettare da tutto il mondo, di gran lunga la più alta esistente. Tutto questo potrebbe essere messo in discussione. Ma è anche vero che, in ragione della loro Storia, negli USA c’è un sentimento popolare molto forte in favore di questi programmi e ciò potrebbe favorire una posizione più sfumata della nuova Amministrazione". Avete scritto una lettera al sindaco di Roma, dove criticate le condizioni di accoglienza degli immigrati nella capitale. Dove sono le criticità? "Quella più immediata è che non c’è un hub di primissima accoglienza, per i bisogni essenziali. Ma Roma ha anche un altro problema, quello dell’integrazione: ci sono migliaia di rifugiati riconosciuti che da anni vivono in strutture abbandonate, in condizioni igienico-sanitarie pessime. Oggi vedrò il ministro Alfano, col quale stiamo lavorando bene. Parleremo anche della riforma delle procedure di asilo: oggi siamo a 6 mesi di attesa per la prima decisione e a circa il 40% di persone riconosciute meritevoli di una forma di protezione internazionale, quindi dentro medie ragionevoli. Le strutture non possono però reggere un ritmo più intenso e se gli arrivi continueranno, com’è inevitabile, c’è il rischio che il sistema vada in tilt. Poi l’accoglienza, che in Italia ha fatto molti progressi, ma i 200 mila posti odierni non bastano più. Infine l’integrazione: in Italia serve un investimento consistente. Il caso di Roma si inscrive in questo quadro. In ogni caso, è decisivo convincere l’Europa a fare la sua parte nei confronti dell’Italia, paese di prima linea che non può essere lasciato solo". Terrorismo. Non solo spose e schiave ma cospiratrici: chi sono le nuove jihadiste di Marta Serafini Corriere della Sera, 2 dicembre 2016 L’hanno ammesso anche i servizi francesi. "Abbiamo sottostimato il ruolo delle donne arruolate da Isis". Spose del jihad, ragazzine partite a caccia di un avventura, schiave del sesso. Per due anni, analisti ed esperti hanno sottolineato come Isis non attribuisse nessun ruolo operativo alle reclute di sesso femminile. "Le ragazze vengono reclutate per fidelizzare gli uomini e con l’obiettivo di allevare i futuri soldati del Califfato" è stato il risultato di tutte le ricerche condotte fin ora. Madri, infermiere, costrette sempre a indossare il velo e completamente sottomesse agli uomini. Tutto vero: Isis ha attratto nella sua rete centinaia di giovani ragazze, manipolate, convinte a partire con la promessa di una vita migliore e poi ridotte in schiavitù, come Samra Kesinovic e Sabina Selimovic, partite da Vienna il 10 aprile 2014 quando avevano 15 e 16 anni. Ma le donne di Isis non sono solo vittime. Lo scenario si è evoluto. Era settembre quando la polizia francese ha scoperto una Peugeot parcheggiata vicino alla cattedrale di Notre Dame. Al suo interno erano stato piazzati sei cilindri di gas. Bastava una scintilla e potevano detonare facendo una strage. A piazzare quegli ordigni sono state tre donne, in contatto con Rachid Kassim, considerato l’ispiratore e il reclutatore degli attacchi di quest’estate in Europa. "Fanatiche e radicalizzate", le ha definite il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve. Oltre il singolo episodio francese, sono tante altre le donne affiliate all’organizzazione terroristica di Abu Bakr Al Baghdadi. Francia, Gran Bretagna, Italia. Ogni paese ha i suoi esempi. Maria Giulia Sergio che ha gridato il suo odio contro gli infedeli via Skype, Meriem Rehaily che è partita dopo aver diffuso su internet una lista di bersagli, Umm Sayaff, moglie di Abu Sayaff che ha tenuto prigioniera la cooperante statunitense Kayla Mueller. Alice Brignoli che si è trascinata all’inferno i suoi figli dopo aver chiuso i rapporti con la madre. E Sally Jones che ha trasformato suo figlio undicenne in un boia impegnato a giustiziare "spie". Alcune di queste donne sono morte. Altre potrebbero tornare. E tante altre sono state arruolate in Europa così come negli Stati Uniti. A studiare i casi di 25 donne statunitensi è Audrey Alexander del Program on Extremism della George Washington University, autrice di "Cruel Intentions, Female Jihadist in America". Dal caso di Tashfeen Malik, moglie del killer di San Bernardino in poi, anche Oltreoceano l’interesse per la presenza femminile nei gruppi jihadisti è cresciuta. "Bisogna distinguere, esistono vari livelli di coinvolgimento anche a livello femminile, ci sono quelle che si sono limitate a partire al seguito del marito. Ma sappiamo di casi di donne partite da sole, che si sono portate dietro i figli con l’obiettivo di farli diventare soldati del Califfato", spiega al Corriere della Sera Alexander. Possibile dunque distinguere tra le vittime e quelle invece che hanno aderito con convinzione, capaci anche di uccidere in nome dell’organizzazione terroristica? "A questo stadio le donne affiliate non sono obbligate a ricoprire un ruolo operativo, ma se lo vogliono fare non viene loro impedito", sottolinea ancora Alexander che nel suo studio distingue tra cospiratrici, supporter e viaggiatrici, ponendo l’accento sul diverso livello di coinvolgimento delle donne. La presenza femminile nei gruppi terroristici è aumentata nel corso degli anni. "I social network e la possibilità di contribuire alla causa anche a distanza hanno sicuramente facilitato un maggior coinvolgimento delle donne nei gruppi jihadisti", conclude Alexander. Ad aumentare anche le violenze di cui si sono macchiate. Ma quasi mai la partecipazione femminile alla violenza politica ha conciso con una rivendicazione che abbia come obiettivo ultimo la parità di genere. Le tematiche femministe, se ci sono state, hanno rappresentato per lo più un’argomentazione strumentale. La presenza femminile è inoltre un incentivo al reclutamento per gli uomini. Di più, è opinione abbastanza diffusa (ma non sempre provata dai fatti) che le organizzazioni terroristiche impieghino le donne quando sono in difficoltà perché la loro presenza amplifica il messaggio propagandistico rendendo l’omicidio più orribile e più innaturale proprio perché commesso da una mano femminile. Ma non solo. Usare le donne è comodo. Infiltrare una donna, farla passare attraverso un check point controllato dagli uomini, farle nascondere delle armi o delle bombe facendola sembrare incinta o farle fare da spia è più facile e veloce che affidare questi compiti ad un uomo. Nel caso di Isis l’impiego di donne in azione potrebbe anche avere un’altra funzione. Ossia far vergognare gli uomini della loro "codardia". "Dove siete fratelli? Queste donne sono entrate in azione perché gli uomini non stanno facendo nulla", ha tuonato Kassim su Telegram dopo l’operazione di polizia contro le ragazze di Notre Dame. Le donne nelle organizzazioni jihadiste non vengono usate solo come kamikaze. Anche l’esistenza di cellule femminili di Isis sembra sempre più che confermata. Al di là della famigerata brigata Al Khansaa, di cui tanto si è scritto e che è operativa a Raqqa, non più tardi di un mese fa le autorità marocchine hanno affermato di averne smantellata una composta da 10 elementi. E sempre in settembre a Mombasa in Kenya tre donne hanno attaccato una stazione di polizia a colpi di coltello e granate. Una novità, soprattutto se si pensa che Amaq, la sedicente agenzia di stampa del Califfato, ha definito queste donne "supporter". Le donne jihadiste dunque non sono combattenti, soldati. Ma le loro azioni vengono rivendicate e raccontate al mondo. Dell’argomento si discute da parecchio anche negli ambienti jihadisti. Non è un caso che Dabiq, la rivista dell’Isis, abbia dedicato una serie di articoli alle donne. La posizione presa è certamente "conservatrice". Le donne hanno il dovere di stare a fianco del marito, si legge in uno degli articoli firmati da Umm Sumayyah Al-Muhajirah. Ma già solo che se ne parli e se ne discuta significa che i vertici del Califfato sentono il bisogno di rispondere alla domanda "donne combattenti si o no?". Nel frattempo l’opera di proselitismo prosegue. Esistono veri e propri forum di reclutamento per le donne. dove alle tematiche "classiche" (la gestione della famiglia, della casa, del cibo) vengono affiancati anche discorsi politici (costa sta succedendo in Siria, cosa significa vivere nella terra degli infedeli). Via Telegram, Viber, VKontakt, Tumblr e WhatsApp, alle donne, così come agli uomini, non viene più chiesto di partire. Ma le si spinge verso un impegno nella terra del kuffar, degli infedeli, che potrebbe sfociare anche in azioni armate come quella in programma a Notre Dame o come quelle di quest’estate. "Anche per una donna è facile usare il coltello o piazzare una bomba", sottolinea Audrey Alexander. Più difficile andare a guardare i numeri. Non esiste infatti un database unico europeo. Ciascun paese custodisce i suoi dati sui foreign fighters e sugli affiliati. In Francia 24 sono le donne (e tre le minori) in custodia con l’accusa di affiliazione a Isis. Il 40 per cento delle reclute è di sesso femminile, secondo il ministro degli Interni francese, e sarebbero 220 quelle che sono partite per trasferirsi in Siria o in Iraq. Secondo il procuratore francese François Molins, "centinaia" di queste potrebbero rientrare nei prossimi mesi. In Italia su gli oltre 100 foreign fighters, le donne rappresentano il 10 per cento. Una minoranza, dunque. Ma a giudicare dai casi di cronaca abbiamo visto come le ragazze giochino un ruolo sempre più importante in questa partita. E sottostimarne la presenza può rappresentare un rischio. Libertà di parola fondamentale per la democrazia ma nel mondo è sempre più minacciata di Robert Rydberg (Ambasciatore di Svezia in Italia) La Stampa, 2 dicembre 2016 Oggi la Svezia celebra 250 anni di libertà di stampa. Il 2 dicembre 1766, il Parlamento svedese adottò la prima legge costituzionale al mondo sulla libertà di stampa, il che significava che la censura sulle pubblicazioni stampate fu abolita e fu garantito il diritto del pubblico ad avere accesso ai documenti pubblici e partecipare a dibattiti politici. La libertà dell’atto di stampa è stata strumentale allo sviluppo del nostro moderno stato assistenziale. La legge svedese sulla libertà di stampa era unica per il suo tempo. Il testo, redatto dal membro del Parlamento Anders Chydenius da Karleby, è stata promulgata prima della Costituzione americana che protegge il diritto alla libertà di espressione per tutti i cittadini. La libertà di espressione ha servito bene la Svezia. La libertà di parola non è solo un prerequisito per la democrazia, è anche il garante dello sviluppo della società. Il libero flusso di idee e opinioni, così come il dibattito e l’esame critico, crea un clima di ricchezza di idee e dà impulso all’innovazione. Grazie al principio di accesso pubblico ai documenti ufficiali, i cittadini hanno il diritto di controllo e l’accesso alle informazioni detenute dalle autorità pubbliche. In questo modo, i privati cittadini e i giornalisti possono esaminare l’operato delle strutture di potere e dei politici eletti dal popolo. Per noi, questo principio - centrale per il nostro sistema giuridico e legale - ha contribuito a mantenere un basso il livello di corruzione e contemporaneamente un alto livello di fiducia nelle nostre istituzioni democratiche. Non c’è dubbio che la nostra società aperta ha posto le basi per la crescita economica e la prosperità del nostro Paese. Ma mentre celebriamo la libertà di espressione, purtroppo vediamo come i diritti e le libertà fondamentali vengono sempre più minacciati in tutto il mondo. In molti luoghi assistiamo al restringimento dello spazio democratico. Le persone vengono messe a tacere e le informazioni civiche sono soggette a restrizioni. La legislazione repressiva prende di mira i giornalisti e i difensori dei diritti umani. Le minacce e le molestie stanno diventando sempre più diffuse e le preoccupanti statistiche dell’Unesco dimostrano che negli ultimi dieci anni sono stati uccisi 800 giornalisti. Sfortunatamente sono pochissimi i responsabili di tali crimini che vengono poi portati in giudizio. La sicurezza dei giornalisti è un prerequisito fondamentale per garantire un dibattito libero. Perché cosa accade a una società che non ha accesso a mezzi di comunicazione liberi e indipendenti? Cosa accade alla conoscenza quando le informazioni sono soggette a determinate condizioni? Quali sono le conseguenze di un pubblico non informato? Ora dobbiamo intensificare gli sforzi per promuovere la libertà di espressione e dei media. La libertà di parola è un principio importante su cui si fonda la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, di cui siamo orgogliosi e che vogliamo proteggere. Fa parte dei nostri valori fondamentali e merita di essere difeso tramite gli sforzi comuni su un piano europeo. Dobbiamo tutti lavorare per essere un esempio in questo contesto. Gli Obiettivi Globali dell’ONU per lo Sviluppo Sostenibile e l’Agenda 2030 rappresentano uno sviluppo sociale positivo. Uno degli obiettivi, il 16.10, esorta i paesi a "Garantire l’accesso del pubblico alle informazioni e proteggere le libertà fondamentali, in conformità con la legislazione nazionale e con gli accordi internazionali." Riteniamo che questo sia un obiettivo molto importante da conseguire nell’ambito degli sforzi per ottenere uno sviluppo sostenibile globale. Il 250° anniversario della legge costituzionale sulla libertà di stampa in Svezia ci ricorda la lunga strada che abbiamo percorso per promuovere la libertà di espressione. La libertà di parola è un principio che non deve mai essere dato per scontato e che deve sempre essere difeso. Noi speriamo che il 2 dicembre sarà il punto di partenza di un rinnovato impegno. Speriamo che sempre più persone si levino per difendere il dibattito libero e continuare a discutere, esaminare, controllare e criticare. Nel nostro impegno per la libertà di stampa e di espressione vediamo l’Italia come un partner indiscusso e importante. Siria. 224 Ong chiedono una sessione straordinaria dell’Assemblea generale Onu di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 dicembre 2016 Ieri sera 224 organizzazioni della società civile di ogni parte del mondo (l’elenco completo è qui) hanno diffuso un appello agli stati membri delle Nazioni Unite per chiedere la convocazione di una sessione straordinaria di emergenza dell’Assemblea generale sulla Siria. Questo è il testo dell’appello: "Il Consiglio di sicurezza ha tradito i siriani. In quasi sei anni di conflitto, quasi mezzo milione di persone ha perso la vita e 11 milioni sono state costrette a lasciare le loro case. Di recente, i governi della Siria e della Russia e i loro alleati hanno portato a termine attacchi illegali sui quartieri orientali di Aleppo, nel totale disprezzo per i 250.000 civili lì intrappolati. I gruppi armati di opposizione a loro volta hanno colpito con colpi di mortaio e altri proiettili i quartieri di Aleppo ovest, anche se secondo l’Alto commissario Onu per i diritti umani "gli attacchi indiscriminati contro la parte orientale della città da parte delle forze governative e dei loro alleati sono responsabili della stragrande maggioranza delle vittime civili". I tentativi di porre fine a queste atrocità e di chiamare a risponderne i responsabili sono stati ripetutamente bloccati dalla Russia, che continua a fare cattivo uso del suo potere di veto all’interno del Consiglio di sicurezza. L’Inviato speciale per la Siria, Staffan de Mistura, ha ammonito che le Nazioni Unite non permetteranno "un’altra Srebrenica, un altro Ruanda, una possibilità che tristemente siamo in grado di vedere davanti a noi se qualcosa non verrà fatto". Tuttavia, non c’è segnale che la paralisi del Consiglio di sicurezza terminerà presto. Il guardiano della pace e della sicurezza internazionali non ha saputo svolgere il ruolo affidatogli dalla Carta delle Nazioni Unite ed è venuto meno alla responsabilità di proteggere la popolazione siriana. Questo è il motivo per cui, come coalizione di 224 organizzazioni della società civile, sollecitiamo gli stati membri delle Nazioni Unite a richiedere la convocazione di una sessione speciale di emergenza dell’Assemblea generale, che chieda la fine degli attacchi illegali contro Aleppo così come contro altre zone della Siria e l’accesso umanitario immediato e non ostacolato in modo che aiuti vitali possano arrivare a tutti coloro che ne hanno bisogno. Gli stati membri dovrebbero anche prendere in considerazione possibili soluzioni per portare di fronte alla giustizia i responsabili dei gravi crimini di diritto internazionale commessi da tutte le parti coinvolte nel conflitto. Abbiamo apprezzato la leadership mostrata dal Canada nel sollecitare un’azione dell’Assemblea generale. Ora chiediamo a tutti gli stati membri a unirsi ai 73 stati, di ogni regione del mondo, che hanno fatto altrettanto aderendo alla loro iniziativa. Questi paesi dovrebbero collaborare nel chiedere la convocazione, nel tempo più breve possibile, di una sessione speciale di emergenza, come già fatto in passato quando l’azione del Consiglio di sicurezza risultava bloccata. Chiediamo, in particolare, ai 112 sostenitori del Codice di condotta su responsabilità, coerenza e trasparenza - che prevede l’impegno ad appoggiare "azioni tempestive e decisive" per prevenire o porre fine a genocidi, crimini di guerra e crimini contro l’umanità - a unirsi a quel tentativo e a promuovere azioni significative attraverso l’Assemblea generale. La mancanza d’azione non dovrebbe far parte delle opzioni possibili. Gli stati membri delle Nazioni Unite devono usare tutti gli strumenti diplomatici a loro disposizione per fermare le atrocità e proteggere milioni di civili siriani. La storia giudicherà severamente coloro che non lo faranno". Siria. Gli affari con Assad dei fornitori di software delle procure di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 2 dicembre 2016 La società che fa le intercettazioni per le Procure ha venduto il software ad Assad. "Embargo violato". Oggi pomeriggio a Reggio Calabria è programmato che intervenga al seminario della Procura sul tema "Prospettive future dell’informatizzazione dei sistemi a supporto delle intercettazioni": ma ieri sono due meno lusinghiere prospettive - accesso abusivo ai sistemi informatici delle Procure, e violazione dell’embargo alla Siria - a determinare altrettante indagini su Andrea Formenti, presidente e socio unico di Area, azienda privata di Vizzola Ticino che con 150 dipendenti svolge in un anno 25.000 incarichi per oltre 100 uffici giudiziari e fattura 20 milioni. Da un lato il gip milanese Stefania Pepe ordina il sequestro di 7,7 milioni sui conti di Area, perché il pm Piero Basilone accusa Formenti e il capoprogetto Alessandro Mistò di aver nel 2010-2011, senza le autorizzazioni di legge, esportato ai servizi segreti di Assad un sistema da 13 milioni per intercettare telefonate e traffico Internet degli oppositori al regime in un Paese che in quegli anni contò 50.000 morti. Dall’altro lato il Gico della GdF perquisisce e acquisisce copia forense dei server della società per cercare di chiarire le caratteristiche (segnalate dal Corriere dopo l’emersione in una inchiesta della Procura di Trieste all’attenzione anche di Garante della Privacy, Csm e ministero della Giustizia) del software con il quale Area garantisce "da remoto", e cioè dalla propria sede vicino a Malpensa, la teleassistenza ai pm in caso di guasti e piccoli intoppi sui server delle Procure. Sulla postazione di lavoro di una impiegata dell’help desk, infatti, il 15 dicembre 2015 una perquisizione dei pm di Trieste e una ispezione contrattuale dei pm di Busto Arsizio ha trovato migliaia di intercettazioni di 14 Procure italiane, dati che per legge sarebbero dovuti risiedere soltanto sui server di quelle Procure. Materiale di "duplice uso" - Denominata "Asfador" dal nome di un consulente dell’imprenditore siriano Kananamico di Assad e primo interlocutore di Area, la fornitura a Damasco iniziò a essere esaminata nel 2011 dai pm di Busto, che nel giugno 2012 trasferirono a Milano gli atti per l’ipotesi (ieri non più contestata) di "addestramento con finalità di terrorismo internazionale". Qui, dopo che la GdF ha concluso la propria informativa a fine 2014, sono state sviluppate - sino alla richiesta di sequestro formulata dal pm nell’estate 2015 e accolta ieri dal gip - le rivelazioni di due ex manager licenziatisi da Area, che hanno consegnato anche molte mail aziendali. Esse mostrano che il materiale di "duplice uso" (civile e militare) fu fornito a un apparente acquirente civile come l’azienda di telecomunicazioni "Syrian Telecom Establishment", ma Area era sin dall’inizio consapevole che fossero i servizi segreti siriani della "Law Enforcement Agency" i reali committenti e destinatari del sistema di intercettazione completo di formazione in Siria e teleassistenza dall’Italia. Sino a febbraio 2011 senza autorizzazione, e con trasporti clandestini per aggirare i controlli doganali; a fine 2011 con autorizzazione del Ministero dello Sviluppo, ma ottenuta con dichiarazioni fraudolente. Uno dei due ex manager - oltre a indicare il reale referente di Area in "Firas", cioè in Feras Hasan, 007 siriano che (come si dicono i manager di Area in una mail del 2010) "sarà lui a dire se il prodotto va bene o meno" - ha testimoniato che Formenti avrebbe liquidato qualunque remora legale o etica dicendogli che "business is business" e che "Area è come una fabbrica di coltelli e i coltelli possono essere usati in cucina come per uccidere persone, non può esserci responsabilità di Area per questo". E un altro (non indagato) manager di Area, Andrea Ghirardini, intercettato il 24 novembre 2012 con un "Luigi" intestatario di un cellulare del Comando Generale dei Carabinieri, confida: "Un sistema di intercettazioni per intelligence... loro l’hanno fatto passare per monitor di rete… Sono due cose molto diverse". Libano. I suoni del Mediterraneo tra i giovani nel carcere di Roumieh di Mauro Pompili La Repubblica, 2 dicembre 2016 L’esibizione dei Kabila, la band italo libanese, davanti a 170 ragazzi detenuti ha segnato una giornata davvero particolare. Grazie all’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics), che sta realizzando un progetto all’interno del carcere. Il ritmo frenetico della dabka (danza tradizionale del Medio Oriente), cresce incessante con un’energia che appare capace di superare gli alti muri di cinta che circondano il cortile dove stanno suonando i "Kabila", la bande italo-libanese multietnica toscana, nota per il suo sound dove s’intrecciano lingue e sonorità diverse, ma di impronta decisamente mediterranea. Sembra dunque che, come recita il titolo del concerto, "La musica non ha limiti", neppure quelli imposti dalle sbarre e dai muri della sezione minorile del carcere di Beirut. "Devi capire cosa significa la dabka per noi mediorientali - ci ha detto Nazih, giornalista libanese - è una danza che esprime l’amore per la terra, l’unione tra le persone, esprime sentimenti di gioia. Ora capisci quanto è bello vederla ballare in carcere". Una giornata particolare. Quella vissuta pochi giorni fa dai 170 ragazzi detenuti a Roumieh è stata una giornata davvero particolare. Grazie all’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics), che sta realizzando un progetto all’interno del carcere, è stato possibile realizzare un’iniziativa che per qualche ora ha regalato uno spazio di normalità ai giovani detenuti. "Da quando siamo entrati la prima volta nel carcere abbiamo pensato che dovevamo fare qualcosa per i ragazzi. Così, è nata l’idea folle di un concerto per e con i detenuti." Dice Hussein Fakih, responsabile del progetto per l’Aics. "Poi abbiamo trovato la collaborazione di tanti, come l’Alitalia o la Suez, e il concerto ha superato le nostre aspettative e ha coinvolto profondamente tutti i ragazzi. Un gruppo di loro ha partecipato al concerto cantando con i "Kabila" e Ahmed, detenuto nella sezione per i malati mentali, ha suonato a lungo il suo hod (liuto mediorientale) sul palco accompagnando i musicisti". I ritmi del Mediterraneo. Le emozioni della musica sono state forti per i giovani detenuti. Georges mette la testa tra le gambe e inizia a singhiozzare in silenzio quando una canzone, tratta da una poesia di Mahmoud Darwish, gli ha ricordato la lontananza dalla madre. La musica del gruppo italo libanese è coinvolgente. I loro testi parlano di mondi senza confini e di fratellanza. A Roumieh hanno aggiunto al loro repertorio brani della tradizione libanese. Un mix che ha trascinato il pubblico. "Porto con me un regalo meraviglioso - ha detto Emad Shuman, cantante del gruppo - in una sola notte i ragazzi hanno imparato il testo in italiano di una nostra canzone e l’hanno cantata con noi". Nel carcere più grande del Libano. Il carcere di Roumieh, il più grande del Libano era stato progettato per 1.500 detenuti, oggi ne ospita più del doppio. Delinquenti comuni, condannati riconosciuti come malati mentali, terroristi e minori sono detenuti in strutture separate, ma tutte sovraffollate. Un piccolo microcosmo dove si incontrano storie diverse. Una è quella di Bashar, siriano di 17 anni e da tre recluso in attesa del processo per omicidio. "Non ho ucciso nessuno. Mio fratello più grande ha ucciso e ha dato la colpa a me. La pena per omicidio è ridotta se il colpevole è minore". Bashar e i "Kabila" sul palco. Con lui c’era anche Abdallah, 16 anni in carcere per terrorismo come altri 19 minori. "Ho rubato una macchina, non so cosa c’entri col terrorismo. La polizia ha trovato l’auto, era piena di esplosivo e c’erano le mie impronte digitali." Quando è arrivato era cupo e non dava la mano alle donne, racconta Renee Sebba, dell’ Agenzia Onu contro il crimine e lo spaccio di droga (Unodc). "Arriva da una regione molto tradizionalista nel nord del Libano. È fantastico oggi vederlo esibirsi su un palcoscenico". La riabilitazione nella "casa blu". Unodc è il partner del progetto italiano, iniziato a novembre 2015 per un costo di 700.000 Euro. "In questi mesi abbiamo realizzato altri momenti di svago per i giovani detenuti." Ha detto Rita Petrilli, responsabile legale dell’Aics di Beirut. "Sono, però, altrettanto importanti le altre componenti del progetto. La riabilitazione della Casa Blu, l’edificio che ospita i malati mentali, la messa in opera di una cucina industriale dove i prigionieri possano imparare a stare tra i fornelli e fornire servizi di catering al carcere. Inoltre, stiamo già lavorando alla fase successiva con molte altre iniziative." L’Italia vuole bene ai ragazzi di Roumieh, ha detto Gianandrea Sandri, Direttore Aics di Beirut. "Non vogliamo fermarci qui e per questo vi invito a iniziare a scrivere la vostra storia o un racconto. Noi sceglieremo i testi più significativi e li pubblicheremo e faremo ancora festa tutti insieme".