Carcere, un anno di combattimento di Franco Corleone Il Manifesto, 28 dicembre 2016 Il rischio del sovraffollamento incombe nuovamente in assenza dei tanto declamati provvedimenti strutturali che in realtà richiederebbero una nuova legge sulle droghe. Anche i provvedimenti sul carcere hanno subito lo stop nell’attesa magica del 4 dicembre e si è perso tempo prezioso. Il risultato del referendum ha determinato la crisi del governo e la nascita del nuovo esecutivo guidato da Paolo Gentiloni. Alla Giustizia è stato confermato il ministro Andrea Orlando con soddisfazione di molti, fra cui i garanti dei diritti dei detenuti, per la fiducia per le cose fatte ma soprattutto per la speranza di vedere realizzate le importanti promesse uscite dagli Stati Generali. La situazione nelle carceri non è migliorata dal punto di vista della qualità della vita ed è assai preoccupante per il lento ma costante aumento delle presenze, infatti a fine novembre è stata abbondantemente superata la cifra di 55.000 detenuti presenti. Il rischio del sovraffollamento incombe nuovamente in assenza dei tanto declamati provvedimenti strutturali che in realtà richiederebbero una nuova legge sulle droghe. Infatti come testimoniato dal 7° Libro Bianco sulle droghe, nonostante l’abbattimento della legge Fini-Giovanardi ad opera della Corte Costituzionale, ancora il 32% delle presenze in carcere è dovuto alla violazione dell’art. 73 della legge antidroga sulla detenzione di sostanze stupefacenti. Si tratta dunque di piccoli spacciatori o di consumatori vittime del proibizionismo, ma non mi pare che questo tema sia all’ordine del giorno, basta vedere la sorte delle proposte di legalizzazione della canapa. Anche la via straordinaria della clemenza, richiesta alla fine del giubileo da Papa Bergoglio, non è stata presa in alcuna considerazione né dal Governo né dal Presidente della Repubblica. Che fare dunque? Rassegnarsi all’ordinaria amministrazione accompagnata dalla silenziosa tragedia quotidiana dei suicidi, dei tanti tentati suicidi, dei troppi atti di autolesionismo e dei molti digiuni di protesta? I garanti regionali e comunali intendono chiedere al ministro Orlando un confronto sul destino della legge delega all’esame del Senato. I tempi a disposizione perché un patrimonio di idee e proposte non venga dilapidato impongono delle scelte immediate. O lo stralcio della parte penitenziaria o, forse meglio, un disegno di legge per affrontare alcuni nodi non procrastinabili: il diritto all’affettività, il nuovo ordinamento minorile e la modifica delle misure di sicurezza urgenti dopo la chiusura degli Opg. Nel frattempo l’idea di una iniziativa per cambiare le condizioni di vita all’interno delle patrie galere a legislazione vigente è emersa nell’ambito di un Seminario di preparazione del Convegno in onore di Sandro Margara realizzati nell’ottobre scorso, "Lo stato del carcere dopo gli Stati Generali". Il 15 dicembre ho sottoscritto con il Provveditore dell’Amministrazione della Toscana Giuseppe Martone un documento assai impegnativo, chiamato Patto per la Riforma. Il proposito assai ambizioso è di attuare una sperimentazione e un’anticipazione dei contenuti della riforma delineata nell’atto di indirizzo 2017, in 14 punti, dal ministro Orlando e tra cui spiccano il lavoro, l’affettività, le misure alternative, la salute. Cose concrete dunque. A cominciare dalla sostituzione degli sgabelli nelle celle con sedie decenti. La ricerca dell’afflizione è stata costruita con cura certosina e meticolosa e occorre rompere abitudini e assuefazioni. L’elenco è lungo: garantire l’acqua calda e le docce nelle celle; rendere le biblioteche fruibili per la lettura e lo studio; attivare mense e locali per fare la spesa; progettare gli spazi e i luoghi per l’affettività. La dignità, l’autonomia e la responsabilità passano da una diversa quotidianità. Ci aspetta un anno di combattimento. Verso una società più umana: riabilitare i detenuti attraverso il lavoro di Sara Ficocelli La Repubblica, 28 dicembre 2016 L’occupazione in ogni ambito produce salute mentale, e per questo è importante che negli istituti penitenziari venga offerta la possibilità di professionalizzarsi, imparare un mestiere, studiare, avere un lavoro retribuito, in modo che chi sconta la pena possa strutturare la fiducia in sé stesso, negli altri, nelle istituzioni e nello Stato. Ne abbiamo parlato con la psichiatra Adelia Lucattini. Carcere e lavoro, necessità di scontare la pena e di rendersi al contempo utili alla società. Il dibattito che ruota intorno all’importanza dell’attività lavorativa per l’effettivo reinserimento dei detenuti è ampio e complesso: già nel 1764 lo scrittore illuminista Cesare Beccaria, nonno di Alessandro Manzoni, pubblicò il saggio "Dei delitti e delle pene", pietra miliare della "giusta pena" e del concetto di riabilitazione dei carcerati, fornendo con questo libro anche preziose indicazioni in materia di "prevenzione". I progetti del 2016. Poche settimane fa il Carcere di Parma ha presentato un progetto innovativo, "Sprigioniamo il lavoro", che punta a offrire lavoro a 16 detenuti entro il prossimo anno attraverso la costituzione, da parte di cinque aziende (Gruppo Genis Proges, cooperativa sociale Biricca, GSC Srl, Multiservice società cooperativa, Bowe 2014 srls) della Newco, società che si occuperà della gestione di una lavanderia all’interno del penitenziario. Un’iniziativa che si affianca a molti altri progetti interessanti, tutti realizzati grazie al lavoro dei detenuti, come la creazione di prodotti e idee regalo che coniugano innovazione tecnologica e maestria artigianale nel Carcere di Bollate, o il corso di formazione per giovani pizzaioli realizzato all’interno dell’Istituto Penale per Minorenni di Airola (in provincia di Benevento) grazie al sostegno economico della Fondazione Angelo Affinita. "Riabilitazione sociale", non "lavoro forzato". Ma perché creare opportunità di lavoro all’interno del carcere è così importante per i detenuti, e quindi per l’intera società? Secondo i dati del ministero della Giustizia, i detenuti che lavorano nelle carceri per distribuire i pasti, come impiegati nell’ufficio spesa o come addetti alle pulizie in Italia sono più di 10mila (altri 1400 lavorano per soggetti esterni all’amministrazione, tra cui le cooperative sociali). "La legge Smuraglia sull’introduzione del lavoro in carcere (22 giugno 2000, n° 193 - "Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti") - spiega Adelia Lucattini, psichiatra psicoterapeuta e psicoanalista - è senz’altro un’iniziativa positiva purché tenga conto che il lavoro va inteso come "riabilitazione sociale" e non come forma di coercizione o di lavoro forzato, cosa che potrebbe addirittura risultare controproducente ai fini di un reinserimento sociale dei detenuti. L’esperienza della riabilitazione psichiatrica ha insegnato che ogni forma di riabilitazione deve tenere conto della tipologia di paziente e della sua disabilità, considerando la reazione dell’ambiente alla disabilità del soggetto e operando quindi anche in ambito relazionale". I rischi dell’inattività. Rimanere nell’inattività, aspettando che il tempo passi senza scopo, non avere nessuna occupazione intellettuale o manuale, non permette di riflettere sulla propria vita, su se stessi e sulle situazioni che hanno portato a vivere nell’illegalità o ad essere incarcerato: insomma, non aiuta a migliorarsi. "L’inattività - spiega l’autrice de "Il dolore dell’analista. Dolore psichico e metodo psicoanalitico" (Astrolabio-Ubaldini) - può portare a una cronicizzazione dei modi di pensare, delle qualità relazionali e degli stili di vita che, se non sono corretti, porteranno il soggetto a ripetere gli stessi comportamenti appena scontata la pena. Avere un’occupazione e svolgere un’attività durante il periodo in carcere permette dunque di evitare una cronicizzazione del disturbo anti-sociale che ha portato l’individuo a compiere il reato o i reati per cui è stato condannato". Il carcere come luogo di morte. Il contatto con persone che delinquono abitualmente, e che quindi possono avere un disturbo sociopatico o antisociale, spiega ancora l’esperta, può determinare una sorta di "apprendimento" di alcuni stili di comportamento che poi porteranno a compiere reati anche più gravi, attraverso un processo di identificazione con l’aggressore in mancanza di una valida e sana alternativa in cui identificarsi, secondo il principio "faccio il male perché non conosco il bene". "Quando falliscono la legge, la riabilitazione e lo Stato là dove avevano già fallito la famiglia, la scuola, l’ambiente e il gruppo sociale come guida psicologica e morale, il carcere può essere un luogo di morte, della mente, della vita, della salute, delle prospettive", precisa Lucattini. I benefici dell’occupazione. L’occupazione in ogni ambito produce salute mentale, e per questo è importante che negli istituti penitenziari venga offerta ai detenuti la possibilità di professionalizzarsi, imparare un mestiere, studiare, avere un lavoro retribuito, in modo che essi possano strutturare una fiducia in loro stessi, negli altri, nelle istituzioni e nello Stato. "In caso contrario - continua la psichiatra - potrebbe instillarsi o persistere un senso di desolante solitudine che spesso porta a ripercorrere strade note, non buone, non di rado più pericolose, vissute come l’unica possibilità per non sentirsi emarginati, persi, finiti, o per sentirsi, per quanto illusoriamente, "qualcuno". Guai a idealizzare il lavoro. D’altro canto, precisa l’esperta, anche un’eccessiva idealizzazione del lavoro come strumento di riscatto e rivincita può essere più fuorviante. In persone che non conoscono e non hanno fatto esperienza di questo tipo di emozioni o che non hanno una struttura psicologica che le sostenga, né sufficienza forza per rispettare regole imposte dall’esterno ma non interiorizzate, difficilmente il lavoro permetterà di mettere in discussione, le scelte di vita precedenti. "Le scelte di vita - spiega Lucattini - possono essere messe in discussione solo se prima si è compreso come si è vissuto e perché e se quindi si è intravista e poi conosciuta personalmente la possibilità di vivere diversamente, per poi sperimentarla attraverso rapporti significativi con persone professionalmente preparate, umanamente equilibrate, realiste e capaci di trasmettere fiducia nelle possibili alternative, comprendendo fino in fondo la difficoltà dell’impresa. Solo al termine di questo processo maturativo si può essere in grado di abbracciarle e farle proprie, di difenderle dal sé stesso di prima, dall’ambiente da cui si proviene, e quindi di trasformarle in azioni reali nella vita quotidiana, in una nuova vita, anche fuori dal carcere". Un processo lungo, un percorso possibile. Come ogni cambiamento, quello della riabilitazione dei detenuti attraverso l’attività professionale è dunque un processo che ha i suoi tempi, a volte anche lunghi, e che richiede un contatto assiduo e costante con professionisti della riabilitazione psicologica, sociale e lavorativa, che abbiano esperienza e che siano in grado di interagire con persone che di alcuni valori e situazioni sociali potrebbero non aver mai sentito parlare se non in televisione o al cinema, e che quindi potrebbero non aver mai considerato che la cosa potesse riguardarli personalmente. "È un processo che può iniziare dentro il carcere, ma che poi deve poter proseguire anche fuori. Perché è nella continuità che avvengono, si consolidano e stabilizzano tutti cambiamenti", conclude l’esperta. Associazione "Argomenti 2000": parlamentari in visita a 40 istituti penitenziari agensir.it, 28 dicembre 2016 In questi giorni tra Natale a Capodanno alcuni parlamentari visitano oltre quaranta istituti di pena: da Brescia a Torino, da Nuoro a Milano, a Bologna come a Palermo, a Pesaro, ad Ancona. Un’iniziativa promossa, da qualche anno, da Argomenti 2000, associazione di amicizia politica per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su una drammatica emergenza del Paese. "Un modo per compiere un gesto di concreta vicinanza - spiega l’associazione - a quella parte della popolazione fatta di uomini e donne che, pur scontando una pena, rimangono a pieno titolo cittadini, conservano la dignità della condizione umana e chiedono di essere aiutati ad un reinserimento nella società così come previsto dalla Costituzione". Per l’occasione l’associazione "Argomenti 2000" ha redatto un documento con una panoramica sulla situazione carceraria, sui provvedimenti legislativi dell’ultimo anno e con alcune riflessioni e proposte, in particolare in tema di lavoro intra ed extra carceri e di ospedali psichiatrici giudiziari. Un report annuale sottoscritto da deputati e senatori presenti in diversi partiti e da alcune associazioni impegnate nel mondo del volontariato in carcere. Un modo concreto per rendersi presenti in una situazione difficile e per testimoniare, così come affermato da Papa Francesco, la necessità che il sistema penale vada "oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria", ponendosi "sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone". Moda "made in carcere": Carcel il brand delle detenute di Marisa Labanca La Repubblica, 28 dicembre 2016 Restituire la dignità attraverso il lavoro, rendere le donne fautrici del cambiamento delle loro vite e rompere quella catena di povertà che le ha trascinate in una prigione. Tutto questo attraverso la moda e il business solidale. L’imprenditrice danese Anne Veronica D’Souza è l’ideatrice di Carcel, brand di moda con sede a Copenhagen, ma prodotto nelle carceri di alcuni dei paesi più poveri del mondo. Prima tappa il carcere femminile di Cusco in Perù dove, sotto la direzione della stilista danese Louise van Hauen, le detenute hanno realizzato interamente a mano una collezione in pura lana di Alpaca. Il progetto si basa su una strana coincidenza: i paesi con il più alto tasso di criminalità legata alla povertà sono anche i più ricchi di materie prime pregiate. Carcel diventa così il ponte per unire le competenze delle donne detenute - che spesso sanno già cucire a mano e lavorare a maglia - con i mercati mondiali. E si fa garante verso chi produce di opportunità lavorative e salari equi, e verso il cliente di materiali di altissima qualità e minuziosa cura del dettaglio. La prima collezione in Alpaca di Carcel sarà in vendita solo online sul sito del brand a partire dalla primavera 2017 Norme su bullismo, famiglia e giustizia. Ecco le 74 leggi che rischiano di scomparire di Pietro De Leo Il Tempo, 28 dicembre 2016 Ci sono 74 norme che rischiano di non diventare più leggi se la legislatura dovesse interrompersi prima della scadenza naturale o se i partiti decidessero di concentrarsi soltanto su legge elettorale e salva-banche. Tra questi provvedimenti spiccano i ddl sul bullismo e il cyber bullismo, sul cognome della madre per i bimbi, sul reato di tortura. Dallo ius soli al divorzio breve, dal ddl sulla tortura a quello sul cyberbullismo Sono le norme approvate in una sola Camera. Che ora rischiano di evaporare. Cosa accadrebbe se si dovesse andare a elezioni in tempi brevi? Un buon numero di ddl, che hanno ottenuto l’approvazione in un solo ramo del Parlamento, rischierebbero di mummificarsi in un binario morto. Queste proposte, per l’esattezza, sono 74, come ha calcolato Openpolis, il portale che si occupa di monitoraggio della produttività delle istituzioni. Questi ddl, se la legislatura si dovesse interrompere, nella prossima dovrebbero ripartire dalla prima casella, e attendere la doppia approvazione nelle Camere. Come spiega Openpolis, ci sono tre possibili cause dietro questo stato di cose. "Alcuni disegni di legge si trovano in questa situazione perché, dopo la prima approvazione, il Parlamento ha deciso di prendere altre strade sulla materia, o con altri provvedimenti o abbandonando del tutto la volontà di legiferare su di essa. Per altri - prosegue - invece si tratterebbe di un "troncamento" involontario, nel senso che dopo la prima lettura, i lavori nell’altro ramo andavano nella direzione di completare l’iter. Infine abbiamo una serie di disegni di legge la cui approvazione nel primo ramo è stata puramente "mediatica", mai seguita da veri tentativi di completare l’Iter". Openpolis ricorda che per la scorsa legislatura, sconvolta da meno cambi di governo rispetto a questa, alla fine i provvedimenti lasciati in sospeso furono 73 (50 al Senato e 23 alla Camera). Stavolta, dei 74 ancora pendenti, 52 sono a Palazzo Madama e 22 a Montecitorio. Quel che più sorprende è che, tra di essi, ci sono dei provvedimenti che negli scorsi mesi hanno segnato, in maniera molto incisiva, il dibattito politico. Parliamo ad esempio di leggi come la riforma dei partiti, osteggiata dal Movimento Cinque Stelle per via dell’obbligo di democrazia interna, e l’introduzione dello ius soli. Al centro, quest’ultimo provvedimento, di una serie di polemiche per via della sostanziale semplificazione nell’iter di acquisizione di cittadinanza, eventualità piuttosto rischiosa nel momento attuale, tra rischi di fondamentalismo religioso e immigrazione incontrollata. Secondo il ddl, infatti, chi nasce in Italia da genitori stranieri può acquisire la cittadinanza a condizione che il papà o la mamma abbiano un permesso di soggiorno Ue di lungo periodo. Il minore straniero, inoltre, può diventare cittadino anche a condizione che sia residente in Italia da oltre cinque anni e abbia frequentato un corso scolastico di almeno un quinquennio. Ad un passo dal traguardo (al Senato), c’è poi, il ddl che introduce il reato di tortura. Quando nel luglio scorso stava per arrivare il sì definitivo, è arrivato uno stop per un ulteriore approfondimento. Alcuni contenuti, infatti, sembravano riproporre un approccio pregiudiziale nei confronti delle Forze dell’Ordine, come ad esempio la possibilità di considerare tortura anche la semplice pressione psicologica, che inibirebbe - e non di poco - l’operatività degli agenti durante gli interrogatori. Altro ddl importante, quello sul "whistleblowing", che in completamento della legge Severino sancisce la protezione di chi segnala fattispecie corruttive sul luogo di lavoro, nel setto-re sia pubblico che privato. Alla Camera, il provvedimento vide un asse tra Pd e Movimento 5 Stelle, con Forza Italia ferocemente contro, a denunciare il clima di sospetto e di caccia alle streghe che questo principio può innescare nel contesto lavorativo. Ferma è poi la riforma del processo penale e della prescrizione, che il governo Renzi aveva congelato per via di significative divisioni all’interno della maggioranza. Rischia di saltare anche il ddl su bullismo e cyber bullismo e quello sul divorzio breve. Altro ddl "a rischio estinzione" è quello sulla libertà di attribuire il cognome della madre ai figli. Sul punto, ci sono due visioni controverse: c’è chi lo caldeggia come dimostrazione di libertà e chi, invece, ne mette in risalto gli effetti collaterali. Chi ha il doppio cognome, infatti, alla generazione successiva potrebbe trasmetterne solo uno, con lo stravolgimento, man mano, dell’identità familiare e della genealogia. La legge, inoltre, stabilisce che una il figlio che ha il cognome di un solo genitore, alla maggiore età potrebbe chiedere all’anagrafe l’aggiunta di Quello dell’altro. E che succede se, per esempio, suo fratello decide di tenere soltanto un cognome? Avremmo due figli dagli stessi genitori ma con cognome diverso. Tornando ai ddl, sicuramente sarebbe un peccato se non fosse definitivamente approvato quello che mira all’introduzione di sistemi di videosorveglianza all’interno di asili nido, scuole per l’infanzia, strutture per anziani e disabili. Mentre il popolo di Facebook, abituato a non andarci tanto per il leggero, sicuramente avrebbe bisogno di qualche cautela in più se non arrivasse al traguardo il provvedimento che alleggerisce le pene per l’offesa verso il presidente della Repubblica. Infine, c’è un provvedimento che restituisce dignità postuma: la riabilitazione per quei militari che, durante la Prima Guerra Mondiale, furono giustiziati perché autori di fattispecie come diserzione, spionaggio, tradimento. Ma tanto, probabilmente, a quest’ora la giustizia che sta dall’altra parte ha già fatto il suo corso. Non sono i giudici a poter rendere l’Italia un Paese migliore di Giovanni Belardelli Corriere della Sera, 28 dicembre 2016 Assistiamo a un rapporto tra i poteri ormai molto diverso da quello stabilito dalla nostra Costituzione. Le notizie degli ultimi giorni e settimane (le indagini sul ministro Lotti, quelle milanesi sul sindaco Sala, quelle romane su Marra e Muraro e presto - potrebbe essere - sulla stessa Virginia Raggi) confermano che ci troviamo di fronte a un’alterazione stabile, per certi aspetti definitiva, nei rapporti tra politica e giustizia. Dunque questa alterazione non era collegata se non in piccola parte alla discesa in campo di Berlusconi - come invece molti avevano a lungo ritenuto - visto che, anche adesso che il leader di Forza Italia ha un ruolo certamente secondario, continua a segnare la nostra vita collettiva. Caratterizza con ogni evidenza la vita politica, dove assistiamo a un rapporto tra i poteri ormai molto diverso da quello stabilito dalla nostra carta fondamentale. Nella costituzione materiale del Paese - cioè nell’assetto effettivo dei rapporti tra istituzioni e poteri dello Stato - è da tempo evidente infatti che il potere legislativo e quello esecutivo sono condizionati in modo consistente dalla magistratura nelle sue varie giurisdizioni. Questioni che ritenevamo di stretta competenza del governo e del Parlamento - dalla legge elettorale al sistema pensionistico, dalla chiusura di una fabbrica alle norme della "buona scuola" - sono spesso decise da una sentenza della Corte costituzionale o di un tribunale civile, penale, amministrativo. Non è solo la politica ma tutta la vita sociale a risentire di questa accresciuta presenza dell’ordine giudiziario. Negli ultimi anni gran parte del nostro diritto di famiglia - dalle norme sulla fecondazione assistita all’adozione del figlio del partner nelle coppie omosessuali - è stata modificata attraverso decisioni dei tribunali. La liceità di una cura medica, la possibilità di iscriversi all’università, i risultati di un concorso o l’effettività di una promozione: questo e molto altro dipende ormai, come è esperienza comune di tanti italiani, dalla sentenza di un tribunale. Non a caso qualche tempo fa Romano Prodi ha provocatoriamente proposto l’abolizione dei Tar e del Consiglio di Stato per favorire lo sviluppo economico, visto quanto il continuo ricorso alla giustizia amministrativa influisce negativamente sugli investimenti. Naturalmente occorre non dimenticare che un fenomeno del genere caratterizza gran parte delle democrazie contemporanee. Ma forse nel nostro Paese si presenta in modo accentuato. Anzitutto, è lo stesso apparente permanere di una diffusa corruzione politica a sollecitare il continuo intervento delle procure. Abbiamo poi troppe leggi, e troppo mal scritte, così da richiedere spesso l’intervento di un magistrato per chiarire come vadano interpretate e applicate. Ancora, abbiamo una classe politica poco capace o poco incline ad assumersi le proprie responsabilità e ad esercitare i propri poteri: sintomatica la vicenda delle leggi elettorali, in cui la politica chiede alla Corte costituzionale cosa deve e può fare. Ma il progressivo assorbimento della politica nel diritto, il condizionamento che le decisioni della magistratura esercitano sulla vita sociale, dipendono anche da altro, in particolare da una nuova concezione dei compiti della magistratura, soprattutto della magistratura penale, affermatasi nel corso degli ultimi decenni. Tale concezione le assegna come compito fondamentale non solo l’accertamento di, e la pronuncia su, singole ipotesi di reato, bensì un generale controllo di legalità. Il magistrato, dunque, non è tenuto a intervenire soltanto dopo aver ricevuto una notizia di reato, ma - ha scritto Luciano Violante riassumendo (e criticando) questa concezione - ha il compito di verificare "che la legalità non sia stata per caso violata". In questo modo l’ordine giudiziario viene potenzialmente investito - anche grazie al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, che nei fatti estende la discrezionalità della magistratura inquirente - di una funzione di supervisione sul complesso della vita politica e amministrativa. Bisogna dire che in questo la magistratura è stata fortemente sollecitata da una domanda proveniente dall’opinione pubblica, sempre più disgustata dalle cattive prove offerte dalla classe politica. È nata così, da questo doppio movimento, l’idea secondo cui la magistratura stessa sarebbe la grande tutrice della vita collettiva del Paese, il soggetto che dovrebbe renderlo migliore sotto il profilo dell’onestà e della moralità. Ma, a un quarto di secolo da Mani Pulite, i continui casi di corruzione politica, le continue testimonianze di scarso rispetto delle leggi in una parte significativa della società italiana, ci dicono che non possono essere i giudici a rendere un Paese migliore. Giovanni Legnini (Csm): "giustizia a orologeria? lotta alla corruzione sia priorità di tutti" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2016 Gli avvisi di garanzia non condizionino la vita delle istituzioni ma i partiti allontanino chi viola i principi etici "I rapporti tra politica e giustizia si risolveranno se tutti, anche i partiti, assumeranno come prioritaria la lotta alla corruzione e al malaffare". Lo afferma il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini in questa intervista al Sole 24 Ore, a proposito delle polemiche sulla "giustizia a orologeria" riesplose dopo le vicende in cui sono coinvolti i sindaci di Milano e Roma e il ministro Lotti. Secondo il numero due di Palazzo dei Marescialli "la semplice iscrizione nel registro degli indagati o l’informazione di garanzia non possono e non devono condizionare la vita delle istituzioni ma i partiti devono farsi carico, a prescindere dalle indagini penali, di allontanare le persone che violano i princìpi etici". Vicepresidente Legnini, il ministro Orlando ha detto no ad altre proroghe dell’età pensionabile dei magistrati, ma propone l’uscita dal servizio alla fine dell’anno solare in cui si compiono i 70 anni. È una misura adeguata per far fronte agli oltre 1000 vuoti nell’organico dei magistrati che spetta al Csm riempire? "Nessuna misura da sola è nell’immediato idonea a risolvere i gravi problemi di organico. Occorre agire sul trattenimento in servizio e sull’assunzione straordinaria di giovani magistrati. Sull’età pensionabile è nota la posizione del Csm sui 72 anni a regime, ma spetta a Governo e Parlamento la decisione, che mi auguro dia certezza e stabilità". Il caso del sindaco di Milano Sala ha riproposto il tema del rapporto Procure della Repubblica/Procure generali di Corte d’appello, con le seconde che controllano il lavoro delle prime, e, in caso di richiesta di archiviazione, avocano le indagini non solo in caso di inerzia (come prevede la legge) ma anche di dissenso nel merito. Quest’estensione del potere di avocazione - che ha trovato a Milano, con il Pg Roberto Alfonso, già due applicazioni - nasce da un’interpretazione contestata da molti Pm. Le chiedo: così non si va verso una fortissima gerarchizzazione dell’ufficio di Procura? "Non posso parlare del caso del sindaco Sala, non conoscendo il provvedimento di avocazione del Pg di Milano. In generale, sono contrario alla fortissima gerarchizzazione delle Procure di cui lei parla. L’avocazione è, come noto, limitata a casi eccezionali, che quindi devono essere di stretta interpretazione. La Procura generale della Cassazione ha ritenuto che il potere di avocazione, oltre al caso di inerzia, possa estendersi al mancato esercizio dell’azione penale ma l’estensione di tale potere al merito delle conclusioni del Pm rimane tuttora materia molto delicata e controversa. Guardo, invece, con favore al rafforzamento dei poteri organizzativi e di controllo dei capi delle Procure e di quelli di coordinamento dei Procuratori generali previsti nel nostro ordinamento. E ciò in funzione del corretto e uniforme esercizio dell’azione penale e del rispetto delle norme sul giusto processo". Il caso delle circolari di importanti Procuratori sulle intercettazioni telefoniche - poi assunte a riferimento per le linee guida emanate qualche mese fa dal Csm - è emblematico. In sintesi, migliore organizzazione delle Procure e rispetto del principio di autonomia di ciascun Pm. È una delle più complesse materie di cui ci stiamo occupando nell’elaborazione di una nuova circolare sulle Procure. Il caso Sala sarebbe la "prova" di una contiguità della Procura di Milano con la politica e dunque la smentita del giudizio lusinghiero del Csm sulla gestione efficiente, efficace e indipendente di quell’Ufficio. È così? "Confermo il giudizio lusinghiero del Csm sull’attività della Procura di Milano. Nessuno si è mai fatto carico di fornirci un sia pur indiretto elemento sulla presunta contiguità di quell’importante ufficio con la politica. A meno che non si vogliano confondere dissensi su legittime scelte organizzative con illazioni che respingiamo con fermezza". Nel Ddl sul processo penale c’è una norma (contestata dall’Anm) che prevede l’avocazione automatica della Procura generale se il Pm non esercita l’azione penale entro 3 mesi dalla fine delle indagini. Tutto spinge verso una gerarchizzazione... "Mi auguro che il Ddl sia approvato al più presto poiché contiene molte norme che consentiranno un processo più celere ed equo. Quanto alla norma sull’avocazione, non la condivido e spero sia espunta dal provvedimento". Giustizia a orologeria: se ne riparla dopo i casi dei sindaci di Roma e Milano e la notizia del ministro Lotti indagato. I problemi tra politica e giustizia non sono risolti. La questione morale si ripropone più pressante che ai tempi di Tangentopoli ma la politica, come allora, reagisce con insofferenza e desiderio di rivalsa, salvo poi delegare sempre più spesso alla magistratura (in funzione delle iniziative giudiziarie) scelte di natura politica o etica. Tutto cambia ma niente cambia? "Il tempo delle deleghe dev’essere superato. I problemi antichi e recenti tra politica e giustizia possono avviarsi a soluzione se tutti, anche i partiti, assumeranno come prioritaria la lotta alla corruzione e al malaffare. La semplice iscrizione nel registro degli indagati o l’informazione di garanzia non possono e non devono condizionare la vita delle istituzioni ma i partiti devono farsi carico, a prescindere dalle indagini penali, di allontanare le persone che violano i princìpi etici e i requisiti minimi previsti dall’articolo 54 della Costituzione: rispetto della legge, disciplina e onore nell’esercizio delle funzioni pubbliche". Le frequenti archiviazioni e assoluzioni e il coinvolgimento in attività di indagine di rappresentanti di tutte le forze politiche consentono, più che nel passato, di restituire senso pieno al principio di presunzione di innocenza. E il rispetto della legge e dei princìpi costituzionali lo devono garantire anche i magistrati, ad esempio evitando di far conoscere prima ai giornali e poi agli interessati atti di indagine coperti da segreto, rischiando così di ledere la dignità e l’onore delle persone. "Credo e spero che un cambiamento profondo nella direzione del rafforzamento dello Stato di diritto sia già in atto e possa rafforzarsi anche con l’aiuto di tutti i mezzi di informazione". Sulla scelta dei capi degli uffici giudiziari, in particolare sul peso da dare al "fuori ruolo" - il periodo trascorso da un magistrato al servizio di ministeri, organismi internazionali ecc., il Csm è ondivago. Dalla scelta di Lo Voi alla Procura di Palermo a quella di Greco a Milano, passando per Francesco Testa alla Procura di Chieti, non sembra esserci una linea coerente, e si prospettano situazioni analoghe, per esempio quando bisognerà scegliere il Procuratore di Napoli, posto per il quale corre anche Gianni Melillo, capo di gabinetto del ministro Orlando. Non teme una caduta di credibilità? "Sulle nomine, come su molte altre riforme approvate e in itinere, il Csm sta affermando una forte credibilità istituzionale. Nel 2016 abbiamo approvato dopo 30 anni la più importante delle riforme, quella del Regolamento per il funzionamento del Consiglio, valorizzando trasparenza ed efficienza, abbiamo prodotto un enorme lavoro sull’organizzazione e altre importanti iniziative sono avviate. Registriamo un diffuso consenso negli Uffici giudiziari e tra gli operatori del diritto su gran parte delle circa 520 nomine, tra cui moltissime donne, disposte nei primi due anni di attività. Di queste, solo 14 provengono direttamente da esperienze fuori ruolo". Una parte della magistratura spesso ingigantisce temi che sono molto autoreferenziali e si dimostra affezionata al criterio dell’anzianità, da tempo abolito. "Mi chiedo come si possa ritenere, come fanno alcuni critici delle nomine che lei ha citato, che esperienze internazionali presso organismi come Eurojust o la Rappresentanza permanente all’Onu che si occupano di lotta alla corruzione, criminalità, narcotraffico, terrorismo, o presso il Csm o il ministero della Giustizia su organizzazione giudiziaria, esecuzione della pena, attività legislativa, non debbano rilevare nella nomina dei dirigenti. La verità è che sui fuori ruolo abbiamo discusso a fondo e assunto una decisione chiara e unanime nel Testo unico riformato: le esperienze che accrescono le capacità organizzative e la cultura della giurisdizione vengono valutate positivamente, le altre no. Ci siamo attenuti con coerenza e rigore a tale criterio. Sfido chiunque a dimostrare il contrario". Nel bilancio preventivo del Csm per il 2017 è stata stanziata una somma per il trasferimento nell’attuale sede del Cnel, a Villa Lubin. Il costo complessivo (trasloco compreso) è di circa 20 milioni: vale davvero la spesa? Quali sono il senso e il vantaggio di questo trasferimento? "Si tratta di un’ipotesi di virtuosa razionalizzazione e valorizzazione dell’uso del patrimonio pubblico trattandosi di complessi entrambi demaniali. La prestigiosa sede del Cnel è ampiamente sottoutilizzata e gli immobili necessitano di opere di consolidamento che siamo disponibili a realizzare. Le tre palazzine in uso al Csm possono essere riutilizzate per finalità pubbliche, con un risparmio di fitti passivi a carico del bilancio dello Stato che l’Agenzia del Demanio ha stimato in 2 milioni l’anno. Dopo aver acquisito il consenso del Demanio, sarà il plenum a pronunciarsi. Se condividerà la proposta, l’operazione si farà, altrimenti resteremo nell’attuale sede tenendoci gli antichi e recenti problemi di funzionalità e indisponibilità di altri spazi di cui abbiamo forte necessità". Il Csm ha un "tesoretto" di circa 25 milioni (compresi i 20 di cui sopra) gestito, da gennaio 2016, dalla Banca popolare di Bari, che però naviga in pessime acque: il bilancio 2015 si è chiuso con 297 milioni di perdite, in pochi mesi le azioni hanno perso il 21% del valore, Bpb è finita nel mirino, nel 2015, della Procura di Ferrara e, a marzo 2016, di quella di Bari, che ha aperto un fascicolo per ostacolo alle funzioni di vigilanza; inoltre, l’attuazione della norma varata dal governo Renzi per la trasformazione delle Popolari in Spa entro fine 2016 è stata sospesa in attesa della Consulta sui sospetti di incostituzionalità. Molti, anche a palazzo dei Marescialli, sono preoccupati del fallimento della Banca. Lei è preoccupato? "La Banca ha vinto un anno fa una gara europea ed è titolare di un contratto di tesoreria con il Csm come con diverse altre istituzioni pubbliche. La valutazione sulla sua solidità spetta agli Organi di Vigilanza bancaria e dalle informazioni assunte i rischi di insolvenza di cui lei parla non ci risultano. Non si può risolvere un contratto sulla base di articoli di stampa e la somma che lei chiama tesoretto, che altro non è che il frutto di risparmi di gestione da diversi anni a questa parte, è in gran parte destinata a investimenti". Sui giudici in pensione a 72 anni scontro tra i renziani e Orlando di Francesco Grignetti La Stampa, 28 dicembre 2016 Dopo l’apertura del Guardasigilli, l’altolà di Ermini: "Proroga fuori luogo". Dietro il termine asettico di "proroga", che significa spostare l’asticella della pensione per i magistrati da 70 anni (come ha imposto la riforma della Madia) a 72 anni, come era prima, si accende l’ennesima guerra dentro il Pd. Matteo Renzi, e soprattutto Andrea Orlando, si erano impegnati un mese fa con l’Associazione nazionale magistrati a fare appunto la "proroga". Veicolo individuato, un emendamento nella legge di fine anno, detta Milleproroghe. Dietro il termine asettico di "proroga", che significa spostare l’asticella della pensione per i magistrati da 70 anni (come ha imposto la riforma della Madia) a 72 anni, come era prima, si accende l’ennesima guerra dentro il Pd. Matteo Renzi, e soprattutto Andrea Orlando, si erano impegnati un mese fa con l’Associazione nazionale magistrati a fare appunto la "proroga". Veicolo individuato, un emendamento nella legge di fine anno, detta Milleproroghe. Guarda caso siamo alla vigilia del primo consiglio dei ministri dell’era Gentiloni. Ma la questione di prorogare il pensionamento dei giudici (risolvendo la disparità introdotta da un decreto proprio di Renzi che aveva concesso due anni in più solo ai vertici della Cassazione) non è affatto liscia. Anzi, minaccia di diventare una bomba a orologeria. Lo strappo - "L’ennesima proroga del pensionamento dei magistrati oltre il settantesimo anno di età - ha annunciato ieri sera Donatella Ferranti (Pd), presidente della Commissione Giustizia della Camera - non ha ormai più ragione di essere. Tutti i correttivi necessari sono già stati attuati e la riforma Madia del 2014 deve ormai andare a regime". Ferranti va dunque contro quell’accordo a tre tra Renzi, Orlando e Davigo. La mossa non dev’essere isolata, però, se a ruota si esprime anche il super-renziano David Ermini, responsabile Giustizia del partito: "In merito al tema del pensionamento dei magistrati - afferma - una qualsiasi proroga sarebbe fuori sistema e intralcerebbe il proficuo lavoro che il Consiglio Superiore della Magistratura sta svolgendo sulle nomine dei direttivi". È davvero un fulmine a ciel sereno che sembra cancellare la fase "zen" dei renziani. Si ricomincia a duellare. E si inizia dai magistrati, bestia nera di Renzi e dei suoi. Ministero spiazzato E l’accordo di novembre? "Non mi risulta - dice Ferranti - che ci fosse alcun accordo. C’era un impegno a una verifica. Che s’è fatta. Ulteriori proroghe potrebbero essere solo causa di inefficienza organizzativa. Tutti i correttivi necessari sono già stati attuati e la riforma Madia del 2014 deve ormai andare a regime". Ermini usa parole analoghe. E mentre al ministero della Giustizia, retto dal non renziano Orlando, sbigottiscono, e già s’aspettano di dover fronteggiare l’ira funesta di Davigo, la Ferranti conclude severa: "Ulteriori proroghe potrebbero essere solo causa di inefficienza organizzativa". Omicidio stradale flop, il reato non ferma i pirati di Filippo Facci Libero, 28 dicembre 2016 La nuova legge incide poco su incidenti e vittime. Ma crea degli assurdi giuridici. Per esempio: se chi scappa rischia fino a 18 anni. Una cosa non sapevamo ancora: che la legge sul cosiddetto "omicidio stradale", oltretutto, non funziona. Sapevamo che era una legge molto italiana (unica al mondo) e cioè forzata dai tamburi mediatici; sapevamo che l’espressione "omicidio stradale" già suonava strana, perché un omicidio dovrebbe implicare la volontà di uccidere: altrimenti, in tutto il mondo, si chiama omicidio colposo e te lo affibbiano se ci scappa il morto e sei stato imprudente o negligente; sapevamo che in Italia le emergenze "percepite" sono il viatico per leggi improvvisate secondo le quali un assassinio colposo può essere punito più gravemente di uno volontario: la celeberrima coppia milanese dell’acido, per esempio, ha preso meno carcere di quanto potrebbe beccarne un coglione alla guida, e un furto con destrezza, in generale, è punito più severamente di un falso in bilancio. Ma non sapevamo ancora - ce l’ha fatto sapere l’Espresso - che a pochi mesi dall’entrata in vigore, il 25 marzo scorso, la nuova norma ha inciso poco o nulla nella riduzione delle vittime, ma in compenso ha già evidenziato dei limiti che erano immaginabili sin da subito: basta un banale tamponamento per non poter più guidare per 5 anni, basta cioè aver provocato un banale colpo di frusta e fioccano patenti revocate in automatico, mentre per chi usa il cellulare al volante - ormai è la prima causa di incidenti - non è prevista neppure un’aggravante. Non è prevista neanche se un’auto non rispetta un posto di blocco (e causa un incidente) o se partecipa a una gara improvvisata in città. L’Espresso fa un parallelo con la legge sulla patente a punti: entrò in vigore il 1 luglio 2003 e nel giro di 5 mesi permise un calo degli incidenti del 17,16 per cento, mentre la diminuzione nel numero di morti e feriti fu rispettivamente del 23,4 e del 20,2. A confronto, i risultati di 5 mesi di applicazione dell’omicidio stradale sono molto deludenti: incidenti, morti e feriti sono scesi del 3,1, del 4,8 e del 3,7 per cento. La prevista ondata di arresti in flagranza non c’è stata, e neanche le condanne cosiddette esemplari. Mentre c’è stato - ma non riguarda la legge, come detto - un aumento delle multe per uso del telefono cellulare (+ 25 per cento) ma non nelle città, dove lo smartphone è molto più usato. Questa legge la vollero soprattutto le associazioni delle vittime della strada (le uniche a cui piace) e l’obiettivo era colpire chi guidasse ubriaco o drogato e causasse la morte di innocenti: le cronache a un certo punto non parlavano d’altro. Su questa base, a caldo, sono stati modificati i codici penali e stradali. Cioè: aumentate le pene per l’omicidio colposo "stradale" e inasprite quelle per guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di droghe (da 8 a 12 anni) o per omissione di soccorso, più altre batoste in caso di sorpasso in presenza di strisce pedonali, inversione arbitraria a U, velocità eccessiva, guida senza patente e mancato rispetto del rosso. Le sanzioni accessorie prevedono la revoca della patente per minimo 5 anni e sino a un massimo di 30. Dettaglio: 3 incidenti su 4 sono riconducibili alla "distrazione", ma la distrazione non c’è tra le aggravanti. Secondo l’Aci, un guidatore morto su 4 è vittima del telefono. Poi c’è uno studio statunitense secondo il quale i157 per cento delle vittime della strada stava usando il cellulare al momento dell’incidente. Abbiamo lasciato per ultime, giacché vanno poco di moda, le considerazioni garantiste o di banale buon senso. Per esempio: 1) La guida senza patente era stata appena depenalizzata (quando non provocasse morti o feriti) e d’un tratto è ridiventata un’aggravante di omicidio: è schizofrenia legislativa; 2) Non è che, prima, i pirati della strada rimanessero impuniti: l’articolo 589 puniva il reo da 3 a 10 anni ma con aggravanti poteva raggiungere i 15; non mancano casi di giurisprudenza creativa che in nome del cosiddetto "dolo eventuale" hanno comminato pene da 21 a 24 anni; 3) Con pene così elevate, al pirata della strada, conviene davvero scappare. Il risultato di certa demagogia securitaria (cara alla destra come alla sinistra) la riassunsero bene i satiri di "spinoza.it": "18 anni di carcere a chi fugge, a questo punto conviene sparare ai testimoni". Traduzione: chi provoca un incidente, qualora abbia il dubbio anche minimo che un mezzo bicchiere possa avergli alterato il tasso alcolemico, è facile che sia tentato di fuggire. Anche perché la legge stabilisce un nesso inequivocabile tra un tasso alcolemico e un eventuale incidente: il che non è assolutamente detto, perché c’è gente che da brilla guida molto meglio di tanti pirati lucidissimi. È una presunzione di colpa in re ipsa, come si dice. Per una legge che - ora lo sappiamo - in compenso non funziona. Accertamento alcol nel sangue, non vale il test immuno-enzimatico di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2016 Tribunale di Ascoli Piceno - Sezione penale - Sentenza 23 settembre 2016 n. 1108. L’accertamento dello stato di ebbrezza determinato dall’uso di sostanze alcoliche attraverso il ricorso al prelievo ematico impone l’osservanza di procedure particolari ed il rispetto di una metodica che assicuri il rispetto di requisiti minimi di garanzia e affidabilità. Ad affermarlo è il Tribunale di Ascoli Piceno che con la sentenza 1108/2016 ha ritenuto il valore alcolemico risultante dalla metodica immuno-enzimatica su plasma anziché su sangue non utilizzabile ai fini forensi. Il caso - Protagonista della vicenda è un ragazzo che, mentre si trovava in sella alla sua bicicletta a tarda notte, veniva investito da un pirata della strada e successivamente trasportato in ospedale. Giunto al pronto soccorso, al giovane venivano effettuati i prelievi ematici del caso per gli accertamenti relativi all’uso di sostanze alcoliche e/o stupefacenti, dai quali risultava un tasso alcolemico pari a 0,90g/l. In seguito al decreto penale di condanna emanato per il reato di cui all’articolo 186 comma 2 lettera b) del Codice della Strada e alla relativa opposizione, il ragazzo veniva tratto a giudizio dinanzi al Tribunale per rispondere del reato di guida in stato di ebbrezza determinata dall’uso di bevande alcoliche. L’attendibilità del test - In tale sede la difesa del giovane imputato contestava l’attendibilità dei risultati delle analisi perché, in sostanza, essi erano ottenuti attraverso una metodica non avente i requisiti minimi di garanzia e affidabilità richiesti a fini legali. Il consulente della difesa, infatti, aveva sottolineato che il metodo di accertamento dello stato di ebbrezza effettuata presso l’Ospedale, ovvero il "test immuno - enzimatico", "è routinariamente utilizzato per scopi clinici e terapeutici, ma non ha validità con riguardo alle finalità di prova in sede legale". In particolare, il test veniva effettuato sul plasma, "ove la concentrazione di alcol è molto più elevata rispetto a quella che ci sarebbe nel sangue", e non venivano rispettati alcuni accorgimenti come "l’uso di sostanze disinfettanti prive di alcol, assenza di preservante in provetta, conservazione di un campione per le controanalisi". E tutto ciò per la difesa del ragazzo portava alla non utilizzabilità delle analisi. Risultati non utilizzabili - Dinanzi a tale quadro il Tribunale non può far altro che assolvere il ragazzo per insufficienza di prove, non essendo stata accertata la responsabilità penale al di là di ogni ragionevole dubbio. Il giudice ricorda, infatti, che a fronte dell’imputazione di guida in stato di ebbrezza determinata dall’uso di bevande alcoliche l’imputato ben può contestare la regolarità dell’accertamento dimostrando vizi od errori di strumentazione o di metodo. E nel caso di specie, la presunzione normativa dell’alterazione dello stato psico-fisico è stata superata in quanto si è data dimostrazione della inadeguatezza scientifica della metodologia di accertamento della concentrazione di alcol nel sangue. E in assenza di requisiti di garanzia ed attendibilità, il risultato delle analisi effettuate non è utilizzabile in sede penale. Cassazione: se disturbano i vicini, i cani possono essere sequestrati di giulia merlo La Stampa, 28 dicembre 2016 Cattivi odori e rumori molesti provocati dai cani? Il giudice può disporre il "sequestro preventivo", perché gli animali sono considerati "cose pertinenti al reato" e potrebbero permettere alla loro proprietaria di continuare a commettere il reato di disturbo della quiete pubblica. Il caso è avvenuto a Trieste, dove una donna è stata indagata, perché i suoi tre cani, tenuti in un cortile condominiale e in pessime condizioni igieniche, disturbavano la quiete dello stabile abbaiando e per di più i cattivi odori arrivavano alle finestre dei residenti. I condomini avevano quindi sporto denuncia e il tribunale si è pronunciato sulla vicenda, dopo che le autorità sanitarie hanno svolto le loro analisi e sono stati effettuati i rilievi fonometrici dell’Arpa. Questo quanto deciso dal tribunale di Trieste e confermato dalla Cassazione, sollevando una questione tutt’altro che secondaria per chi possiede animali da compagnia: è possibile che i nostri compagni quadrupedi siano considerati delle "cose", invece che degli esseri senzienti? Secondo il giudice sì, tanto da poterne disporre il sequestro preventivo, in alcune fattispecie di reato. E a nulla è valsa l’opposizione della proprietaria dei cani, che ha sostenuto che l’allontanamento degli animali poteva provocare loro sofferenza da abbandono. Secondo il giudice, infatti, è stato prevalente l’interesse degli altri condomini alla quiete della loro casa. Nessuna rilevanza, dunque, per la ipotetica sofferenza dei tre poveri cani sequestrati. Anzi, come hanno scritto i giudici della Cassazione: "la comunque non dimostrata e niente affatto pacifica e indiscutibile sofferenza dei cani derivante dall’allontanamento è priva di rilevanza rispetto alle esigenze umane, che sono tutelate dalle norme penali". Il sequestro, infatti, non provocherebbe alcuna sofferenza per i cani, "i quali non vengono né uccisi, né feriti né maltrattati, ma soltanto trasferiti". Presidente Boldrini, sono passati tre anni e su amnistia e indulto ancora tutto tace di Laura Arconti* Il Dubbio, 28 dicembre 2016 Era il dicembre 2013, tre anni fa. Al Quirinale c’era Giorgio Napolitano, che meno di tre mesi prima aveva rivolto al Parlamento un solenne messaggio, a norma dell’art. 87 della Costituzione, ponendo la questione scottante della situazione carceraria "da affrontare in tempi stretti". Nell’imminenza della Marcia di Natale organizzata dal Partito Radicale scrissi una lettera urgente ai Presidenti del Senato e della Camera dei Deputati, il Senatore Pietro Grasso e la dottoressa Laura Boldrini, firmandola come "cittadina europea e militante radicale". Dopo aver illustrato la situazione, scrivevo: "Noi Radicali, e con noi una imponente raccolta di associazioni, gruppi, periodici, direttori ed operatori penitenziari, sacerdoti e cappellani di carcere, famiglie di detenuti e semplici cittadini, non faremo vacanza il giorno di Natale, ma marceremo da San Pietro a Palazzo Chigi per chiedere ciò che il Capo dello Stato ha chiesto al Parlamento: amnistia e indulto come misure di immediata clemenza, e riforma strutturale del sistema Giustizia". Infine concludevo: "Anche se il Parlamento è in vacanza voi, Presidente Grasso e Presidente Boldrini, avete una possibilità immediata di riaffermare la vostra autorevolezza e la vostra fedeltà alla Costituzione ed al Capo dello Stato. Se non vi basta l’animo per marciare con noi il giorno di Natale da Piazza Pia a Largo Chigi, almeno scrivete un messaggio pubblico al Comitato promotore della Marcia impegnandovi formalmente a convocare la Conferenza dei Capigruppo il 27 dicembre stesso, o a calendarizzare d’autorità il dibattito sul Messaggio del Presidente Napolitano alle Camere. Signori Presidenti, vi affido questa proposta, con fiducia e speranza. Buon Natale!" Il Presidente Grasso non mi degnò di alcun cenno di risposta, neppure un freddo messaggio di segreteria, mentre la Presidente Boldrini mi gratificò di una lunga, puntigliosa risposta, che io ascoltai da Radio Radicale, letta da un redattore durante il notiziario della sera, perché era stata inviata agli organi di informazione prima che a me. La Presidente della Camera mi rimproverava per alcune frasi della mia lettera: "lo strumento del messaggio alle Camere costituisce un atto la cui rilevanza nessuno può ignorare e sottovalutare. Lei scrive che su quel messaggio sarebbe calato "un silenzio cimiteriale" e che sarebbe stato semplicemente ignorato, archiviato, cestinato. Per fortuna le cose non stanno così". Per dimostrami il mio errore, la dottoressa Boldrini elencava tutta una serie di lavori: conferenza dei capigruppo, dibattiti in commissione Giustizia, proposte di legge e decreti governativi, concludendo: "Il mio ruolo non mi consente di pronunciarmi nel dettaglio su questi contenuti, così come mi impone di non prendere posizione su specifici atti legislativi di clemenza, come quelli al centro della marcia di Natale. Mi interessa tuttavia sottolineare che la Camera dei deputati ha accolto il messaggio del Capo dello Stato in modo serio e soprattutto operoso e che il lavoro proseguirà con grande impegno nei prossimi mesi per giungere a quelle risposte concrete e risolutive che possano consentire all’Italia di voltare pagina e di garantire anche negli istituti di pena il pieno rispetto dei diritti umani". Queste parole Laura Boldrini, Presidente della Camera dei deputati, scriveva nel dicembre 2013. A giro di posta io replicai: "da quando il Presidente ha firmato quel documento fino ad oggi, di mesi ne son già passati quasi tre. Ai miei vecchi occhi il divario temporale fra ciò di cui parla il mio coetaneo Giorgio Napolitano e la risposta della Camera da lei diretta è abbacinante: il Capo dello Stato parla di ore, lei di mesi. Inoltre qualcosa mi ha colpita profondamente, ascoltando la lettura della sua lunga lettera di risposta, così documentata e precisa: dalla sua risposta mancano tre parole, che sono invece presenti e ben chiare nel messaggio presidenziale. Basta la prima metà del vocabolario, per trovare queste parole che la sua lettera ignora completamente, gentile signora presidente Boldrini: indulto, clemenza, amnistia" Questo carteggio veniva scambiato, fra me e la Presidente Boldrini, nel dicembre 2013. In questa fine 2016, tre anni dopo, i militanti del Partito Radicale stanno visitando le carceri di tutta Italia, e riferiscono tuttora di condizioni di sovraffollamento e profondo disagio. I Dossier elaborati dall’avvocato Deborah Cianfanelli comprovano lo stallo perdurante del sistema Giustizia, e l’esposto depositato da Marco Pannella, Rita Bernardini, Deborah Cianfanelli ed io stessa alla Corte dei Conti - sul debito erariale generato dai ritardi nello svolgimento dei processi - giace disatteso nel silenzio. Usque tandem? *Cittadina europea e militante radicale Superamento del giustizialismo e riforma della giustizia di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 28 dicembre 2016 L’autocritica del ministro Orlando nei confronti della sinistra e l’analisi di Biagio De Giovanni hanno evidenziato l’urgenza di affrontare la riforma della giustizia. Caro direttore, ogni volta che si ha notizia di fatti di malcostume o di corruzione, si invoca impropriamente la questione morale come se fosse un programma di governo, o una frase di per se salvifica. L’onorevole Orlando nei giorni scorsi ha fatto una dichiarazione molto importante, una formidabile autocritica nei confronti del suo partito e del vecchio Pci: ha detto "abbiamo utilizzato il giustizialismo come surrogato della battaglia per la giustizia sociale ed è ora di voltare pagina", ed io mi auguro che il ministro della Giustizia mantenga l’impegno. Vedo una relazione tra la grande esigenza di legalità diffusa nella società italiana e l’autocritica del ministro, che vorrei spiegare in questa mia lettera, che prende spunto dal tuo articolo sull’argomento. Tu hai rappresento ancora una volta l’esigenza di una riforma della giustizia richiesta da vari anni ma sempre osteggiata, e violentemente, dalla magistratura; e Biagio De Giovanni, nella lucida intervista, ha messo in evidenza la inadeguatezza della classe politica nell’affrontare il problema della giustizia cruciale, per la democrazia e per lo stato moderno. De Giovanni dice che "c’è una invadenza della giurisdizione senza precedenti" e questo è vero ma ha una giustificazione complessa che deriva dalla crisi della norma che ha fatto prevalere la giurisprudenza sulla legge: esempio emblematico il concorso esterno in associazione mafiosa che non è disciplinato dalla legge ma che la Corte di Cassazione ha statuito per suo conto. Io dico da vari anni che la patologia più grave è l’invadenza del pubblico ministero che ritiene di agire "nel nome del popolo italiano". La prevalenza del potere di indagine della Magistratura su tutti gli atri poteri e anche su quello giurisdizionale ha determinato un circuito vizioso e pericoloso consapevolmente e inconsapevolmente utilizzato da tutti, in particolare dai movimenti protestatari, per cui l’ormai famosissimo avviso di garanzia è elemento di allarme sociale perché inquina le istituzioni e il corretto rapporto civile. Superare il giustizialismo incriminato e irrazionale che ha alterato il concetto stesso di giustizia è un problema urgente che costringe ad affrontare il problema della giustizia in Italia Dagli anni 90, dall’infausto periodo di Tangentopoli i casi di corruzione di alcuni politici (molti pochi in verità) hanno trasmesso all’opinione pubblica l’impressione che il sistema politico e istituzionale fosse interamente corrotto e si è perciò invocata una giustizia sommaria che per essere tale non fa distinzioni e accomuna tutti in un unico giudizio. Si è quindi immaginato che la "questione morale" si potesse affrontasse con un giustizialismo con una condanna diffusa e generica. A distanza di tempo si può oggi dare un giudizio sereno: alcuni partiti e in particolare il Pci ha utilizzato in quegli anni i fatti giudiziari per una lotta politica alla Dc che per tanti anni non era riuscita a sconfiggere. Anche per questa interferenza della politica la magistratura aveva assunto in quegli anni, e sembra continui a voler assumere un ruolo di fustigatore dei costumi, di condanna di comportamenti irregolari non solo di natura penale, e si è attribuita il compito di garantire la legalità, fino a consentire al presidente dell’associazione di ripetere che "tutti ladri i politici, tutti, tutti, tutti" con un giudizio alla Savonarola che meraviglia da parte di un magistrato raffinato e conoscitore del diritto. Questo equivoco ha alterato il rapporto tra le istituzioni, e la magistratura ha assunto una pericolosa funzione morale, etica, quella di far prevalere il bene sul male, funzione non propria dell’ordine giudiziario, che ha acconsentito che si confondesse il reato con il peccato, sanzionando il peccato, il comportamento politico non corretto perché consentito e tollerato. Questa funzione impropria ha alterato il rapporto tra le istituzioni perché il magistrato e ancor più il giudice non è chiamato a garantire la legalità ma a reprimere la illegalità che è cosa ben diversa, e che risponde alla funzione propria dell’ordine giudiziario. Si è determinata di conseguenza una contrapposizione anch’essa falsa tra il giustizialismo come condanna indiscriminata e il garantismo interpretato non come rigoroso ossequio alla legge e alla verità ma come accondiscendenza alla devianza che ha avvelenato la società. Se il ministro Orlando in concreto lavora per rendere effettiva la sua dichiarazione deve fare in modo che il potere politico e istituzionale sia fortemente autonomo e più autorevole rispetto alla magistratura che deve rientrare nelle sue funzioni proprie, per esaltare la divisione dei poteri indicata da Montesquieu come una rivoluzione democratica per superare tutte le incertezze istituzionali dell’acien regime. Alcuni ribadiscono che la magistratura non era e non è un potere ma un "ordine" ed è vero, o meglio è stato vero fino agli anni 60-70. Successivamente per mille ragioni e per la complessità del sistema sociale e istituzionale "l’ordine" è diventato "potere", e un potere non può non essere regolato, non può non avere regole precise. Queste nuove regole debbono ispirare la riforma della giustizia cominciando a modificare la Carta Costituzionale perché il ruolo della magistratura è profondamente diverso rispetto al 1948. Riconosciamo che la crisi della legge ha affievolito la sua supremazia a vantaggio di un ruolo più consistente. Il giudice, ha assunto una funzione pressoché illimitata di interprete della norma, e quindi si attribuisce la funzione di controllo del "sistema", di controllo giurisdizionale che, si trasforma in un controllo politico perché il controllo politico è carente, e perché attraverso l’attività di supplenza il controllo giurisdizionale si è trasformato anche in controllo politico". Questo pensa la magistratura e i magistrati lo dichiarano sostanzialmente in ogni occasione. D’altra parte questa è diventata una caratteristica culturale di tutta la magistratura e non solo in Italia. Robert H. Bork docente alla Yale University, nel suo libro "Il giudice sovrano" scrive: "La rivoluzione politica porta con sé una rivoluzione culturale. Leggendo le opinioni di molti giudici sembrerebbe che essi ormai credono che la propria missione sia quella di proteggere la civiltà… l’attivismo giudiziario, per le sue caratteristiche e per l’esempio che fornisce, incrina le fondamenta su cui sono basate le democrazie occidentali". Bork conclude "dobbiamo capire la portata della rivoluzione politica che sta avvenendo in tutte le nazioni occidentali e che sta portando alla graduale ma incessante sostituzione del Governo dei rappresentanti eletti con quello dei giudici nominati". Si tratta di considerazioni complesse che fanno giustizia della idea diffusa che il contrasto tra potere legislativo e giudiziario sia una bega di basso livello. Il tema è arduo e difficile ed è il problema principale della democrazia moderna. Dobbiamo dunque partire da questa considerazione di fondo per adeguare la Costituzione alla nuova realtà che si è determinata. Siamo appena usciti da un referendum istituzionale che pretendeva di aggiornare la Costituzione alle nuove esigenze della società e non si occupava della giustizia e della magistratura che è il problema principale perché un nuovo ruolo adeguato ad un nuovo potere giudiziario è essenziale per realizzare l’equilibrio e l’armonia tra le istituzioni. La conclusione politica è che la corruzione e la devianza sono la conseguenza di mille atteggiamenti e comportamenti non corretti che la classe dirigente, in primo luogo, e tutti quelli chiamati a rappresentare funzioni socialmente rilevanti mettono in atto. Si fa trionfare la questione morale se si organizza la cultura, se il tasso di scolarità è alto, se la politica è espressione alta della cultura, se i partiti svolgono il loro ruolo nella società, se le istituzioni sono rappresentative della realtà del paese e sono rispettate per la funzione che svolgono, se chi amministra un comune, una regione, un ente pubblico, segue regole comprese dai cittadini, se chi governa il paese si rivolge ai cittadini e non far promesse che non può mantenere. La questione morale in definitiva costituisce l’esempio di comportamenti trasparenti che determinano solidarietà sociale e fiducia nelle istituzioni. Il demone giustizialista sguinzagliato dalla stampa di Emanuele Macaluso Il Dubbio, 28 dicembre 2016 La Lettura, settimanale del Corriere della Sera, pubblica con grande rilievo un ampio articolo di Pierluigi Battista, con questo titolo: "Elogio della Prima Repubblica". E nel sommario si legge: "Era dominata dai partiti e non conosceva alternativa, ma modernizzò il Paese senza minare i diritti di libertà. Anche se i governi mutavano, la situazione rimaneva stabile. E le grandi opere si facevano". Battista dice una cosa su cui, più modestamente, io ho scritto molto: "La memoria storica è una cosa seria, rappresentare il passato in modo caricaturale distorce la percezione della realtà. I paladini dell’anno zero debbono imparare che non siamo affatto all’anno zero. Di anni la storia repubblicana ne ha più di settanta. Tutto sommato portati bene". Battista ricorda il ruolo straordinario che ebbero i partiti, con limiti, difetti e anche macchine costose, ma "le sezioni erano piene di cittadini che discutevano, si appassionavano, socializzavano e non si sentivano più soli". Certo, la situazione non era idilliaca, Battista non ricorda che in quegli anni si manifestarono anche duri scontri sociali, con morti e tanti arrestati, e aspri scontri politici, ma è anche vero che si realizzarono fondamentali conquiste sociali, civili, di libertà. Ne ricordiamo solo alcune: il sistema pensionistico, la sanità pubblica, la scuola unica, lo statuto dei lavoratori, il diritto di famiglia, il divorzio, l’aborto non più clandestino, e altre ancora. Battista ha ragione quando ricorda che si votava con la proporzionale, c’erano governi che duravano poco e altri più a lungo, ma c’era una relativa stabilità politica, anche se le alternative di governo mancavano per i motivi che conosciamo. De Gasperi col suo centrismo governò sei anni e il Centrosinistra durò più di vent’anni. Bisogna sempre ricordare, e Battista non lo fa, che in quegli anni ci furono eccidi, da Portella della Ginestra a Piazza Fontana, a Brescia, alla Stazione di Bologna, ci fu il terrorismo nero e rosso, e quello mafioso, che seminò morte e paura. Tuttavia, la democrazia fu difesa, soprattutto dalle grandi masse popolari, e sostanzialmente vinse. E i partiti, con tutti i limiti ricordati, rafforzarono l’unità nazionale. Insomma, se si pensa a quegli anni, che furono anche gli anni della Guerra fredda, si capisce il ruolo essenziale che ebbero le forze politiche di governo e di opposizione, e lo straordinario impegno di tanti uomini di cultura. Ora, Battista è una firma autorevole del Corriere, e forse bisogna anche ricordare il contributo dato dai media (Corriere compreso) nella demonizzazione della Prima Repubblica e dei grandi partiti. La crisi politica esplosa dopo il 1989 ( Caduta del Muro di Berlino) di un sistema che rispecchiava quello internazionale, acutizzatasi con i fenomeni di corruzione emersi con Tangentopoli e non combattuti dalla politica, poteva essere affrontata con metodi e culture diverse da quelli che prevalsero (soprattutto il giustizialismo) con l’attivo sostegno della grande stampa. Comunque, è bene che oggi si possa ripensare serenamente al passato. Non fu fatto negli anni del berlusconismo, né da chi governava né da chi stava all’opposizione, non lo ha fatto certo Renzi che si è cucito addosso il bottone della rottamazione. Ma se non c’è un ripensamento serio, culturalmente e politicamente, su questo fronte, per la politica italiana, e in particolare per il Pd, non ci sarà prospettiva. Salerno: muore in cella a Natale, ma la moglie non crede sia infarto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 dicembre 2016 Era recluso da tre mesi in attesa del processo per traffico di sostanze stupefacenti. l’uomo aveva il labbro spaccato, lividi sul collo e il volto gonfio. il decesso sarebbe avvenuto alle 2.40, ma in ospedale è giunto alle 7.30. La donna ha presentato una denuncia. Privo di vita con il labbro spaccato e sporco di sangue, collo ricoperto di lividi e il volto gonfio. Così, nella notte tra Natale e Santo Stefano, il salernitano Alessandro Landi di 36 anni, arrestato a settembre nel blitz anti droga "Italo", è stato trovato cadavere nel bagno della sua cella, nella casa circondariale di Salerno Fuorni. La salma ora è a disposizione della magistratura. Sarà una inchiesta a dar luce sulle cause del decesso. La versione ufficiale parla di infarto, ma la famiglia del 36enne non crede a questa ipotesi. "Mi hanno detto che è morto d’infarto - denuncia la moglie di Alessandro, ma io non ci credo. Aveva il viso gonfio, due lividi sul collo e un grumo di sangue sul labbro. Non so cosa sia accaduto e voglio andare fino in fondo". La moglie Annamaria Vitolo, 38enne di Matierno, ha sporto denuncia in questura, chiedendo alla magistratura di fare chiarezza sul decesso di suo marito. "Poco dopo le otto, un carabiniere si è presentato a casa per dirmi di contattare immediatamente la segreteria detenuti, perché dovevano darmi delle comunicazioni urgenti. Quando ho telefonato, mi è stato detto che mio marito era deceduto dopo un malore avuto nella notte e che la salma si trovava all’obitorio del Ruggi - ha raccontato al quotidiano salernitano La Città la signora Vitolo - A quel punto mi sono precipitata in ospedale con mio figlio, Francesco Pio, mia sorella Gaetana e mia madre Angela". Medici e infermieri spiegano ai familiari del trentaseienne che l’uomo sarebbe morto di infarto in carcere intorno alle 2.40 di notte e che sarebbe arrivato già privo di vita al pronto soccorso intorno alle 7.30 del mattino. "Che cosa è successo durante queste ore?", si chiede sempre la moglie del detenuto. "Non capisco perché abbiano fatto passare così tanto tempo prima di soccorrerlo. Per questo mi sono rivolta a un legale per chiedere che venga fatta l’autopsia. All’inizio non volevano farmi vedere mio marito. Poi, dopo aver contattato il 113, mi hanno fatto entrare con mio figlio. Mi è subito balzato agli occhi il labbro sanguinante e due lividi sul collo oltre che sul braccio. E poi il suo viso era livido e gonfio. L’ultima volta ci siamo visti venerdì, Alessandro sembrava in forma ed era sereno. Gli avevo portato il baccalà per Natale mi è sembrato tranquillo ed era riuscito anche ad uscire fuori dalla tossicodipendenza grazie al metadone. Fisicamente stava bene, lo avevano anche assunto come idraulico per fare dei lavori all’interno del carcere. E neppure in passato ha mai sofferto di problemi cardiologici. Non capisco che cosa sia dunque potuto succedere, ma di certo non credo che sia morto per un arresto cardiaco". La signora poi ipotizza: "Una colluttazione? Non saprei. I lividi potrebbero essere compatibili anche con una caduta. Confido nell’operato dei magistrati e spero che mi possano aiutare a capire. Se è vero che mio marito è giunto in ospedale solo alle 7.30, mentre l’orario del decesso è alle 2.40, mi chiedo cosa sia accaduto in queste cinque ore e perché non l’abbiano trasferito prima al pronto soccorso. L’infarto è una patologia che impone la massima celerità. Ritengo che sia mio diritto capire se la morte di Alessandro poteva essere evitata oppure no. Lo faccio per me e soprattutto per nostro figlio. Alessandro stava bene. Soprattutto nell’ultimo periodo aveva svoltato liberandosi dalla droga e trovando un lavoro all’interno della casa circondariale, con il quale mi aiutava ad andare avanti e a crescere il bambino". Infine conclude: "Non può essere capitato così, all’improvviso. E non avrò pace finché non sarò riuscita a capire come siano andate le cose. Spero che i magistrati mi aiuteranno a venirne a capo per non vivere per sempre con questo dubbio che mi tormenta". Alessandro Landi era detenuto da tre mesi ed era in attesa di processo. Era stato arrestato nel corso del blitz Italo che aveva portato in carcere dei giovanissimi che, suddivisi in gruppo detenevano il controllo dello spaccio a Salerno. Landi, secondo le accuse della Procura apparteneva al gruppo di Emanuele Barbone. Il 36enne è stato rinvenuto dagli agenti di turno seduto sul wc della stanza di pertinenza, appoggiato su se stesso. Una posizione che ha immediatamente insospettito l’agente di turno il quale si è avvicinato all’uomo per accertarsi che fosse tutto a posto. Alessandro era già morto quando è stato rinvenuto, inutile ogni tentativo di soccorso. Secondo quanto riferito dalla segreteria provinciale della Uil polizia penitenziaria, non appena è scattato l’allarme, nel giro di pochissimo tempo, presso l’istituto di pena è arrivato il comandante di reparto, che ha proceduto alle comunicazioni di rito all’autorità giudiziaria per informare dell’accaduto. Successivamente, con l’arrivo del medico legale, la salma è stata trasferita presso l’obitorio dell’ospedale di via San Leonardo dove si trova attualmente a disposizione del magistrato. Venezia: screening anti tumori anche in carcere, si è iniziato alla Giudecca genteveneta.it, 28 dicembre 2016 Per detenute e detenuti, gli screening contro il tumore entrano in carcere: si è avviato infatti in questi giorni il progetto dell’Ulss 12 Veneziana, con il sostegno della Lega contro i Tumori e del Collegio Interprovinciale delle Ostetriche, per sottoporre agli "screening", cioè ai controlli gratuiti e programmati, anche le persone che sono in regime di detenzione. Il progetto è partito il 22 dicembre, quando le detenute del Carcere della Giudecca hanno ricevuto la visita del personale sanitario e sono state sottoposte all’esame PapTest/Hpv per la prevenzione del carcinoma del collo dell’utero: come tutte le donne tra i 25 e i 64 anni, così, anche le detenute di questa fascia di età hanno potuto eseguire questo primo screening. Sono una sessantina le detenute che si vengono sottoposte all’esame, in tre sessioni, la prima appena svolta, le altre in programma a gennaio. Si proseguirà con il secondo screening, quello per la prevenzione del tumore del colon-retto, che riguarderà la popolazione tra i 50 e i 69 anni non solo femminile, ma anche maschile nel Carcere di Santa Maria Maggiore. Il tero screening oncologico, quello mammografico, vedrà le detenute del Carcere femminile sottoporsi ai controlli, a partire dal mese di gennaio, nella sede distrettuale dell’ex Giustinian a Venezia: una quarantina le detenute che effettueranno questo controllo per la prevenzione del tumore al seno, previsto per le donne di età compresa tra i 50 e i 74 anni. "L’Ulss 12 è impegnata - ha spiega in carcere il Direttore Generale Giuseppe Dal Ben - a garantire anche a detenute e detenuti gli stessi controlli che vengono offerti alla popolazione sul territorio. È un segno di attenzione verso chi è limitato nella propria libertà, ma non per questo può essere considerato, dal punto di vista della salute, come un cittadino minore. L’iniziativa sarà anche di esempio per tutti i cittadini, che già possono sottoporsi a questi esami, garantiti e gratuiti, e che magari si sottraggono rinunciando così ad un importante appuntamento con la salute. Ricordiamolo: gli screening possono salvare la vita". L’ampio e complesso programma di screening in carcere è realizzato dal Dipartimento di Prevenzione dell’Ulss 12 con la collaborazione della Lega per la Lotta ai Tumori (Lilt) di Venezia: "Sosteniamo questa iniziativa - spiega la Presidente, Mariagrazia Cevolani - offrendo la presenza di una giovane ostetrica che affiancherà in carcere il lavoro del personale messo in campo dall’Ulss 12. Allo stesso modo, la nostra Associazione ha sostenuto la presenza in carcere di un senologo per la prevenzione senologica pensata per donne che non avrebbero altrimenti la possibilità di sottoporsi a una visita: quest’anno le visite sono già state effettuate il 16 dicembre sempre dal dottor Luciano Griggio. Azienda sanitaria e Lilt sono quindi un’altra volta al lavoro insieme per rendere concreta ed efficace la prevenzione del tumore, anche tra detenuti e detenute". Ha guidato gli interventi del primo screening, nel Carcere della Giudecca, Barbara Guarinoni, ostetrica dell’Ulss 12 e Presidente del Collegio Interprovinciale delle Ostetriche, che in questo modo testimonia l’impegno personale e del Collegio nella prevenzione a tutti i livelli. Fondamentale la collaborazione della Direzione carceraria, che ha voluto e sostenuto l’attivazione di questo programma, e del dottor Vincenzo De Nardo, il titolare della sanità carceraria dell’Ulss 12, con i suoi infermieri. Lucca: i senatori del Pd visitano il carcere "situazione migliorata" gonews.it, 28 dicembre 2016 I parlamentari Pd Marcucci, Mariani e Granaiola hanno visitato il San Giorgio e hanno incontrato il direttore Ruello e la garante Pisano. Andrea Marcucci, parlamentare Pd, ha commentato così la situazione del carcere San Giorgio a Lucca: "Per la prima volta, dopo anni di ispezioni, possiamo dire che la situazione del carcere San Giorgio di Lucca è notevolmente migliorata. I detenuti residenti oggi sono 88, in passato si sono toccate punte con circa 220 reclusi". Lo dichiarano i parlamentari Pd Andrea Marcucci, Raffaella Mariani e Manuela Granaiola all’uscita della visita ispettiva presso la casa circondariale di Lucca dove hanno incontrato il direttore Francesco Ruello e la garante Angela Mio Pisano. "Le misure alternative al carcere- sottolineano gli esponenti dem - e la revisione della capienza della struttura (oggi definita in 70 detenuti) hanno prodotto un beneficio tangibile, anche in termini di spazio per singolo detenuto e di vivibilità complessiva del carcere". Alle tre sezioni dell’istituto, molto presto (la consegna è prevista per febbraio, l’agibilità entro l’estate) se ne aggiungerà una quarta che sarà riservata alla socializzazione e ai corsi di formazione. I detenuti (52 in attesa di giudizio, 36 con condanna definitiva) sono in prevalenza (49 su 88) stranieri, e tra loro 26 del Marocco, e provengono in maggior parte dalla Versilia, con reati legati allo spaccio di droga e contro il patrimonio. "Le criticità del carcere restano quelle tipiche di una struttura vecchia come il San Giorgio - sostiene Andrea Marcucci - e quindi si segnalano la lentezza dei lavori di adeguamento delle cucine e dell’infermeria ed un affievolimento dei rapporti di collaborazione con il mondo del volontariato". Lucca: le poesie dei grandi autori recitate dai detenuti del carcere di S. Giorgio loschermo.it, 28 dicembre 2016 Uno spettacolo dei detenuti per i detenuti. Una pièce teatrale in grado di alleggerire, per quanto possibile, il Natale dietro le sbarre. Ha avuto grande successo la rappresentazione andata in scena sul palco allestito all’interno della casa circondariale di Lucca. Una performance che ha visto protagonisti i reclusi, a margine del corso di teatro promosso dall’amministrazione comunale di Pietrasanta nel carcere San Giorgio. I detenuti hanno recitato poesie di grandi autori, da Salvatore Quasimodo ad Alda Merini, da Umberto Saba a Guido Gozzano, suscitando grande partecipazione da parte di tutta la comunità carceraria. Brani letti con intensità e commozione, sotto la guida attenta dell’assessore al Sociale, Lora Santini che, forte di una lunga esperienza come attrice dialettale, ha coordinato lo spettacolo insieme al partner di palcoscenico, Antonio Meccheri. Un evento che ha coinvolto tanti detenuti stranieri e che si è concluso con un intervento musicale trascinante, completamente improvvisato. "Il corso di teatro - spiega l’assessore Lora Santini - è un’opportunità importante per avviare il percorso di reinserimento nella società di chi ha scontato la pena. Tutti meritano una seconda occasione. Organizzare uno spettacolo in carcere è anche un modo per riportare l’attenzione sui problemi del sovraffollamento e della carenza di spazi per gestire i rapporti genitori figli. Sono temi di cui si parla sempre troppo poco e l’amministrazione comunale di Pietrasanta è impegnata a rimetterli al centro del dibattito politico". Il carcere San Giorgio è lo stesso in cui fu rinchiuso per 39 giorni il sindaco Massimo Mallegni, nell’ambito delle note vicende giudiziarie poi finite con un’assoluzione. Il corso di teatro, riconfermato anche per il 2017, non è l’unica attività promossa dal Comune di Pietrasanta sulla base dell’accordo con la direzione della casa circondariale di Lucca. A gennaio è previsto il via al primo corso di cucina, organizzato e interamente gestito da Versilia Format. Napoli: il Cardinale Sepe ai detenuti "non si nasce boss, c’è chi pensa a voi" di Ottavio Lucarelli La Repubblica, 28 dicembre 2016 "Non si nasce camorristi. Nessuno nasce camorrista. Sono le condizioni a portare queste devianze, ma anche per voi c’è la misericordia di Dio". Crescenzio Sepe apre così il pranzo di Natale di cento detenuti riuniti dalla Comunità di Sant’Egidio nell’ampia palestra-teatro del carcere di Secondigliano. Una delle dieci tappe scelte da Antonio Mattone, responsabile "carceri" della Comunità, per dieci pranzi in altrettanti istituti di pena della Campania. Due gli appuntamenti prima di Natale a Poggioreale, ora tocca a Secondigliano. "Noi siamo qui - spiega Sepe - non solo per farvi sentire meno soli e per dimostrare la nostra vicinanza, ma anche per dirvi che all’esterno del carcere c’è gente che pensa a voi e al vostro futuro". Parole apprezzate dal direttore del carcere, Liberato Guerriero, che ha selezionato direttamente i cento partecipanti al pranzo tra i 1.200 detenuti rinchiusi a Secondigliano: "Abbiano scelto i più poveri, i meno abbienti". Gli altri detenuti avevano salutato da dietro le sbarre il cardinale Sepe al grido: "Sovraffollamento, sovraffollamento". In sala anche Apostolos Paipais, il presidente della circoscrizione Scampia che abbraccia i quartieri di Marianella, Piscinola e Chiaiano: "Stiamo studiando assieme alla dirigenza del carcere alcuni progetti per utilizzare i detenuti nei lavori socialmente utili". Il cardinale Sepe ha offerto sigarette ai detenuti e ha confermato: "Anche nel 2017 potrete vedere gratuitamente in televisione le partite del Napoli. Voi, così come i detenuti di Poggioreale". Scatta l’applauso, e Sepe avverte: "Mi raccomando, però, non devono esserci tifosi della Juventus". I detenuti ne indicano uno e allora il cardinale sorride: "Ti scomunico. Ti scomunico". Chiuso il discorso, i sessanta giovani volontari della Comunità di Sant’Egidio hanno distribuito il ricco pasto di Natale offerto con il sostegno di un ristorante del centro di Napoli, di un’associazione di Giugliano e di una nota casa vinicola flegrea. Si comincia con insalata di rinforzo, mozzarella e pizza di scarole, si prosegue con abbondanti porzioni di cannelloni al sugo, polpette in bianco con patate e scarole cucinate con olive e capperi. Infine mandarini e banane, frutta secca, panettone campano e pandoro. Tutto innaffiato da vino rosso e spumante. Sessanta volontari tra i quali spunta il comico Lino D’Angiò che si scatena imitando il cardinale Sepe, innanzitutto, ma anche il presidente e l’allenatore del Napoli Aurelio De Laurentiis e Maurizio Sarri. Per finire con il sindaco Luigi de Magistris. In sala una delegazione dell’Ordine degli avvocati di Napoli che, con la direzione del carcere e la Municipalità, ha organizzato per metà gennaio una serie di iniziative a Scampia sulla legalità. Torino: la gita in cella di nonno Chiamparino di Beppe Minello La Stampa, 28 dicembre 2016 Tra i bambini "detenuti" e i detenuti malati. È stata una giornata particolare quella di ieri per il presidente Chiamparino che con l’assessore Monica Cerutti e il garante dei carcerati, Bruno Mellano, ha trascorso alcune ore al "Cotugno Lorusso" visitando, fra i tanti padiglioni, quello che ospita il "Centro assistenza intensiva" e l’"Istituto di custodia attenuata mamme". Due realtà di eccellenza, ma che rappresentano plasticamente i problemi nei quali deve barcamenarsi una struttura che ospita - ieri – 1.330 detenuti dove ne potrebbero stare 1.100 (ma in passato si è arrivati anche a 1700 fino a quando l’Europa non ci ha condannati). Due realtà d’eccellenza ma dove piove sui malati e dove l’ubicazione - al terzo piano - non è l’ideale se l’ascensore è sempre rotto. Da quest’anno, i servizi erogati sono di competenza della Regione, non l’immobile che tocca al ministero al quale il governo regionale e il direttore del carcere, Minervini, rivolgeranno un appello perché intervenga. L’altra faccia della medaglia è il reparto dove sono rinchiuse 8 donne con i loro 11 figli (fino a 6 anni d’età). Il carcere è orribile a prescindere, ma la palazzina di due piani separata dal resto delle celle e il giardinetto, ne fanno, se è mai possibile, un’oasi. Lì s’è intrattenuto nonno Chiamparino che, appena può, corre a Bruxelles ad abbracciare i suoi nipoti. Napoli: i giovani detenuti di Nisida raccontati al Capri-Hollywood di Francesca Cicatelli Il Mattino, 28 dicembre 2016 A Nisida, nel freddo dei cuori infranti, germoglia il calore ella speranza. Dai volti redenti e ora indifesi dei minori detenuti affiorano segnali di cambiamento ogni giorno. Non ti aspetteresti mai che il promontorio arroccato sul mare sia l’unico orizzonte degli sguardi dei ragazzi reclusi nel carcere minorile, travolti dalla violenza dell’esperienza della detenzione che a Nisida si fa mite per il metodo di recupero adottato da Gianluca Guida. A raccontare le storie del carcere il film "Mirea" (proiettato domani al Capri - Hollywood), per la regia di Salvatore Sannino e Mario Vezza, coprodotto da Antonio Acampora e Armando Ciotola del centro di produzione Cinema Fiction Napoli, dal Teatro di Sotto e dall’associazione MetaMorfosi. Il film racconta la storia di Mirea (interpretata da Giovanna Sannino), una ragazza di 16 anni che vive a Napoli, con sua madre Nunzia, in un basso del quartiere Petraio. Mirea è una pedina del Sistema, sostiene lei la sua famiglia vendendo tutte le notti la cocaina che nasconde ordinatamente sotto i battiscopa di casa sua. Durante un blitz notturno Mirea e sua madre vengono arrestate, la ragazza viene portata all’Istituto Penale Minorile di Nisida e Nunzia al carcere femminile di Pozzuoli. A Nisida Mirea divide la cella con Giulia, ragazza calabrese di una bellezza invadente ed aggressiva. Giulia si prende gioco di Mirea e la usa in tutti i modi per i propri interessi ed obiettivi. Il comportamento di Giulia e la vita carceraria influiscono sullo stato d’animo di Mirea, alimentando tensioni all’interno dell’istituto e conflittualità tra le due ragazze. Mirea avverte il desiderio di un cambio di passo, di fare scelte importanti per il futuro, guardando "fuori", cercando stimoli dalla realtà esterna e dalle bellezze che circondano il carcere. Scrive una lettera a sua madre, sperando di avere da lei quel sostegno e quella guida che in passato l’è venuta sempre a mancare. Con il tempo, la solitudine costringe la ragazza a chiedere altro da se stessa e a farlo uscire fuori. Rischiando in prima persona. Il film - attraverso il racconto corale e diretto della condizione dei detenuti realmente ospiti a Nisida, fatto in prima persona dai ragazzi stessi e dalle figure che rappresentano l’Istituto - va ad indagare sui sentimenti ed i desideri di questi ragazzi, sulle loro passioni e la loro umanità, valorizzando gli elementi positivi che caratterizzano le loro vite e che la realtà circostante di Nisida vuole far loro risaltare. Sulla voglia di andare oltre le stereotipie che caratterizzano il comune sentire della gente sulla loro condizione di detenuti. "Approdi e naufragi", di Fabrice Olivier Dubosc. Le icone delle stragi dei migranti recensione di Alessandra Pigliaru Il Manifesto, 28 dicembre 2016 L’elaborazione del lutto per gli uomini e le donne morti nel Mediterraneo. "Approdi e naufragi", un esercizio di psicologia postcoloniale firmato da Fabrice Olivier Dubosc. Quando nell’ottobre di tre anni fa, 366 migranti morivano al largo della costa di Lampedusa, molte erano già state le tragedie del Mediterraneo e, purtroppo, altrettante erano lì da venire. Eppure in quel momento la singolare vicenda, più di altre, rappresentava un’ecatombe difficile da mettere in parole, ancor più da spiegare. È stato così anche per Fabrice Olivier Dubosc, psicologo analista con una pratica clinica transdisciplinare, che ha deciso di scrivere una lunga riflessione a partire dalla "cerimoniosa quanto retorica sepoltura di Stato". Sono "tracce", scrive lui stesso, per una cosiddetta psicologia post-coloniale che hanno poi assunto la fisionomia di un libro dal titolo eloquente, Approdi e naufragi. Resistenza culturale e lavoro del lutto (Moretti & Vitali, pp. 292, euro 20). Il volume non si concentra però sul fenomeno della migrazione, prende avvio sgranandosi per altre strade che si incrociano con esodi ugualmente complessi. Si affastellano così numerose immagini, per esempio Nostra Signora di Lampedusa che nel XVII secolo approdava dalla Sicilia al Brasile insieme ad altre irmandades; icone che garantivano degna sepoltura e che venivano adottate con devozione dalle confraternite di schiavi brasiliani. Ciò per dire che la geografia critica di Dubosc è ricca di stratificazioni il cui perno è costituito dallo scandalo di non riuscire a trovare un orientamento tra le irrimediabili immagini di morte che quotidianamente si ripetono. Se è vero che intercettare una cartografia di storie consente di costruire una genealogia di ciò che accade, è lecito immaginare che si possa determinare anche la scoperta di numerose figure, rispondenti a ulteriori narrazioni, capaci di dissonanza critica. Quindi Dubosc, insieme alla Madonna liberatrice, racconta la storia di Benedetto di San Fratello, Margaret Garner, Sara Baartman e la resistenza aborigena di Truganini. E poi gli apparati teorici, offerti in particolare da Paul Gilroy e Achille Mbembe. È tuttavia in ciò che Dubosc chiama "pulsione umana del narrare" che sta il fulcro di questo volume, interessante nella sua nervatura poiché - oltre a raccontare e mettere insieme storie poco note - possiede un buon punto di avvistamento. La narrazione del sé appartiene infatti non solo a chi sopravvive bensì a quella misura del lutto - e delle vite che sembrano esserne "degne" o "indegne" - che si trasforma in eredità. In questo discorso, e nella formazione dell’autore, molto peso ha avuto Jung e la lezione del Libro rosso. Suggerimento, in capo ai defunti che reclamano ascolto e "richiedono istruzione", che è attraversato dalla lettura dell’ultima Judith Butler e della straordinaria risorsa della vulnerabilità. Basterebbe solo questo aspetto per dare ad Approdi e naufragi una possibilità di approfondimento. E invece c’è molto di più in questo libro piccolo, complesso e ricco di aperture critiche e politiche da esplorare e interrogare ancora. "Città inferno", racconti del carcere e di donne recensione di Piero Bevilacqua Il Manifesto, 28 dicembre 2016 A Roma può capitare di assistere a degli spettacoli di rara intensità drammatica, che transitano come clandestine meteore nei circuiti "minori" delle sedi teatrali cittadine. É stato il caso di Città inferno, messo in scena purtroppo per soli due giorni, (il 13 e 14 dicembre scorsi), al teatro dell’Orologio e che non ha goduto dell’attenzione che avrebbe meritato. Lo spettacolo cui abbiamo assistito, diretto da Elena Gigliotti - che è anche una delle attrici protagoniste - è liberamente ispirato a Nella Città, l’inferno (1958) un film di Pietro Castellani (che ne scrisse anche la sceneggiatura insieme a Suso Cecchi d’Amico dal romanzo di Isa Mari in cui l’autrice racconta la sua esperienza in prigione) con Anna Magnani e Giulietta Masina, e rappresenta l’inferno carcerario di sette donne. L’epoca in cui si svolge la storia spazia liberamente dagli anni Quaranta del ‘900 ai giorni nostri, come in una sorta di eternità senza redenzione, che sembra riflettere l’immobilità temporale della reclusione. Mentre le vicende umane narrate riprendono e riecheggiano storie vere, pezzi di esistenze che si sono affacciate alla cronaca dell’Italia novecentesca per pratiche criminali e atrocità reali. Lo spazio del teatro - e la struttura che somiglia a una caverna del Teatro dell’Orologio si è prestata ottimamente alla metamorfosi - si trasforma nella rappresentazione di un luogo claustrofobico in cui i corpi delle sette giovani attrici mostrano l’impeto incontenibile della libertà repressa. Niente forse più delle danze, dei dialoghi frenetici, delle urla delle protagoniste dà allo spettatore il senso della prigione, dei muri invalicabili in cui la vita carceraria le racchiude. Il puro scatenamento dei corpi femminili, che mimano danze, violenze fisiche e sopraffazioni, gesti d’ira, scatti liberatori e talora l’elegia del canto, il richiamo malinconico al mondo di fuori, i sussurri della speranza di una prossima libertà. Si tratta di un vero magma di esistenze che esplode nel chiuso spazio di una cella, all’inizio indistinto, pura energia vitale in movimento, ma che a poco a poco si dipana e articola mostrando distinte personalità individuali e diversi destini. Concitatissimi dialoghi, monologhi estraniati e talora deliranti, esplodono come lampi per confessioni sussurrate, delitti e atrocità commesse, infanticidi, assassini inspiegabili che appaiono come maledizioni decretate dal Fato. Lo spettatore scopre, come in un dramma greco, la dimensione tragica della colpa che grava su queste creature, imprigionate dal destino, dall’imperscrutabilità del caso prima ancora che dal carcere. Mentre un alone di impossibile redenzione circonda anche le figure che appaiono meno gravate dalla colpa, che anelano alla libertà, che la sentono prossima. Pur nella diversità delle storie di vita di ciascuna donna, l’angusto spazio del carcere sembra accomunarle tutte nella fragilità della speranza. E occorre dire che la regia ha felicemente favorito l’individuazione dei profili femminili, anche grazie al sapiente uso dei dialetti, i diversi dialetti italiani, dal calabrese al veneto, che risuonano sulla scena e che rafforzano la carnalità della recitazione, legano i volti e le voci alle radici delle loro terre, che nel carcere ricordano i tempi della perduta libertà. Migranti. Una generazione di italiani in attesa di cittadinanza di Aldo Benassi Il Manifesto, 28 dicembre 2016 Seconde generazioni. Da più di un anno è ferma al Senato la riforma che riguarda più a 800mila giovani. Tra le riforme rimaste appese al filo di queste legislatura, c’è il ddl sulla cittadinanza per i figli degli stranieri nati in Italia, fermo da oltre un anno al Senato e zavorrato da circa 8mila emendamenti dopo l’approvazione da parte della Camera con 310 voti favorevoli, la contrarietà di Lega, Forza Italia e l’astensione del M5S. Le modifiche alla legge 91 del 5 febbraio 1992, entrata in vigore il 15 agosto successivo, prevedono che i figli nati da coppie straniere su suolo italiano possano godere della cittadinanza italiana se uno dei due genitori sia in possesso del permesso di lungo soggiorno, mentre i minori entro i dodici anni d’età accompagnati e non, sono cittadini italiani dopo aver completato un ciclo scolastico della durata di almeno cinque anni. Per quelli invece che hanno superato il dodicesimo anno d’età, la cittadinanza italiana è acquisita dopo un ciclo scolastico e parallelamente sei anni di residenza consecutivi, con l’ulteriore requisito del permesso di lungo soggiorno di entrambi i genitori. #Annonuovoleggenuova, si chiama così l’ultima campagna realizzata dai ragazzi e dalle ragazze del gruppo informale "Italiani senza Cittadinanza", che fino al 31 dicembre diffonderanno attraverso la loro pagina Facebook autoscatti a sfondo natalizio per ricordare al Senato l’importanza dell’approvazione del ddl in tempi brevi. Un messaggio che al momento è rimasto inascoltato, lasciando in sospeso le vite di quasi 800mila alunni stranieri che frequentano le scuole italiane - principalmente minori - e altri 150mila giovani adulti oltre i 25 anni. La ventitreenne italo-brasiliana Kwanza Musi Dos Santos, tra le fondatrici del gruppo - la quale gode dei diritti civili e politici grazie alle origini italiane della madre - non può che constatare la sua delusione nonostante le tante rassicurazioni ricevute: "Il 13 ottobre eravamo stati ricevuti dall’allora presidente della Commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro, insieme alla relatrice del ddl Doris Lo Moro (Pd), la deputata Monica Cirinnà (Pd) e la senatrice Loredana De Petris (SEL/SI). Come delegazione della rete "Italiani senza Cittadinanza" avevamo chiesto di approvare la riforma al Senato entro l’anno, anche se gli esponenti del Pd ci avevano fatto presente che sarebbe stata sicuramente rimandata dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre". A complicare ulteriormente il quadro è la mancanza di un presidente della Commissione Affari costituzionali dopo la nomina della Finocchiaro a ministro dei Rapporti col parlamento: "L’onorevole Finocchiaro ci assicurò che la legge sarebbe stata calendarizzata dal 6 dicembre in poi, ma ormai non abbiamo più contatti con lei - afferma la Dos Santos - e al momento l’unica referente è la senatrice Lo Moro a cui abbiamo chiesto un incontro con tutti i capigruppo di Palazzo Madama, ma non abbiamo ancora ricevuto risposta". Oltre ad essere senza cittadinanza, i giovani adulti nati da coppie straniere sono rimasti senza voto: "Agli italiani senza cittadinanza è stato negato il diritto di votare e scegliere per la Costituzione che vivono ogni giorno sulla loro pelle" ricorda Fioralba Duma, che ha lasciato l’Albania nel 2001 - aveva 11 anni - insieme alla sorella e alla madre per raggiungere il padre, imprenditore edile specializzato nelle ristrutturazioni e nelle decorazioni in gesso e cartongesso, arrivato a Roma un anno prima. Il suo sogno era quello di frequentare un’università migliore rispetto a quella albanesi, un paese, dice, in cui "la corruzione soffoca ogni possibilità di crescita". Per Fioralba è paradossale che il referendum costituzionale sia stato utilizzato come scusa per rinviare il voto su "una legge che ci riconoscerebbe per quello che siamo, italiani che si sentono tali, nati e cresciuti qui". Compiuti i 18 anni, per Fioralba è iniziata la trafila burocratica che dura ancora oggi: "Da otto anni sono costretta a rinnovare il permesso di soggiorno ogni 24 mesi, presentando tutta la documentazione. Nel 2017 spero di ottenere la carta di soggiorno, ovvero il permesso a tempo indeterminato rilasciato solamente se dimostri di avere un reddito annuo di 6.256 euro". Un reddito recepito esclusivamente attraverso lavori regolari, che non tutti gli stranieri nati o cresciuti in Italia riescono ad avere: "Conosco molti ragazzi e ragazze che lavorando in nero e si iscrivono all’università per ottenere il permesso di soggiorno per motivi di studio, senza però frequentare o dare esami". È invece prossimo alla laurea Xavier Palma, che ha 23 anni e vive a Como dal 2006, quando la famiglia decise di lasciare per motivi di sicurezza il San Salvador: "Come tutte le famiglie del ceto medio eravamo esposti alla violenza delle "Malas", ovvero i gruppi della criminalità organizzata salvadoregna". Xavier, così come Fioralba, ha subito il voto sulla riforma costituzionale: "Purtroppo persone che magari non si sono nemmeno informate hanno deciso per me. Se io non voto vuol dire che ci sono altri che lo fanno al posto mio e io che mi sento italiano, perché condivido i valori della Costituzione, mi rendo conto che con quel voto stanno decidendo chi sono io". Al disagio di questa condizione si aggiunge il timore di una non risoluzione del problema: "Se la legislatura finisce anticipatamente, la riforma muore. Ci vuole coraggio per vivere in un paese in cui si è cresciuti e non si viene riconosciuti. Viviamo una situazione politica in cui tutti vogliono il cambiamento e io che credo che questo sia nei giovani, che domani saranno quelli che pagheranno le pensioni agli anziani, che sceglieranno e formeranno anche la futura classe dirigente". Migranti. Il grande inganno del Kenya: "smantelleremo il campo di Dadaab" di Enrico Caporale La Stampa, 28 dicembre 2016 Nella tendopoli vivono 276 mila rifugiati, la maggior parte somali. Nairobi: via tutti. Ma le ong mettono in guardia: è solo propaganda, sarebbe una catastrofe. Chiudere Dadaab? Impossibile. Liesbeth Aelbrecht, capo missione Msf in Kenya, non ha dubbi: organizzare il rimpatrio volontario di oltre 270 mila persone sarebbe "un’operazione gigantesca e difficile persino da immaginare". Soprattutto in cinque mesi. Eppure Nairobi insiste: entro maggio il campo profughi più grande del mondo non esisterà più. Come Aelbrecht la pensano le principali ong attive in Kenya. Da Avsi a Human Rights Watch sono tutti convinti che dietro l’annuncio del presidente Uhuru Kenyatta si nasconda la volontà di spingere più rifugiati possibile fuori dal Paese. "Altro che rimpatri volontari - spiega Bill Frelick, responsabile per i diritti dei rifugiati di Human Rights Watch -. I profughi non hanno alternativa. Lasciano il campo per paura di essere espulsi o deportati. Sono convinti che a breve Dadaab non ci sarà più". Un inganno, insomma. Che ha già spinto 35 mila persone fuori dal Paese. Non è la prima volta che Kenyatta minaccia di smantellare tutto. Ora, però, sembra fare sul serio. Il 2017 è l’anno delle presidenziali e anche in Kenya sicurezza e rifugiati sono temi elettorali. Il rischio, mettono in guardia le ong, è una catastrofe umanitaria che spingerebbe migliaia di disperati col sogno dell’Europa nella rete dei trafficanti di uomini. O, peggio, tra le braccia della jihad. Oggi a Dadaab (nella lingua locale "luogo roccioso e duro" per via della posizione all’estremità orientale del Kenya, una delle più aride) risiedono circa 276 mila persone (grosso modo come a Catania o Venezia) ma durante la carestia che nel 2011 ha travolto il Corno d’Africa il campo è arrivato a ospitarne fino a mezzo milione. Si tratta soprattutto di somali in fuga dalla guerra civile. Come Mohamed, un ragazzo che vive nel campo dal 2008. "Tornare in Somalia? - racconta. Ma scherziamo? Qui a Dadaab ho tutto: scuole, ospedali, cibo. Ci sono persino cinema e campi da calcio. Là fuori è un giungla: violenze sessuali, estorsioni, malattie. Senza contare il rischio di finire ostaggio degli jihadisti". L’annuncio della chiusura del campo è arrivato lo scorso maggio. "Dadaab - ha detto Kenyatta - è terreno fertile, se non un rifugio, per Al Shabaab", il gruppo jihadista somalo che nel 2013 ha attaccato il centro commerciale Westgate di Nairobi (67 morti) e nel 2015 ha fatto strage all’università di Garissa (148 uccisi). La data prevista per la chiusura era lo scorso 30 novembre, poi slittata di sei mesi. Ma per molti Kenyatta vuole solo guadagnare tempo in vista del voto di agosto 2017, e magari strappare nuovi fondi alla comunità internazionale. D’altra parte, il viaggio che John Kerry ha fatto in Kenya lo scorso agosto non è passato inosservato. Durante la visita il segretario di Stato Usa ha promesso a Nairobi 146 milioni di dollari in più da utilizzare per assistenza umanitaria e rimpatri volontari. Anche Andrea Bianchessi, responsabile Avsi in Kenya, spiega che "sbaraccare Dadaab non è possibile". "In Tanzania due anni fa è servito l’esercito - dice - e si trattava di molta meno gente". In più la quasi totalità dei profughi intervistati sostiene di "non voler tornare in Somalia" per paura di violenze o reclutamenti forzati nei gruppi armati. Secondo Msf rispedire i profughi in Somalia "è una decisione inumana e irresponsabile" perché costringerebbe migliaia di disperati a rientrare in un Paese devastato dalla guerra, con 5 milioni di persone a rischio carestia (stima Onu). E allora perché 35 mila somali hanno già accettato i rimpatri volontari? La risposta la dà ancora Bill Frelick. "In nessun modo - spiega - questi rimpatri possono essere considerati volontari. A Dadaab non c’è somalo che non tema per la propria incolumità. Sono i funzionari del governo a convincerli a lasciare il campo". La convenzione Onu sui rifugiati (1951) vieta il cosiddetto "refoulement", il rimpatrio che possa minacciare la vita o la libertà dei rifugiati. Ecco perché Nairobi farebbe ricorso ai rimpatri volontari. Ma se i somali dicono di non voler tornare in patria, allora dove andranno a finire? Bianchessi racconta che "in migliaia hanno lasciato Dadaab in fretta e furia e ora si trovano in un limbo di campi più piccoli e meno attrezzati". Col rischio di un nuovo esodo. A lanciare un monito al governo del Kenya ci pensa Marco Lembo (Unhcr): "Da 30 anni il Paese ospita un numero grandissimo di rifugiati - dice -. Vigileremo affinché trattati e convenzioni internazionali siano rispettati". Ma aggiunge: "Nairobi non può essere lasciata sola, la comunità internazionale deve fare la sua parte". Stati Uniti. La storia di un uomo che ha passato mezza vita in carcere, da innocente ilpost.it, 28 dicembre 2016 Si chiama Lawrence McKinney, nel 2008 è stato scagionato dal test del Dna e ora chiede un risarcimento di 1 milione di dollari. Lawrence McKinney è un uomo del Tennessee di 61 anni che ha passato metà della sua vita in carcere per un reato che non ha commesso. Nel 2008, il test del Dna ha provato la sua innocenza e nel 2009 McKinney ha ottenuto la libertà condizionale e poi una specie di risarcimento di 75 dollari. Dopo un primo tentativo nel 2010, McKinney ha chiesto quest’anno che il governatore del Tennessee Bill Haslam lo dichiari innocente per poter ottenere così un risarcimento di un milione di dollari. La decisione del governatore non è ancora arrivata, ma nel settembre 2016 la Commissione per la libertà condizionale del Tennessee, che ha il compito di valutare questo tipo di richieste per dare consigli al governatore, ha rifiutato l’istanza di McKinney. La storia, se si vuole partire dall’inizio, cominciò nell’ottobre del 1977, quando una donna venne rapinata e violentata da due uomini nella sua casa di Memphis. La donna identificò nel suo vicino di casa McKinney, che all’epoca aveva 22 anni, uno dei due aggressori. L’anno seguente McKinney venne giudicato colpevole per violenza sessuale e furto con scasso e condannato a 115 anni di carcere. Un test del Dna fatto nel 2008 ha però dimostrato l’innocenza dell’uomo che è stato liberato nel 2009. Quello che chiede oggi McKinney è un riconoscimento formale della sua innocenza da parte del governatore dello stato, in base al quale gli verrebbe riconosciuto un risarcimento di un milione di dollari per gli anni passati in prigione ingiustamente. La richiesta è stata sottoposta alla Commissione per la libertà condizionale dello stato del Tennessee. I sette membri della Commissione hanno votato tutti parere negativo giustificando la loro scelta in base a due valutazioni. Per prima cosa, durante il periodo passato in carcere McKinney aggredì un altro detenuto, un comportamento che fu allora sanzionato. Inoltre la Commissione ha considerato il fatto che durante il dibattimento in tribunale McKinney si dichiarò colpevole di avere commesso il furto con scasso. McKinney ha risposto a entrambe le questioni, nel tentativo di migliorare la sua posizione: ha detto che l’aggressione andrebbe interpretata sulla base del contesto in cui si svolse, quello carcerario, che non si può considerare "normale", e ha aggiunto che la dichiarazione di colpevolezza fu un’idea del suo avvocato dell’epoca, il quale pensò che adottare quella strategia gli avrebbe permesso di ottenere una riduzione della pena. McKinney e i suoi avvocati avevano già presentato una richiesta di riconoscimento formale della sua innocenza nel 2010, quando il governatore del Tennessee era Phil Bredesen, che nel corso del suo mandato non ha mai agito in contrasto con le raccomandazioni della Commissione. Dal 2011 è governatore Bill Haslam, che ha invece accordato due riconoscimenti di innocenza negli ultimi sedici anni. Dopo aver ottenuto la libertà condizionale, McKinney ha iniziato a frequentare la chiesa battista di Lebanon, nel Tennessee, ricevendo molto sostegno dalla comunità religiosa. Nel 2010 si è sposato con una donna con la quale aveva intrattenuto una lunga corrispondenza durante il periodo in carcere. Egitto. La nuova legge-bavaglio per i giornalisti di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 28 dicembre 2016 Il parlamento ha votato una norma per la creazione di un Consiglio Supremo per l’Amministrazione dei Media: potrà revocare licenze di pubblicazione, censurare emittenti televisive, radio, licenziare, multare e arrestare i giornalisti. Un mondo senza critica, senza idee diverse, appiattito sulle tesi del governo ben contento di censurare e arrestare i giornalisti, i blogger e chiunque lo contraddice in nome del "bene supremo" della "sicurezza nazionale": questo vogliono i regimi che s’impongono in Medio Oriente. L’ultimo segnale di allarme per tutti coloro a cui cara la libertà d’opinione arriva dal Cairo, dove il presidente Abdel Fattah al-Sisi ha lanciato una stretta per imbavagliare la stampa. Per sua volontà, il parlamento ha votato lunedì una legge che prevede la creazione di un Consiglio Supremo per l’Amministrazione dei Media che avrà la prerogativa di revocare licenze di pubblicazione, censurare emittenti televisive, radio, licenziare, multare e arrestare i giornalisti. È formato da dodici giudici scelti dal parlamento e dalla magistratura, il presidente è designato da al-Sisi. Sulla Gazzetta Ufficiale egiziana si camuffa il provvedimento come un passo per un’informazione "onesta e libera". In verità, l’ennesima mossa per garantire al regime il monopolio sull’informazione. "La nuova legge rafforza lo status quo e il controllo dei media da parte dell’esecutivo", denuncia Khaled Elbashy, del sindacato dei giornalisti egiziani. Critiche più dure giungono dal Comitato per la Protezione dei Giornalisti con base a New York. Ma paiono parole al vento. In larga parte della regione la libertà di stampa appare ormai un lusso in estinzione. Sono almeno 25 i giornalisti egiziani incarcerati. Ancora pochi rispetto all’ottantina imprigionati in Turchia. Senza parlare della persecuzione rampante in Siria per opera della dittatura di Bashar Assad ringalluzzita dalla recente vittoria di Aleppo. Oltre cinque anni fa con le "Primavere arabe" sembrò che il vento della libertà potesse scuotere la regione. Oggi trionfa il buio delle idee. Bahrein. Oggi il processo a Nabil Rajab, rischia una dura condanna di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 dicembre 2016 Oggi si svolgerà una nuova udienza del processo ai danni di Nabil Rajab, il più noto difensore dei diritti umani del Bahrein, la monarchia del Golfo persico che dalla "primavera araba" del 2011 ha scatenato la repressione contro il dissenso. Rajab, 52 anni, presidente del Centro per i diritti umani del Bahrein, è agli arresti dal 13 giugno. Rischia fino a 13 anni di carcere per la diffusione di "notizie false in tempo di guerra" e di "voci allo scopo di screditare lo stato" via Twitter, più almeno uno per un articolo pubblicato a settembre sul "New York Times". La "guerra" è quella che si svolge dal marzo 2015 in Yemen, dove una coalizione guidata dall’Arabia Saudita e di cui fa parte anche il Bahrein sta portando avanti un’incessante campagna di bombardamenti aerei, molti dei quali costituiscono crimini di guerra. Le "voci" riguardano la situazione dei diritti umani nel paese, in particolare la tortura nelle carceri, e i rapporti tra il Bahrein e lo Stato islamico, nel quale secondo Rajab sarebbero finiti a militare vari funzionari del regno. Rajab è nel mirino degli al-Khalifa, la famiglia reale sostenuta, armata e protetta dai governi di Washington e Londra, sin dal 2012. Questi i suoi precedenti: due anni di carcere tra il 2012 e il 2014 per aver promosso e preso parte a manifestazioni pacifiche ma non autorizzate e aver in quel modo arrecato "disturbo all’ordine pubblico"; divieto di espatrio emesso nei suoi confronti nel novembre 2014 e tuttora in vigore; sei mesi di carcere nel 2015, poi ridotti a due per motivi di salute, per aver diffuso "un messaggio che potrebbe istigare l’opinione pubblica e mettere in pericolo la pace". Nonostante il peggioramento delle condizioni di salute (il 27 giugno si è reso necessario un ricovero presso l’unità coronarica dell’ospedale militare del Bahrein), Rajab è stato tenuto in isolamento carcerario per due settimane, si è visto negare la scarcerazione per motivi di salute e gli è stato persino impedito di prendere parte al funerale di uno zio. All’orizzonte si profila intanto una nuova incriminazione, per un articolo che Rajab ha scritto dal carcere il 21 dicembre per il quotidiano francese "Le Monde".