Rischio radicalizzazione già nelle carceri per minori venti nomi nel mirino di Fabio Tonacci La Repubblica, 27 dicembre 2016 I vagiti del rischio radicalizzazione si possono avvertire anche dentro le mura di un carcere minorile modello, come quello di Casal Del Marmo nella periferia ovest di Roma. L’ideologia violenta dello Stato Islamico fa presa quando si è molto giovani, molto confusi. E una domanda, a volte, è sufficiente per generare risposte incerte. "Cosa pensate della strage di Berlino?". Nell’area verde del penitenziario, diciassette ragazzini tra i 14 e i 17 anni si guardano imbarazzati, davanti al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Qualcuno ridacchia. "Non lo so". Qualcuno capisce dove va a parare il discorso. "La mia religione è una religione di pace". In fondo al gruppo, però, un ragazzino con la felpa verde alza per un attimo il pollice. Può voler dire niente. O tutto. I dati del Dipartimento amministrazione penitenziaria dicono che attualmente ci sono dieci minorenni stranieri sotto osservazione perché hanno mostrato segnali di fanatismo religioso, su un totale di 457 detenuti (259 italiani, 198 stranieri). Altri dieci a forte rischio radicalizzazione sono stati individuati tra la popolazione di adolescenti e giovani adulti (fino ai 24 anni) in carico ai Servizi della Giustizia minorile: 1.364 ragazzi sparsi nei centri di prima accoglienza, nelle comunità ministeriali e in quelle private, a cui si aggiungono altri 21.696 minori gestiti dagli Uffici di servizio sociale. L’identità degli attenzionati è tenuta nel massimo riserbo. "Se il sistema carcerario degli adulti fosse efficiente come quello dei minori, riusciremmo a ridurre sia il rischio di recidiva, sia quello della radicalizzazione", ragiona Orlando, mentre la direttrice dell’istituto di Casal Del Marmo gli mostra la struttura. Il ministro ha deciso di visitarla anche per rendere omaggio alla vedova dell’assistente capo Alfredo Pagani, suicidatesi qui esattamente un anno fa. Non ci sono problemi di sovraffollamento. I locali sono puliti. Sono presenti 50 detenuti, di cui 16 italiani e 34 stranieri. "La maggior parte proviene dal Nord Africa, dalla ex Jugoslavia e dalla Romania". Hanno una sezione femminile (10 ragazze), una per i minorenni maschi (10), una per i giovani adulti maschi (30). Nessuno del personale parla arabo, ma c’è un mediatore culturale. I detenuti non hanno l’accesso ad internet, hanno diritto a una telefonata alla settimana, seguono corsi scolastici. Hanno a disposizione una falegnameria, una palestra, una sartoria. Il fenomeno dei detenuti "contagiati" dal Califfato in Italia non è allarmante quanto in Francia e in Germania. "Dobbiamo lo stesso predisporre trattamenti il più possibile individuali e personalizzati per recuperare i soggetti a rischio che hanno dato segnali di fanatismo", dice il Guardasigilli. Il modello cui guardare è quello dell’Inghilterra, dove li tengono in comunità fuori dal carcere per evitare che influenzino altri giovani. In Italia per ora ce ne sono una ventina. E non vanno sottovalutati. Ddl sul processo penale. Si riparte da cannabis e dalla riforma della giustizia di Francesco Bongarrà Il Dubbio, 27 dicembre 2016 Il Senato dovrà esaminare il Ddl sul processo penale. Dalla riforma della legge elettorale, da tutti reclamata dopo la vittoria del no al referendum, al "Salva risparmi" varato dal governo poco prima di Natale per evitare il crac di Mps, passando per la riforma del processo penale e della prescrizione che giace al Senato insieme a diversi altri provvedimenti: sono questi i temi che domineranno l’attività del Parlamento con la ripresa dei lavori delle Aule di Montecitorio e Palazzo Madama dopo la pausa natalizia. Le forze politiche saranno, poi, chiamate ad un test di coesione con l’elezione di un nuovo giudice della Corte costituzionale: è richiesta una maggioranza qualificata, difficile da raggiungere senza un accordo bipartisan. C’è attesa per le mosse del governo: è infatti in vista la presentazione di un decreto legge "milleproroghe", che potrebbe contenere le norme che sono state stralciate dalla legge di bilancio. Norme che potrebbero però finire in un altro provvedimento ad hoc del governo Ecco un quadro del "sudoku" parlamentare delle prossime settimane. Per quel che riguarda la legge elettorale, fino ad ora, la riforma è solo nelle intenzioni di tutti, e tale sembra destinata a restare fino a quando la Corte costituzionale non si sarà pronunciata sull’Italicum. Un pronunciamento della Consulta è atteso per il 24 gennaio: la Corte si concentrerà in particolare sul premio di maggioranza, il ballottaggio e le candidature plurime. I primi due sono di fatto i pilastri dell’Italicum ed è evidente che la pronuncia favorevole o contraria della Consulta, inevitabilmente, sarà il punto di riferimento per il confronto parlamentare, che dovrebbe partire dalla Camera, in commissione. Per quel che riguarda la Cannabis e il testamento biologico, entrambi i provvedimenti giacciono alla Camera, ed è prevedibile che nella prossima conferenza dei capigruppo l’opposizione ma anche parte del Pd (in testa Roberto Giachetti) chiedano che il testo sulla legalizzazione delle droghe leggere torni al più presto in Aula. Sulla giustizia il Senato deve esaminare il ddl sul processo penale e sulla riforma della prescrizione. Il Guardasigilli Andrea Orlando, che entro gennaio dovrà tenere in Parlamento la relazione sull’amministrazione della Giustizia, intendeva porre la fiducia sul testo approvato alla Camera, ma l’allora premier Renzi si oppose alla "blindatura". Sempre a Palazzo Madama è in commissione il provvedimento sulla Giustizia civile. Dallo ius soli all’omofobia, bloccata l’Italia dei diritti di Natalia Lombardo L’Unità, 27 dicembre 2016 Tra testi fermi in Senato e quelli insabbiati in Commissione, la mappa delle proposte che bisogna affrontare oltre il nodo della legge elettorale. Hanno molto in comune le proposte di legge che magari sono state approvate alla Camera ma sono ferme in Senato, alcune insabbiate in commissione da anche due anni, altre in stand by da mesi. Il dato comune è la natura delle leggi, per lo meno quelle che garantiscono diritti ormai acquisiti in Europa come nella società. Leggi di civiltà, come quella sul reato di omofobia odi tortura, o che adeguano le norme ai cambiamenti sociali, come la legge sullo ius soli o sul cognome della madre, oppure che puniscono reati e persecuzioni ormai diffuse con il virus del cyberbullismo. Per non parlare della riforma del codice penale, con i tempi di prescrizione, bloccata da contrasti politici e anche di categoria (e Renzi non volle "blindarla" con la fiducia) che il ministro della Giustizia Orlando auspica riprenda dopo il 10 gennaio (in commissione al Senato anche la riforma del processo civile). Entro gennaio il ministro deve tenere in Parlamento la relazione sull’amministrazione della Giustizia. Non è un caso però che le leggi che riguardano i diritti si siano incagliate tutte a Palazzo Madama, dove la maggioranza corre sul filo di pochi numeri e non è autosufficiente senza i voti centristi degli alfaniani di Area Popolare-Ncd. Dove regge lo "zoccolo duro" teocon che va da Sacconi a Giovanardi, migrato in Gal. A finire "sotterrata" più che liberalizzata alla Camera è la proposta di legge sulla cannabis, bocciato anche l’emendamento presentato nella legge di bilancio, fermo anche il testamento biologico. La campagna referendaria e il cambio di governo hanno certo fermato i lavori, e in più ora dovrà essere scelto un nuovo presidente della Commissione Affari costituzionali, dopo la nomina di Anna Finocchiaro come ministra dei Rapporti col Parlamento (si parla del senatore dem Roberto Cociancich). Incalza poi la modifica della legge elettorale, dopo la sentenza della Consulta il 24 gennaio, e certo la non abolizione del bicameralismo perfetto non aiuta la velocità del processo legislativo. Basti vedere la legge sul cosiddetto cyberbullismo, approvata alla Camera il 20 settembre 2016, dopo che era stato dato il via libera al Senato, anche con tempi non biblici e una certa soddisfazione della maggioranza e del Pd. A Montecitorio però i deputati hanno apportato delle modifiche, il che obbliga a un nuovo passaggio a Palazzo Madama, per ora sospeso, mentre il bullismo non si ferma. Anche la legge sulla cittadinanza, il cosiddetto "ius soli" (proposta di iniziativa popolare ma che ha come base un testo unico fra tutte le proposte di ogni gruppo, soprattutto del Pd), ha visto il suo percorso al rallentatore nel corso di un anno e ancora non è legge: approvata alla Camera il 13 ottobre 205, dal 10 febbraio 2016 è in commissione Affari Costituzionali al Senato. Ovviamente è un tema controverso, anche se riconoscere ai figli nati in Italia da famiglie di immigrati di essere cittadini italiani favorirebbe l’integrazione che, di fatto, già esiste nelle scuole. E la Corte Costituzionale ha da poco sollecitato il Parlamento italiano a rendere legge il diritto ad adottare il cognome della madre, riconosciuto dalla Consulta. La pdl era stata approvata alla Camera nel 2014, ma da due anni è ferma in commissione al Senato. Del tutto arenata è la legge che punisce l’omofobia, primo firmatario Ivan Scalfarotto del Pd. Fu approvata, dopo una dura battaglia, alla Camera il 19 settembre 2013, ma giace in commissione Giustizia al Senato dal giorno dopo, ripresa nell’aprile 2014 e poi dimenticata, dopo aver subito l’ostruzionismo dell’Ncd e i bastoni fra le ruote messi dai forzisti. Eppure estende la lista delle discriminazioni condannate dalla legge Mancino. Su questi temi le maggioranze possono essere trasversali, ma dopo il cambio repentino dei 5 Stelle sulle unioni civili è difficile avere la sicurezza dei numeri garantiti dai grillini, anche se dicono di sostenere i temi del diritti. Stessa sorte il reato di tortura, che in Italia non esiste. Qui la legge, presentata da Luigi Manconi, Pd, era passata al Senato il 5 marzo2014, il9 aprile di un anno dopo la Camera ha apportato delle modifiche ed è quindi tornata a Palazzo Madama (il famoso "ping pong" delle leggi col bicameralismo perfetto) in aula a luglio 2016. Qui Giovanardi si è impuntato contro un emendamento approvato da Pd, Sel e M5s che evitava di considerare reato "minacce e violenze gravi" solo se "reiterate". Il senatore di Gal ha fatto asse con il forzista Gasparri, facendosi interpreti anche delle proteste di alcuni sindacati di polizia. Fatto sta che l’esame è fermo. C’è poi la legge sulla diffamazione a mezzo stampa, che prevede pure il carcere per i giornalisti, (modifica una legge del 1948): dal 2013 ha fatto quattro passaggi nelle due Camere ed è insabbiata in commissione Giustizia al Senato dal settembre 2015. Il provvedimento annuale sul mercato e la concorrenza è stato archiviato con l’uscita della ministra Guidi, e in pieno agosto 2016 è tornato in commissione al Senato. Legge 236/2016: fino a 12 anni di carcere per il traffico di organi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2016 Operativa dal 7 gennaio 2017 la legge 236/2016 che modifica il Codice penale introducendo il nuovo delitto. Dopo l’approdo nella Gazzetta ufficiale (n. 299 del 23 dicembre 2016) sarà operativa dal 1 gennaio 2017 la legge (236/2916) che introduce il delitto di traffico di organi prelevati da persone viventi: un reato con un giro d’affari globale stimato in quasi un miliardo e mezzo di dollari. La stretta, su un traffico che colpisce i più deboli e chi si trova in stato di bisogno, avviene attraverso la modifica del codice penale e un intervento sia sulla legge 91/1999 in materia di traffico di organi destinati al trapianto sia sulla legge 458/1967 sul trapianto del rene tra persone viventi. Con il provvedimento viene introdotto, all’articolo 601-bis del codice penale, il nuovo delitto di traffico di organi prelevati da persona vivente: il reato é punito con il carcere da 3 a 12 anni e la multa da 50 mila a 300 mila euro. Sanzioni pesanti che colpiscono chi, violando la disciplina del prelievo e trapianto da donatore, commercia, vende, acquista o comunque procura organi prelevati da una persona in vita. Sanzione accessoria nel caso il colpevole sia un medico o un sanitario: per loro scatta l’interdizione perpetua dall’esercizio della professione. Nel mirino del legislatore finisce anche il turismo dei trapianti. È, infatti, prevista la reclusione da 3 a 7 anni anche per chi organizza o propaganda viaggi, oppure pubblicizza o diffonde, anche attraverso la via informatica o telematica, annunci finalizzati al traffico di organi. Scatta la circostanza aggravante, prevista dall’articolo 416 comma 5 del codice penale, per l’associazione a delinquere che ha come obiettivo il traffico di organi da vivente o da cadavere. Il provvedimento inasprisce, inoltre, il trattamento sanzionatorio previsto dall’articolo 22 bis, comma 1 della legge n. 91/1999, per chi svolge a scopo di lucro opera di mediazione nella donazione di organi da vivente, innalzando il massimo della pena ad anni 8 di reclusione. Mano pesante che anche sulle pene da infliggere a chi promuove o organizza l’associazione: in questo caso si rischiano da 5 a 15 anni di carcere, mentre gli anni vanno da 4 a nove per chi vi partecipa. Con le nuove norme, per ragioni di coordinamento, viene abrogato l’articolo 7 della legge n. 458/1967 sul trapianto del rene tra persone viventi: una disposizione che puniva con la reclusione da 3 mesi a un anno e con multa chiunque, a scopo di lucro, svolgeva il ruolo di mediatore nella donazione di un rene. No alla proroga dell’età pensionabile per le toghe di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2016 Magistrati in pensione a 70 anni ma in servizio fino al termine (31 dicembre) dell’anno solare nel corso del quale raggiungono l’età pensionabile. Questo è il "meccanismo" che il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha previsto e mandato a Palazzo Chigi in vista del probabile Consiglio dei ministri del 29 dicembre nel quale dovrebbe essere varato il decreto mille proroghe. "Questa non è una proroga ma un meccanismo a regime, sganciato dalla logica delle proroghe", spiegano in via Arenula, aggiungendo che si tratta di "una soluzione tecnica che ora dev’essere sottoposta alla valutazione politica" di Palazzo Chigi. Che, su questa materia, durante l’era Renzi ha sempre voluto avere l’ultima, e decisiva, parola. Stavolta si vedrà. Anche perché la soluzione tecnica proposta da Orlando non va esattamente nella direzione chiesta dall’Anm. Come funzionerà - La norma confezionata dal ministro si sgancia dalle precedenti proroghe dell’età pensionabile volute finora da Palazzo Chigi che, dopo aver abbassato da 75 a 70 anni l’uscita dal servizio delle toghe senza alcuna gradualità nell’uscita, ha approvato ben tre deroghe, l’ultima delle quali con il Dl 168/2016 limitato ai soli vertici della Cassazione e della Procura generale, tanto da essere definito un provvedimento "ad personam". La norma, però, si sgancia anche dalla proroga richiesta dall’Anm e sulla quale l’ex premier - il 24 ottobre scorso - si era impegnato (almeno a parole) con "gli amici magistrati" per scongiurare lo sciopero minacciato dalle toghe sia per i vuoti nell’organico dei magistrati (provocato proprio dalla mancanza di gradualità nell’abbassamento dell’età pensionabile) sia per la disparità di trattamento provocata dal Dl n. 168/2016. La posizione dell’Anm - L’Anm presieduta da Piercamillo Davigo aveva infatti chiesto il mantenimento in servizio fino a 72 anni di chi avesse compiuto 70 anni entro il 2016, ma fino alla copertura di tutti i posti vacanti in organico (che sono ben 1.130). Un intervento da approvare urgentemente, entro fine anno, proprio per non mettere fuori gioco la nutrita generazione dei 70enni, molti dei quali in prima linea, come il Procuratore di Napoli Giovanni Colangelo o il Procuratore aggiunto di Milano Pietro Forno. Fino alla scorsa settimana, i vertici dell’Anm hanno chiesto un incontro a Orlando - riconfermato ministro nel governo Gentiloni - anche con il nuovo premier Paolo Gentiloni, per sollecitare la proroga richiesta e fare il punto anche sulla riforma della giustizia penale; l’incontro, però, non c’è stato, anche perché altre priorità incombevano sul governo. Nel frattempo, però, nessuno ha informato l’Anm della "soluzione tecnica" messa a punto e inviata a Palazzo Chigi. Una soluzione che i più stretti collaboratori del ministro definiscono "equilibrata" per almeno quattro ragioni: anzitutto perché differisce i pensionamenti al 31 dicembre di ogni anno, e "questo ha effetti positivi sugli organici"; poi perché è "una norma a regime che esce fuori dalla logica delle proroghe"; in terzo luogo perché consente al Csm di programmare le sostituzioni con largo anticipo; e infine perché è "un meccanismo già collaudato" in quanto è analogo a quello in vigore per i professori universitari. Difesa garantita in Cassazione. Il ricorrente può formulare osservazioni di risposta di Gabriele Ventura Italia Oggi, 27 dicembre 2016 Un protocollo di intesa sull’applicazione del nuovo rito civile in cassazione. Con un’interpretazione unitaria di alcuni nodi critici legati all’applicazione della riforma del processo civile di cassazione. Lo hanno siglato, il 15 dicembre scorso, la Corte di cassazione, il Consiglio nazionale forense e l’Avvocatura generale dello stato. L’intesa nasce dall’esigenza, da parte del Cnf, di garantire un’attuazione del nuovo art. 380-bis, rinnovato dal decreto legge 31 agosto 2016, n. 168, che faccia salve le esigenze di adeguato esercizio del diritto di difesa. La norma prevede infatti che il procedimento ordinario divenga quello camerale, riservando la trattazione in pubblica udienza ai soli casi di particolare rilevanza della questione di diritto e a quelli nei quali la sesta sezione, all’esito della camera di consiglio, non abbia definito il giudizio. Nel dettaglio, il protocollo, da aggiornare alla luce della verifica del suo funzionamento, è composto da sette punti principali. Il primo riguarda il regime transitorio e muove dal rilievo che l’intimato non controricorrente, che secondo il regime previgente aveva la possibilità di partecipare all’udienza di discussione, si trova, alla luce della riforma, privato di tale facoltà nei procedimenti relativi a ricorsi già depositati alla data del 30 ottobre 2016, nei quali venga successivamente fissata l’adunanza camerale. Le parti hanno quindi convenuto di consentire all’intimato non controricorrente la presentazione di memoria negli stessi termini nei quali può farlo il controricorrente, prevedendo che della possibilità di valersi di tale facoltà venga data notizia alle parti destinatarie dell’avviso di fissazione dell’adunanza. Per contemperare anche le esigenze del ricorrente, in particolare in difetto della possibilità di partecipazione all’adunanza in camera di consiglio, il protocollo stabilisce che, se con la memoria l’intimato sollevi nuove questioni rilevabili d’ufficio o comunque qualora la Corte ne ravvisi l’opportunità, anche su sollecitazione scritta del ricorrente, venga assegnato un termine per osservazioni, ai sensi dell’art. 384, comma 3, c.p.c. Il secondo punto del protocollo riguarda il deposito della prova della notifica del ricorso e del controricorso, da farsi con la memoria o comunque entro l’orario di inizio dell’adunanza camerale, il terzo il contenuto dell’avviso di fissazione dell’adunanza camerale. Nel quarto punto è sancito invece l’invio telematico, non appena ciò sarà possibile, delle conclusioni della procura generale ai difensori e altresì dell’avviso del mancato deposito delle conclusioni. Al quinto punto, il protocollo si occupa dell’indicazione della proposta del relatore di trattazione camerale dinanzi alla sesta sezione, prevedendo: quanto alla prognosi di inammissibilità o improcedibilità, che venga indicata l’ipotesi di riferimento (tramite menzione del dato normativo o del precedente o con breve formula libera), quanto alla prognosi di manifesta fondatezza, l’indicazione del motivo manifestamente fondato e dell’eventuale precedente di riferimento. Infine, quanto alla prognosi di manifesta infondatezza, che vengano indicati "quali siano i pertinenti precedenti giurisprudenziali di riferimento e le ragioni del giudizio prognostico di infondatezza dei motivi di ricorso, anche mediante una valutazione sintetica e complessiva degli stessi, ove ne ricorrano i presupposti". Il sesto punto concerne la lunghezza delle memorie da depositarsi in vista della trattazione camerale. Le parti hanno convenuto, anche in sintonia con il protocollo del dicembre del 2015, che esse non superino, di regola, le 15 pagine. Il settimo e ultimo punto prevede che le parti possono chiedere che il ricorso avviato alla trattazione camerale dinanzi a sezione ordinaria venga trattato in pubblica udienza, indicando la particolare questione di diritto che per loro giustifica la discussione pubblica. Nel market abuse la connessione salva il doppio binario di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2016 Tribunale di Milano Prima sezione penale, ordinanza 6 dicembre 2016. Perde quota il ne bis in idem nel penale societario e sul market abuse in particolare. Il tribunale di Milano con ordinanza del 6 dicembre, prima sezione penale, ha ritenuto che il doppio binario penale-amministrativo è pienamente legittimo. Tanto più alla luce della situazione normativa venutasi a creare e delle più recenti pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo. L’ordinanza ha così respinto la tesi difensiva di tre dirigenti di società (tra cui Salvatore Ligresti) sanzionati da Consob, due in via definitiva e uno (Ligresti) ancora in attesa del verdetto definitivo della Cassazione, sanzionati sul piano amministrativo da Consob per manipolazione del mercato (articolo 187 ter del Testo unico della finanza). Rispetto al procedimento penale, la linea difensiva aveva visto in campo l’ormai "classico" tentativo di fare valere il divieto di un nuovo giudizio quando i medesimi fatti erano già stati oggetto di sanzione, sia pure su un piano diverso. Il tribunale di Milano non è stato però di questo avviso. E ha messo in evidenza il nuovo quadro normativo venutosi a creare dal 3 luglio corso quando, in materia di market abuse, da una parte non è stata recepita in tempo la direttiva comunitaria 2014/57, mentre dall’altra è entrato in vigore il regolamento 596/14. Soprattutto la direttiva rende evidente, ricorda l’ordinanza, che il polo dell’azione repressiva si è via via concentrato sul rafforzamento del versante penale, mentre in precedenza era valorizzata soprattutto la misura amministrativa. "Con riguardo, quindi ai reati gravi commessi con dolo in materia di market abuse, il legislatore europeo non lascia adito a dubbi. Obbligo di sanzioni penali, facoltà di sanzioni amministrative". È la stessa direttiva del 2014 a riconoscere che l’adozione di sanzioni amministrative si è finora rivelata insufficiente a garantire il rispetto delle norme intese a prevenire gli abusi di mercato". Il regolamento poi, nella lettura che ne dà l’ordinanza, prevede espressamente che gli Stati dell’Unione europea possono decidere di non stabilire norme specifiche sulle sanzioni amministrative. Quanto alla Corte europea dei diritti dell’uomo, a venire richiamata dal tribunale di Milano è la recentissima sentenza del 15 novembre, nella quale la Grande Camera si è soffermata su due casi di omessa dichiarazione di profitti derivanti da transazioni estere. In quest’ultimo giudizio viene enfatizzato il criterio della connessione tra due procedimenti, amministrativo e penale, per sostenere che, in caso di collegamento, a cadere è proprio il rischio di infrazione al principio del ne bis in idem. La sentenza della Corte europea ha cioè affermato che non esiste violazione quando il procedimento penale è aperto nei confronti di chi è già stato sanzionato sul piano amministrativo, se esiste "una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta". Con riferimento al collegamento cronologico, la Corte dei diritti dell’uomo ha precisato che i due procedimenti possono anche non essere contemporanei, e il secondo iniziare dopo la conclusone del primo, a patto che non sia troppo lungo lo stato di incertezza processuale. Per quanto riguarda invece il collegamento sostanziale, vanno tenuti presente elementi come la prevedibilità della duplicazione dei procedimenti come conseguenza della condotta, lo scambio di informazioni tra le autorità competenti per evitare duplicazioni nella raccolta e valutazione delle prove, la considerazione nel secondo procedimento della sanzioni inflitta in quello precedente in aderenza all’esigenza di proporzionalità della pena. Su questi punti, l’ordinanza milanese mette in risalto come Consob, sulla base del Tuf, ha incisivi poteri istruttori i cui risultati possono trovare ingresso nel giudizio penale attraverso la collaborazione con il Pm. La costituzione di parte civile da parte di enti e associazioni. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2016 Danno ambientale - Procedimenti per reati che offendono il bene ambientale - Risarcimento del danno ambientale - Legittimazione processuale - Associazioni ambientaliste costituite parti civili - Gestione dei rifiuti prodotti dalle industrie estrattive - Artt. 183, 185, 192, 256 del Dlgs n. 152/2006 (Testo unico ambientale). Le associazioni ambientaliste costituite parti civili nei procedimenti per reati che offendono il bene ambientale hanno diritto al risarcimento del danno, non solo patrimoniale ma anche morale, derivante dal pregiudizio arrecato all’attività da esse concretamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo. In tal caso, potrebbe identificarsi un nocumento suscettibile anche di valutazione economica in considerazione degli eventuali esborsi finanziari sostenuti dall’ente per l’espletamento dell’attività di tutela. • Corte cassazione, sezione III penale, sentenza 18 ottobre 2016 n. 43944. Parte civile - Legittimazione - Materia sanitaria - Associazione "Cittadinanza attiva, Tribunale dei Diritti del Malato" - Legittimazione a costituirsi parte civile - Sussistenza - Ragioni. È ammissibile la costituzione di parte civile dell’associazione "Cittadinanza attiva-Tribunale dei Diritti del Malato", ente a diffusione nazionale, dotato di rappresentatività. Esponenziale degli interessi del singolo alla salute e alla tutela della dignità del malato, nel procedimento penale inerente la responsabilità medica per omicidio colposo del paziente, in quanto titolare di un interesse per la cui protezione è stata delegata dai suoi associati, indipendentemente dalla natura della posizione giuridica tutelata, la quale può avere anche carattere di interesse diffuso. • Corte cassazione, sezione IV penale, sentenza 18 febbraio 2014 n. 7597. Parte civile - Legittimazione - Costituzione di associazione anche non riconosciuta - Ammissibilità - Condizioni - Fattispecie. È ammissibile la costituzione di parte civile di un’associazione anche non riconosciuta che avanzi, "iure proprio", la pretesa risarcitoria, assumendo di aver subito per effetto del reato un danno, patrimoniale o non patrimoniale, consistente nell’offesa all’interesse perseguito dal sodalizio e posto nello statuto quale ragione istituzionale della propria esistenza e azione, con la conseguenza che ogni attentato a tale interesse si configura come lesione di un diritto soggettivo inerente la personalità o identità dell’ente. (Nella specie, la Corte ha riconosciuto la legittimazione a costituirsi parte civile dell’associazione "Cittadinanza attiva Onlus" in un processo per reati contro la Pa). • Corte cassazione, sezione IV penale, sentenza 20 settembre 2013 n. 39010. Parte civile - Legittimazione - Processo per tentata usura - Costituzione dell’associazione "antiracket" - Ammissibilità - Condizioni. È ammissibile la costituzione di parte civile, in un processo per tentata usura, dell’Associazione Antiracket che avanzi "iure proprio" la pretesa risarcitoria in quanto assuma di avere subito per effetto del reato un danno diretto e autonomo rispetto a quello della vittima, patrimoniale o non patrimoniale, e che può anche consistere nell’offesa all’interesse perseguito dal sodalizio posto nello statuto a ragione istituzionale della propria esistenza e azione. • Corte cassazione, sezione I penale, sentenza 25 luglio 2011 n. 29700. Parte civile - Enti associazioni rappresentative - Reati ambientali - Associazioni ambientaliste - Diritto al risarcimento del danno - Fattispecie. Alle associazioni ambientaliste riconosciute ex art.13 L. n. 349 del 1986 spetta il diritto al risarcimento conseguente al danno ambientale, sia come titolari di un diritto della personalità connesso al perseguimento delle finalità statutarie, sia come enti esponenziali del diritto assoluto alla tutela ambientale. (Fattispecie in cui l’associazione WWF Italia, in quanto associazione riconosciuta che ha come finalità statutaria la conservazione della natura e dei processi ecologici e la tutela dell’ambiente, è stata ritenuta legittimata a ottenere il risarcimento del danno conseguente alla avvenuta introduzione di fucili da caccia all’interno del Parco regionale del Delta del Po). • Corte cassazione, sezione III penale, sentenza 16 settembre 2008 n. 35393. Calabria: Natale nelle carceri calabresi per il Partito Radicale cn24tv.it, 27 dicembre 2016 Tour nelle carceri dei Radicali anche durante le feste natalizie. Il giro riguarderà oltre 40 carceri (il 20% degli istituti) in tutta Italia, in Calabria, riguarderà ben 7 istituti di 12 e, si legge nel comunicato, "proseguirà con delle visite in provincia di Reggio Calabria alle quali parteciperà anche Rita Bernardini, il 3 e il 4 gennaio 2017, nelle carceri di Panzera e Arghillà e il 5 gennaio a Palmi. Il 4 gennaio, mentre Rita Bernardini visiterà il carcere di Palmi, Candido e Ruffa, faranno visita alla casa di reclusione di Rossano Calabro". Dopo la morte del leader e un congresso tenuto nel carcere di Rebibbia, il Partito Radicale Nonviolento non molla le battaglie per la vita del diritto e per il diritto alla vita. "È il primo Natale senza Marco Pannella, ma anche quest’anno, nell’ambito di un’iniziativa nazionale del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito che coinvolgerà 40 istituti penitenziari che saranno visitati da oltre cento esponenti e militanti del Partito della Nonviolenza, in Calabria, come ci ha insegnato Marco, la mattina di Natale, visiteremo la Casa circondariale di Vibo Valentia, Santo Stefano lo passeremo coi detenuti della casa circondariale Sergio Cosmai di Cosenza e, a Capodanno, visiteremo la casa circondariale di Crotone, il 4 gennaio quella di Rossano". Lo si legge in una nota dei due esponenti calabresi del Partito Radicale, Giuseppe Candido, segretario dell’associazione Non Mollare, già candidato alla Camera - nel 2013 - per la lista Amnistia Giustizia Libertà e Rocco Ruffa, che annunciano le visite che faranno durante le feste e che - lo scorso anno - proprio durante le festività natalizie assieme effettuarono un giro di visite ispettive in tutte le dodici carceri calabresi. Sovraffollamento, tipologie e percentuali di detenuti in attesa di giudizio, carenze strutturali, ma anche carenze di agenti, di ispettori, direttori e di educatori, furono rilevate in ciascun istituto e riportate in un rapporto pubblicato al termine delle visite e ancora disponibile online. Altre visite furono poi effettuate a Pasqua e a Ferragosto. "In una Regione, la Calabria, che lo scorso 6 novembre ha aderito alla marcia per l’Amnistia intitolata a Marco Pannella e a Papa Francesco, ma che non ha ancora istituito il Garante Regionale delle presone private della libertà stante ci sia una proposta di legge che da più di un anno giace in Consiglio Regionale in attesa di essere discussa, con le autorizzazioni ottenute dalla ex deputata Radicale Rita Bernardini, garante de facto anche dei detenuti calabresi, ci recheremo in carcere, per verificare le condizioni di detenzione delle persone private della libertà, ma anche le condizioni di lavoro di agenti, di educatori e dell’intera comunità penitenziaria e per ringraziare gli oltre 900 detenuti che, dalle carceri calabresi (quasi 20 mila dalle carceri di tutta Italia), il 5 e 6 novembre - in occasione della Marcia per l’amnistia - hanno digiunato due giorni per chiedere, in modo non-violento, assieme a Rita Bernardini e altri dirigenti e militanti del Partito della Nonviolenza, lo stralcio della riforma dell’Ordinamento penitenziario in modo che potesse essere discusso prima del referendum costituzionale, ed il rispetto del dettato costituzionale per ciò che riguarda l’effettività rieducativa della pena che - come prevede il dettato costituzionale - deve riguardare tutti i detenuti, nessuno escluso". Salerno: muore in carcere a 36 anni. La moglie "sul suo corpo segni di violenza" di Angela Cappetta Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2016 Detenuto muore nel carcere di Salerno. Per la polizia penitenziaria è stato un infarto, ma la moglie non ci crede e denuncia tutti. Se si tratta di un nuovo caso Cucchi, lo deciderà l’autopsia che i familiari di Alessandro Landi hanno chiesto che venga effettuata già oggi. Landi, 36 anni, da quattro mesi circa, stava scontando una pena per spaccio e detenzione di droga nel carcere di Salerno. Ieri mattina sua moglie è stata avvertita dalla polizia penitenziaria che suo marito era "deceduto per un malore". Era morto alle 2.40 della notte tra Natale e Santo Stefano in carcere e in ospedale era arrivato già cadavere. Nella denuncia la donna sostiene che il corpo presentava "una rottura interna del labbro superiore e macchie di sangue", "ecchimosi visibili al collo e al torace" e "sotto il braccio destro" e "la testa appariva di dimensioni superiori alla norma con evidenti gonfiori anche nella regione temporale". La donna, che si è affidata all’avvocato Agostino Allegro per capire cosa sia successo, esclude che il marito abbia mai sofferto di problemi cardiaci. Volterra (Pi): nel carcere dove i ragazzi studiano insieme con i detenuti di Alessio Gaggioli Corriere della Sera, 27 dicembre 2016 Il racconto della Fortezza, il primo carcere al mondo dove dal 2012 i ragazzi dell’alberghiero Niccolini seguono le lezioni insieme agli ospiti della struttura. C’è l’alberghiero Niccolini fuori che racconta la gran parte dei ragazzi di Volterra e dell’Alta val di Cecina. E c’è l’alberghiero Niccolini dentro, dietro le sbarre, oltre il metal detector. Quello dei ragazzi che avevano mollato gli studi. Francesca, Giusy, Jacopo e Margherita si erano arresi "per la troppa competizione che c’è fuori", dice un agente penitenziario. Perché è più sicuro lavorare la mattina al bar del babbo, o in trattoria. Oppure perché erano caduti in quelle piccole trappole tipiche della loro età, delle compagnie, della provincia. Ora ogni pomeriggio percorrono una ripida salita che d’inverno solo il detenuto "Capitan Ventosa" - per il suo impermeabile giallo choc - riesce a sghiacciare: si chiama Paolo, tra due mesi sarà fuori. "Ispettore, è l’ultimo Natale insieme, le faccio gli auguri. E poi? Una volta a casa?...". Anche lui come gli altri detenuti forse è un assassino, un trafficante, un rapinatore, anche se oggi ha la faccia da innocente. Prima di entrare nel carcere di Volterra insieme ai ragazzi dell’alberghiero ci pensi. Qui siamo in una casa di reclusione, tra i "fine pena mai", tra detenuti non di passaggio. Questa è la loro casa. Il metal detector, poi serrature e cancelli - Ma questo è anche il primo carcere al mondo dove dal 2012 i ragazzi esterni vengono a studiare assieme ai detenuti. Prima di entrare, di oltrepassare il cartello "State Prison" (un avvertimento peri turisti), "quelli che si sono dati una seconda chance in carcere" spengono il cellulare. Fanno la salita, abbandonano in una cassetta di sicurezza ogni cosa che li possa mettere in contatto con l’esterno. L’agente nel casotto all’ingresso segna presenze e assenze come un normale bidello. Francesca, Giusy, Jacopo, Daniela e Margherita passano prima sotto un metal detector, poi serrature e cancelli. Siamo in carcere, ma è tutto aperto. Il progetto - La fortezza medicea di Volterra, con i suoi 160 detenuti, si aprirà ancora di più. Entro qualche mese, dopo lunghi lavori di restauro, restituirà alla città la Rocca Nuova, detta il Mastio, costruita da Lorenzo il Magnifico, la torre dove furono imprigionati quelli della congiura dei Pazzi. Riaprirà alla città, sarà visitabile, annuncia raggiante la direttrice Maria Grazia Giampiccolo, "entro la fine dell’inverno". Un altro pezzo di Fortezza che torna a Volterra, un’altra apertura, dopo la compagnia teatrale di Armando Punzo (che quella compagnia vorrebbe renderla stabile); dopo l’apertura di una sartoria dove i detenuti confezionano pigiami e grembiuli per i detenuti di altre carceri o bellissime borse e tappeti in patchwork che chissà, magari si riusciranno a vendere online; e dopo le "Cene Galeotte" con i grandi chef e i detenuti in cucina che dal 2006 con il sostegno di Unicoop Firenze, ancora su intuizione della direttrice Giampiccolo, hanno messo a tavola dietro le sbarre oltre 12 mila persone (incassi sempre in beneficenza, quest’anno il ricavato della cena di Natale servirà per costruire una scuola a Norcia) e aperto il varco alla scuola per i "civili", come li chiamano gli agenti. Obiettivo diploma - Nelle celle con l’intonaco verde acqua i ragazzi della seconda opportunità vengono a cercare dentro risposte da spendere fuori. Lo stesso obiettivo - il diploma, l’anno prossimo ci saranno i primi diplomati del quinquennio in carcere - dei compagni di banco-detenuti che seguono le lezioni con loro e hanno vinto la battaglia contro il vortice dell’ozio, della noia, dei giorni tutti uguali. La vera maledizione dei carcerati. Le classi - In classe, una quarta, la professoressa Paola Albano tiene la sua lezione di diritto e tecnica delle imprese ricettive. Con Francesca, Giusy, Jacopo, Daniela e Margherita ci sono Assan, una cinquantina d’anni e David, trenta a malapena. Seguono, intervengono, prendono appunti. Ognuno di loro ha un astuccio sul banco, un quadernone. Sono ventiquattro i ragazzi che tutti i giorni entrano in carcere, con i loro docenti, per frequentare l’alberghiero. Trentacinque i detenuti. Molti di loro hanno già trovato un posto che lo attende quando uscirà. Altri sono "articolo 21", quelli cioè che hanno avuto il permesso per lavorare fuori alcune ore del giorno. Quasi tutti in locali e ristoranti di Volterra. Assan, un interno, spera: "Voglio tornare a Torino, ho già un’attività, mi piacerebbe crescere nel mio lavoro". Margherita, un’esterna, la mattina è in trattoria il pomeriggio in carcere. È poco più che maggiorenne, fuori aveva mollato, qui ha ricominciato a studiare. "Con gli "interni" c’è complicità, ci dicono sempre di non sbagliare più, di non commettere i loro errori". Un’ora a seguire la lezione e ti dimentichi che tra quei ragazzi ci sono "fine pena mai", assassini, rapinatori, trafficanti. Persone che hanno commesso sbagli enormi. Che hanno fatto soffrire e che ora stanno restituendo qualcosa ai loro compagni di banco che vengono da fuori e anche a loro stessi. La lezione corre svelta. Il carcere che vuole raccontarsi - Poi, di colpo, il carcere viene a prenderci. Ha il volto di un giovane agente. Alto, ben piazzato, pallido, con le occhiaie. È arrivato da poco da Torino, sembra portare ancora i segni del carcere giudiziario, i carceri come Sollicciano, quelli dove si entra e si esce. Dove i detenuti non devono costruire niente, non hanno bisogno di costruirsi nemmeno una quotidianità. Le pene sono più brevi, pochi mesi o giorni per molti. E allora chissenefrega delle giornate tutte uguali. Chissenefrega degli altri, detenuti e secondini. I rapporti non contano, conta sopravvivere al meglio che fra poco si esce. Per gli agenti la routine invece è sempre quella, la pena non cambia. Magari hai la fortuna di riuscire a farti trasferire qui. Sono tante le domande per venire a Volterra, sia di detenuti che di agenti. Il ragazzo con la divisa e le occhiaie ha un accento campano, dietro quasi non si vede ma si sente una voce decisa. È l’accento sardo e sicuro dell’ispettore Alberto Carta, da 25 anni a Volterra, da 35 agente penitenziario. Ecco il carcere che vuole raccontarsi, impaziente. Come i detenuti, che qui passeggiano liberi per i corridoi con le celle aperte fino a sera: "Dottore, poi si fermi da me avimmo da parla anche di noi". Uno di loro entra nella cella-ufficio dell’ispettore Carta, lo ringrazia "per quella cosa". "Vede, queste sono piccole soddisfazioni", dice lui compiaciuto. Mi sento quasi vittima di uno sketch programmato. Non è così, ma anche se lo fosse, se il rapporto fra "secondini" e detenuti fosse solo di convenienza, cosa ci sarebbe di male? L’emergenza radicalizzazione - "Qui sono io il primo da cui devono passare per avere qualcosa. Il primo filtro per un permesso, per un cambio di mansione, quello che ascolta le loro richieste anche sindacali. Nessun regalo, nessuna concessione. Ma pieno riconoscimento di quelli che sono i loro diritti - dice l’ispettore Carta - Vuole che glielo dica? D’accordo, i detenuti sono "brutti, sporchi e cattivi", proprio come nel film di Scola. Ma io preferisco quelli che hanno le palle, quelli che vogliono mettersi in gioco. E lo capisco subito fin dal primo colloquio. Io posso offrirvi questo: la scopa, poi la cucina e via via salendo la sartoria. Poi c’è la scuola da geometri, l’alberghiero. Loro qui hanno l’opportunità di mettersi in gioco, di restituire. Qui la mattina si lavora e il pomeriggio si studia. Su 160, 140 lavorano, guadagnano (anche se le mercedi sono ferme da anni). Nessuno passa il tempo a fumare nei corridoi o in branda". Quando Carta arrivò a Volterra "proprio in questo corridoio, i brigatisti rossi e neri si davano le coltellate. Oggi abbiamo già otto detenuti diplomati all’alberghiero nel triennio. Qui un ergastolano capisce che la vita continua, che ha perso molto, ma non tutto". Qui capisci che le carceri sono cambiate. "Quando ero a Poggioreale - racconta un vecchio agente - portavo il completo stirato a Raffaele Cutolo, ò professore. Lui l’esercito, la "Nuova camorra organizzata", se lo costruì in carcere. Un giorno mi disse: "vede dottore, un mio compare è ministro a Roma, e io sono qui. Comando da qui". Oggi il problema sono i musulmani che si radicalizzano nelle carceri, questa è la nuova emergenza, più della criminalità organizzata. Stanno fra di loro, non hanno rapporti con gli altri, il muro che li divide spesso è impenetrabile". Di Volterra e di altre carceri - Gli agenti raccontano storie di ieri e di oggi, di Volterra e di altre carceri. Storie atroci, ricordi di quando sulle mura della Fortezza c’era l’esercito, c’era l’Armeria. Storie di galera e di detenuti. Per Paolo, che ha il cappellino di Babbo Natale in testa e gli antipasti della Cena galeotta in mano, Volterra è stata un colpo di fortuna: quando fu stato estradato dal Brasile fece domande su domande; voleva arrivare nella Fortezza Medicea anche per avvicinarsi a casa, alla sua Livorno dove lo aspetta un figlio che oggi ha 15 anni. Le ore in classe coi ragazzi di fuori lo aiutano "a sentire meno nostalgia di lui - racconta. Stare con questi ragazzini ci fa sentire migliori, per noi è una grande responsabilità e un grande premio. Ci confidano i loro problemi, noi cerchiamo di dargli qualche consiglio. Non ci sentiamo abbandonati". L’ispettore Paolo Iantosca sembra ripetere lo stesso identico concetto: "A noi agenti chi ce lo fa fare secondo lei di assumerci un rischio del genere? Accanto a ragazzini che hanno avuto problemi e cercano una seconda possibilità ci sono assassini, sì anche assassini, detenuti, che sono persone che diventano migliori. Che ci fanno diventare migliori. Crediamo nel progetto". Passa un detenuto: "Lo sa di quante parole è composto il vocabolario di noi "interni"? Duecento parole, non di più e sempre le stesse: rapina, permesso, lametta, mercedi... Sono stati i ragazzi ad allargarci la mente. E la bocca". Nella Fortezza sono le sei di sera. Fervono i preparativi per la Cena galeotta con lo chef Nicola Schioppo, del ristorante fiorentino "Cipolla Rossa". Per lui è la seconda volta. La prima, appena messo piede nelle cucine del carcere, nude, semplici, senza abbattitori o frullatori, non la dimenticherà mai. I detenuti chiarirono subito le cose: "Sì ok, tu sei il grande cuoco, ma questa è casa nostra...". Qui non siamo a Masterchef, non ci sono telecamere o premi. Non c’è da farsi belli. È un ritorno alle origini, al trito del soffritto fatto a mano (e non a caso qualche chef si è tirato indietro). E alla fine di ogni servizio gli agenti contano e ricontano il numero di forchette e coltelli. Niente e nessuno deve mancare all’appello. Siamo in carcere. "Capitan Ventosa", il detenuto con l’impermeabile giallo, esce a sghiacciare la ripida discesa. I ragazzi devono uscire. Il carcere non è muto. Le loro voci rimbombano nei corridoi. Schiamazzi, risate, urla. L’ispettore Carta ha un sussulto. "Che succede?". Vecchi riflessi condizionati di un "secondino". Roma: i Radicali in visita ai 914 detenuti (su 624 posti) di Regina Coeli di Giampiero Calapà Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2016 Grazie per la visita, ma non preoccupatevi, tanto io esco presto, esco subito, non ho niente da rimproverarmi e uscirò a testa alta da questa vicenda". Queste le parole rivolte alla delegazione del Partito radicale da parte di Raffaele Marra - il capo del personale del Campidoglio, in precedenza vicecapo di gabinetto del sindaco Virginia Raggi - arrestato il 16 dicembre per corruzione nell’ambito di un’inchiesta sull’acquisto di una casa dell’ente Enasarco che coinvolge anche l’imprenditore Sergio Scarpellini, a cui sono invece stati concessi i domiciliari dopo sette giorni. Marra divide la cella con un giovane straniero e con l’ex parlamentare del Popolo delle libertà Amedeo Laboccetta, arrestato tre giorni prima del dirigente di Roma Capitale, per la vicenda del maxi- riciclaggio del re delle slot Francesco Corallo. La cella di Marra e Laboccetta nel carcere romano di Regina Coeli a Roma, tra quelle visitate dalla delegazione radicale guidata da Rita Bernardini il giorno di Natale, era in condizioni più decenti, con il bagno piastrellato, sia lateralmente sia sul pavimento, e la doccia, a differenza delle altre, provvista di ante. Laboccetta si è trattenuto per diverso tempo a parlare con Rita Bernardini, accompagnata dall’avvocato Maria Laura Turco e da don Vincenzo Gallo, cappellano del carcere fiorentino di Sollicciano. Marra, invece, dopo rapidi saluti e la rassicurazione, "Tanto io esco presto", ha acceso la televisione dedicando meno attenzione alla visita. Non solo famosi, a Regina Coeli in questo momento ci sono 914 detenuti su una capienza regolamentare di 624. Rita Bernardini, al termine della visita, ha spiegato: "Marra e Laboccetta stavano bene - la loro condizione di detenzione è dignitosa, gli altri un po’meno. La direzione di questo carcere, in passato arrivato anche a 1200 detenuti, non può rifiutarsi di accogliere nessuna persona che gli viene mandata dall’autorità giudiziaria. E molti, stranieri, non sanno nemmeno che cosa gli succede, non esiste la figura del mediatore culturale e non sanno neppure come nominare un avvocato. Questo carcere è fuori da ogni legalità". Per la prima volta con la delegazione radicale in visita a Regina Coeli il 25 dicembre c’era anche Ilaria Cucchi: "Sono la sorella di uno dei cosiddetti ultimi, è bello sapere che ci sono delle persone che s’interessano a loro. Ho messo insieme i tasselli che mi mancavano per ricostruire gli ultimi giorni di vita di Stefano, è stato importante perché vedere questi luoghi in alcuni istanti è stato davvero doloroso, immaginarlo su quella panca, attraversare quei corridoi con la sofferenza che sappiamo". Tra gli "ultimi" che hanno ricevuto la visita dei radicali anche i due giovani fratelli Nando e Fabrizio, rinchiusi in due celle diverse, accusati di aver malmenato un negoziante, lesioni non gravi, dopo aver tentato di rubargli due bottiglie di vino, nel loro quartiere di Colli Albani a Roma. "Uno dei due fratelli era probabilmente ubriaco - racconta l’avvocato Maria Laura Turco. Hanno una situazione familiare difficile, hanno passato il Natale in carcere e non hanno neppure i soldi per un avvocato, Nando ripeteva che non sa quello che deve fare". La Spezia: cura dimagrante a "Villa Andreino", in un mese trasferiti sessanta detenuti di Corrado Ricci La Nazione, 27 dicembre 2016 Fino ad un mesetto fa erano 220, nel giorno di Natale dietro le sbarre erano rimasti in 160: festività un po’ meno a stretto di gomito per i detenuti del carcere della Spezia, sulla via del ritrovamento di un’ospitalità - in termini di spazi ad personam nelle celle - a misura d’uomo. Lo ha certificato la visita rituale dell’avvocato e leader dei radicali spezzini Deborah Cianfanelli che, per l’occasione, è stata accompagnata dal militante storico di Genova Stefano Petrella e da due legali della Camera penale spezzina, l’avvocatessa Catia Piras (responsabile dell’Osservatorio-carceri) e dal collega Marco Argenziano. Mentre i più erano con le famiglie attorno alle tavole di casa imbandite di ogni delizia, loro hanno voluto sacrificare due orette per il contatto diretto con i detenuti, con visite quasi in ogni cella, tra incoraggiamento a resistere, conforto psicologico e ricordo di Marco Pannella : "Eccoci, siamo qui a dimostrarvi che siete nei nostri pensieri e che continuiamo a tenere alta l’attenzione sulle vostre condizioni...lo facciamo per voi, per le vostre famiglie in continuità con la missione di Marco.... se c’è qualcosa che non va... ditecelo" è stato il leit motiv dei faccia a faccia. Nessun lamento disperato. Ma la solita ansia del domani rispetto alle reali possibilità di reinserimento sociale. E, in parallelo, la soddisfazione per l’allentamento dell’effetto sardine-in-scatola. Un nuovo assetto che è conseguenza di un verdetto-pilota, innescato dall’avvocato Cianfanelli: la condanna dello Stato, lo scorso ottobre, al risarcimento di un ex detenuto che, nel carcere della Spezia, tra il 2001 e il 2014, trascorse 957 giorni "disumani", nel senso delle sofferenze indotte dal sovraffollamento. A lui sono andati 7.656 euro di ristoro. Per la comunità carceraria si è materializzato un principio: nei 3 metri quadrati minimi di aree fruibili in cella da parte dei detenuti - in applicazione delle direttive dell’Unione Europea che in passato hanno sanzionato l’Italia inadempiente - è da escludere lo spazio occupato dalle brande. Obiettivo centrato? "Non del tutto... secondo i nostri calcoli la capienza rispettosa delle norme dovrebbe scendere a quota 151, ma il passo in avanti è indubbio, in parallelo agli apprezzabili sforzi della direzione e della Polizia penitenziaria a gestire la situazione" dice Deborah Cianfanelli che si riserva di acquisire, quando ne disporrà, dati più precisi in ordine alla composizione - per età, nazionalità, reati - dei detenuti. Criticità segnalate? "L’ancora scarsa praticabilità di percorsi di formazione nella prospettiva del ritorno in libertà, per affrontare il mercato del lavoro: solo quattro detenuti sono impegnati in una fabbrica del ferro, tre o quattro operano in un’azienda di pelletteria, cinque in cucina, all’interno del carcere. Occorre fare di più". Difficile portare avanti le vostre battaglie senza Pannella? "Impegnativo ma necessario, anche per onorare la sua memoria, ben radicata nei detenuti. C’è una circostanza eloquente, finora non resa pubblica: quando morì Marco, il 19 maggio scorso, i detenuti nel carcere di Chiavari fecero tre giorni di sciopero della fame per testimoniare cordoglio e solidarietà". Vibo Valentia: i Radicali; in carcere pochi educatori e troppi detenuti in attesa di giudizio zoom24.it, 27 dicembre 2016 Ispezione dei Radicali all’interno dell’istituto penitenziario di località Cocari. "Utilizzo eccessivo - denunciano - della carcerazione preventiva". Tour nelle carceri calabresi per i Radicali. Ieri è stato il turno di Vibo Valentia dove sono state riscontrate diverse criticità che finiranno per essere pubblicate nel rapporto annuale disponibile anche online al termine delle visite programmate in questo periodo natalizio. Pochi educatori. Secondo quanto riferito dal segretario dell’associazione Non Mollare, Giuseppe Candido, il carcere vibonese, oltre a soffrire la cronica carenza di agenti, deve fare i conti con pochi educatori. Appena quattro su una pianta organica che ne prevede nove. Meno della metà e ciò vuol dire che ogni educatore dovrebbe farsi carico di 100 detenuti a testa. La denuncia. Nella pratica non è così perché dall’ispezione dei Radicali all’interno della casa circondariale di località Cocari emerge un altro dato allarmante: 209 detenuti su 347 totali sono ancora in attesa di sentenza definitiva e, quindi, con anche impossibilitati di essere assistiti dai quattro educatori in servizio nell’istituto. Un aspetto che da un parte tende a limitare il carico di lavoro degli educatori, ma dall’altra preoccupa i Radicali. "Quello che stiamo vedendo girando nelle carceri calabresi - afferma Candido - è l’estremo utilizzo della carcerazione preventiva che va ben oltre la media nazionale che è del 35% e a Vibo, addirittura, i detenuti in attesa di giudizio sono addirittura il 60%". (red1) Cosenza: per i Radicali Santo Stefano tra i detenuti nel carcere di via Popilia quicosenza.it, 27 dicembre 2016 Il Partito Radicale dopo la morte di Marco Pannella continua il tour natalizio nelle carceri di tutta Italia. Natale a Vibo Valentia, Santo Stefano a Cosenza, Capodanno a Crotone. Dopo la morte del proprio leader e un congresso tenuto nel carcere di Rebibbia, il Partito Radicale Nonviolento non molla le battaglie per la vita del diritto e per il diritto alla vita. "È il primo Natale senza Marco Pannella, ma anche quest’anno, nell’ambito di un’iniziativa nazionale del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito che coinvolgerà 40 istituti penitenziari che saranno visitati da oltre cento esponenti e militanti del Partito della Nonviolenza, in Calabria, come ci ha insegnato Marco, stamattina abbiamo visitato la Casa circondariale di Vibo Valentia, Santo Stefano invece lo passeremo coi detenuti della casa circondariale Sergio Cosmai di Cosenza e, a Capodanno, visiteremo la casa circondariale di Crotone, il 4 gennaio quella di Rossano Calabro". Lo si legge in una nota dei due esponenti calabresi del Partito Radicale, Giuseppe Candido, segretario dell’associazione Non Mollare e Rocco Ruffa che lo scorso anno, proprio durante le festività natalizie, assieme effettuarono un giro di visite ispettive in tutte le dodici carceri calabresi. Sovraffollamento, tipologie e percentuali di detenuti in attesa di giudizio, carenze strutturali, ma anche carenze di agenti, di ispettori, direttori e di educatori, furono rilevate in ciascun istituto e riportate in un rapporto pubblicato al termine delle visite e ancora disponibile online. Altre visite furono poi effettuate a Pasqua e a Ferragosto. Il tour delle carceri riguarderà oltre 40 carceri (il 20% degli istituti) in tutta Italia, in Calabria, riguarderà ben 7 istituti di 12 e, si legge nel comunicato, "proseguirà con delle visite in provincia di Reggio Calabria alle quali parteciperà anche Rita Bernardini, il 3 e il 4 gennaio 2017, nelle carceri di Panzera e Arghillà e il 5 gennaio a Palmi. Il 4 gennaio, mentre Rita Bernardini visiterà il carcere di Palmi, Candido e Ruffa, faranno quindi visita alla casa di reclusione di Rossano Calabro". Cosenza: i Radicali "il carcere di Paola tra i tre più affollati della Calabria" cn24tv.it, 27 dicembre 2016 Sono 231 i detenuti che, attualmente, ospita la Casa Circondariale di Paola, a fronte di una capienza regolamentare di 182 posti: 49, dunque, quelli in eccesso. 134 dei ristretti sono italiani (di cui 2 in Alta Sicurezza in attesa di trasferimento ad altro Istituto) e 97 stranieri. I dati arrivano da Emilio Enzo Quintieri, esponente dei Radicali Italiani, al termine della visita effettuata la vigilia di Natale nello stabilimento penitenziario tirrenico. Nonostante sia una Casa Circondariale con delle Sezioni di Reclusione, la maggior parte dei detenuti ha una posizione giuridica di condannato definitivo (178 di cui 2 As). 21 sono gli imputati in attesa di primo giudizio, 16 gli appellanti e 16 i ricorrenti. A 18 dei condannati definitivi che hanno tenuto una buona condotta, il Magistrato di Sorveglianza di Cosenza, Paola Lucente, ha concesso un permesso premio per trascorrere le festività all’esterno dell’Istituto. Circa la metà dei "permessanti" è costituita dai detenuti del padiglione a custodia attenuata. La Delegazione Radicale, autorizzata da Roberto Calogero Piscitello, Direttore Generale dei Detenuti e del Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, era composta da Emilio Enzo Quintieri, Valentina Moretti, Roberto Blasi Nevone e dall’Avvocato Carmine Curatolo del Foro di Paola. La Casa Circondariale di Paola, con i suoi 49 detenuti in eccesso rispetto alla capienza regolamentare, si pone al terzo posto tra gli Istituti Penitenziari sovraffollati della Calabria (7 su 12), preceduta dalle consorelle "Sergio Cosmai" di Cosenza e "Giuseppe Panzera" di Reggio Calabria. "A Paola - spiega Quintieri - l’indice di sovraffollamento è del 125,82% con una grave carenza di organico di Polizia Penitenziaria e di Funzionari Giuridico Pedagogici. Infatti, pur essendo presenti 103 unità di Polizia Penitenziaria a fronte di una pianta organica che ne prevede 113, mancano due Commissari, sette Ispettori ed undici Sovrintendenti". "Solo il ruolo degli Agenti-Assistenti - continua il Radicale - è al completo perché, rispetto ad un organico di 84 unità, nel Reparto di Paola ve ne sono in servizio 94. Per quanto riguarda invece gli Educatori, a fronte di una pianta organica di 6 unità, sono in forza nell’Istituto soltanto 3 Funzionari". La Delegazione dei Radicali, accolta ed accompagnata durante il giro ispettivo dai sottufficiali di Polizia Penitenziaria Ercole Vanzillotta e Attilio Lo Bianco, ha avuto modo di apprendere anche notizie relative alla morte del detenuto marocchino Youssef Mouhcine, avvenuta alla fine del mese di ottobre e finita, più volte, all’attenzione del Governo grazie a delle Interrogazioni Parlamentari presentate alla Camera dei Deputati ed al Senato della Repubblica. "Intanto - sottolinea Quintieri - non corrisponde al vero che lo stesso si trovasse in isolamento poiché era allocato nella Prima Sezione, a piano terra, nella camera detentiva 17, attualmente sottoposta a sequestro giudiziario. Per quanto riferito Mouhcine si trovava da solo in cella ed è stato trovato morto sul letto, ricoperto dal lenzuolo e dalla coperta, insieme ad una bomboletta di gas e ad un sacchetto di plastica". "Relativamente alla questione della sepoltura nel Cimitero di Paola - spiega ancora il rappresentante dei Radicali - pare che l’Amministrazione Penitenziaria abbia proceduto poiché i congiunti dello straniero avevano detto all’interprete che non erano nelle condizioni di poter affrontare le spese per il funerale. I familiari, invece, negano tale circostanza. Saranno le Autorità competenti a chiarire l’esatta dinamica del decesso e tutto il resto". Rispetto alla mancanza dei Mediatori Culturali per gli stranieri lamentata nell’ultima visita del 24 settembre, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo, ha poi precisato che la Direzione dell’Istituto provvederà a breve alla realizzazione di un protocollo di intesa con Associazioni varie che forniscano oltre all’attività di mediazione culturale, anche un approfondimento su ulteriori aspetti, come ad esempio l’apprendimento della lingua italiana da parte dei detenuti arabi e viceversa, per i detenuti italiani, affinché la popolazione carceraria possa intraprendere un percorso di coesione interculturale così da rendere la vita degli stessi più consona a quelle che sono le regole del sistema penitenziario. In ordine, invece, alla possibilità di applicazione del modello operativo della cosiddetta "sorveglianza dinamica" presso l’Istituto di Paola, la Direzione ha inoltre fatto sapere che la stessa potrebbe trovare attuazione apportando modifiche strutturali ad hoc, così come già proposto in una apposita progettualità avanzata al Dipartimento. A questo riguardo, non essendo noti gli esiti di questa iniziativa al Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, quest’ultimo provvederà ad effettuare delle altre verifiche per conoscere quale sia a tutt’oggi il relativo stato dell’arte. Sulle problematiche sanitarie lamentate dalla Delegazione Radicale, è stato riscontrato che i detenuti bisognosi di accertamenti specialistici extramoenia, dopo una lunga attesa, sono stati finalmente accompagnati e sottoposti alle visite oncologiche e neurochirurgiche di cui avevano bisogno. Nel pomeriggio di oggi, infine, gli esponenti dei Radicali Italiani, visiteranno anche la Casa Circondariale di Castrovillari "Rosetta Sisca" che, allo stato, è l’unico Istituto Penitenziario nel territorio della provincia di Cosenza a non essere colpito dal problema del sovraffollamento: ha difatti una capienza regolamentare di 122 persone ed i detenuti presenti sono 110. Alessandria: fuori dal carcere quattro ore al giorno, detenuti arruolati come spazzini di Valentina Frezzato La Stampa, 27 dicembre 2016 Affiancati da un caposquadra dell’Amag si occupano della pulizia e del verde. Gli otto detenuti lavorano su turni di quattro ore per cinque giorni alla settimana. Ad Alessandria, otto detenuti escono dal carcere di San Michele quattro ore al giorno, per cinque giorni su sette. E lo fanno per andare a spazzare le strade. Due frasi che, buttate lì, non colpiscono. Bisogna ricordarsi di quale contesto stiamo parlando; e per capire l’eccezionalità del caso, bisogna guardare gestualità e ascoltare come cambia il tono della voce di Davide Petrini, il garante comunale dei detenuti, che è il primo a stupirsi della riuscita di questa iniziativa: "Si tratta di qualcosa di incredibile. Normalmente, e si fa già fatica, si può uscire dalla casa circondariale per qualche ora, solamente per recarsi a qualche mostra o per un progetto in particolare. Qui invece, otto detenuti escono tutti i giorni per quattro ore al giorno e lo fanno per stare per strada, con la gente comune, per dare un servizio". Affiancano un caposquadra di Amag Ambiente. A San Michele, dove sono ospitati in 320, il primo a occuparsi di questi colloqui è il direttore dell’istituto penitenziario, Domenico Arena: "Da gennaio le squadre raddoppieranno - assicura - e si passerà da otto persone a sedici impegnate in questo progetto, che è unico in Italia. Ricordo che è un’attività senza retribuzione. Siamo abituati all’idea che il nostro lavoro consista nel tenere queste persone chiuse fra quattro mura, ma se si continua a illudersi che il corso del tempo da solo serva a far cambiare cose e persone non si andrà da nessuna parte. Bisogna arricchire i contenuti della pena, il tentativo è di rimediare a uno strappo sociale. Uscire, lavorare tra la gente, è un modo". È Claudio Perissinotto, presidente di Amag Ambiente, a spiegare come funziona il lavoro: "C’è un pulmino, fornito da Amag Mobilità, che va a prendere i detenuti alle 13,30 e li porta al centro raccolta. Una squadra, composta da due persone, rimane in sede, le altre tre vengono inviate nei quartieri e nelle zone dove serve un supporto". Ma gli alessandrini, se ne sono accorti? Sì, ma in un modo inaspettato: "Sono venuti a ringraziarci in azienda perché hanno visto persone che lavoravano bene, che si davano da fare" aggiunge Perissinotto. E poi gli scappa un "danno più loro dei nostri", come battuta per far capire che al lavoro, anche se non pagato, ci tengono davvero. Lo stipendio, qui, non si misura in euro. Benevento: De Magistris e i presepi realizzati dai giovani detenuti dell’Ipm di Airola Il Mattino, 27 dicembre 2016 Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ha incontrato i ragazzi detenuti dell’Istituto penale minorile di Airola, alla Galleria Umberto I, dove hanno esposto e venduto i loro lavori artigianali nell’ambito di una rassegna presepiale organizzata dal Centro di Giustizia minorile per il disagio giovanile. Con loro si è trattenuto ed ha apprezzato molto sia l’impegno profuso che i risultati raggiunti. A colpire l’attenzione del primo cittadino di Napoli soprattutto il presepe in miniatura realizzato da alcuni detenuti in un guscio di noce, in sughero oppure quelli dipinti su tegola di terracotta. L’iniziativa è il risultato finale del corso di arte presepiale organizzato dal Rotary Valle Caudina. "Il sindaco De Magistris ha molto apprezzato i lavori dei ragazzi detenuti - ha detto il presidente del Rotary, Giuseppe Simeone - ed al tempo stesso ci ha incoraggiati ad insistere sui nostri corsi tecnico-pratici che puntano tutti al reinserimento e all’integrazione. Abbiamo sostenuto in passato altre iniziative di preparazione ad attività lavorative e siamo convinti della validità di tali esperienze che aiutano i giovani ospiti della struttura carceraria, una volta usciti, a reinserirsi nella società". Con il sindaco di Napoli anche la dottoressa Liliana Tocco, garante dei detenuti, ed il direttore dell’Istituto penale minorile di Airóla, Antonio Di Lauro. I lavori presentati a De Magistris sono stati realizzati sotto la guida del maestro Clemente Servodio di Airola; il percorso ha visto impegnati una decina di giovani detenuti dal mese di ottobre nella costruzione di presepi con materiali informali. Sorprendenti i risultati ottenuti in tempi relativamente brevi. Il corso di arte presepiale fa parte del progetto "3P" in cui sono compresi anche un corso di avviamento all’attività di pizzaiolo e un corso di avviamento all’attività di fornaio. Il percorso didattico è promosso dal Rotary club Valle Caudina e sostenuto dai club Rotary di Aversa Terra Nonnanna, Capua Antica e Nova, Caserta, Valle Telesina, nonché dalla "Rotary Foundation". Palmi (Rc): boss ergastolano si laurea per la seconda volta strill.it, 27 dicembre 2016 Giuseppe Barreca, sessant’anni, condannato definitivamente all’ergastolo per una serie di reati compiuti nell’area sud di Reggio Calabria negli anni novanta e riconducibili all’omonima cosca di ‘ndrangheta, dopo essersi laureato anni fa in Scienze della comunicazione all’Università di Perugia, l’8 novembre scorso ha conseguito una seconda laurea in Comunicazione istituzionale nello stesso ateneo. Lo rendono noto i suoi legali, gli avvocati Aurelio e Steve Chizzoniti. Barreca, secondo i suoi legali, "è l’unico detenuto nelle carceri italiane ad aver conseguito due lauree per lo stesso orientamento tecnico avviandosi a gran falcate verso il completo recupero al consorzio civile, per come dimostrano i numerosi successi conseguiti anche sul versante letterario scanditi dai tantissimi premi allo stesso assegnati su scala nazionale". La tesi della seconda laurea, tra l’altro, "è stata ritenuta meritevole di dignità di stampa e quindi confluita nel testo accademico ufficiale dell’Università di Perugia ed utilizzata quale tema di approfondimento scientifico (Diritto privato) da parte degli studenti della Facoltà di Scienze politiche. Legittimo, quindi - sostengono gli avvocati - l’orgoglio del dott. Barreca che ha scoperto nello studio e nella cultura una ragione di vita volta a riscattare un pregresso ed ormai lontano periodo turbolento che gli è valso il carcere a vita. Lo stesso non dispera di riguadagnare la libertà perduta così come il fratello Santo anch’egli condannato per gli stessi reati ed ormai prossimo alla laurea e che ha già lasciato le carceri poiché recentemente ammesso al beneficio della libertà condizionale che gli consente di lavorare, totalmente libero, in una azienda del nord Italia lontano dalla Calabria. Del resto ben due gip hanno conclamato in tempi diversi l’ormai avvenuta estinzione della cosca Barreca i cui esponenti di spicco sono da tempo redenti grazie anche all’alta professionalità del personale penitenziario, equipe sociali e magistrati di sorveglianza operanti nelle strutture carcerarie ove gli stessi sono stati ristretti per ben 27 anni". "Da evidenziare - concludono i legali - il ruolo della Procura di Reggio che, attraverso il pm Giuseppe Lombardo, ha scrupolosamente istruito le istanze formalizzate dai fratelli Santo e Giuseppe Barreca poi accolte dai rispettivi Tribunali di sorveglianza territoriali di Sassari e de L’Aquila". Pena di morte. L’Onu: "Ora basta uccidere". Ma questo è l’anno record di Andrea Valdambrini Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2016 Votata la moratoria sulla pena di morte nonostante i numeri, in crescita delle esecuzioni capitali dalla Cina all’Arabia Saudita. Memphis, Tennessee, 2 ottobre 1983. Verso le 9 del mattino alcuni uomini armati fanno irruzione in un supermercato. Durante la rapina, partono dei colpi di arma da fuoco e il proprietario, Joe Belenchia, rimane ucciso sul colpo. Testimoni raccontano di aver visto i criminali fuggire a bordo di un’auto rosso scura. Grazie a questo dettaglio, la polizia rintraccia il colpevole. Si chiama Ndume Olatushani, ha 24 anni, è afroamericano. Dice che quella mattina era a casa da sua madre in un’altra città, St. Louis, a 5 ore di macchina dal luogo della rapina. Eppure la polizia afferma di aver trovato le sue impronte digitali sul vetro posteriore. Il processo si conclude quasi due anni dopo: Ndume viene condannato alla pena di morte. Come si scoprirà negli anni, condannato da innocente. "Sono rimasto in prigione per 28 anni, nel braccio della morte per due decenni", dice Ndume, il cui calvario giudiziario è terminato, dopo numerosi appelli e due nuovi processi, solo nel 2012. I giudici hanno riconosciuto che le prove e le testimonianze contro di lui erano state falsificate. "Al di là della crudeltà e ingiustizia, la sola attesa del patibolo nel braccio della morte è già di per sé una pena terribile. E in attesa si può rimanere per tempi lunghissimi", osserva Eleonora Mongelli, che prima di entrare della Lega italiana dei Diritti dell’Uomo (Lidu), ha lavorato per Ensemble contre la Peine de Morte (Ecpm). Con Nessuno Tocchi Caino e altre ong, tra cui Sant’Egidio e Amnesty. Ecpm fa parte della World Coalition against the Death Penalty, rete di associazioni che si battono per contrastare l’applicazione delle pena capitale o tenta di prevenirla. Anche grazie agli sforzi di queste Ong l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato alla vigilia di Natale una risoluzione che chiede la moratoria del patibolo in tutto il mondo. E che è stata approvata a grande maggioranza: 117 in favore, 40 contrari e 31 astenuti. Un voto non vincolante, purtroppo, che si scontra con la triste realtà. Secondo dati di Ecpm, nel solo 2015 ci sono state 1634 esecuzioni e quasi 2.000 condanne a morte in 61 Paesi: record rispetto agli ultimi 25 anni, spesso giustificato da governi autoritari con motivazioni antiterroristiche. L’ultimo rapporto di Nessuno tocchi Caino - storica - mente legato al Partito Radicale Transnazionale - stima come in Cina sono state eseguite almeno 1200 condanne, 657 in Iran, 174 in Pakistan e 102 in Arabia Saudita. Eppure, la tendenza generale è quella verso l’abolizione della pena di morte: sono oltre 100 Paesi che hanno deciso di eliminare, di diritto o di fatto, il patibolo. Poche settimane fa Antonio Stango, del direttivo di Nessuno tocchi Caino, ha guidato una delicata missione in Kenya Zambia Malawi e Swaziland. Tappe importanti per la battaglia abolizionista: da anni questi Paesi africani osservano una moratoria, anche se per ragioni di consenso nell’opinione pubblica si erano astenuti dal voto contro la pena di morte in sede Onu, mentre ora hanno votato a favore della moratoria. "Come ha insegnato Cesare Beccaria, la certezza del diritto e non la pena capitale è un efficace deterrente contro il crimine", osserva Stango. "Solo l’abolizione riduce il tasso complessivo di violenza e facilita il passaggio dalla vendetta alla giustizia. Un elemento fondamentale per definire una civiltà giuridica moderna". In calo i giornalisti uccisi nel 2016, ma in tanti costretti all’esilio di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 dicembre 2016 Nel 2016, secondo il consueto rapporto di fine anno di Reporters sans frontières, il numero dei giornalisti uccisi a causa del loro lavoro, è sensibilmente calato rispetto al dato del 2015: 74 quest’anno, rispetto ai 101 dell’anno scorso. Non è, in assoluto, una buona notizia. Intanto perché quel numero di uomini e donne assassinati per raccontare a noi cosa accade nei loro paesi, è doloroso e inaccettabile. E poi, quel numero è inferiore rispetto al passato perché sono sempre meno i giornalisti che accettano di rimanere nei loro paesi: paesi come Afghanistan, Burundi, Iraq, Libia, Yemen e Siria, dove la libertà di stampa è negata dalle leggi o dalla guerra ed è impossibile lavorare senza timore di ripercussioni, anche mortali. Le 74 vittime erano nel 95 per cento dei casi, giornalisti, free-lance o blogger locali: 19 sono stati uccisi in Siria, 10 in Afghanistan (tra cui tre donne), nove in Messico, i tre paesi più pericolosi per i giornalisti, seguiti da Iraq e Yemen, rispettivamente con sette e cinque giornalisti assassinati. Con i 74 del 2016, il numero dei giornalisti uccisi nell’ultimo decennio è arrivato a 780. Ue: illegale la conservazione indiscriminata dei dati telefonici e internet dei cittadini di Alessandro Longo La Repubblica, 27 dicembre 2016 Corte di Giustizia, sentenza contro la "data retention" imposta dagli Stati agli operatori telefonici. È illegale e contro i principi della democrazia la "data retention" indiscriminata, applicata da alcuni Stati europei contro il terrorismo. L’ha stabilito una sentenza della Corte di Giustizia europea, sull’obbligo imposto agli operatori telefonici di conservare - in vista di future eventuali indagini - i dati dei propri utenti (è proprio questa la "data retention") per dodici mesi. Ossia chi abbiamo chiamato e quando; quali siti abbiamo visitato eccetera. La sentenza della Corte colpisce in particolare la nuova legge britannica sulla misure anti-terrorismo, la Investigatory Powers Act 2016, appena approvata, che amplia molto la portata della data retention. Ma può incidere anche su normative allo studio in altri Paesi alla luce dei recenti eventi terroristici. E, secondo alcuni esperti, anche l’attuale normativa italiana è a rischio. Già nel 2014 la Corte si era pronunciata contro la data retention ma stavolta indica paletti più forti per limitarne l'utilizzo e alza i toni, parlando di rischi per la nostra democrazia. In particolare, la Corte introduce un concetto nuovo: il rispetto della privacy dei cittadini, in merito alla data retention, è posto a livello comunitario sovranazionale. Ossia i principi sulla data retention stabiliti dall’UE vanno rispettati anche dalle norme nazionali, che non possono prevedere misure più draconiane. "Legislazioni che prevedano una conservazione generale e indiscriminata dei dati (...) eccedono i limiti di quanto sia strettamente necessario e non possono essere tollerati in una società democratica", dice la Corte. La data retention indiscriminata infatti applica il classico principio del Grande Fratello: tutti i cittadini sono trattati come se fossero sospettati a priori. Secondo la Corte gli Stati possono prevedere, "a titolo preventivo", la conservazione dei dati solo "contro gravi fenomeni di criminalità". Anche in questo caso però la conservazione deve essere "limitata allo stretto necessario per quanto riguarda le categorie di dati da conservare, i mezzi di comunicazione interessati, le persone implicate, nonché la durata di conservazione prevista". Adesso invece la data retention, anche in Italia, avviene in modo indiscriminato, anche per combattere reati comuni. Ossia, il Pm può chiedere, anche per reati non legati al terrorismo, di accedere ai dati del nostro traffico telefonico e internet. Gli operatori conservano in modo preventivo quello di tutti gli utenti in vista appunto di richieste come questa. Non si tratta dei contenuti delle telefonate, ovviamente, per i quali c’è bisogno di una intercettazione decisa a posteriori; ma già le informazioni sul traffico forniscano elementi sufficienti e potenzialmente lesivi della privacy (come già stabilito nella sentenza del 2014 della Corte; del resto sono gli stessi dati che l’americana National Security Agency ha raccolto illegalmente per anni). Inoltre, secondo la nuova sentenza della Corte, l’accesso delle autorità nazionali ai dati conservati "deve essere assoggettato a condizioni, tra cui in particolare un controllo preventivo da parte di un’autorità indipendente e la conservazione dei dati nel territorio dell’Unione". Cosa che adesso non avviene. "L’Italia ha una legislazione sulla data retention considerata molto a rischio di violazione dei diritti civili", commenta Fulvio Sarzana, avvocato esperto di questi temi. "Ciò per una pluralità di motivi: l’Italia ha prorogato fino al 2017 la conservazione dei dati attraverso una norma transitoria denominata mille proroghe; i motivi della raccolta sono connessi a reati in senso generale e ciò rende la previsione troppo generica, nelle norme europee e nei provvedimenti della Corte di giustizia si richiamano gli Stati a prevedere la data retention in caso di reati gravi". "Tuttavia - continua Sarzana - rispetto alla legislazione britannica la conservazione dei nostri dati non consente una vera e propria profilazione e conservazione dei dati di tutti gli utenti, che è stata di fatto abrogata con le modifiche della legge Pisanu". Sarzana aggiunge però che la nostra normativa permette agli inquirenti di installare, nei dispositivi degli indagati per reati di mafia, software di tracciamento e intercettazione, "che determinano una possibile lesione dei diritti fondamentali dei cittadini molto più ampia della conservazione indiscriminata dei dati di traffico e di navigazione". Un’altra questione è che non sappiamo niente di come e quando lo Stato ha fatto accesso ai nostri dati; e non ci sono rapporti o statistiche che dicano quanto la data retention si sia rivelata efficace contro i reati. "Il vero problema non è la data retention ma il vecchissimo "chi controlla i controllori", aggiunge Andrea Monti, avvocato fondatore della storica associazione per i diritti internet Alcei. "Esigo il diritto (concretamente azionabile) di sapere in tempo reale (o, in caso di attività coperte da segrete, appena ragionevolmente possibile) quando qualcuno vi accede e perché. Curiosamente, però, nessun legislatore, non quello italiano e nemmeno quello europeo, ha mai veramente garantito questo diritto di accesso". "Il Ministero di giustizia e il Garante per i dati personali possono facilmente produrre un rapporto, analizzando i risultati di indagini e processi, che dimostri l’effettiva utilità della data-retention", aggiunge "C’è da chiedersi perché questo studio non sia mai stato ancora fatto". Migranti. Il Viminale riapre i Cie: in arrivo i primi 1.200 posti di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2016 L’obiettivo del neoministro Minniti: stretta contro i clandestini. Tornano i Cie, i centri di identificazione ed espulsione. Mai abrogati, in realtà, ma di fatto diventati strutture in via di abbandono. Tanto che oggi in tutta Italia ci sono poco più di 300 posti occupati da immigrati clandestini. La procedura prevede entro 90 giorni dall’arrivo l’identificazione, da parte del consolato, della nazionalità presunta dello straniero, e poi il rimpatrio. I Cie furono istituiti nel 1998 dalla legge Turco Napolitano. Ma sono finiti presto nella bufera politica. In questi giorni, con l’approdo di Marco Minniti al timone del dicastero dell’Interno, gli uffici ministeriali stanno studiando come ripristinare al più presto una serie di questi centri. Sul sito istituzionale (www.interno.it) l’elenco ufficiale dei Cie comprende Torino, Roma, Bari, Trapani e Caltanissetta. Altre strutture, come Gradisca d’Isonzo vicino Gorizia, erano Cie ma poi sono diventati centri di accoglienza. Ora sono in corso le verifiche e le valutazioni per far ripartire centri per l’identificazione e l’espulsione a Milano, Bologna, Potenza. In alcuni casi - come quello di Gradisca - tornando alla destinazione originaria. Al lavoro sono i due dipartimenti interessati del Viminale: Pubblica sicurezza, guidato da Franco Gabrielli, e Libertà civili e immigrazione, diretto da Mario Morcone. L’obiettivo è arrivare a una capienza di mille duecento posti. Saranno necessari alcuni mesi. In diversi casi occorre fare lavori complessi di ristrutturazione. Anche per riparare le distruzioni fatte durante una serie di proteste. Il ritorno dei Cie, certo, non è risolutivo sull’intensità dei flussi migratori, giunti quest’anno a 180mila sbarchi, record assoluto. Ma non è neanche privo di conseguenze. In assenza di posti in questi centri, come accade quasi sempre ora, lo straniero privo del diritto di chiedere asilo, sbarcato e passato ai controlli di un hot spot, riceve un decreto di espulsione ma poi si rende irrintracciabile. Il trasferimento in un Cie consente invece alla Polizia di Stato di organizzare, se ci sono le condizioni, i voli di rimpatrio. Operazioni peraltro molto costose: solo di biglietto aereo, considerato che ogni immigrato deve essere accompagnato da due agenti, si spendono circa 7mila euro a straniero. I voli charter per mettere insieme un gruppo consistente di stranieri della stessa nazionalità di solito sono rifiutati dalle nazioni d’origine: danno troppo nell’occhio. Si va avanti, dunque, con voli di linea, ma per motivi di sicurezza i gruppi sono molto ristretti. I rimpatri, peraltro, sono ipotizzabili se collaborano gli stati di origine. Oggi accade con la Tunisia, l’Egitto, il Marocco e la Nigeria; non accade o quasi con Ghana, Senegal, Costa d’Avorio e Nuova Guinea. La materia è sul tavolo del ministro Minniti: la verifica e il rilancio delle intese - o la stipula, dove non ci sono - con gli stati d’origine dei migranti è una priorità dichiarata dal responsabile del Viminale fin dal suo insediamento. Del resto non manca qualche punto di contatto tra la questione immigrazione e quella del terrorismo. Basta pensare che Anis Amri, l’autore della strage di 12 morti con un camion al mercatino di Natale a Berlino poi ucciso durate un controllo di due poliziotti a Sesto San Giovanni (Milano), era arrivato da clandestino in Italia, poi rinchiuso quattro anni nel carcere dell’Ucciardone di Palermo per una serie di delitti e infine assegnato al Cie di Caltanissetta. Non lo si è potuto rimpatriare in Tunisia, tra l’altro, perché il lasciapassare necessario è arrivato in ritardo da Tunisi. Le relazioni con Marocco, Tunisia, Algeria e - per quanto possibile - Egitto sono dunque uno snodo fondamentale non solo per i flussi migratori ma anche per l’antiterrorismo; con motivazioni analoghe un capitolo a parte è quello della Libia. Di certo, il nuovo ministro dell’Interno intende dare segnali: va affrontato "il tema del contrasto all’immigrazione clandestina" tenuto conto, sottolinea Minniti nel video di auguri natalizi all’amministrazione dell’Interno, "di due punti di riferimento da avere sempre: solidarietà e sicurezza. Non ci può essere vera solidarietà - sottolinea - se non c’è sicurezza, né c’è sicurezza del tutto sganciata dal principio di solidarietà". Il capitolo Cie non potrà essere esente da una verifica di natura politica. I centri di identificazione ed espulsione furono un cavallo di battaglia dei leghisti e Roberto Maroni quando era al Viminale, ne voleva istituire uno in ogni regione. Le polemiche furono interminabili, tuttora la sinistra è contraria e anzi i Cie sono, per esempio, obiettivo di lotta degli anarco-insurrezionalisti: un centinaio di loro il 6 dicembre si sono radunati per protesta a Torino. Oggi tuttavia il cosiddetto approccio "securitario" all’immigrazione fa parte anche delle valutazioni Pd. E la visione di Minniti, proveniente dall’esperienza di autorità delegata all’intelligence con i governi di Enrico Letta e Matteo Renzi, non può non tener conto della necessità di dare segnali per scoraggiare i flussi di clandestini. Migranti. Schengen in crisi, Merkel si fa dura e chiude la frontiera con l’Austria di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 27 dicembre 2016 In attesa delle "zone di transito" chieste dalla Cdu, dove selezionare i migranti. Sepolto il maledetto natale, Angela Merkel sotterra la sua "politica di benvenuto" disintegrata dalla strage di Charlottenburg. E mostra il torchio con cui si apre l’anno nuovo: quello della sua quarta corsa alla cancelleria federale. Frontiera con l’Austria sigillata ben oltre febbraio 2017, con buona pace degli accordi stipulati con Bruxelles. Profughi senza carte in regola respinti nei Paesi-sicuri, destinati ad ampliarsi a dismisura. In attesa delle "zone di transito", chieste dalla Cdu, dove selezionare i migranti, del tetto di 200 mila richiedenti-asilo l’anno preteso dalla Csu, dell’esercito a fianco della polizia nella lotta anti-terrorismo "come ai tempi della Raf" denunciato dall’Spd. A Berlino le indagini su Anis Amri, sospetto autore del massacro al mercatino di Breitscheidplatz, non fanno significativi passi in avanti. I detective tedeschi di ritorno dall’Italia procedono al raffronto del revolver utilizzato a Sesto San Giovanni (arma del delitto del camionista polacco alla guida del tir) mentre gli analisti dell’Ufficio criminale federale aggiornano i link di Amri con la galassia Isis, alla luce dei tre arresti (tra cui il cugino) effettuati a Tunisi. Ci sono già le copie dei filmati inviate dalla polizia di Lione. Ma agli atti della sicurezza tedesca, per adesso, spicca la certificazione del clamoroso fallimento del sistema di protezione (federale e locale) incapace di dare seguito alle segnalazioni di polizia criminale, Interpol, servizi interni e esteri sul progetto terroristico del tunisino. Al Bundestag intanto si profila l’ombra delle leggi eccezionali della politica moderata, cristiana e democratica. "Dopo l’attentato Cdu e Csu invocano norme più severe. Ma la soluzione non è la legge marziale" precisa il vicepresidente Spd Ralf Stegner che chiede agli alleati di "separare" la questione dei migranti dalla lotta al terrorismo. "In Germania abbiamo avuto la Raf e la Nsu (cellula di terroristi nazisti attiva dal 1996 al 2011, 9 immigrati e un poliziotta uccisi): erano tedeschi. Il 99,9% dei profughi non ha nulla a che fare con l’attentato. L’Union chiede leggi più severe, l’utilizzo delle forze armate per compiti interni e tutte queste sciocchezze". Eppure non sono stupidaggini le minacce del leader Csu Horst Seehofer nel caso in cui Merkel, da qui alle elezioni federali a settembre 2017, non avesse intenzione di fissare alcun limite all’ingresso di migranti. "La quota massima ai profughi da accogliere è nel protocollo" ha ricordato ieri il governatore della Baviera alla cancelliera. Incassa la blindatura del confine con l’Austria, che costa a Berlino la rottura dell’accordo Ue sulla sospensione di Schengen (limitata a metà febbraio) e la protesta del governo di Vienna. "I controlli alla frontiera meridionale continueranno ancora per molti mesi" conferma ufficialmente Thomas de Maizière (Cdu), ministro dell’interno. Dopo il vertice telefonico di Merkel con il presidente tunisino l’espulsione dei magrebini irregolari è più snella; quasi a punto anche il piano di ritorno di tutti i profughi "rimpatriabili" nello Stato della prima accoglienza. Ma ancora non basta. La Cdu accusa l’Spd di opporsi alle "zone di transito", limbo (anche giuridico) dove trattenere i profughi in attesa dell’identificazione definitiva. Misura incostituzionale, al contrario dell’incasso pienamente legale delle requisizioni dei beni dei migranti che beneficiano del programma di asilo nei 16 Land della Repubblica. Sono 863 mila euro che ripagano gli Stati di parte delle spese per pasti e letti; la somma dei valori dichiarati al momento della registrazione lasciati in deposito in attesa dell’accoglimento della domanda. Dal 2015 al 2016 hanno incamerato beni o denaro contante dai profughi ben 12 Land. In almeno 1.489 casi hanno compensato il costo dell’assistenza umanitaria dispensata, calcola Der Spiegel. Sulla stampa rimbalza anche il boom di richiedenti asilo dalla Turchia: 5.166 in fuga dalle purghe di Erdogan, oltre 700 solo a novembre, l’80% sono curdi. E la Croce al merito tedesca da assegnare ai due agenti italiani che hanno ucciso Amri a Milano proposta dai bavaresi. Quei migranti intrappolati tra Como e Ventimiglia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 dicembre 2016 I dati del brief report di weworld dopo la chiusura delle frontiere francesi e austriache. Città lasciate sole e senza sostegno del governo, violazione dei diritti, violenze e abusi dopo la chiusura delle frontiere. Lo denuncia il nuovo Brief Report dell’organizzazione umanitaria WeWorld redatto per la giornata internazionale dei migranti del 18 dicembre scorso. Con la chiusura delle frontiere da parte di Francia e Austria - si legge nel report - i migranti approdati sulle coste italiane si trovano intrappolati nel nostro territorio, senza possibilità di proseguire il viaggio verso altri paesi europei come invece avveniva prima di queste misure di irrigidimento. A farne le spese sono soprattutto le città di frontiera, come Ventimiglia e Como, che si trovano a dover gestire i continui flussi di migranti che transitano da quei territori e vi si fermano temporaneamente, aspettando di varcare i confini. "Molto spesso sentiamo ripete la frase "emergenza migranti" ma ci teniamo a sottolineare che la chiusura parziale della rotta balcanica, non ha avuto influenze di rilievo sui flussi diretti verso l’Italia: i migranti arrivati sulle nostre coste nel 2016 sono 159.410, a fronte dei 153.842 arrivati nel 2015. Semmai è la chiusura delle frontiere che ha avuto forti ripercussioni sul contesto italiano: i migranti che sbarcano in Italia vi rimangono intrappolati", commenta Stefano Piziali, responsabile Advocacy e programma italia di We-World. Il nuovo Brief Report di WeWorld evidenza come le iniziative restrittive da parte degli stati europei stanno avendo forti ripercussioni sui migranti stessi e i loro progetti migratori, sui paesi d’approdo come Italia e Grecia, e sulle città di frontiera, in particolare, come Ventimiglia e Como. Queste due città - sempre secondo l’organizzazione umanitaria - sono lasciate a sé stesse, senza un sostegno concreto da parte del governo centrale. L’istituzione dei campi di accoglienza della Croce Rossa, uno per città, risultano insufficienti e inadeguate, dettate più dall’emergenza del momento. Queste strutture, in pratica, non sono servite a risolvere la questione. Molti migranti, di cui la metà sono donne, bambini, bambine e adolescenti - nella maggior parte dei casi minori non accompagnati - continuano a stazionare in altri luoghi delle due città, più o meno informali, più o meno pubblici. I centri di prima accoglienza sono poco accoglienti, sovraffollati, con scarsità di servizi igienici. Inadeguati per accogliere, a maggior ragione se si tratta di persone vulnerabili e a rischio, come donne e popolazione under 18. Le criticità principali che si riscontrano sono legate sia ai bisogni primari sia alla burocrazia perché - scrive l’organizzazione - anche quando i migranti sono a conoscenza delle procedure di regolarizzazione e avrebbero diritto alla relocation, spesso preferiscono rimanere irregolari a causa della lentezza delle procedure burocratiche per ottenere uno status regolare, sia in Italia sia all’estero (tramite relocation). Come racconta Rashid: "Sono arrivato un mese fa, e solo qui a Ventimiglia ho sentito parlare del programma di relocation. Ho deciso di fare domanda ma sono sconfortato dai lunghi tempi di attesa". Finora, infatti, c’è stata la ricollocazione di soli 1.549 migranti dall’Italia (sui 39.600 previsti) e di 5.437 dalla Grecia ( su 66.400 previsti). Dal report di WeWorld si evince che sul totale dei migranti a Ventimiglia, quasi la metà sono donne ( 32,7%) e adolescenti (15,9%). E gli/le adolescenti sono quasi tutti minori non accompagnati. Questi giovanissimi, al pari degli adulti, non hanno intenzione di rimanere in Italia, ma andare in altri paesi europei dove inoltrare domanda di protezione internazionale. Piuttosto che attendere un destino incerto, i migranti preferiscono allora rimanere irregolari e tentare di varcare i confini alla volta di altri paesi europei: a Ventimiglia solo il 7,5% dei migranti ha espresso il desiderio di fare richiesta di protezione internazionale in Italia. Poi c’è il problema delle violenze e abusi. L’organizzazione del We-World evidenzia sempre tramite il report che gran parte dei migranti intrappolati in Italia hanno subito conseguenze devastanti di guerre, conflitti, assenza di democrazia e diritti umani nei paesi d’origine. Rischiano violenze e soprusi durante il lungo viaggio per l’Europa, ma anche in Italia. Il 24,30% dei migranti in transito a Ventimiglia ha apertamente dichiarato di aver subito violenza: in Libia, durante il viaggio sul barcone o in Italia, Grecia e Ungheria. Tra questi le donne sono il 27% e più della metà ( 67%) ha subito violenza sessuale in Libia. Le situazioni di Ventimiglia e Como non sono paragonabili a quella di Calais in Francia, ma rischiano di trasformarsi in qualcosa di simile se non si affronterà la questione a livello europeo. "Chiudere le frontiere non è una soluzione, e non fa altro che contribuire a peggiorare le condizioni di vita dei migranti, già segnate da lunghi viaggi ed esperienze traumatiche", denuncia sempre Piziali di WeWorld. Terrorismo e negazionismo tunisino di Francesco Battistini Corriere della Sera, 27 dicembre 2016 Il Paese dei Gelsomini, dieci milioni d’abitanti, detiene dal 2013 il record mondiale dei foreign fighter. Negare, non si può più. Minimizzare, nemmeno. L’ultimo selfie del tunisino Anis Amri, camionista assassino a Berlino, ricorda troppo quello del tunisino Mohamed Bouhlel, terrorista sul Tir di Nizza. E gli autoscatti bellicosi dei seimila (chi dice diecimila) jihadisti esportati in Libia, in Siria e in Iraq. E le immagini dei turisti italiani uccisi al Bardo, degli inglesi ammazzati sulla spiaggia di Sousse, delle guardie presidenziali assalite a Tunisi, della battaglia di Ben Gardane. E le cellule terroristiche smantellate ogni settimana, un po’ ovunque. Il Paese dei Gelsomini, dieci milioni d’abitanti, detiene dal 2013 il record mondiale dei foreign fighter. Eppure è bastato che un editoriale da Parigi scrivesse di "vivaio del terrorismo mondiale", un’ovvietà, perché politici e commentatori tunisini insorgessero indignati contro la stampa europea: parlate proprio voi che non avete visto le banlieue infestarsi di fanatici… E non potete considerarci tutti terroristi, ha risposto un editoriale, altrimenti sembrate quel personaggio di Voltaire che sbarcava in Inghilterra, vedeva una donna bionda e pensava che tutte le inglesi fossero bionde… Parlarne si deve, invece. C’è almeno un migliaio di reduci dello Stato islamico che ciondola ai confini della Tunisia, aspettando di rientrare in patria. Centinaia d’altri fanatici, come Amri, che sulla carta sono stati espulsi dall’Europa ma non tornano a casa: il governo tunisino non vuole riprenderseli e il presidente Essebsi, che nei giorni scorsi ha ricevuto la telefonata d’una furibonda Merkel, ha già detto più volte che è meglio stiano dove sono. I servizi temono che un rientro degl’islamici radicalizzati comporti una somalizzazione del Paese. Sabato, appena s’è saputo del rimpatrio d’un pericoloso tunisino dall’Italia e d’un terrorista del Bardo dal Sudan, davanti al Parlamento s’è organizzata una manifestazione contro les revenants, al motto "chiudiamo la porta in faccia al terrorismo". Tante resistenze e paure della società tunisina, che sta facendo sforzi enormi per non precipitare nella guerra civile e non finire in pasto ai fanatici, sono comprensibili. Il terrorismo non è un fenomeno di massa. E comunque insospettisce molti che sia la Fratellanza musulmana di Ennahda, nelle sue dichiarazioni moderata e governativa, a spingere per un grande perdono collettivo dei jihadisti pentiti. Dietro le nobili ragioni di sicurezza, però, ci sono quelle più oscure della rimozione. E alla zona grigia di chi giustifica il terrorismo, se proprio non l’appoggia, s’affianca un’area ancora più larga di chi ne sottovaluta la potenziale pericolosità. "Negazionismo tunisino", lo definisce un libro-inchiesta appena pubblicato da un giornalista e storico francese, David Thomson: nella paura di perdere il sostegno economico occidentale, per la preoccupazione di mantenere un ruolo d’interlocutori dell’Europa, c’è una certa retorica nazionale sulla primavera araba, sulla laicità ereditata da Bourghiba, sulle conquiste femminili e sui diritti civili rispettati - tutte cose vere - che finisce per coprire ogni dibattito sulla minaccia fondamentalista. Ancora l’anno scorso, dimostra il libro, una certa narrativa chiamava "barbe finte" quelle dei salafiti, considerati poco più che depistatori pagati da qualche servizio segreto. In questi giorni, un deputato sostiene come non è detto neppure che Amri sia il vero colpevole della strage di Berlino. Sui social s’insinua che lo pagasse qualcuno. Capire chi siano gli Amri, è giusto lo facciano le polizie europee. Chiedersi quanti ce ne siano in giro, e come maneggiarli, tocca soprattutto ai tunisini. Israele. Netanyahu sfida l’Onu: "Avanti con le colonie" di Andrea Milluzzi Il Dubbio, 27 dicembre 2016 Questione palestinese, lo strappo del premier israeliano. "Pur confermando la stretta amicizia con Israele, non possiamo da una parte sostenere la soluzione due popoli per due Stati e accettare gli insediamenti coloniali. Per questo non porrò il veto e mi asterrò dal voto" sono queste parole dell’ambasciatrice Usa all’Onu Samantha Power, salutate da un applauso dell’assemblea, ad aver permesso la storica approvazione della risoluzione Onu contro le colonie israeliane in Cisgiordania. Il voto, finito 14 a 0, c’è stato venerdì sera e da allora il premier israeliano Bibi Netanyahu è sul piede di guerra. Nemico numero uno, il presidente uscente Barack Obama: "Non ci sono dubbi che è stata un’iniziativa voluta e portata a termine da lui" ha detto Netanyau ai suoi ministri riuniti domenica. Il mancato veto degli Stati Uniti ha permesso l’approvazione della risoluzione, ma tutti gli altri 14 membri, fra cui spiccano Cina, Russia ed Egitto, Paesi di cui Netanyahu sta cercando i favori, l’hanno votata. E così a Gerusalemme sono stati convocati i rispettivi ambasciatori a cui è stato comunicato che "Israele non rispetterà il contenuto della risoluzione". Netanyahu ha inoltre cancellato gli incontri in programma con i diplomatici di Usa e Inghilterra e ha diffuso una serie di comunicati per rimarcare "l’enorme pericolo che questa risoluzione che rappresenta per la pace". Non è ancora chiaro cosa provocherà effettivamente questa risoluzione. Il testo presentato dall’Egitto si basa sulla convenzione di Ginevra, che vieta alla popolazione di uno Stato vincitore di andare a vivere sui territori conquistati in guerra. È esattamente quello che è successo dopo la guerra dei sei giorni del 1967, quando molti israeliani costruirono case e villaggi sui territori strappati ai palestinesi della Cisgiordania. Da allora la costruzione di nuove colonie non si è mai interrotta e ad oggi i coloni sono circa 600mila. Da venerdì le loro case sono illegali e questo significa che i legittimi proprietari di quelle terre potrebbero denunciarli alla Corte Penale Internazionale. Anche le aziende e le multinazionali che fanno affari nelle colonie potrebbero incappare in guai legali. Questo non spaventa il governo di Netanyahu che sta cercando di far passare una legge, retroattiva, che renderebbe legali le colonie in cambio di soldi ai vecchi proprietari. Le provocazioni sono continuate anche ieri, con l’annuncio da parte del comune di Gerusalemme dell’avvio di un piano (studiato da tempo) per altre 618 case nella parte orientale della città, abitata dagli arabi. Anche per questo i leader palestinesi mettono in guardia sulla strada da fare: "Questa risoluzione indica al mondo la nocività degli insediamenti ed è una parziale correzione degli sbagli fatti dagli americani, ma non è affatto sufficiente" ha detto il leader di Hamas Khaled Meshaal; "È una tempesta contro la politica israeliana e una forte spinta per la soluzione dei due Stati" è il commento del portavoce di Abu Mazen. Quello che succederà concretamente è ancora da vedere, ma di sicuro il voto di venerdì è la pietra tombale dei rapporti fra l’amministrazione Obama e Bibi Netanyahu. Non sarà esattamente una "vendetta personale" come l’ha definita il premier israeliano, ma la volontà del presidente uscente non ha precedenti nella storia. C’è da dire che qualche mese i segnali giunti da Washington non erano dei migliori per il governo israeliano. Intervenendo al Saban Forum del 2 dicembre scorso, il Segretario di Stato John Kerry aveva chiaramente incolpato Netanyahu e i suoi per il mancato successo del percorso di pace in Medio Oriente. L’amministrazione Usa, ha detto Kerry, era riuscita a trovare una quadra su una soluzione che prevedeva uno Stato palestinese demilitarizzato, con i confini definiti e controllati da egiziani, giordani, palestinesi, americani e israeliani; con il beneplacito della Giordania si sarebbe costruito un muro di divisione e le truppe israeliane avrebbero avuto la possibilità di raggiungere qualsiasi centro palestinese in caso di pericolo. Il piano, ha concluso Kerry, aveva trovato il favore di Ramallah, dei Paesi arabi e anche di molti ministri israeliani, ma non sarebbe stato messo in pratica per la contrarietà di Netanyahu e del ministro della Difesa. Una rigidità che, sommata all’endorsement per Mitt Romney, sfidante di Obama nel 2012, e alla politica espansionista sui Territori, ha logorato l’alleanza fra Washington e Gerusalemme. Tale situazione è destinata a durare poco: "Questa risoluzione è una minaccia al percorso di pace. - ha scritto su Twitter il presidente eletto Trump - Dal 20 gennaio (giorno del suo insediamento, Ndr) cambierà tutto". Già prima di venerdì lo staff di Trump aveva tentato di fermare il voto con pressioni sul presidente egiziano al Sisi, intervenendo sugli affari correnti della Casa Bianca come nessun presidente eletto aveva mai fatto in passato. Non ci è riuscito, ma avrà tempo per rimediare e far contento Netanyahu, che non ha mancato di far sapere di "essere impaziente di lavorare con la nuova amministrazione Usa". La lezione tragica di Aleppo di Paolo Mieli Corriere della Sera, 27 dicembre 2016 Il 2016 resterà nella storia come l’anno della mattanza della città siriana: 53 mesi di combattimenti con decine di migliaia di morti. Uno dei punti centrali della crisi è la presenza di gruppi armati islamisti persino più feroci di quelli di Daesh. Il 2016 resterà nella storia (almeno quella della crisi mediorientale) come l’anno della mattanza di Aleppo. La battaglia è andata avanti per cinquantatré mesi, dal 19 luglio 2012 al 22 dicembre scorso; ha prodotto una carneficina con decine di migliaia di morti che è stata, un po’ impropriamente, assimilata a quelle di Srebrenica in Bosnia (1995) e di Grozny in Cecenia (1999-2000). Rimarranno a certificazione di quella e altre stragi perpetrate in Siria dal 2011 ad oggi, le foto della cosiddetta Esposizione Caesar (53.000 immagini che documentano le sofferenze inflitte da Assad ai suoi oppositori) già presentate al Museo dell’Olocausto di Washington e nel Palazzo dell’Onu di New York: la presidenza della nostra Camera dei deputati, interpellata dagli organizzatori, ne ha sì riconosciuto l’"altissimo valore civile di testimonianza" ma si è poi dichiarata "sede inopportuna" ad ospitare la mostra perché le scolaresche quotidianamente in visita avrebbero potuto rimanerne turbate. E in febbraio, Emma Bonino si è recata nel villaggio turco di Gaziantep per criticare la decisione di Laura Boldrini. Gli Alti rappresentanti di Russia, Iran e Turchia si incontrano in questi giorni per festeggiare solennemente la vittoria di Aleppo e definire i termini di una "conferenza di pace" sulla regione che dovrebbe tenersi ad Astana, capitale del Kazakhstan, subito dopo l’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca. Tutto questo in assenza, ovviamente, del grande sconfitto di questa partita, Barack Obama che, il 30 agosto del 2013 decise di non intervenire militarmente in Siria - nonostante fosse stato provato l’uso di armi chimiche (e fece bene, dal momento che era ugualmente dimostrato che a tali armi avevano fatto ricorso anche i rivoltosi) - e successivamente sdoganò il regime iraniano, aprendo nei fatti le porte alla strana alleanza che si autocelebrerà oggi nella capitale russa. La prossima città siriana che presumibilmente subirà il "trattamento russo" sarà Idlib dove hanno trovato rifugio gli jihadisti in fuga da Aleppo e che è considerata la capitale non già dell’Isis (quella, in territorio siriano, è Raqqa) bensì dei qaedisti presenti in forze nel conflitto da prima che, nel 2014, venissero allo scoperto i seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi. I sunniti armati di Idlib già mettono sotto assedio i villaggi sciiti di Fuaa e Kefraya cercando di impedirne l’evacuazione. E qui sta uno dei punti centrali di questa crisi: la presenza sul campo di battaglia di gruppi armati islamisti al momento persino più forti e feroci di quelli riconducibili a Daesh. Va a merito dell’inviato Onu in Siria, Staffan de Mistura (instancabile denunciatore degli orrori prodotti da Assad e da Putin), di aver, a differenza dei suoi predecessori - l’algerino Lakhdar Brahimi e prima ancora Kofi Annan -, individuato questo grave problema. Problema creato almeno in parte dagli Stati Uniti con la decisione di assistere la Free Syrian Army senza curarsi del fatto che le armi fornite venissero poi sequestrate dai qaedisti e che lo stesso esercito di liberazione siriano avesse perso nel tempo ogni precisa identità. Il colonnello Riad al-Asaad che nel luglio del 2011 tradì l’esercito di Assad per fondare il Free Syrian Army, nel 2013 dopo aver subito l’amputazione di una gamba, fu costretto a fuggire in Turchia dove ha trovato riparo nella regione di Hatay (anche se clandestinamente fa ancora la spola con la Siria). Al-Asaad è rimasto un nemico acerrimo del dittatore siriano ed è stato sostituito alla vertice della sua formazione con il generale Abdel al-Bachir: oggi è costretto però ad ammettere che nell’esercito da lui fondato "non si sa chi comandi", che ai suoi tempi l’Fsa era "a favore della gente", mentre "ora non è più così", che "la linea è cambiata" e "sta facendo male alla Siria". Michael Walzer tra i primi ha sostenuto che con il sostegno al "Free Syrian Army" per gli Stati Uniti c’era il "rischio di consegnare armi ai jihadisti che hanno dato ampia prova della loro capacità di disarmare i ribelli laici". Da tempo quel rischio è diventato una certezza. Di qui si giunge al secondo punto della questione. Le guerre andrebbero evitate ma se - per motivi legittimi, come in questo caso - si decide di farle, come ci si deve comportare nei momenti in cui si intravede una possibile vittoria? Cosa si dovrebbe fare quando i qaedisti, per di più con armi fornite sia pur involontariamente dai nostri alleati, resistono ad oltranza tenendo in ostaggio una popolazione? Tregue, certo. Trattative per giungere se non alla pace almeno a una duratura sospensione del conflitto. Corridoi umanitari per consentire ai feriti di fuggire dai quartieri più martoriati. Ma poi? Poi viene il momento in cui la guerra quasi sempre riprende. A questo punto è un bene che il conflitto sia "lento" come sta accadendo, a dispetto dei baldanzosi annunci della prima ora, per la liberazione di Mosul? O la lentezza non infligge agli innocenti ulteriori tribolazioni in attesa di quella conclusione che prima o poi dovrà esserci? E ci si può immaginare che questa conclusione sia incruenta? A questo va aggiunto che la guerra non può considerarsi conclusa neanche quando una città piccola o grande sia stata liberata. Può accadere, altrimenti, quello che è successo a Palmira i cui abitanti, in festa per la liberazione, ai primi di maggio potevano assistere nel teatro romano al concerto con musiche di Bach e Prokofiev dell’orchestra di san Pietroburgo di Valery Gergiev e oggi, sette mesi dopo, per una distrazione dei russi sono già tornati nelle grinfie degli jihadisti. La qual cosa comporta che - in vista dell’auspicata sconfitta dell’Isis - Palmira dovrà subire una ulteriore offensiva liberatrice. Altro sangue, altri morti. Quanto all’Onu, su di essa si può contare limitatamente. Dei meriti di de Mistura abbiamo detto. E andrebbero aggiunte parole analogamente benevole per la pur impotente struttura che si muove ai suoi ordini. Ma il resto delle Nazioni Unite è come sempre paralizzato oppure ha preso iniziative sorprendenti. In giugno, in occasione del World No Tobacco Day, l’Organizzazione mondiale della sanità, agenzia delle Nazioni Unite, si è sentita in dovere di mettere in guardia i siriani dai rischi del fumo."Senza dimenticare la crisi in corso nel Paese", affermava, bontà sua, la norvegese Elizabeth Hoff, rappresentante dell’Oms a Damasco, "in Siria è venuto il momento di controllare di più il fumo anche quello shisha (narghilè) … il fumo della shisha è più pericoloso di quello delle sigarette". E ha invitato il governo di Assad a mettere il tabacco per la shisha in pacchetti che spaventino i consumatori. Il viceministro siriano della Sanità, Ahmed Khlefawy, l’ha rassicurata ricordando che il suo Paese è in prima linea nella guerra al tabagismo e che nelle scuole gli studenti sono e saranno premiati per il miglior tema, poema o disegno sui pericoli del fumo. Almeno una guerra, grazie all’Onu e all’Oms, potremo vincerla in terra siriana: quella alla shisha. Forse. Siria. Aleppo, a est l’eredità dei "ribelli": fosse comuni e cadaveri torturati di Chiara Cruciati Il Manifesto, 27 dicembre 2016 La guerra si sposta a Idlib e al-Bab. Mosca bombarda i jihadisti ma la Turchia detta i tempi. Ankara ammassa truppe in chiave anti-kurda a nord. Il dolore di Aleppo non si attenua: le truppe russe entrate nella zona est, appena ripresa dopo l’evacuazione dei miliziani anti-Assad, hanno trovato fosse comuni e cadaveri con segni di torture e mutilazioni, fa sapere il Ministero della Difesa di Mosca. Sotto accusa le milizie armate che per mesi hanno assediato dall’interno i quartieri orientali, stretti da fuori dal governo. Ma con la battaglia alle spalle, i festeggiamenti nelle strade e i quartieri est svuotati, simbolo delle fratture interne che devastano la Siria, la guerra si sposta. O meglio si riaccende dove sopita non lo è stata mai. Due le comunità che rappresentano più di altre l’immediato futuro siriano (e il ruolo turco): al-Bab e Idlib. Nel nord del paese, al-Bab è occupata dallo Stato Islamico e target dell’operazione "Scudo dell’Eufrate" lanciata da Ankara a fine agosto insieme all’Esercito Libero Siriano. A 40 km da Aleppo, altrettanti dal confine turco, a metà strada tra il cantone kurdo di Afrin a ovest e la città liberata dalle Ypg di Manbij a est, è strategica. La Turchia vuole al-Bab perché con una sola comunità, dopo Jarabulus poco più a nord, spezza definitivamente l’unità della kurda Rojava. E la vuole perché crea de facto la zona cuscinetto che ha ossessivamente cercato di ottenere dall’Occidente, dove infilare rifugiati siriani - due milioni e mezzo quelli in territorio turco - e miliziani da usare in chiave anti-kurda. Per farlo va a caccia di sostegno internazionale: "Per la nostra operazione ad al-Bab - ha detto ieri il portavoce della presidenza Kalin - la coalizione internazionale dovrebbe assumersi le proprie responsabilità, in particolare per quanto riguarda il supporto aereo". Perché, ufficialmente, è stata lanciata per costringere l’Isis alla ritirata. Nei giorni scorsi Ankara ha dispiegato lungo la frontiera altre 500 truppe di unità d’élite e 10 unità di artiglieria pesante. Non cita, però, i massacri di civili: secondo fonti locali, tra il 22 e il 23 dicembre 93 persone (21 bambini) sono state uccise in raid turchi ad Al-Bab. Morti a cui si aggiungono quelle per mano dello Stato Islamico: l’agenzia di Stato turca Anadolu riportava ieri di 30 civili massacrati dagli islamisti mentre tentavano la fuga. Più o meno la stessa sorte toccata a tre uomini uccisi dai militari turchi il 25 dicembre mentre passavano la frontiera. Una strage dietro l’altra che riducono al lumicino le speranze di una soluzione politica: gli interessi esterni dettano le agende di chi combatte sul campo. Erdogan ha già spostato l’asticella: dando la battaglia per al-Bab agli sgoccioli, ha preannunciato la marcia su Manbij, sotto il controllo delle Forze Democratiche Siriane sostenute dagli Stati Uniti. Più a sud, a Idlib, si apre un nuovo fronte. I jet da guerra russi hanno colpito sabato comunità del governatorato nord-occidentale quasi del tutto in mano ai qaedisti dell’ex al-Nusra e destinazione delle migliaia di miliziani islamisti evacuati da Aleppo. Un bubbone jihadista pronto ad esplodere, in grado di ricompattare i gruppi anti-Assad e promuovere azioni sia nel distretto che fuori. Nei giorni della tregua di Aleppo, in molti si chiedevano cosa sarebbe accaduto dopo, se la Russia avrebbe lanciato immediatamente operazioni contro Idlib. I dubbi erano figli del ruolo - di nuovo - della Turchia, principale sponsor di numerose milizie trasferite con la forza nell’enclave qaedista: dopo il riavvicinamento ad Ankara e il ruolo di mediatore svolto dai turchi nell’evacuazione, si immaginava che Putin avrebbe aspettato prima di ordinare l’assalto finale. E forse aspetterà: gli otto raid di sabato contro Binish, Saraqeb e Jisr al-Shaqour potrebbero essere messaggi alle opposizioni ma non il lancio di un’operazione imminente, che richiederà forze ancora maggiori di quelle dispiegate ad Aleppo e un passo indietro della Turchia. La guerra non è terminata: tante restano le sacche di miliziani in tutto il paese, in particolare intorno a Damasco e a sud. Ieri l’agenzia siriana Enab riportava di un accordo tra governo e opposizioni a al-Sanamin nella provincia di Daraa: i miliziani si sono arresi, segno - dice l’agenzia - di una possibile evacuazione dall’intero distretto. Sud Sudan: il Consiglio di sicurezza non approva embargo sulle armi e sanzioni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 dicembre 2016 Nel giorno in cui, dopo 37 anni, veniva approvata una risoluzione contraria agli insediamenti israeliani nei Territori occupati palestinesi, il Consiglio di sicurezza non è riuscito a imporre l’embargo sulle armi al Sud Sudan e le sanzioni del divieto di viaggio e del congelamento dei patrimoni nei confronti di tre alti esponenti politici del paese, responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Servivano nove voti a favore e ne sono stati registrati solo sette, con otto astensioni. Amnesty International, Control Arms, Enough Project, Global Centre for the Responsibility to Protect, Humanity United, Human Rights Watch e PAX hanno espresso, in una nota congiunta, la loro profonda delusione. Dal 15 dicembre 2013, giorno dell’inizio di un conflitto ancora in corso nonostante l’accordo di pace dell’agosto 2015, le organizzazioni per i diritti umani, così come gli ispettori delle Nazioni Unite e dell’Unione africana, hanno documentato crimini di guerra, stupri e arruolamento forzato di bambini. Negli ultimi mesi, i civili sono stati presi di mira con rinnovata ferocia, spesso per motivi etnici, anche in zone che in precedenza erano risultate abbastanza tranquilla. Si è anche registrato un aumento delle dichiarazioni infiammatorie, dei discorsi di odio e dell’incitamento alla violenza da parte dei leader dei due schieramenti. La dichiarazione congiunta delle sette Ong ha notato con rammarico che alcuni stati membri del Consiglio di sicurezza si sono fidati dell’annuncio, persino citandolo nel corso del dibattito, fatto a inizio mese dal presidente sud-sudanese Salva Kiir a proposito dell’avvio di un dialogo nazionale "inclusivo". Ma in un paese nel quale la stampa non è libera e la libertà di riunione è severamente limitata e dal quale molti esponenti della società civile sono dovuti fuggire, che dialogo potrà mai esservi? Sudafrica: rivolta nelle carceri, 3 morti e 26 feriti Reuters, 27 dicembre 2016 Una rivolta carceraria è esplosa oggi in Sudafrica. I detenuti si sono scontrati con le guardie in una prigione fuori Port Elizabeth. Tre persone sono morte e altre 26 sono rimaste ferite. Lo riferiscono fonti ufficiali. A St. Albans, questo il nome della prigione, sono accorsi ambulanze e un elicottero, oltre ad altri veicoli di emergenza. Non è chiaro quanti detenuti e quante guardie siano tra i morti o tra i feriti. Libia: milizie Misurata attaccano brigata di Tripoli e liberato detenuti Nova, 27 dicembre 2016 Uomini armati di una milizia di Misurata hanno attaccato ieri mattina, 26 dicembre, la sede di una brigata di Tripoli parte della polizia giudiziaria di Ain Zara a Tripoli, in Libia. Secondo quanto riferisce il sito web informativo libico "al Wasat", i miliziani di Misurata sono entrati nella sede della brigata di Tripoli ed hanno liberato una serie di detenuti che erano rinchiusi al suo interno. I miliziani di Tripoli presenti nella sede hanno ingaggiato un conflitto a fuoco con gli aggressori, i quali hanno usato nell’incursione anche un carro armato e alcune auto con armi anti aereo. I detenuti liberati sono circa una decina. Gli uomini di Misurata (città-stato situata 200 chilometri a est di Tripoli, sede delle milizie che hanno sconfitto lo Stato islamico a Sirte) si sono ritirati al termine dell’operazione.