Bernardini: "sovraffollate e inadeguate, le nostre carceri producono solo altra criminalità" di Maristella Iervasi L’Unità, 29 dicembre 2016 L’ex parlamentare Rita Bernardini impegnata in questi giorni di festa nel consueto tour radicale negli istituti di pena. "Il nostro impegno nel nome di Marco Pannella". Nella Casa circondariale di Taranto i detenuti stanno quasi uno sull’altro. Le persone rinchiuse in carcere sono 421 di cui 22 donne ma i posti regolamentari disponibili sono solo 300. Dunque, 121 detenuti in più. Rita Bernardini guida la delegazione del partito Radicale transnazionale insieme a Sergio D’Elia, Antonella Casu e tanti altri, e annota su un blocchetto degli appunti tutto ciò che merita di essere censito. Così come "ci ha insegnato Marco Pannella", racconta l’ex segretaria radicale. E il tutto avviene sotto gli occhi attenti e vigili di Stefania Baldassarri, la direttrice del carcere, e di Elena Vetrano, comandante della polizia penitenziaria che li seguono passo passo nella visita alla struttura detentiva. Più o meno la stessa cosa è accaduta anche a Regina Coeli a Roma e al carcere di Foggia. Nel carcere di Trastevere, ad esempio i radicali hanno "contato" 924 detenuti su una capienza regolamentare di 624 posti e segnalano la presenza di solo 11 educatori su 13 assegnati. A Foggia invece il "vero scandalo" dei bagni a vista, senza porte, e le docce esterne alla cella. Il tutto per un totale di 516 detenuti su una capienza di 349. Non solo: 321 sono gli agenti penitenziari in pianta organica ma solo 282 gli effettivi:45 sono occupati in "nucleo traduzioni" e altri 27 stanno per andare in pensione. Mercoledì 28 dicembre, i radicali entrano nel carcere di Taranto alle 11 e quando escono fuori è già buio. Una visita minuziosa, senza saltare nessun "angolo" del penitenziario e annotando numeri, disfunzioni, problemi e carenze. Polizia penitenziaria: "340 agenti in pianta organica ma in servizio solo 291". Detenuti: "90 persone in alta detenzione e 331 comuni; detenuti con condanna definitiva 224; in situazione mista 197, di cui 150 in attesa di primo giudizio", cioè in carcere "da presunti innocenti". E ancora: 42 detenuti stranieri, 98 i tossicodipendenti, 105 i detenuti con epatite C, 35 i casi psichiatrici "di cui 25 uomini e 10 donne" mentre il totale delle donne detenute è 22. "Il direttore sanitario - precisa Bernardini - ci ha anche detto che su 421 detenuti 400 seguono terapie farmacologiche". In una cartella i radicali hanno una sorta di verbale-inventario per ogni carcere d’Italia. I radicali sono infatti già entrati in molti penitenziari: a Regina Coeli a Roma nel giorno di Natale, nel carcere di Foggia e di Taranto, e ieri nella struttura detentiva di Lecce. Visite puntigliose, cella per cella della durata di 6 ore circa che andranno avanti fino alla Befana. Cosa si prova ad entrare nelle carceri senza avere più al fianco Marco Pannella? "Un senso di tristezza e vuoto ma anche il coraggio che occorre avere per proseguire la sua opera. I detenuti che lo ricordano sono tantissimi. Quanto entravo in carcere con Marco sentivo i cori: "Marco uno di noi". Oggi sono affettuosi, ci applaudono. Un detenuto ci ha detto: "Porta un fiore da parte mia a Marco al cimitero la prossima volta che ci va, mi raccomando". A Regina Coeli un iracheno di 50 anni ha messo accanto all’immagine di Padre Pio anche Pannella e Papa Francesco. Sono molti i detenuti che ci mandano le loro lettere e sono moltissimi quelli che hanno aderito alla marcia per l’amnistia del 6 novembre scorso organizzata in concomitanza con il Giubileo dei carcerati". È cambiato qualcosa nel sistema penitenziario? È migliorata la situazione per persone recluse? "È leggermente migliorata per il sovraffollamento, anche se si registra una tendenza all’aumento: dall’inizio dell’anno ad oggi registriamo un aumento di 1.600 detenuti in tutte le carceri. Ma il vero problema è il trattamento dei detenuti: se puoi uscire dalle celle e fare una attività la vita delle persone detenute di sicuro cambia. E invece sono scarse le attività di studio, lavoro, e sport all’interno delle carceri". Una situazione generalizzata, secondo voi? "Sì. A Taranto, abbiamo incontrato i detenuti nei passeggi (i cosiddetti luoghi d’aria, ndr), loro volevano un pallone per poter giocare. Ma non possono avere i palloni perché il passeggio è di cemento e basta una caduta e si possono fare male. E in questo caso sarebbe la direttrice del penitenziario a pagarne le conseguenze. Insomma, chi ha fatto il sopralluogo ha stabilito che i passeggi peri detenuti sono inagibili al pallone. E ancora: a Taranto i detenuti non hanno una palestra e al posto del campo sportivo si sta costruendo un nuovo padiglione che in futuro ospiterà altri 200 reclusi. Quando l’hanno progettato non erano previsti i passeggi. Insomma, la direttrice di Taranto è capace ma ha tanti vincoli, uno per tutti: non si può rifiutare di accogliere i detenuti che l’autorità giudiziaria le manda. In passato, quando c’era Massimo Brandimarte a presiedere il Tribunale di sorveglianza le cose funzionavano meglio. Lui seguiva i detenuti uno per uno, concedeva misure alternative, dava fiducia ai detenuti e permessi premio. Oggi c’è un’altra composizione del tribunale: l’attuale magistrato-presidente sono 7 mesi che non entra in carcere". Il vero problema delle carceri resta il sovraffollamento o anche l’incapacità dell’istituzione di essere "rieducativa"? "Non c’è dubbio. La composizione nelle nostre carceri è formata da gente povera: stranieri, malati psichiatrici e tossicodipendenti. Dunque, persone più disagiate e fragili che come tali possono cadere nelle maglie della criminalità organizzata". Eppure storiche battaglie radicali come l’indulto, l’amnistia, la riforma della giustizia, sembrano ancora sotto traccia: come mai? Perché non c’è più Pannella? "Non è del tutto così. Abbiamo fatto una marcia per l’amnistia il 6 novembre scorso ed è stata molto partecipata. L’abbiamo fatta nel nome di Marco Pannella e di Papa Francesco, gli unici che si sono espressi a favore dell’amnistia e dell’indulto concependoli anche in modo diverso: il Papa come atto di clemenza e noi Radicali come stato di diritto e base indispensabile per fare la riforma della giustizia. Il carcere è solo l’ultimo stadio di una giustizia che non funziona. C’è anche il tema della giustizia lumaca dei processi: l’Italia è stata condannata in sede europea per l’irragionevole durata dei processi. Questo era il modo di Pannella per far ripartire la macchina della giustizia e rientrare nella legalità". Quando consegnerete a Papa Francesco, al ministro Andrea Orlando e al Capo dello Stato Sergio Mattarella il volume "Forza Francesco, grazie Marco"? "Alla fine del nostro giro nelle carceri italiane. Con il ministro Orlando c’è un rapporto positivo: è persona sensibile, da ministro ha avuto il coraggio di dire che le nostre carceri sono criminogene e che bisogna arrivare alle pene alternative alla reclusione. Ed è per questo che con la nostra iniziativa insieme ai detenuti, chiediamo lo stralcio della parte del Ddl sul processo penale che riguarda l’ordinamento penitenziario. È in discussione al Senato, deve essere trattata a parte ed approvata presto". Pochi bracciali elettronici, così migliaia di detenuti che potrebbero uscire restano in cella di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 29 dicembre 2016 L’ultimo caso è quello di Giandomenico Monorchio. Ma sono centinaia, se non migliaia, le persone sottoposte a procedimento giudiziario che avrebbero potuto avere la possibilità di ottenere gli arresti domiciliari e invece sono rimaste dietro le sbarre. Già, perché da anni i 2.000 braccialetti elettronici ordinati dal ministero dell’Interno sono insufficienti e la lista d’attesa si è allungata, fino ad arrivare, pare, a diverse migliaia di persone. Con un’attesa stimata di un mese e mezzo. Il "pare" non è un’imprecisione del cronista, ma un dato ignoto anche ai ministeri dell’Interno e della Giustizia. L’appalto senza gara - La stima è del Sappe, il sindacato penitenziario di polizia. Potrebbe essere per eccesso, ma è difficile verificare. La lista è in mano a Telecom, a cui fu affidato nel 2003 l’appalto (senza gara). È dunque una compagnia telefonica ad avere in mano - gestendo una lista cronologica sulla base delle richieste dei Gip - la libertà di qualche centinaio di persone. Da giugno, e anche questo è ignoto ai più, probabilmente non sarà più così. Già, perché il 6 dicembre, due giorni dopo il big bang referendario, con il governo dimissionario, è stato finalmente pubblicato il bando di gara per la fornitura dei nuovi apparecchi. Bando sollecitato per mesi ad Alfano dal ministero della Giustizia. E che ora prevede per i prossimi 27 mesi "l’attivazione mensile di 1.000 apparecchi", con un "surplus" possibile del 20 per cento. I 2.000 braccialetti a disposizione finora, specificano dal Viminale, "sono stati utilizzati in questi anni per 9.000 detenuti, per un totale di 1 milione e 900 mila giorni". E da giugno? L’attivazione mensile di 1.000 apparecchi, formula non chiarissima, basterà a soddisfare la lista d’attesa? Comunque sia, il termine per le offerte scadrà il 2 febbraio. Poi, con il criterio della "offerta economicamente più vantaggiosa", sarà scelta l’azienda. E, se tutto va bene, da giugno saranno disponibili i nuovi 1.000 apparecchi "mensili". Il paradosso - Fine, forse, di una vicenda paradossale. Perché, nonostante fossero operativi dal 2005, i 2.000 braccialetti (dai costi stellari, dei quali solo 200 con Gps) sono stati praticamente inutilizzati. Nel 2014, ne erano attivi solo 55 in otto uffici giudiziari. Perché? La risposta è in una lettera scritta allora da una gip di Torino, Alessandra Bassi, e da un sostituto procuratore di Firenze, Christine von Borries. Sono loro a spiegare ai colleghi ignari che possono chiamare Telecom per installare le centraline. Da allora, anche in seguito ai provvedimenti che ne incentivano l’utilizzo, è il boom. Con i gip che si trovano di fronte a un dilemma, con relativo contrasto di orientamenti giurisprudenziali: da una parte c’è chi dirotta in carcere gli imputati in mancanza di braccialetto (che poi è una cavigliera), dall’altra chi sostiene che non sia colpa degli imputati la carenza e che quindi debbano andare ai domiciliari. Le sezioni unite della Cassazione intervengono e lasciano ai magistrati l’onere di valutare, caso per caso. "Sentenza pilatesca - la definisce Riccardo Polidoro, dell’osservatorio carceri per le Camere Penali -. Se si vuole davvero risolvere il problema del sovraffollamento, i braccialetti sono fondamentali". Indagini degli 007 in carcere verso la proroga. "Colloqui investigativi" senza avvocato di Sara Menafra Il Messaggero, 29 dicembre 2016 Prolungata la norma che autorizza colloqui investigativi per terrorismo senza la presenza degli avvocati. Era una delle norme "a scadenza" introdotte nel decreto Antiterrorismo dello scorso anno. Ora, però, con il cosiddetto Milleproroghe il governo sta valutando di riaprire il termine, oggi fissato al 31 gennaio 2016, per permettere i colloqui investigativi in carcere da parte di agenti dei servizi segreti. La legge n. 7 dello scorso anno introduce, in via transitoria (al momento fino al 31 gennaio 2016), la possibilità per i servizi di informazione e sicurezza di effettuare colloqui investigativi con detenuti per prevenire delitti con finalità terroristica di matrice internazionale. Colloqui, dunque, che non hanno le garanzie previste dalla legge e non prevedono la presenza di avvocati. Le comunicazioni - Dei colloqui devono essere informati preventivamente sia il Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma, sia il Procuratore Nazionale Antimafia e antiterrorismo; alla conclusione delle operazioni ne è data informazione anche al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica e al Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. La decisione di prorogare la norma è stata presa anche alla luce dei recenti attentati e in particolare di quello di Berlino, visto che l’attentatore aveva passato parecchio tempo in Italia in particolare in carcere. Al momento, però, i dati raccolti dal Dap parlano di circa 730 "radicalizzati" su 11mila detenuti che professano la religione islamica (gli immigrati sono in tutto 18mila). Dal calcio al rugby, le squadre nate in carcere: quando lo sport è libertà di Lorenzo Longhi Avvenire, 29 dicembre 2016 Si moltiplicano le squadre nate in carcere e che ora partecipano a campionati regolari, andando perfino in trasferta. Imparando a confrontarsi con la società "fuori". Un allenamento del Giallo Dozza, la squadra di rugby dell’omonimo carcere bolognese. Fuori, in questo contesto, è una parola che va oltre l’ordinario. Fuori è ciò che era prima, è il passato ma non necessariamente è il futuro. Ecco perché, nelle scorse settimane, l’eccezionalità del termine stava proprio nella sua accezione classica: un test match da giocarsi presso il campo di via del Gomito a Bologna - si parla di rugby - e pertanto fuori casa. Una trasferta nello sport rappresenterebbe la normalità, se il campo in questione non fosse quello interno al carcere bolognese della Dozza e la squadra ospite non fosse La Drola, il quindici nato nel penitenziario Lorusso-Cotugno di Torino, chiamato a sfidare la formazione dell’istituto bolognese, il Giallo Dozza. Una giornata unica, la prima partita (terzo tempo incluso) fra squadre costituite all’interno di due carceri. Ha vinto il Giallo - che così si chiama perché il cartellino giallo, nella palla ovale, indica l’espulsione temporanea, quella che per un certo tempo estromette i giocatori dalla mischia - ma ha soprattutto vinto l’idea, l’incontro di due progetti simili che hanno portato, grazie al sostegno della Fir, all’iscrizione delle squadre al campionato di Serie C2 federale e stanno dimostrando nel tempo la loro efficacia sul miglioramento della quotidianità all’interno dei penitenziari: "Ovale oltre le sbarre", si chiama quello di Torino, "Tornare in campo" quello di Bologna. Un singolare derby, un anticipato e inatteso regalo di Natale. Lo sport ha il potere di cambiare il mondo, ripeteva Nelson Mandela - che l’alienazione della detenzione l’ha conosciuta a lungo - e, di sicuro, all’interno di mura, cancelli e sbarre, modifica percezioni e prospettive. Torino ha rappresentato un progetto pilota, Bologna ha seguito la rotta e, siccome ciò che è bene per i detenuti è bene per l’intero penitenziario e, in termini rieducativi, per la società una volta che si troverà a reinserire chi ha scontato la pena, un giorno la direzione della Dozza ha deciso di riunire i compagni di squadra nella medesima sezione dell’istituto. Per creare condivisione, per favorire l’armonia, perché nella eterogeneità di storie personali comunque segnate dal dolore, imposto e ricevuto, l’umanità è un segno di coraggio. Il rugby in questo senso ha portato i suoi valori e le sue regole ad incidere positivamente in microcosmi complessi e difficilmente immaginabili dall’esterno. Instilla rispetto e favorisce l’integrazione, e non è un concetto banale considerando che la convivenza forzata e ristretta generalmente non porta alla condivisione, ma alla nascita di gruppi e clan. Lo ha raccontato bene Antonio Falda, in un libro intitolato Per la libertà. Il rugby oltre le sbarre (Absolutely Free): i benefici si sono potuti apprezzare appunto a Torino come a Bologna, a Frosinone come a Bollate, a Firenze come a Monza. Non è un caso. E se il rugby ha portato frutti insperati, per la sua specificità e per come sublima l’aggressività sul campo, lo sport in tutte le sue declinazioni aiuta l’ambiente delle carceri a ricercare quello spirito di rinascita e redenzione che dovrebbe essere alla base della detenzione. E lo sport, dove regole, limiti e disciplina sono finalizzate ad uno scopo e influiscono sull’interpretazione di ogni realtà, ha un impatto a livello individuale e sociale fortissimo per fornire una seconda opportunità a chi è incappato nel cartellino giallo che l’ha estromesso dalla possibilità di essere una persona libera. Una ulteriore chiave è nell’agonismo, nel coinvolgimento di figure esterne, perché sono questi i progetti che stanno funzionando maggiormente. Avere un obiettivo, quello del risultato, costringe al gioco di squadra quotidiano anche nelle ore di reclusione: è ciò che, attraverso il calcio, sta accadendo al carcere delle Sughere di Livorno, dove la squadra Liberi Dentro da un anno ormai disputa un torneo cittadino. Li allena Paolo Stringara, ex calciatore di Bologna e Inter, anima dell’idea. Anche qui la differenza è nei volti, nella particolarità dell’evento: entrano in carcere le squadre avversarie e così, in campo, per i detenuti-atleti esiste la possibilità di tornare in contatto con una parte del mondo che è rimasto fuori, di risocializzare, di riattivare la consapevolezza che esiste un oltre, che c’è qualcosa d’altro. È l’esatto opposto dell’estremo rigore punitivo di chi vorrebbe la vita all’interno di un penitenziario paragonabile a un inferno. Perché emarginare è l’esatto contrario di rieducare. Dove oggi entrano le federazioni e i finanziamenti dello stesso Coni attraverso il progetto "Sport in carcere", realizzato in collaborazione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia e che sta interessando gli istituti di Opera, Como, Padova, Solliciano, Trani, Secondigliano, Bari e delle Marche, già da tempo erano attivi gli enti di promozione sportiva ad attuare programmi autofinanziati, in accordo con le direzioni delle case circondariali. Da anni, ad esempio, ogni settimana due squadre della categoria Open del Csi Milano si trovano a giocare a San Vittore e nel carcere di Monza e, a macchia di leopardo nei penitenziari i cui spazi - perché di frequente è anche una questione banalmente ma irrimediabilmente logistica, essendo le strutture italiane vetuste e cronicamente prive di fondi - lo consentono, si può verificare come le iniziative sportive siano state introdotte proprio grazie ai loro sforzi. Pallavolo, corsa, pallacanestro, persino il pugilato: da Sassari a Cremona, dalla Cagnola di Lodi alle carceri minorili del Pratello a Bologna o di Nisida, dove Fondazione Milan ha finanziato un percorso formativo per allenatori riservato ad alcuni ragazzi ospiti della struttura. Sono solo alcuni dei tentativi, più o meno riusciti, certo mai negativi. Dopo tutto, in questi casi il gioco - letteralmente - non solo vale la candela, ma è anche uno dei pochi modi per non far spegnere la fiammella di un domani diverso per chi, oggi, un futuro non ce l’ha. "La riforma del processo penale si farà", la "promessa" del guardasigilli Orlando di Giacomo Losi Il Dubbio, 29 dicembre 2016 "Penso che abbiamo a portata di mano la possibilità di approvare la riforma del processo penale che da quasi tre anni viaggia da un ramo all’altro del Parlamento. C’è poi la possibilità di portare a compimento la riforma della giustizia civile". Dopo lo stop "imposto" da Renzi in periodo pre-referendario, il ministro della giustizia Orlando rilancia la riforma della giustizia. "Penso che abbiamo a portata di mano la possibilità di approvare la riforma del processo penale che da quasi tre anni viaggia da un ramo all’altro del Parlamento. C’è poi la possibilità di portare a compimento la riforma della giustizia civile". Dopo lo stop "imposto" da Renzi in periodo pre-referendario, il ministro della giustizia Orlando rilancia la riforma della giustizia. Una frenata che allora fu dovuta da un duplice timore. Da un lato Renzi era spaventato dalle possibili defezioni a Palazzo Madama di Ncd e verdiniani; dall’altro dal possibile attacco dei Cinque Stelle su due punti chiave del ddl, intercettazioni e prescrizione. Era chiaro a tutti, infatti, che i grillini avrebbero sparato in modo istantaneo contro un provvedimento che allunga sì i tempi del processo, ma che dal loro punto di vista sarebbe sempre troppo "generoso con i corrotti". Il tutto in piena campagna referendaria, quella sulla quale l’allora premier si giocava tutto. Ma questa è acqua passata e se a palazzo Chigi, ora, c’è un nuovo inquilino a via Arenula c’è sempre Orlando, il quale ha tutta l’intenzione di portare a casa la riforma. Il ministro ha infatti sottolineato che "il referendum ha dato un segnale che in qualche modo interrompe il senso della legislatura" e quindi occorre "cercare di completare più che di aprire nuovi versanti". Nell’ambito della giustizia ci sono "alcune questioni che sono rimaste aperte e che hanno trovato un orientamento comune. Si tratta di chiuderle per completare un percorso avviato tre anni fa", ha aggiunto Orlando. Poi il ministro ha rivendicato il lavoro fatto fin qui. Sia sulla giustizia che sul carcere: "In entrambi i campi siamo già intervenuti con qualche risultato e qualche miglioramento che verrà reso noto con le statistiche che consegneremo con l’apertura del nuovo anno giudiziario". Ma il ministro è intervenuto anche sugli altri temi in agenda in questi mesi. A cominciare, naturalmente, dalla legge elettorale: "Il Pd resterà compatto, lo posso dire con cognizione di causa perché sono tra i pochi che si è espresso contro l’ipotesi della reintroduzione del Mattarellum". Ma dal momento in cui "il partito sta seguendo il principio di maggioranza, io mi rimetterò alla valutazione della maggioranza del partito e dei gruppi". Però ha osservato il ministro - "bisogna vedere se diventerà la proposta del Paese perché la legge elettorale va fatta con il confronto con le altre forze politiche e con le principali opposizioni" e al momento sono state espresse "delle riserve" sul Mattarellum. "Credo che sarà utile nelle prossime settimane avere un confronto alla luce del sole dove ciascuno sia assuma le responsabilità anche in un confronto politico trasparente in vista di una rapida approvazione della legge elettorale", ha concluso Orlando. Tso, Radicali Italiani incontra il Garante nazionale dei detenuti su proposte riforma radicali.it, 29 dicembre 2016 "Il Garante abbia un ruolo in procedura applicazione Tso". Si è svolto oggi a Roma un incontro tra Radicali Italiani e il Collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone in condizioni di restrizione della libertà personale. Al centro dell’incontro le prospettive di riforma della procedura di applicazione del trattamento sanitario obbligatorio, in direzione di un aumento della tutela dei pazienti e della previsione di un ruolo dello stesso Garante Nazionale, secondo le linee di intervento di cui Radicali Italiani è portatore. "Ringraziamo il Presidente Palma e le dottoresse Rossi e De Robert", dichiarano il segretario di Radicali Italiani Riccardo Magi e il tesoriere Michele Capano. "Il Collegio, come da mandato normativo, estende il suo ruolo alla verifica non solo delle condizioni di internati e detenuti, ma anche dei migranti ristretti nei Cie e da rimpatriare, come delle migliaia di persone che, pazienti psichiatrici, sono sottoposti a misure di sicurezza o al Tso. L’efficacia di questa attività di monitoraggio risiede anche nella capacità di "fare rete" con i Garanti Regionali: occorre dunque che per un verso Liguria, Basilicata e Calabria - che mancano all’ appello - si dotino finalmente della figura, per l’altro che tutte le Regioni intendano il ruolo come relativo non ai soli detenuti, ma alla generalità delle persone in condizioni di restrizione della libertà personale. Abbiamo proposto al Garante un’ "anagrafe" dei luoghi di restrizione, affinché anche l’arcipelago di strutture sanitarie e socio-sanitarie dove i pazienti psichiatrici si trovano in condizione di "libertà vigilata" siano noti, controllabili, visitabili", concludono Magi e Capano. Indici generici per il "caporalato" di Daniele Piva e Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2016 A distanza di cinque anni dall’introduzione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (avvenuta con il Dl 138/2011) risultano poche decine le iscrizioni presso le Procure della Repubblica e nemmeno una decina i processi pendenti in fase dibattimentale. A fronte di circa 400mila casi di illeciti denunciati dalle organizzazioni sindacali. Sarebbero sufficienti questi dati a giustificare la necessità di una riforma della normativa, a cui va aggiunto che, prefigurando un illecito proprio dell’intermediario, tendenzialmente era stata esclusa la responsabilità del datore di lavoro quale mero utilizzatore delle prestazioni ed erano stati lasciati privi di tutela i lavoratori sfruttati ma non reclutati da un caporale, se non irregolari (in quest’ultimo caso scattano la reclusione e la multa previsti dall’articolo 22, comma 12 bis del Dlgs 286/1998). Tuttavia, nel confezionare il nuovo articolo 603 bis del Codice penale, in vigore dal 4 novembre, la legge 199/2016 anziché impegnarsi in una definizione del concetto di sfruttamento (o anche dello stato di bisogno del lavoratore di cui occorre approfittarsi) si è limitato ad ampliarne gli indici, in modo da alimentare i profili di indeterminatezza dei reali confini dell’incriminazione. Tra le novità si segnalano, in particolare: la reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi da quanto stabilito nei contratti collettivi territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale; invece di violazioni sistematiche in materia di retribuzione e quelle relative a orario di lavoro, aspettative e ferie, sono sufficienti quelle semplicemente reiterate, nonché sono estese a ogni periodo di riposo e non solo a quello settimanale; il mancato rispetto delle norme sulla sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro che rileva non è più solo quello che espone il lavoratore a pericolo per la salute, sicurezza o incolumità personale, ma qualunque violazione; quanto alla collocazione dei lavoratori in alloggi particolarmente degradanti si è soppresso quest’ultimo avverbio, con conseguente ampliamento di tale condizione. Ora, si tratterà pure di indici di "orientamento probatorio" per il giudice e non di elementi costitutivi del reato in senso stretto, ma è su di essi che risulta oggi fondarsi, peraltro in via alternativa, il vero ago della bilancia della punibilità, ormai svincolata dai riferimenti all’organizzazione dell’attività lavorativa e soprattutto alle condotte di violenza, minaccia o intimidazione (queste ultime degradate a mere circostanze aggravanti in base all’articolo 603 bis del codice penale) tali da imporre l’arresto in flagranza ed essenzialmente rimessa alla discrezionalità del giudice. A fronte del nuovo quadro normativo, ci sono diverse situazioni da mettere a fuoco: quella dell’imprenditore che, magari del tutto occasionalmente, incorre in uno di tali indici; quella di chi ricorre ad agenzie di somministrazione del lavoro; quella del committente in caso di appalto d’opera o di servizi. La prima situazione potrebbe astrattamente rientrare negli indici non caratterizzati dal requisito della reiterazione (sussistenza di violazioni antinfortunistiche o sottoposizione a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o condizioni di alloggio degradanti). Tuttavia dovrebbe risultare estranea all’ambito di applicazione del caporalato laddove, per esigenze di coerenza evidentemente connesse al principio di uguaglianza, si estenda il tratto della "abitualità" a tutti gli indici di sfruttamento in modo da circoscrivere davvero l’intervento penale a veri e propri "modi illeciti di produzione". Quanto alle altre due situazioni segnalate, occorre soffermarsi sul significato della condotta di utilizzazione indicata all’articolo 603 bis, comma 1, numero 2: chi assume o impiega manodopera sarebbe, infatti, pur sempre il somministratore o l’appaltatore, ma chi poi la utilizza potrebbe risultare chi incamera il prodotto risultante dal lavoro altrui, con conseguente ampliamento della platea dei soggetti penalmente responsabili. Per evitare tale estensione, con potenziale pregiudizio per la stessa economia e redditività delle imprese, non resterebbero allora che due possibilità: limitare la rilevanza dell’utilizzazione a quella diretta (ovvero senza alcuna intermediazione altrui) oppure, trattandosi di delitto, richiedere una prova rigorosa del dolo, applicando la pena solo ogniqualvolta, tenendo conto dei relativi indici rivelatori, si dimostri che il soggetto non si è certo limitato a omettere di controllare o di informarsi sulle effettive condizioni dei lavoratori, ma avrebbe fatto ricorso a quella agenzia di somministrazione o a quell’appaltatore ove anche avesse saputo che si trattava di prestazioni rese mediante lavoratori impiegati in condizioni di sfruttamento approfittando del relativo stato di bisogno. Sta di fatto che, al di là dei buoni propositi del legislatore, la palla torna inevitabilmente nelle mani dei giudici, con buona pace del principio costituzionale di determinatezza della fattispecie penale. Vicino ai 90 anni e afflitto da patologie serie: eccessivo il carcere La Stampa, 29 dicembre 2016 Condannato per mafia e per omicidio. Destinato a rimanere per sempre in carcere. Ma la sua età e le gravi patologie che lo affliggono da tempo rendono la detenzione una punizione eccessiva. (Cassazione, sentenza n. 54446, depositata il 21 dicembre 2016). Umanità. Respinta dal Tribunale di sorveglianza la richiesta di un detenuto - classe 1928 - finalizzata ad ottenere "il differimento dell’esecuzione della pena". L’uomo, condannato "a cinque anni e quattro mesi di reclusione per associazione mafiosa" e "all’ergastolo per omicidio", deve continuare a rimanere in carcere, quindi, nonostante la sua anzianità e il lungo elenco di patologie che ne minano la mente e il corpo. Questa decisione viene però messa seriamente in discussione dai magistrati della Cassazione. Da tenere in considerazione, difatti, l’affermazione fatta dall’uomo: "Ormai sono ridotto a fine corsa". A dare peso a queste parole, sia chiaro, le "relazioni" redatte da diversi medici: da quei documenti emerge "il deterioramento fisico e neurologico" del detenuto, deterioramento in continuo sviluppo anche "a causa dell’età (87 anni)" dell’uomo. A fronte di questo quadro appare "non ammissibile", secondo i magistrati, "mantenere in carcere una persona che non è in grado di percepire il senso stesso della detenzione". E in questo caso, peraltro, "la detenzione" pare caratterizzata da "una sicura prognosi di morte" e va valutata come "contraria al senso di umanità". Diffamazione online: il legale rappresentante concorre nel reato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2016 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 27 dicembre 2016 n. 54946. Il legale rappresentante della società che gestisce un sito Internet risponde di concorso nella diffamazione se, a conoscenza del commento lesivo, non si adopera per farlo rimuovere. La Corte di cassazione (sentenza 54946) respinge il ricorso dell’amministratore della Srl gerente del sito agenziacalcio.it, sottoposto a sequestro preventivo, per aver pubblicato un commento nel quale il presidente della Lega nazionale dilettanti della Federazione italiana Gioco Calcio, Carlo Tavecchio, veniva definito "emerito farabutto" e "pregiudicato doc", con tanto di certificato penale allegato. Secondo l’imputato la sentenza con la quale la Corte d’Appello lo aveva condannato, ribaltando l’assoluzione in primo grado, era contraddittoria. La Corte territoriale, infatti, pur avendo riconosciuto che l’autore aveva inserito autonomamente il commento nella community del sito, lo aveva ritenuto responsabile per il solo fatto di aver ricevuto una mail con il certificato penale di Tavecchio, inviata proprio dall’autore del pezzo "incriminato". I giudici, sempre secondo la difesa, non avevano tenuto conto che il ricorrente in quel periodo si trovava in vacanza all’estero e non aveva accesso al sito nè aveva letto la posta elettronica. Per la Cassazione però la Corte territoriale aveva correttamente motivato e giustamente fatto pesare degli elementi sottovalutati in primo grado. Il ricorrente, pur avendo ricevuto nella suo indirizzo mail il certificato penale della parte lesa, ed essendo dunque a conoscenza della pubblicazione del commento, lo aveva lasciato online per due settimane, consentendo così che l’articolo "esercitasse l’efficacia diffamatoria". Al protrarsi degli effetti del reato si era posto fine solo grazie al sequestro preventivo del sito. Per la Suprema corte la versione dell’imputato, che si diceva all’oscuro delle pubblicazione fino al momento in cui era stata messa in atto la misura cautelare preventiva, era smentita dai fatti. Oltre che dall’invio della mail, la conoscenza era confermata anche da un articolo a firma dello stesso imputato, pubblicato prima del sequestro, dal titolo "chiedere se Tavecchio è stato eletto legalmente è diffamazione". In questo pezzo, oltre ai collegamenti al certificato penale di Tavecchio, c’era la risposta ad una comunicato della Federazione italiana Gioco calcio, con la quale si affermava che, dopo la pubblicazione dell’articolo poi considerato diffamatorio, era dovere del sito fornire un’informazione senza censure sui motivi di ineleggibilità di Tavecchio. Il tutto giustificato da un’esigenza di coerenza con i contenuti di una campagna decisamente critica condotta dal sito nei confronti della parte lesa. Per la Cassazione il generico riferimento fatto dall’imputato alla sua vacanza all’estero, non prova l’impossibilità di intervenire per assumere le iniziative necessarie a mettere fine alla condotta diffamatoria. Tenuità del fatto applicabile alla detenzione di materiale pedopornografico di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2016 Cassazione - Sezione III - Sentenza 28 dicembre 20216 n. 54996. La particolare tenuità del fatto è applicabile anche al reato di detenzione di filmati a contenuto pedopornografico. La Cassazione, con la sentenza 54996 depositata ieri, accoglie il ricorso di un ragazzo condannato per aver detenuto video e filmati pedopornografici. Una condotta iniziata quando aveva 15 anni ma che si era protratta fino ai 24 anni di età e cessata solo per effetto del sequestro del materiale. La Suprema corte, pur confermando la condanna per il reato previsto dall’articolo 600 quater del Codice penale, rinvia alla Corte d’appello accogliendo la tesi della difesa che contestava il "no" all’applicazione dell’articolo 131-bis, che consente di evitare la pena per la particolare tenuità del fatto. Per la Cassazione, infatti, i giudici di merito hanno negato l’applicazione del beneficio, sulla base di una gravità del reato non meglio qualificata, senza considerare i parametri della legge e gli argomenti della difesa. Dalla parte del ragazzo, pur essendo in presenza di un reato permanente, c’era soprattutto "l’età evolutiva" nella quale era iniziata la detenzione: 15 anni. Per la Cassazione dunque il reato c’è ma non si può escludere a priori la non punibilità. La Suprema corte respinge invece il ricorso per la parte in cui si affermava la competenza del tribunale minorile. I giudici della Terza sezione penale ricordano che il reato permanente è inscindibile e anche se questo è iniziato nel corso della minore età, la decisione spetta comunque al tribunale ordinario se la condotta si è protratta anche dopo che l’imputato è diventato maggiorenne. Extracomunitari, i figli non salvano dall’espulsione il papà poco presente di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2016 Corte di cassazione - Sezione VI civile - Ordinanza 28 dicembre 2016 n. 27272. L’extracomunitario non può chiedere di essere autorizzato a restare in Italia per accudire i figli minori se si è sempre disinteressato di loro. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, ordinanza 28 dicembre 2016 n. 27272, bocciando il ricorso di un cittadino tunisino perché non ricorrevano quelle particolari condizioni che autorizzano una deroga alla leggi sull’immigrazione a tutela dell’interesse dei minori. Il ricorrente si era rivolto al Tribunale dei minorenni, con ricorso ex articolo 31 del Dlgs 286/1998, in quanto padre di tre bambini nati a Reggio Emilia tra il 1999 e il 2006. L’autorizzazione richiesta gli venne però negata in quanto, per un verso, i Servizi sociali non erano stati in grado di contattarlo, per l’altro, la madre aveva dichiarato che egli aveva avuto "solo sporadici incontri con i figli e non si era mai fatto carico delle loro esigenze". Inoltre, il ricorrente aveva "numerosi e gravi precedenti penali anche recenti". Proposto ricorso, la Corte di appello lo ha bocciato perché secondo la nuova Relazione dei servizi doveva "escludersi quella situazione di continuativo accudimento e costante cura dei minori che costituisce il presupposto per il riconoscimento dell’autorizzazione ex art. 31 a permanere in Italia per evitare i gravi danni derivanti al minore dalla separazione dai genitori". Fra l’altro era emerso che il ricorrente per un lungo periodo non aveva mai visto i figli, "dapprima perché rientrato per una decina di anni in Tunisia e poi a causa della detenzione conseguita ai gravi reati commessi". A questo punto la questione è stata riproposta in Cassazione, dove è arrivata in Camera di consiglio con un Relazione favorevole al richiedente in quanto il giudizio di secondo grado si sarebbe incentrato "esclusivamente sul comportamento del ricorrente" senza indagare "l’impatto dell’allontanamento del padre sui minori". Il Collegio però ha bocciato questa ricostruzione, affermando che dalla "storia personale" del ricorrente, come riportata dalla sentenza di appello, emerge la "inesistenza di una situazione di continuativo accudimento e costante cura dei minori". Quanto invece alla adombrata prospettiva di un recupero del suo ruolo genitoriale, prosegue la sentenza, "la Corte di appello, con una valutazione di merito non censurabile, ha ritenuto non trattarsi di una situazione tutelabile, ai sensi dell’art. 31, perché, alla stregua della giurisprudenza di legittimità, deve ricorrere a tal fine una situazione non di lunga durata, né tendenzialmente stabile, e capace - se interrotta - di provocare eventi traumatici e non prevedibili che trascendono il normale disagio del minore causato dal rimpatrio del familiare". I criminali che diventano terroristi di Fabio Nicolucci Il Mattino, 29 dicembre 2016 Sono usi alla violenza privata e a comportamenti asociali. Si finanziano e vivono con espedienti illegali Sono immersi in un anti-Stato e con esso intrattengono rapporti funzionali e organizzativi. Si sentono rifiutati dalla società e di questo fanno la propria identità. Sono terroristi o criminali? Fino ad Al-Qaida la risposta a questa domanda sarebbe stata "criminali", perché il profilo del terrorista tipo era molto diverso Non si trattava di un escluso appartenente alle classi medio-basse, bensì medio-alte. Non di un individuo privo di propria capacità di orientamento socio-politico, bensì mediamente colto, almeno dal punto di vista storico-religioso. Ma oggi quella che ieri era un’ alternativa - o terrorista o criminale diviene con il terrorismo del’Isis una identificazione. Sono terroristi e criminali. Anzi criminali che diventano terroristi. Il caso di Anis Amri da questo punto di vista è in parte un’eccezione, perché anche il suo avere comportamenti asociali e violenti è relativamente recente, essendo in Europa da poco come migrante e non un mussulmano europeo di seconda generazione. Per il resto però, il suo profilo è coerente non con quello di Mohammed Atta - l’architetto egiziano colto e ben inserito in Germania, che per Al-Qaida guidò uno degli aerei dell’11 settembre nella Torre Nord del Trade World Center - bensì con quello di più recenti stragisti in nome dell’Isis. Per esempio con quello di Mesa Hodzic, il 25enne danese di origini bosniache che dopo un passato da spacciatore lo scorso 31 agosto a Copenaghen ha sparato ad un poliziotto durante un controllo, e che dopo la sua uccisione da parte della polizia è stato salutato dall’Isis con la consueta formula di "soldato". Oppure a quello di Ali Almanasfi, un londinese di origini siriane che si volse al jihadismo dopo esser stato condannato per atti gravi di teppismo su un vecchietto. Oppure a quello di Abderrozak Benarabe, un danese di origini marocchine che - dopo un lungo passato di gangster e di spaccio e dopo 11 anni in prigione dei suoi 38 - avendo saputo del cancro che aveva colpito il suo amato fratello minore cercò un senso e una "redenzione" nel diventare prima jihadista e poi foreign fighter in Siria. Come per Omar Al-Husseini, che uccise due persone davanti una Sinagoga a Copenaghen nel febbraio del 2015, anche per Anis Amri il luogo decisivo di questa scelta sembra esser stata la prigione e i suoi 4 anni di carcere all’Ucciardone. Un luogo dove spesso iniziano questi tipi di processi di radicalizzazione, anche se il soggetto radicalizzato poi lo prosegue e completa - spesso a cura diretta o indiretta dell’Isis - nell’ambiente criminale da dove proviene. Del resto, al contrario di Al-Qàida organizzazione nata in ambienti benestanti per reazione ad una globalizzazione che non li vedeva inclusi e vincenti - l’Isis conosce così bene questo tipo di reclutamento e questo mondo, perché essi sono parte del proprio Dna. L’Isis nasce infatti nell’Iraq del dopo 2003 nel contatto tra generici jihadisti e feroci ex baathisti, esperti di lotta militare ma in cerca di un vestito religioso. Ed è proprio a Camp Bucea - la più grande prigione Usa in Iraq, conosciuta non a caso anche come "L’Accademia" da parte dei jihadisti - che Izzat Ibrahim Ai-Duri (il Rè di Fiori del mazzo di carte Usa dei più ricercati dopo l’intervento del 2003) prende sotto la sua ala il giovane filo-jihadista Abu Bakr Al -Baghdadi e lo trasforma nel Califfo, facendo della sua sino ad allora sghangherata banda la Munazzama ad-Daula Al-Islamiya fi Iraq uà ash Shams ("l’organizzazione dello Stato Islamico in Iraq e Levante", ndr). Già da allora la prigione fu levatrice, e le conoscenze militari e criminali degli ex baathisti abbastanza indistinguibili. Tutto questo ha indirizzato le azioni terroristiche in Europa e in occidente dello Stato Islamico. Non per dire che la mente e l’ideologia della sua più alta dirigenza non siano - proprio come quelle di Al-Qaida - dottrinariamente imbevute di Isiam politico salafita e radicale. Perché lo sono, tanto da citare solo il Corano e i due più saggi tra le fonti (in arabo i "sahihaini") come referenze, e per questo sbagliò Obama quando qualche anno fa definì l’Isis "non islamico". Ma per dire che al contrario di Al-Qàida il suo reclutamento si indirizza verso persone in crisi di identità e pronte già alla violenza, non per prima indottrinarle e poi arruolarle, bensì per usarle in una strategia di "lupi solitari" 2.0. A cui dunque si fornisce una nuova identità sociale, prima che delle armi. Del resto, i criminali le armi sanno come procurarsele, come usarle, e conoscono perfino come agire sotto pressione. Conoscono le tattiche della polizia, e reggono meglio di un neofita molto religioso la pressione degli eventi, oltre che l’oltrepassare la soglia della violenza contro altri simili. I criminali sanno pure come reperire le non molte risorse necessarie per compiere questo tipo di attentati da solitari o comunque non strutturati in cellule precostituite, visto che il 40% di questi attentati in Europa è stato finanziato attraverso piccole rapine o truffe e i tre quarti di essi sono costati meno di 9mila euro. E se il bacino a cui si rivolgono i "reclutatori virtuali" nel senso di "non prossimità" dell’Isis è quello di giovani adusi a comportamenti criminali e/o violenti in cerca di identità nuove di zecca, non è un problema per l’Isis il fatto che le ottengano attraverso comportamenti non religiosi anche nell’autofinanziamento. È pronta infatti una "rilettura" del Corano in questo senso, come spiegava prima di essere abbattuto da un drone Usa nel2011Anuaral-Aulaki, affermando che "rubare agli infedeli" è una vera e propria "ranima" (arabo per "bottino di guerra", ndr). Rileggendo il versetto 69 della Sura 8 "Al-An- fal" (il Bottino) come; "usufruite delle spoglie di guerra. Esse sono legali e pure". Mentre la lettura dell’Isiam non radicale è invece: "usufruite di ciò che è spoglie di guerra legali e pure". Una piccola differenza nell’interpretazione, che porta ad una grande differenza nel suo uso politico. Anche su questo piano è dunque necessario ingaggiare la controffensiva al jihad globale, favorendo nelle carceri la frequentazione dei detenuti che lo chiedano con Imam non estremisti, che magari sappiano riconoscere ed indicare quando una conversione è solo una auspicata conversione e quando essa è invece una radicalizzazione. Se dunque occorre analizzare la miscela esplosiva che costituisce la minaccia jihadista in Europa oggi, sembra che abbia ragione più Olivier Roy a dire che è più una "islamizzazione della violenza" che Gilles Kepel nel rilevare una "radicalizzazione della religione". Che dunque la base principale del reagente jihadista sia l’alienazione sociale più che un credo religioso, per quanto estremo. Ma anche questa complessità della questione non è una buona notizia per noi. Perché per la sua soluzione ci invita a guardare non solo verso le desertiche e piagate lande mediorientali dello Stato islamico, ma anche verso il nostro interno di società con molte contraddizioni. Guerra al terrorismo. Chiudere le moschee… o chiudere le carceri? di Gabriele Arosio glistatigenerali.com, 29 dicembre 2016 Dove dunque viene ucciso l’attentatore di Berlino Anis Amri? Nella città dove sta per sorgere una grande moschea: 4 mila posti, ristorante, caffetteria, biblioteca. A Milano no, ma a Sesto san Giovanni sì. Per molti è scattata immediata l’idea che complici e appoggi devono essere cercati nell’ambito dei frequentatori della moschea. La soluzione al terrorismo infatti è dietro l’angolo, come non vederla: chiudere le moschee. E se invece il problema andasse cercato nella biografia di Amri? In quei quattro anni passati nelle carceri italiane? Da tempo è chiaro a molti che l’affiliazione al terrorismo passa proprio da qui. Il progetto migratorio di uno straniero, in una situazione di detenzione, conosce un fallimento. Destina alla privazione affettiva, alla solitudine, all’incomprensione del complesso meccanismo della giustizia e dei regolamenti carcerari. È frequente l’esplodere di stati depressivi, aggressivi e auto-aggressivi. La propria identità, la propria collocazione nella società ospitante, il proprio futuro, tutto viene messo in forte discussione. Facilmente nascono e si sviluppano meccanismi di rifiuto e di resistenza all’integrazione. L’incontro con altri elementi radicalizzati spesso diventa l’occasione per l’acquisizione di un modello "forte" di identità che consente di superare molte difficoltà. Ad oggi nelle carceri italiani più di un detenuto su tre è musulmano. Nel 2012 i ministri di culto musulmani autorizzati dal Ministero degli Interni non superavano le ventinove unità. A questi tuttavia devono essere aggiunti coloro che negli istituti decidono spontaneamente (e non sempre con comprovate competenze) di ricoprire questo ruolo in un contesto così delicato. In questa situazione, la necessità di strutturare percorsi formativi per imam da impiegare nelle carceri è evidente e urgente. Una risposta politica a questa esigenza sembra essere rappresentata dal Consiglio per i rapporti con l’islam italiano, istituito nel gennaio del 2016. Presieduto dal Ministro dell’Interno, ne fanno parte docenti ed esperti della cultura e della religione islamica. Siamo ai primi passi in tema di tutela del diritto alla libertà religiosa per i credenti musulmani in carcere e ciò appare davvero un ritardo molto grave. Mancano del tutto progetti di rielaborazione di accompagnamento di detenuti musulmani che consentano approfondimenti della propria cultura di origine e di incontro con espressioni culturali e religiose di altri mondi, per imparare a riconoscere i valori comuni di umanità che caratterizzano ogni espressione culturale. Non mancano i pionieri. A Bologna nel carcere della Dozza opera con i suoi corsi da qualche anno padre Ignazio de Francesco, rientrato in Italia dopo una permanenza di anni in Medio Oriente. Proprio a partire dalla sua presenza è stato possibile girare un documentario, fatto direttamente con i detenuti, dal regista Marco Santarelli, Dustur (2016), "costituzione" in arabo. Il lavoro è stato costruito come un viaggio dentro e fuori il carcere seguendo due storie: quella dei detenuti musulmani impegnati in un corso scolastico sulla Costituzione italiana e quella di Samad, giovane marocchino ex detenuto dell’istituto penitenziario bolognese. All’indomani dell’attentato di Berlino, Paolo Branca, docente di letteratura araba all’Università cattolica di Milano e da anni impegnato come volontario nelle carceri ha dichiarato: "pochi mesi fa, una circolare del Ministero della Giustizia chiedeva alle università di fornire personale che parlasse arabo per intervenire nelle prigioni a titolo di volontariato. Se non fosse tragico, ci sarebbe da ridere. Nei centri per minori non accompagnati non va meglio. Potrei continuare la lista di negligenze inconcepibili. Per ora, in Italia il fenomeno dei foreign fighters è fortunatamente limitato, ma cullarsi nell’illusione di essere immuni da ciò che succede in altri paesi europei è da irresponsabili". Cagliari: Comunità "La Collina" senza soldi, i ragazzi ospitati rischiano il carcere cagliaripad.it, 29 dicembre 2016 "Sto perdendo gli operatori perché dalla Regione da nove mesi non arrivano i soldi: i ragazzi torneranno in carcere". È l’appello disperato di don Ettore Cannavera, fondatore e anima della comunità La Collina a Serdiana, la struttura che offre ospitalità ai ragazzi sino ai 25 anni, come misura alternativa alla detenzione. "Questa comunità è nata 22 anni fa - ha spiegato il sacerdote - con finanziamenti regionali, ed è andata bene a tutti. Che cosa facciamo? C’è un ragazzo da noi che lavora, si è fidanzato. Da gennaio lo rimandiamo in carcere?". La situazione, tradotta in numeri, è questa: "La comunità - sintetizza don Cannavera - aveva sette operatori e ora, siccome non ci sono più gli stipendi, ne ha solo due. Attualmente sono rimasti quattro ospiti. Ma la comunità ha già detto no a tante richieste. E qualche ragazzo ha già dovuto lasciare La Collina. È assurdo: un giovane qui costa trenta euro al giorno perché vive del suo lavoro". Quanto serve? Duecentomila euro. I fondi erano stati stanziati da marzo nella Finanziaria. "Ieri - ha precisato don Ettore - è arrivata dalla Regione una comunicazione: i soldi arriveranno. Sì, ma quando? Noi non lo sappiamo". Non soltanto attività di recupero, la comunità è diventata anche centro culturale e polo di aggregazione per il territorio: è casa editrice e redazione di una rivista. "Siamo contro le carceri minorili - ha sottolineato il sacerdote - noi dobbiamo dare altre risposte, non si educa senza libertà. Da noi sono arrivati 72 ragazzi, 12 condannati per omicidio. In 160 sono venuti per i permessi premio". Conclusione: "Io non voglio mollare - ha affermato - vogliamo solo fare opera di sensibilizzazione perché vogliamo andare avanti". Cagliari: niente fondi "rimandiamo in cella gli ospiti della Comunità La Collina" di Luigi Almiento L’Unione Sarda, 29 dicembre 2016 La Regione si scusa: "Soldi in arrivo". La Collina chiude e rimanda a casa tutti i detenuti condannati per reati commessi quand’erano minorenni. Il fulmine a ciel sereno, che si abbatte sulla comunità di recupero di Serdiana fondata e diretta da don Ettore Cannavera, ha un mittente preciso: parte da viale Trento, cioè dalla Regione, che prima ha deliberato in Giunta e in Consiglio il finanziamento da duecentomila euro per pagare le basse paghe dei sette operatori, salvo poi non firmare la determina per il pagamento. "Evidentemente vogliono che chiudiamo", commenta don Cannavera, "e noi lo facciamo: non abbiamo altra scelta. Gli operatori hanno famiglie da sfamare e non sono pagati da molti mesi. Ora rimandiamo in carcere i sette detenuti che ci sono affidati, avvertendo che nelle celle c’è una recidiva del 70 per cento, a La Collina appena del 5 per cento, mentre il costo giornaliero di un detenuto in carcere è molto superiore rispetto a quanto si spende a La Collina". Durante la video-intervista abbiamo chiesto a don Cannavera che cosa, secondo la sua impressione, impedisce il pagamento dei duecentomila euro a La Collina. La Regione: soldi in arrivo, ci scusiamo - L’assessore della Sanità Luigi Arru ha rassicurato Cannavera sull’arrivo dei soldi e si è scusato per i disagio causato. "Entro metà gennaio del prossimo anno si procederà alla liquidazione e al pagamento della somma dovuta: 190.584 mila euro", ha spiegato Arru in una nota. "I ritardi ci sono stati, e ce ne scusiamo, ma non è mai venuta meno l’attenzione e considerazione per quanto La Collina, e altre realtà simili, fanno quotidianamente". Poi l’assessore alla Sanità ha spiegato che cosa sta accadendo: "L’istituzione del fondo per le comunità di accoglienza e il conseguente meccanismo - più complesso del dovuto - per garanzia di stabilità e certezza delle risorse anche per gli anni a venire, ha paradossalmente causato i disagi che si è tentato di evitare e portato ai ritardi denunciati oggi da don Ettore Cannavera", ha aggiunto Arru. "Capiamo bene che i tempi della burocrazia non possono essere quelli di chi quotidianamente si spende per garantire servizi di qualità, come quelli della comunità di don Ettore". L’assessore mette subito in chiaro che attività come queste sono considerate fondamentali dalla Giunta, che proprio per questo ha voluto dare certezza e continuità ai finanziamenti loro destinati. Per farlo è stato necessario procedere con una manifestazione di interesse che ha dilatato i tempi dei pagamenti. Lo scorso 20 dicembre è stata approvata la graduatoria dei beneficiari, il 22 dicembre è stato assunto l’impegno di spesa a favore de La Collina". Lecce: detenuto morto in circostanze sospette, disposta riesumazione ed esame lecceprima.it, 29 dicembre 2016 Domani mattina presso il cimitero di San Cesario di Lecce l’ispezione cadaverica sul corpo di Antonio Fiordiso, deceduto a Taranto nel 2015. La famiglia lotta da tempo per la verità. Otto i medici indagati. È stata disposta per domani mattina alle 11 la riesumazione del corpo di Antonio Cesario Fiordiso, il giovane di San Cesario di Lecce, morto a soli 31 anni, l’8 dicembre del 2015, nel reparto di Rianimazione dell’ospedale "San Giuseppe Moscati" di Taranto. Nel carcere della Città dei due mari il giovane stava scontando un periodo di detenzione, in seguito a una rapina avvenuta a Galugnano (frazione di San Donato di Lecce) qualche tempo prima. Le circostanze precise che hanno portato in un periodo molto breve verso un grave quadro clinico, fino al decesso, non sono mai state chiarite del tutto. L’intero decorso delle condizioni di salute di Fiordiso rappresenta a tutt’oggi un mistero sul quale la famiglia lotta da oltre un anno per fare luce. Presso la sala settoria del cimitero di San Cesario di Lecce, dunque, si svolgerà una ricognizione cadaverica, durante la quale saranno probabilmente acquisti reperti per un approfondimento diagnostico. Il risultato delle analisi che ne deriverà, potrebbe essere un elemento utile a stabilire se eventualmente trasferire la salma altrove per un’autopsia vera e propria. Sempre domani, avverrà un confronto fra i vari consulenti nominati da Procura tarantina, famiglia del giovane e indagati. Sono otto, infatti, i sanitari, fra psichiatri e medici di guardia, iscritti nel registro per omicidio colposo dagli inquirenti tarantini. Per il familiari della vittima, saranno presenti l’avvocato Paolo Vinci e il medico legale Vincenzo Garzya. La Procura ha invece nominato il medico legale Alberto Tortorella e l’anestesista rianimatore Salvatore Silvio Colonna. Non si sa, ovviamente, se l’esame di domani chiarirà già tutte o almeno alcune delle circostanze legate a questa morte. Di certo, per la famiglia (e in particolare la zia del giovane, Oriana Fiordiso, che ha portato avanti la battaglia con forza per la ricerca della verità), è già un risultato importante aver ottenuto la riesumazione e l’esame sul cadavere, giacché si temeva che la vicenda fosse archiviata. Il mistero sulla morte è racchiuso in un tormentato mese. Il 31enne fu trasferito dal carcere di Lecce a quello di Taranto, con tappa intermedia nell’istituto penitenziario di Asti. In questa fase, anche vari ricoveri. Secondo la zia, che andava a trovare il nipote ogni mese, senza però vere comunicazioni con la famiglia. All’improvviso, nell’ottobre dello scorso anno, l’annuncio sconcertante: "Crollo epatico, forse per abuso prolungato di psicofarmaci". Ma ci sono anche altri aspetti da chiarire. Secondo la zia, anche gli effetti di una malnutrizione, e persino sospette lesioni cerebrali, e intercostali. La morte arrivò l’8 dicembre. Reggio Calabria: ex detenuto 60enne si suicida impiccandosi in casa strettoweb.com, 29 dicembre 2016 L’uomo aveva trascorso diversi anni in carcere. Ha deciso di dare fine alla propria vita un uomo di 60 anni, A.F., residente a Pellaro, periferia sud di Reggio Calabria. L’uomo si è suicidato impiccandosi in casa il giorno di Natale. L’uomo viveva con la famiglia, aveva precedenti penali, era stato molti anni in carcere e probabilmente per questo motivo era depresso. In corso le analisi della Procura sulla salma presso l’Ospedale, nei prossimi giorni i funerali. Cagliari: il padre è in carcere e i gemelli neonati non vengono riconosciuti La Nuova Sardegna, 29 dicembre 2016 La denuncia dell’ex consigliera regionale Maria Grazia Caligaris: l’uomo non ottiene il permesso per andare in Comune e i dipendenti comunali non hanno accolto la richiesta di recarsi nel carcere. Una coppia di gemelli, nati 26 giorni fa, non hanno ancora ricevuto il riconoscimento del padre che è detenuto nel carcere di Uta. "Paradossale situazione per i figli del detenuto. Un grave ritardo che rischia di impedire ai bambini di fruire del diritto al servizio sanitario e in particolare al pediatra", lo denuncia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme facendosi interprete del disagio della famiglia e della madre esasperata dalla burocrazia che non trova una soluzione da due settimane. "Nonostante il mio impegno e del legale Marco Lisu - spiega la donna - a 26 giorni dalla nascita non siamo riusciti ad effettuare il regolare riconoscimento. Mio marito si trova nella casa circondariale di Cagliari e ha presentato istanza per recarsi in Comune per la pratica. Non ha però ottenuto il permesso, né libero né con la scorta, e ora non sappiamo più a chi rivolgerci anche perché i funzionari del comune non hanno accolto la nostra richiesta di recarsi in carcere". "Si tratta di una condizione inaccettabile - afferma Caligaris - in considerazione delle condizioni della famiglia ed in particolare di una madre che deve gestire sei figli da sola. Forse occorre solo un gesto di buona volontà da parte delle istituzioni coinvolte. È vero che le giornate di festa riducono la presenza di personale. Ma è anche vero che si può trovare una soluzione se davvero si vuole. Chissà che il clima natalizio non aiuti a risolvere questa incresciosa situazione". Torino: problemi strutturali alle Vallette, sopralluogo di Chiamparino e Mellano di Cinzia Gatti torinoggi.it, 29 dicembre 2016 Mellano:"Rotti gli ascensori e i montacarichi del padiglione sanitario A". Prendere visione dei progetti formativi, lavorativi e scolastici per il recupero e reinserimento sociale dei detenuti. È stato questo l’obiettivo al centro della visita fatta ieri dal Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, dal presidente della Regione Sergio Chiamparino e l’assessore ai Diritti Civili Monica Cerutti alla Casa circondariale "Lorusso e Cutugno" di Torino. Nelle scorse settimane l’amministrazione regionale aveva già visitato "Liberamensa", il ristorante allestito all’interno del carcere, dove camerieri e cuochi sono i detenuti. "Siamo stati accolti dal direttore Domenico Minervini" - spiega Bruno Mellano, che prosegue - "Abbiamo visitato il padiglione B, dove vengono accolti i nuovi carcerati. Fino ad un paio di anni fa erano uno dei posti più critici, ma sono stati effettuati degli interventi di miglioramento per rendere le celle più decorose". "Inoltre", sottolinea il Garante dei Detenuti, "è stato fatto un lavoro per sgravare il numero dei presenti, distinguendo tra chi entra per la prima volta in carcere e chi invece è recidivo. Nel primo caso è stato creato un percorso di accoglienza lunga di un mese, che prevede la presa in carico dei nuovi giunti in un progetto di scuola-laboratorio che faciliti la dinamica interattiva e l’impatto con la struttura carceraria". "Abbiamo poi visitato il padiglione A", continua Mellano, "dove sono allocate le strutture mediche del reparto sanitario, al 3° piano, e del reparto sestante, al 2° piano. In quest’ultimo sono ospitati i pazienti psichiatrici". " Dal punto di vista sanitario, che è competenza della Regione, il carcere "Lorusso e Cutugno" è considerata un’eccellenza. Da quello invece strutturale, in capo a Roma, è deficitario. Negli anni scorsi pioveva dentro ed attualmente risultano rotti sia gli ascensori che i montacarichi del padiglione A". "Risulta quindi molto difficoltoso spostare i malati tra un piano e l’altro, così come trasportare il cibo". Gli amministratori hanno poi visitato la sezione Prometeo, dove sono ospitati i malati di HIV, e l’Icam, la struttura di custodia attenuata, dove sono ospitate le mamme con i bambini, raccogliendo le istanze dei detenuti. "Con questo sopralluogo, così come con la conferenza stampa che si è svolta lo scorso 23 dicembre con tutti i garanti, vogliamo mantenere alta l’attenzione sul carcere, un’eccellenza dal punto di vista professionale, ma purtroppo deficitaria dal punto di vista strutturale. Auspichiamo un intervento dal Governo centrale per permettere un salto di qualità", conclude Mellano. Lucca: "Sos volontari" per il carcere di San Giorgio di Barbara Antoni Il Tirreno, 29 dicembre 2016 Detenuti ridotti a 88 ma le attività sono poche. Allarme terrorismo: riscontrati casi a rischio. Ottantotto detenuti, di cui 49 stranieri, per la maggior parte provenienti dalla Versilia, dove sono stati arrestati per reati contro il patrimonio e legati allo spaccio di droga. Fra gli stranieri, la nazionalità prevalente è quella marocchina. Tra i detenuti ospiti, 52 sono in attesa di giudizio, mentre solo i restanti 36 hanno una condanna definitiva. Gli agenti di polizia penitenziaria sono 97 contro i 112 previsti. È l’istantanea del carcere San Giorgio come è uscita ieri dall’incontro che i parlamentari dem della provincia di Lucca (la deputata Raffaella Mariani e i senatori Manuela Granaiola e Andrea Marcucci) hanno avuto con il direttore Francesco Ruello e la garante, l’avvocato Angela Mio Pisano. Un carcere finalmente più a misura d’uomo, dopo la drastica riduzione numerica di reclusi: la popolazione carceraria del San Giorgio, dimensionato per 70 detenuti, aveva toccato in passato punte di 220 ospiti. Nelle celle dove si viveva in quattro persone, oggi si vive in due e in alcuni casi da soli. Miglioramenti tangibili, ma i problemi rimangono. Due in primo luogo. "Servono più volontari". Una constatazione e un appello insieme, giunto a voci multiple dopo la visita al carcere. "Le criticità - dice Marcucci - restano quelle tipiche di una struttura vecchia come il San Giorgio. Si segnalano la lentezza dei lavori di adeguamento delle cucine e dell’infermeria e un affievolimento dei rapporti di collaborazione con il volontariato". La programmazione delle attività per il 2017 non è stata ancora compilata: a breve il garante depositerà la sua relazione in Palazzo Orsetti e a breve il Comune dovrà definire il suo budget per le attività in carcere. "Il gruppo Volontari carcere - spiega Mariani - rimane la colonna portante per le attività con i detenuti. Ma ora la compagine dei volontari al San Giorgio va ampliata. Confido che si attiveranno nuove associazioni". Secondo i parlamentari Pd, "serve un maggior coinvolgimento delle associazioni anche attraverso il Comune di Lucca, per progettare bandi che rispondano alle esigenze dei detenuti". A febbraio 2017 sarà pronta la nuova area per la socialità, uno spazio rimasto libero dopo la riduzione dei detenuti: sarà un luogo importante anche per svolgere le attività. "Necessario più supporto psicologico". Un impegno per la deputata Mariani: implementare l’assistenza psicologica ai detenuti, in carico al sistema sanitario territoriale (l’Asl). "La situazione nel carcere è molto migliorata - spiega la parlamentare -. La riduzione di numero dei detenuti giova al rapporto fra quelli rimasti e gli operatori. Dobbiamo però lavorare per aumentare le ore del supporto psicologico, quelle esistenti non bastano". Tutti i parlamentari hanno anche assicurato l’impegno per il veloce completamento dei lavori nell’infermeria. "Maggiore sorveglianza in Versilia". L’appello arriva dalla senatrice viareggina Granaiola. "La migliore politica a favore della sicurezza è la prevenzione - sottolinea appena uscita dal portone del San Giorgio. Occorre più sorveglianza in Versilia: la forte presenza al San Giorgio di detenuti che provengono da lì significa che dobbiamo capire meglio l’origine dei problemi". Radicalizzazione, casi ad alto rischio. Anche al San Giorgio l’attenzione è massima sui detenuti, in particolare africani e mediorientali, per il rischio radicalizzazione. Il rischio cioè che in carcere in particolare i reclusi di origine islamica compiano un percorso di avvicinamento a ideologie estremiste fino ad abbracciare i fondamenti del terrorismo islamico. Per questo tipo di monitoraggio viene applicato un protocollo del ministero degli Interni, che inquadra i soggetti a rischio radicalizzazione per livelli. È accaduto - è emerso dalla conversazione tra parlamentari e responsabili del carcere - che al San Giorgio siano stati registrati casi di detenuti inquadrati al livello di attenzione uno per i propri comportamenti (tendenza all’isolamento, si facevano crescere la barba). Per contro, è emerso ancora, ci sono stati detenuti di origine islamica che invece hanno notevolmente accentuato comportamenti "occidentali" per prendere le distanze da qualsiasi tendenza alla radicalizzazione. Porto Azzurro (Li): il Garante dei detenuti "2016 positivo, ma ci sono ancora criticità" Il Tirreno, 29 dicembre 2016 La continuità e la stabilità di gestione del carcere è l’aspetto più positivo, la scarsità di lavoro e la capacità di relazione tra carcere e territorio le criticità ancora da risolvere. È questo, in estrema sintesi, il bilancio che Nunzio Marotti, garante dei detenuti del carcere di Porto Azzurro, delinea dopo un anno e mezzo circa dalla sua nomina da parte del Comune di Porto Azzurro. Marotti è stato nominato il 5 agosto del 2015 e da allora è divenuto un punto di riferimento per i 236 detenuti in carico attualmente nella casa di reclusione di Porto Azzurro, di cui 11 sono stranieri. Il garante ha visitato il carcere 56 volte per un totale di circa 200 ore di permanenza e quattro volte è stato a Pianosa. 311 sono i colloqui individuali che ha tenuto con i detenuti del carcere, facendo da ricettore e da filtro per le varie problematiche patite dalla popolazione carceraria. Tra le novità introdotte su richiesta del garante dei detenuti figura la sperimentazione del "circolo dei detenuti", una sorta di tavolo aperto a cui partecipano gli ospiti del carcere e tutti coloro che, a vario titolo, incidono sulla qualità della vita all’interno della struttura. "Il primo dato da rilevare - ha fatto presente Marotti - è che finalmente, dopo anni difficili, nel carcere si è tornati a lavorare per un obiettivo comune, da quando è arrivato il direttore Francesco D’Anselmo e il nuovo comandante Giuliana Perini. Si è registrato un vero cambio di passo". Sul fronte infrastrutturale negli ultimi dodici mesi è andata in porto la riqualificazione della sala colloqui, la creazione di un’area a verde per l’estate e altri interventi. Dato ancora più importante è la riduzione del problema del sovraffollamento, nota dolente di alcuni anni fa. "La situazione è tornata sotto il livello di guardia - ha spiegato il garante dei detenuti - ma il rischio è ancora ben presente, viste le dinamiche a livello nazionale. Inoltre l’amministrazione penitenziaria dovrebbe tenere conto ancora più attentamente dell’identità della nostra popolazione carceraria. Porto azzurro è una casa di reclusione, adatta a detenuti con pene lunghe. Mischiare tipologie di detenuti può creare tensioni". Tra le note negative l’assenza, ad oggi, di un mediatore linguistico, nonostante la popolazione carceraria sia composta per il 48% da stranieri. Sul fronte del lavoro c’è ancora molto da fare per riportare Porto Azzurro a quando era un istituto modello per la rieducazione. Ma i numeri snocciolati da Marotti sono comunque positivi: "Gli articoli 21 (ammissione al lavoro esterno - sono passati da 30 a 80 unità, di cui 13 compiono lavori socialmente utili per i Comuni di Rio Elba e Porto azzurro. Pianosa è una grande occasione, si deve insistere". Il Garante ha approfitta della conferenza stampa per augurare buone feste natalizie a tutti quelli che vivono e operano all’interno del carcere" Firenze: a Solliccianino i colloqui tra detenuti e familiari ora sono su Skype di Jacopo Storni Corriere della Sera, 29 dicembre 2016 Il progetto è stato promosso dalla Caritas diocesana. Gli agenti saranno formati sulla tecnologia e sorveglieranno le comunicazioni attraverso la piattaforma. Colloqui via Skype tra detenuti e familiari. Succede alla Casa Circondariale Mario Gozzini di Firenze, più comunemente chiamato Solliccianino, dove i circa 100 reclusi potranno usufruire di un progetto innovativo, promosso dalla Caritas diocesana, che intende favorire ed agevolare le comunicazioni tra i detenuti dell’istituto e le famiglie che vivono all’esterno. Il progetto - L’obiettivo è quello di migliorare i rapporti del detenuto con l’esterno favorendo quelle relazioni che lo coinvolgono sia come padre o partner che come figlio. Il progetto si rivolge quindi sia ai detenuti che alle relative famiglie, ma in prima istanza comprende la formazione degli operatori penitenziari quali soggetti indispensabili per la buona riuscita dell’intervento. Gli agenti saranno quindi adeguatamente formati sulla tecnologia e saranno chiamati a monitorare e sorvegliare le comunicazioni attraverso Skype. Internet risorsa preziosa - Un metodo molto più semplice e agevole rispetto ai colloqui normale, che permetterà quindi di incrementare la frequenza dei contatti con l’esterno. I contatti via Skype sono una preziosa risorsa per i reclusi anche perché potranno sostituire le telefonate, molto più fredde e senza la possibilità di un contatto visivo. Questo progetto è stato ritenuto complementare alla fornitura della strumentazione informatica, già da tempo messa a disposizione dalla direzione, proprio per l’importanza che tale mezzo di comunicazione riveste e affinché possa raggiungere quegli importanti obiettivi di inclusione sociale individuati anche dalle recenti direttive ministeriali. Bologna: carcere della Dozza, lavoratrici della mensa senza stipendio rassegna.it, 29 dicembre 2016 Filcams Cgil: non hanno ancora ricevuto né lo stipendio di novembre, né la tredicesima mensilità. "Paradossale che lavoratrici in appalto del ministero della Giustizia abbiano tutte queste difficoltà". Feste di Natale senza stipendio, né tredicesima, per le lavoratrici della mensa interna al carcere Dozza di Bologna. Nella casa circondariale, il servizio di ristorazione per il personale operante nel carcere é gestito in appalto dall’azienda bergamasca J.D Service. Nella mensa operano 5 addette, "ormai esasperate da mesi di continui ritardi nel pagamento delle loro retribuzioni. All’oggi infatti non hanno ancora ricevuto né lo stipendio di novembre, né la tredicesima mensilità". È quanto si legge in una nota sindacale. Un Natale amaro quindi per le lavoratrici. Oggi, spiega Daniela Dessì della Filcams Cgil, "abbiamo mandato l’ennesima richiesta di pagamento, sia alla J.D Service che direttamente alla direzione della casa circondariale. È veramente un paradosso che lavoratrici operanti in un appalto del ministero della Giustizia abbiano tutte queste difficoltà nel percepire quanto gli è dovuto". Sassari: paura nella notte a Bancali, detenuto dà fuoco alla cella La Nuova Sardegna, 29 dicembre 2016 L’uomo ha incendiato carte, vestiti e altri oggetti: gli agenti penitenziari si sono precipitati a salvarlo e a spegnere le fiamme. Un detenuto di nazionalità italiana, con presunti disturbi psichici, ha cercato di dare fuoco alla cella in cui si trovava, all’interno del carcere di Bancali, a Sassari. Durante la notte, alle 3.30, l’uomo ha bruciato carte, vestiti e altri oggetti, ma il suo tentativo, di cui ancora si ignorano le motivazioni, è stato prontamente bloccato dagli agenti della Polizia penitenziaria che in quel momento si trovavano di turno, il detenuto è stato salvato ed il rogo spento. "Sono stati momenti di panico, visti l’ora e il poco personale in servizio, ma tutto è stato gestito egregiamente - ha spiegato Roberto Melis, segretario regionale dell’Osapp - è andata bene, i danni materiali sono contenuti e nessuno è rimasto ferito, ma episodi del genere suonano l’allarme sul difficile momento che si vive nelle strutture penitenziarie sarde e italiane, a iniziare dalla cronica carenza di personale". Sondrio: il Vescovo Oscar Cantoni in visita al carcere La Provincia di Sondrio, 29 dicembre 2016 La visita in carcere e la preghiera con detenuti; educatori ed agenti della polizia penitenziaria. Il vescovo Oscar Cantoni aveva espresso il desiderio di conoscere una realtà, espressione di carità. Il suo desiderio si è realizzato nel pomeriggio di mercoledì, quando si è recato in visita alla casa circondariale di Sondrio. Ad accoglierlo nella struttura detentiva la direttrice Stefania Mussio, il cappellano don Ferruccio Citterio, l’educatrice Mariagrazia Tevere e un rappresentante della Polizia penitenziaria. Nella brevità del tempo a sua disposizione, il vescovo ha conosciuto la struttura nei suoi tratti essenziali. Dopo un brevissimo momento di raccoglimento per la preghiera condivisa con i detenuti, si è trattenuto con la popolazione carceraria, con gli agenti penitenziari e diversi volontari. L’uso della tecnologia può battere i terroristi di Massimo Nava Corriere della Sera, 29 dicembre 2016 Monitorare non significa limitare libertà di movimento, ma essere in grado di prevenire o almeno intervenire in tempo utile. La strage di Berlino, come altre stragi nel cuore dell’Europa, ha esaltato sentimenti collettivi e contradditori che accompagnano sempre queste tragedie: cordoglio, solidarietà, astio verso i migranti, confusione strumentale fra profughi e terroristi, buonismo e riserve ideologiche contro misure di emergenza e controlli più accurati. Tutto è ancora più drammatico poiché il terrorismo ha colpito una città simbolo - Berlino, la caduta del Muro, la fine della Guerra fredda e delle ideologie totalitarie, il cielo allargato di un’Europa solidale e pacificata - e un Paese che ha fra i capisaldi del proprio esistere e del proprio futuro la stabilità politica ed economica, il rifiuto di avventure belliche al limite del pacifismo militante, l’uscita dal nucleare, lo sviluppo sostenibile, la tutela della privacy, l’integrazione e l’accoglienza. Si può naturalmente criticare la Germania da molti punti di vista, ma le linee guida sono incontestabili. C’è tuttavia un punto in cui la Germania e, con essa, ancora una volta l’Europa nel suo insieme, ha mostrato i suoi limiti. Limiti ormai intollerabili dopo gli attacchi che hanno sconvolto il Vecchio Continente negli ultimi due anni. Si tratta della difficoltà di prevenire, dei ritardi, dei mancati coordinamenti fra varie polizie e servizi di intelligence a livello nazionale e continentale. Un senso di impotenza si diffonde - oggi a Berlino, come ieri a Parigi, a Bruxelles, a Nizza - nel ripercorrere la biografia del presunto colpevole: tunisino, incarcerato in Italia, espulso, pluri-segnalato e sotto osservazione in Germania... Eppure in grado di agire indisturbato, di impadronirsi di un camion (dotato di GPS!) e di percorrere un viale del centro, in orari in cui i camion dovrebbero essere esclusi (come a Nizza!). Adesso tutti pensano di mettere barriere anti-camion, dopo i cavalli di Frisia davanti alle istituzioni. Che cosa metteremo davanti ai supermercati e agli shopping center la prossima volta? È logico che nell’era delle tecnologie più avanzate, al tempo in cui pare si possa spiare tutto, controllare tutto, infilarsi persino nelle campagne elettorali altrui, non sia possibile monitorare individui segnalati, addirittura recidivi e aree di consenso? Monitorare non significa limitare libertà di movimento, ma essere in grado di prevenire o almeno intervenire in tempo utile. Se sappiamo esattamente dove si trovano la nostra auto o il nostro cane, se altri, attraverso iPhone e Facebook, sanno esattamente dove ci troviamo noi, perché non dovrebbe essere possibile scoprire - a priori - come si muove un terrorista o presunto tale? Questo è purtroppo un prezzo che dovranno pagare anche i migranti, essendo nel loro interesse venire accolti senza che siano accomunati alle mele marce. Se sbarcano senza documenti, perché non dovrebbero essere costantemente monitorati fino all’accertamento della loro identità? Sarebbe un provvedimento anche a tutela dei minori, poiché è alto il numero di coloro che scompaiono nel nulla. Intendiamoci. Il rischio zero non esiste. Il terrorismo percorre molte altre variabili che ci portano sui terreni della diplomazia, delle guerre e delle alleanze sbagliate, delle indulgenze verso Paesi che lo alimentano e lo finanziano. Ma prevenzione e coordinamento a livello continentale sono un’esigenza non più rinviabile. Le indagini su ciò che è avvenuto in Francia, Belgio e in Germania confermano la ripetitività di percorsi criminali, biografie giovanili, tecniche di infiltrazione, supporto logistico presso familiari, amici nello stesso quartiere. È lungo l’elenco di singoli o di piccoli nuclei che hanno potuto muoversi indisturbati nelle periferie, "pendolare" fra diversi Paesi dell’area Schengen, trovare armi, passaporti, esplosivi. Anche i cosiddetti "lupi solitari", considerati ancora più pericolosi perché non direttamente connessi alle organizzazioni terroristiche, tanto "solitari" non sono se poi si va a scavare nel contesto di lavoro, famiglia, quartiere, frequentazioni. Ma i terroristi non sono extraterrestri. Usano cellulari, computer, noleggiano auto, comprano biglietti aerei, devono avere documenti controllabili, talvolta usano carte di credito, da qualche parte devono alloggiare, prenotare, essere ospitati, pagare conti. La tecnologia può essere d’aiuto, se unita al consenso e alla volontà politica, vincendo - nell’era di Facebook - le paure irrazionali di essere tutti spiati. La linea dura per le espulsioni e i principi dello Stato di Diritto di Elisabetta Zamparutti* Il Dubbio, 29 dicembre 2016 Anis Amri è oggi, per molti, motivo d’appello alla linea dura su espulsioni e rimpatri. Questa logica dell’emergenza rischia di essere un colpo di spugna sulle regole dello Stato di diritto. Leggo di raffiche di provvedimenti di espulsione a seguito della strage di Berlino e penso a quanto, solo pochi giorni fa, ha affermato il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e i trattamenti disumani o degradanti (Cpt) pubblicando il rapporto sulla visita ad hoc fatta in Italia un anno fa per monitorare i cosiddetti "return flights". In quell’occasione si sono esaminate le modalità delle operazioni di rimpatrio di migranti nigeriani da Roma a Lagos ( Nigeria) in un volo organizzato dall’Italia, insieme a Belgio e Svizzera, in coordinamento con Frontex. La visita in Italia si è incentrata su 13 donne nigeriane che dal Cie di Ponte Galeria dovevano salire sull’aereo, insieme ad altri. Si legge nel rapporto che so- no state rimpatriate mentre i processi di appello per le richieste di asilo erano ancora in corso. Nell’incontro avuto con loro nel Cie, la delegazione del Cpt ha appreso infatti che erano tutte persone che avevano presentato ricorso verso il rigetto in prima istanza della richiesta di asilo. Di questo non vi era però alcuna traccia nella documentazione sui singoli casi di espulsione, da cui la prima raccomandazione del Cpt all’Italia: assicurare che i file sull’espulsione di tutti coloro che sono ristretti al Cie di Ponte Galeria siano aggiornati e contengano tutte le informazioni rilevanti, comprese quelle relative a procedure legali pendenti. Il Cpt ha osservato poi che le donne erano state informate del loro rimpatrio la mattina stessa della partenza senza che potessero avanzare alcun diritto in sede giurisdizionale. Ora, la sola presenza della delegazione europea ha avuto l’effetto di bloccare per sette delle tredici donne l’espulsione per cui il Cpt, di fronte al rischio di violazione del principio di non- refoulement, ha anche raccomandato all’Italia di non procedere al rimpatrio non solo nei casi in cui il provvedimento d’espulsione è stato sospeso per via giudiziaria o quando una richiesta di sospensione è pendente di fronte ad un giudice ma anche quando è legalmente possibile presentare tale richiesta. A tal fine, le autorità italiane devono assicurare che tutti gli attori coinvolti siano in ogni momento messi al corrente dell’evolversi dell’iter procedurale relativo alla persona da rimpatriare fino al momento della sua consegna nelle mani delle autorità dello Stato di provenienza. Il Cpt arriva a dire che immediatamente prima della consegna, vi deve essere un ultimo contatto tra il rappresentante della Polizia di Stato sul volo di rimpatrio ed il comando centrale in Italia, contatto essenziale per verificare se sia intervenuta durante il volo un’ultima decisione giudiziaria da parte della corte nazionale, o europea ( la cosiddetta "last call procedure"). Secondo i dati forniti dalle autorità italiane, nel 2015, 14.113 persone sono state rimpatriate dall’Italia. Ora c’è chi si scandalizza che questa cifra corrisponda "solo" al 40% del totale dei decreti di espulsione. Il vero scandalo secondo me è invece legato al mancato rispetto delle regole e delle procedure a tutela dei diritti dei richiedenti asilo. Se nell’unico caso di rimpatrio monitorato dal Cpt sono emerse tutte le criticità per cui l’Italia è stata richiamata all’ordine è facile immaginare quante siano state le criticità relative alle 14.113 espulsioni dell’anno scorso che non state monitorate da nessuno e quanto potranno essere quelle che si preannunciano sull’onda del caso di Anis Amri se passasse la linea da più parti invocate delle espulsioni di massa. Immaginiamo solo quante ultime chiamate in base alla "last call procedure" verranno effettuate prima della consegna! Come sempre accade nei momenti di emergenza non è con l’abdicazione ai principi dello Stato di Diritto che si può pensare di governare i problemi ma con la sua piena affermazione e rafforzamento. *Rappresentante italiano al Comitato europeo per la prevenzione della tortura e i trattamenti disumani o degradanti Migranti. In difesa di Mimmo Lucano, contro i gattopardi e l’accoglienza-business di Emilio Sirianni* Il Manifesto, 29 dicembre 2016 Verso l’assemblea del 30 dicembre a Riace. Niente mega strutture, abbattere i costi sociali della burocrazia e dei ritardi nei finanziamenti, un sistema di solidarietà tra eguali: questo il modello ora sotto giudizio. Fermo immagine sul viso di Mimmo Lucano, l’audio, quasi incomprensibile, lascia intendere la sua voce e quella di due interlocutori. Parlano in dialetto, si capisce solo che parlano di un’opera da realizzare con finanziamento pubblico. Il contesto iconico è del giornalismo d’inchiesta televisivo, in sovraimpressione didascalie come "Mimmo Lucano, l’uomo che ha preso per il culo il mondo". Riavvolgiamo il nastro. Alcuni mesi fa, rappresentanti del servizio centrale Sprar, dopo una verifica a campione sul sistema di accoglienza di Riace, muovono diversi rilievi critici. I principali, la non adeguatezza di talune abitazioni, l’uso della moneta locale inventata dal sindaco per evitare che i migranti risentano dei ritardi negli accrediti. Avanti veloce ed eccoci ad oggi. Lucano denuncia gli attacchi ricevuti, manifesta tutta la sua amarezza e mette il mandato a disposizione dei suoi consiglieri e dei cittadini che chiama a un pubblico confronto per il giorno 30. Subito dopo l’annuncio, la Mediateca comunale che avrebbe dovuto ospitare l’incontro è devastata da ignoti. Questa, la premessa. Da diversi anni che Mimmo Lucano mi onora della sua amicizia. Da quando vidi il cortometraggio dedicato a lui e alla sua Riace da Wim Wenders e lessi le parole pronunciate dal regista ad una platea di disorientati premi Nobel, accorsi alla porta di Brandeburgo per l’anniversario della caduta del muro. Wenders raccontò d’aver visto l’Utopia realizzata nella misera e dimenticata terra di Calabria, nella Riace di Lucano. Quasi mi precipitai lì e rimasi sopraffatto, come non può non esserlo chiunque sia dotato del minimo sindacale d’empatia per il dolore degli uomini e la loro capacità di riscatto. Se, però, da un lato, Mimmo è celebrato come eroe anche da riviste importanti, se ogni anno centinaia di giovani raggiungono la sua Riace da tutta Europa per campi di volontariato e riceve lettere ammirate da Papa Francesco, dall’altro, quel modello d’accoglienza è scomodo nell’Europa dei muri e delle connesse fortune politiche, degli hotspot e della vetrina-Lampedusa, progettata per occultare gli interessi geopolitici e militari che presiedono al sistema del pattugliamento del Mediterraneo. È un modello scomodo anche nel Sud degli eterni Gattopardi, in cui il detto di Tomasi di Lampedusa s’incarna nel dilagare del business dell’accoglienza: milioni di euro sparsi a pioggia e centinaia di associazioni "umanitarie" a spartirsi il bottino. Perché l’affare funzioni, però, il modello dev’essere quello delle mega strutture, rese inaccessibili dall’esterno e gestite con modalità note. Nella mia Calabria sono decine gli alberghi ormai in disuso da anni convertiti allo scopo. Stipandovi i migranti, dopo qualche tinteggiatura di facciata, è agevole lucrare bei soldoni, facendo la cresta sulla qualità del cibo e sui servizi o violando impuniti le soglie di capienza. Riace, invece, ha i suoi nuovi cittadini nelle vecchie case degli emigrati, donate all’amministrazione e ristrutturare in economia, spesso con il lavoro degli stessi inquilini. Certo, non sono hotel a cinque stelle, ma vi si conduce la vita dignitosa di molti calabresi onesti. Soprattutto da eguali fra eguali. Riace non sconta i lunghi tempi morti fra un finanziamento e un altro, perché, come dice Mimmo, le persone mangiano tutti i giorni. Così ha inventato la moneta locale, un sistema semplice: banconote stampate dal Comune e distribuite ai migranti, che le usano presso gli esercizi del paese, i cui gestori collaborano, restituendole poi al Comune e ricevendone il controvalore, una volta giunti i finanziamenti. Si eliminano i tempi morti, ma non è previsto dal regolamento, ecco allora i rilievi. Peccato, questo nessuno lo dice, che tanto nella struttura regionale che fra gli addetti al servizio centrale Sprar, abbondino i conflitti di interessi, cioè siano presenti persone che hanno la gestione di enti o associazioni che beneficiano di contributi per l’accoglienza o che l’hanno avuta, per poi passarla a prossimi congiunti. Come nel caso dell’ispezione a Riace. Quanto al video diffamatorio, qualche valente giornalista dovrebbe chiedere all’ex assessore Vaillà e all’ex vice sindaco Cimino (entrambi allontanati da Lucano) chi dei due ha effettuato la registrazione (non essendovi altri interlocutori) e perché. Quel che io ho saputo dal sindaco è che Vaillà adesso ha una sua associazione per accogliere i migranti e ha avuto in concessione dal vescovado di Locri la "Casa del Pellegrino", struttura in grado di ospitare un centinaio di persone, costruita con le donazioni dei fedeli che si recano ogni anno alla grande festa dei santi Cosma e Damiano. Grandi manovre in vista del 2019, quando Mimmo non sarà più candidabile ed il modello unico dell’accoglienza-business potrà finalmente prendersi anche la sua Riace. Lucano ha dato un senso alla scelta di molti calabresi perbene di rimanere a combattere l’ingiustizia, sta adesso ai riacesi, il 30 dicembre, mostrare che non andrà perso e farsi avanti per raccogliere un’eredità che non può andare perduta. *segretario Magistratura democratica sezione Catanzaro Il Garante della privacy blocca una banca dati online della reputazione La Stampa, 29 dicembre 2016 No del Garante privacy alla banca dati on line della reputazione. Il progetto per la misurazione del "rating reputazionale", elaborato da una organizzazione articolata in un’associazione e da una società preposta alla gestione dell’iniziativa, viola le norme del Codice sulla protezione dei dati personali e incide negativamente sulla dignità delle persone. L’infrastruttura, costituita da una piattaforma web e un archivio informatico, dovrebbe raccogliere ed elaborare una mole rilevante di dati personali contenuti in documenti "caricati" volontariamente sulla piattaforma dagli stessi utenti o "pescati" dal web. Attraverso un algoritmo, il sistema assegnerebbe poi ai soggetti censiti degli indicatori alfanumerici in grado, secondo la società, di misurare in modo oggettivo l’affidabilità delle persone in campo economico e professionale. Nel disporre il divieto di qualunque operazione di trattamento presente e futura, il Garante ha ritenuto che il sistema comporti rilevanti problematiche per la privacy a causa della delicatezza delle informazioni che si vorrebbero utilizzare, del pervasivo impatto sugli interessati e delle modalità di trattamento che la società intende mettere in atto. Pur essendo infatti legittima, in linea di principio, l’erogazione di servizi che possano contribuire a rendere maggiormente efficienti, trasparenti e sicuri i rapporti socioeconomici, il sistema in esame - realizzato peraltro in assenza di una idonea base normativa - presuppone una raccolta massiva, anche on line, di informazioni suscettibili di incidere significativamente sulla rappresentazione economica e sociale di un’ampia platea di individui (clienti, candidati, imprenditori, liberi professionisti, cittadini). Il "rating reputazionale" elaborato, secondo il Ganrante, potrebbe ripercuotersi sulla vita delle persone censite, influenzando le scelte altrui e condizionando l’ammissione degli interessati a prestazioni, servizi o benefici. Per quanto riguarda, poi, l’asserita oggettività delle valutazioni, la società non è stata in grado di dimostrare l’efficacia dell’algoritmo che regolerebbe la determinazione dei "rating" al quale dovrebbe essere rimessa, senza possibilità di contestazione, la valutazione dei soggetti censiti. L’Autorità nutre, in generale, molte perplessità sull’opportunità di rimettere ad un sistema automatizzato ogni decisione su aspetti così delicati e complessi come quelli connessi alla reputazione. Senza contare, infatti, la difficoltà di misurare situazioni e variabili non facilmente classificabili, la valutazione potrebbe basarsi su documenti e certificati incompleti o viziati, con il rischio di creare profili inesatti e non rispondenti alla identità sociale delle persone censite. Dubbi sono stati espressi dal Garante anche sulle misure di sicurezza del sistema - basate, prevalentemente, su sistemi di autenticazione "debole" (user id e password) e su meccanismi di cifratura dei soli dati giudiziari secondo l’Autorità davvero inadeguate, specie se rapportate all’elevato numero di soggetti che potrebbero essere coinvolti e all’ingente quantitativo di informazioni, anche molto delicate, che verrebbero registrate all’interno della piattaforma. Ulteriori criticità, infine, sono state ravvisate nei tempi di conservazione dei dati e nell’informativa da rendere agli interessati. Egitto. Il capo del sindacato ambulanti: "Regeni ucciso da chi lo ha inviato come spia" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 29 dicembre 2016 Mohammed Abdallah parla di nuovo alla stampa e si dice orgoglioso di aver denunciato Giulio al Ministero degli Interni, accusandolo ancora di lavorare per servizi stranieri. Mohammed Abdallah non sembra preoccuparsi dell’immagine di spia dei servizi segreti che si è affibbiato da solo dopo la brutale uccisione di Giulio Regeni. Entrato di prepotenza nel caso, già definito da Giulio nei suoi appunti "miseria umana", il capo del sindacato egiziano degli ambulanti continua a parlare con la stampa del suo ruolo nelle indagini sul giovane ricercatore. E si dice orgoglioso di averlo denunciato al Ministero degli Interni perché - spiegava ieri in un’intervista con l’Huffington Post arabo - "ogni buon egiziano avrebbe fatto lo stesso al mio posto". Giulio lo aveva contattato per la ricerca che stava svolgendo sui sindacati indipendenti egiziani per conto dell’Università di Cambridge e Abdallah, figura oscura, aveva provato a spillargli dei soldi. Poco dopo, a dicembre 2015, in un’assemblea sindacale Regeni aveva notato di essere fotografato. Probabilmente era già controllato sebbene la procura egiziana abbiano riferito a quella di Roma di indagini della polizia - su indicazione di Abdallah - aperte il 5 gennaio e durate solo tre giorni. Ma il 22 gennaio, ed è lo stesso sindacalista a ricordarlo nell’intervista, Abdallah aveva registrato un’ultima telefonata con Giulio e l’aveva girata agli Interni. Tre giorni dopo Regeni è scomparso. Il motivo? Abdallah si difende etichettando il ricercatore come spia straniera, uccisa proprio "da chi lo aveva mandato qua" perché "la sua copertura era saltata". Ad esplodere è il ruolo di collegamento - ma sarebbe meglio dire di collaborazionismo - con i servizi che il suo sindacato svolge: "Solo loro si occupano di noi, è automatica la nostra appartenenza". Nulla di nuovo sotto il sole egiziano, dunque. La procura di Roma è ancora alle prese con la traduzione del fascicolo consegnato tre settimane fa dagli investigatori egiziani, contenente anche le dichiarazioni di Abdallah. Ma la fine del 2016 non porta novità neppure al popolo egiziano, invischiato in una seria crisi economica e un grave peggioramento delle condizioni di vita. Ieri il presidente al-Sisi ha ribadito quanto detto nel corso dell’ultimo anno: gli egiziani devono saper affrontare le conseguenze dell’austerity derivante dalle riforme economiche imposte dagli istituti finanziari internazionali che stanno appoggiando Il Cairo. Sei mesi, dice al-Sisi, e poi le cose miglioreranno. Ma i dubbi su una simile prospettiva non scompaiono: in poco tempo i tagli ai sussidi e ai posti di lavoro pubblici, la svalutazione della sterlina e il crollo del turismo interno, l’assenza di programmi di investimento concreti sostituiti da progetti faraonici quanto inutili hanno spinto sotto la soglia di povertà un quarto della popolazione egiziana. Accordo tra Mosca e Ankara per la tregua generale in Siria di Andrea Milluzzi Il Dubbio, 29 dicembre 2016 Stop alla guerra (ma non nelle zone dei jiadisti). Gli usa: "ancora due anni per azzerare Isis". Oggi, domani o mai. Non si sa quando il nuovo cessate il fuoco in Siria entrerà in vigore, ma di sicuro c’è che il nuovo asse fra Turchia e Russia stia andando avanti deciso. "Abbiamo raggiunto un accordo per il cessate il fuoco su tutto il territorio" ha detto nella mattinata di ieri il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu, ripreso immediatamente dai siti nazionali e internazionali. Secondo i media, l’accordo sarebbe dovuto entrare in vigore alla mezzanotte di ieri o di stasera e sarebbe dovuto durare un mese, prima di una conferenza nella capitale kazaka Astana che dovrà decidere i termini politici per porre fine a conflitto in Siria. Può darsi che mentre state leggendo questo articolo, la guerra sia già finita, almeno quella fra il presidente Bachar al Assad e i suoi oppositori. La tregua infatti escluderebbe i gruppi terroristici e già questa definizione crea problemi: sia il gruppo Stato Islamico, che controlla Raqqa, al Bab, Deir ez Zour e Palmira, che i gruppi affiliati ad al Qaeda, presenti soprattutto nella provincia di Idlib, ci rientrano sicuramente. Ma i turchi vorrebbero includere anche le Syrian Democratic Forces - l’esercito misto a guida curda creato dagli americani per riprendere Raqqa - e le brigate del popolo Ypg e Ypj dei curdi siriani. Putin non ha ancora una posizione chiara nei loro confronti, ma includerli fra i terroristi renderà ancora più difficile il dialogo con gli americani. La Cnn è riuscita a raggiungere i leader di alcune milizie ribelli che hanno negato di aver ricevuto comunicazioni di un imminente cessate il fuoco. Hanno anche detto che qualsiasi tregua dovrà essere estesa alle periferie di Damasco, dove da mesi sacche di resistenza sono assediate dalle truppe lealiste. Una condizione che non trova il favore di Assad e dei suoi alleati. Interrogato dai media in merito all’accordo, il portavoce del Cremlino Dimitri Peskov ha commentato: "Non ho sufficienti informazioni, forse si è trattato di un annuncio un pò prematuro da parte dei turchi". È così che anche Cavusoglu ha dovuto parzialmente ritrattare: "Ci sono due testi già pronti su cui abbiamo trovato l’intesa, uno per il cessate il fuoco permanente e l’altro per la soluzione politica che deve seguirlo. Possiamo mettere in pratica questi accordi in qualsiasi momento". Uno scoglio difficilissimo da superare sarà il destino del presidente Assad, che i turchi vorrebbero fuori dalle stanze del potere. Difficilmente la Russia e soprattutto l’Iran accetteranno di perdere uno dei loro principali alleati, almeno non prima di aver individuato un fidato successore. L’ipotesi che circola da tempo è quella di una spartizione della Siria in aree di influenza, che garantirebbe all’attuale regime e alleati di mantenere il controllo della "Siria utile" e ai turchi la possibilità di sorvegliare il loro confine dall’espansione curda grazie alla presenza a Jarablus, al Bab ed eventualmente Idlib. Proprio Idlib sta diventando la nuova Aleppo. Ù Decine di migliaia di sfollati dalla città evacuata qualche giorno fa sono stati trasportati nell’ultima roccaforte delle opposizioni. Le difficili condizioni sanitarie della città sono state aggravate dall’afflusso di altri feriti, mentre i combattenti che hanno lasciato Aleppo est sono confluiti fra le fila jihadiste. Un’ottima combinazione che ha permesso ai governi siriano e russo di intensificare i bombardamenti dal giorno di Natale ad oggi. E l’Isis? Ad al Bab i miliziani del Califfo stanno rispondendo colpo su colpo agli attacchi dell’esercito turco, mentre Raqqa è ancora lontana 50 km dai radar delle Syrian Democratic Forces. I jihadisti hanno già riconquistato Palmira e controllano da tempo anche la regione orientale di Deir ez Zour, al confine con l’Iraq, dove ieri 22 civili sono morti sotto i bombardamenti della coalizione internazionale a guida statunitense. Non sarà facile, né breve togliere al Califfo i territori che controlla ormai da quasi tre anni: "Ce ne vorranno altri due per liberare completamente Siria e Iraq dall’Isis" ha detto ieri il comandante delle truppe statunitensi in Iraq, Stephen Townsend. Gli vietano di partecipare ai funerali della madre: condannata la Romania di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 29 dicembre 2016 La Cedu ha accolto il ricorso di un detenuto che lamentava anche le condizioni in cella. Anche in Italia si sono verificati dei casi simili: il più famoso ha avuto come protagonista l’ex governatore siciliano Totò Cuffaro, quando era a Rebibbia. Il 6 dicembre la Cedu (Corte europea dei diritti umani) ha depositato una sentenza che, al pari di quella Torreggiani, è destinata a essere un pronunciamento importante in tema di trattamento inumano e degradante. La vicenda ricorda molto da vicino quanto accaduto a Totò Cuffaro. E cioè quando all’ex governatore siciliano, ristretto nel carcere di Rebibbia, fu negato il permesso per partecipare al funerale della madre. Il ricorso in questione alla Corte di Strasburgo, contro lo Stato rumeno - era stato presentano da Florian Kanals, un detenuto che lamentava le condizioni di detenzione subite nelle carceri di Oradea e di Rahova e il rifiuto delle autorità carcerarie di concedergli un permesso per partecipare al funerale della madre. Kanals era stato condannato, nel 2011, a dodici anni e mezzo di carcere per tentato omicidio. Dopo l’applicazione di disposizioni più favorevoli, la pena era stata ridotta a dieci anni. Inizialmente Kanals è stato recluso in una cella di 9 mq con altri tre detenuti, dotata di servizi igienici con una superficie di 1 m ² e senza alcuna ventilazione. Cella illuminata solo da tubi al neon che gli avrebbero causato un peggioramento della vista e l’insorgenza della calvizie. Poi è stato trasferito in una cella di 20 mq con altri undici altri detenuti. Anche questa cella non aveva illuminazione naturale o un sistema di ventilazione. Il cibo era di pessima qualità, cosa che ha causato frequenti intossicazioni. Dall’inizio della sua carcerazione, Kanals ha avuto a disposizione un’ora d’aria al giorno. Il 21 marzo 2014 Kanals aveva chiesto alla direzione del carcere di Oradea un permesso per partecipare al funerale della madre. La domanda era stata respinta in quanto "stava scontando una pena di dodici anni e mezzo di carcere per tentato omicidio in regime chiuso e perché aveva già ricevuto un permesso premio nello stesso mese". Kanals aveva, allora, presentato una denuncia per abuso di autorità contro il direttore del carno, cere di Oradea. Il pubblico ministero presso il tribunale di Oradea aveva però archiviato la cosa. Sul punto bisogna premettere che la legge penitenziaria rumena prevede che la persona condannata possa, se meritevole, chiedere alla direzione del carcere l’autorizzazione per un giorno premio, ma non più di quindici, all’anno. In caso di diniego ci si può rivolgere al giudice di sorveglianza. Va detto che in Romania non è un "diritto" per i detenuti avere permessi premio ma una possibilità. Nell’esame del ricorso, la Cedu, in premessa, ricorda la Raccomandazione Rec (2006) 2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee (adottato in data 11 gennaio 2006) in particolare: "Quando le circostanze lo permettono al detenuto deve essere consentito di uscire dal carcere sia sotto scorta o da solo - per visitare un parente malato, un funerale o per altri motivi umanitari". E che nessuno, poi, può essere sottoposto "a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". La Romania è stata già più volte condannata per lo stato delle sue carceri. Ed invitata a compiere sforzi per migliorare le condizioni di detenzione, con particolare riguardo al sovraffollamento e all’igiene. Pur essendo quello carcerario un problema strutturale in Romania, la Cedu ricorda che ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto. La Corte ritiene che il rifiuto a Kanals di partecipare al funerale di sua madre debba essere considerato come una interferenza con il diritto del ricorrente al rispetto della vita familiare ai sensi dell’articolo 8 della la Convenzione. Inoltre, la Corte osserva che la "procedura, contingentata, per la concessione di permessi premio, nel caso di richiesta di permesso per partecipare al funerale di un membro della famiglia non è applicabile". La Corte precisa che "le autorità nazionali non hanno effettuato un bilanciamento degli interessi in gioco, vale a dire, in primo luogo, il diritto del ricorrente al rispetto della vita familiare, e, in secondo luogo, la difesa dell’ordine e della sicurezza pubblica e la prevenzione del crimine". In base a queste considerazioni la Cedu ritiene che il ricorrente abbia subito un danno. E, all’unanimità, nell’accogliere il ricorso di Kanals, condanna anche la Romania a versargli 15.000 euro a titolo di risarcimento. Emergenza carceri boliviane: c’è un bresciano in prima linea di Giuseppe Orizio Brescia Oggi, 29 dicembre 2016 Porta la firma di un bresciano il progetto di tutela dei diritti umani nelle carceri della Bolivia. Roberto Simoncelli di Castegnato è da anni un punto di riferimento del Mlal, Movimento laici America Latina e dal 2011 si dedica prevalentemente alla giustizia minorile. Il suo bagaglio di esperienze maturate nell’attività di ispezione nelle carceri e nei tribunali del Sud America è diventata parte integrante di un pacchetto di misure a tutela dei diritti umani dei detenuti boliviani. "Oltre a carceri civili bisogna puntare su politiche di prevenzione piuttosto che meramente punitive", è l’appello lanciato da Simoncelli chiamato a relazionare alla Commissione Interamericana di diritti umani della Oea che si è conclusa nei giorni scorsi a Panama. Simoncelli ha parlato a nome del ProgettoMondo Mlal e di un gruppo di realtà boliviane. L’organizzazione degli Stati americani, massimo organo di promozione della tutela dei diritti umani nel continente, ha selezionato una serie di temi scottanti, tra cui la situazione di libertà di espressione e informazione in Venezuela, la questione dei desaparecidos in Messico e delle violenze in Nicaragua. Per quanto riguarda la Bolivia, la Commissione ha accolto la sola richiesta presentata da ProgettoMondo Mlal, tramite il coordinatore del Programma sulla giustizia giovanile restaurativa, Roberto Simoncelli che a Panama ha denunciato una situazione critica e allarmante. Le donne sono costrette a condividere le celle con i maschi, una promiscuità che incentiva gli episodi di abusi sessuali. Preoccupante anche l’escalation di violenza nei confronti di gay e lesbiche e la scarsa volontà politica di attuare in pieno la riforma nel settore della giustizia. Simoncelli aveva già presentato alla Commissione Interamericana dei Diritti Umani a Washington un dossier sulla drammatica situazione dell’abuso della detenzione preventiva in Bolivia dei minori e giovani in situazione di conflitto con la legge, ha informato con tanto di report dettagliato, che, "nonostante il sistema di giustizia penale minorile sia l’unico settore in cui, nel corso degli ultimi anni, sono stati realizzati dei grossi passi in avanti in termini di sviluppo normativo, istituzionale e realizzazione dei buone pratiche, manca ancora oggi una forte volontà politica", e quindi la disposizione di risorse economiche, che permetta di attuare fino in fondo la legge. "Chiedo alla Commissione - ha sottolineato Simoncelli al tavolo di Panama - di raccomandare allo stato boliviano di non retrocedere e cadere nella tentazione di promulgare politiche punitive, che si sono dimostrate inefficaci, per risolvere il problema della delinquenza giovanile, ma di stimolarlo invece a continuare sul percorso intrapreso, puntando sulla realizzazione di politiche di prevenzione". Il Governo boliviano ha infatti presentato nelle scorse settimane una proposta di legge per l’inasprimento delle pene nei confronti delle "pandille", ossia le gang minorili.