Allarme sovraffollamento, torna a crescere il numero dei detenuti di Gabriella Meroni Vita, 23 dicembre 2016 Cresce il numero di detenuti in cella, oltre la soglia di capienza. Al 31 dicembre 2015 i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 52.000; al 30 novembre 2016 sono risaliti a oltre 55.000 unità, ben oltre la soglia di 49mila, capienza massima stimata. In Lombardia, la regione con il più alto numero di persone ristrette in carcere, si è di nuovo sulla soglia di 8.000 detenuti (+10% in meno di un anno). Eppure negli anni scorsi il governo, a fronte di una possibile sanzione da 4 miliardi di euro da parte dell’Unione Europea per le condizioni disumane e degradanti dovute al sovraffollamento nelle carceri italiane, arrivate a rinchiudere oltre 67.000 persone nel 2013, aveva iniziato una politica deflazionista con leggi mirate a diminuire la presenza delle persone in carcere, estendendo la possibilità di accedere alle misure alternative, introducendo la messa alla prova anche per gli adulti per i reati con pene edittali fino a quattro anni, depenalizzando il reato di clandestinità. In realtà - spiega il Cnca Lombardia - "una parte significativa di persone che avrebbero potuto uscire sono rimaste in carcere. Da una parte i sepolti vivi del 41 bis per gli affiliati di peso, veri e presunti, alla criminalità organizzata; poi un gruppo consistente di detenuti sottoposto all’alta sorveglianza per reati come l’associazione a delinquere, l’associazione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti e il sequestro di persona. Al centro si trova un assembramento di poveri disgraziati, ammassati e sovraffollati in celle senza nulla, se non la disperazione. Sono perlopiù tossici che cercavano droga e stranieri che cercavano cibo o rifugio, ma che hanno trovato davanti a sé solo sbarre. La popolazione carceraria è raddoppiata e le carceri sono diventate il luogo, in senso letterale, dei miserabili: coloro che, costretti al di sotto del livello di povertà, non ce la fanno a sopravvivere. Le prigioni sono tornate a essere gli ospedali generali di un tempo: l’auberge des pauvres, il ricovero di ogni categoria di emarginati". Circa un detenuto su quattro, quando termina la pena, non sa dove andare: i cambiamenti veloci e traumatici della società lasciano sul terreno delle vittime incolpevoli, i poveri, e delle vittime colpevoli, i disperati che compiono reati per fame di cibo o di droga. La povertà continua a essere incarcerata. Il Cnca Lombardia opera sul territorio con 15 realtà, che seguono almeno 250 detenuti (anche minori e donne) in regime di misure alternative (come l’affidamento). "Alle situazioni di sofferenza sociale si aggiungono, in un numero consistente di casi, le persone in condizioni di sofferenza individuale, spesso, anche in questi casi, provenienti dal carcere trasformato in sostituto degli ospedali psichiatrici. Nei confronti di queste persone il prendersi cura si accompagna necessariamente all’avere cura. Il punto più delicato e che richiede oggi l’impegno del Cnca è quindi quello rivolto all’accoglienza dei detenuti poveri, quelli che non hanno casa, non hanno reddito, non hanno relazioni. Sono tanti e sono tra coloro che, nonostante abbiano la possibilità di uscire in misura alternativa, non hanno un luogo dove andare o, terminata la pena, tornano in una dimensione di pendolarità con il carcere per mancanza di alternative. La prospettiva non può essere solo l’accoglienza, ma anche l’accompagnamento a forme di reinserimento e, spesso, di inserimento sociale, attraverso attività lavorative anche di utilità sociale e la possibilità di accedere a un reddito". Il Natale dei Radicali in carcere, per la prima volta senza Pannella di Valentina Stella Il Dubbio, 23 dicembre 2016 I militanti e i dirigenti incontreranno i detenuti in quaranta istituti penitenziari italiani. Più di cento tra militanti e dirigenti del Partito radicale visiteranno, durante le festività, 40 istituti di pena in tutta Italia, da nord a sud, passando per la Sardegna e la Sicilia. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria da anni autorizza infatti gli esponenti radicali - a cui riconosce una profonda lealtà e serietà dei comportamenti - a visitare le carceri e quindi a incontrarsi sia con i detenuti che con i "detenenti", cioè con gli agenti della polizia penitenziaria secondo una definizione pannelliana. Proprio questo sarà il primo Natale in carcere senza il leader Pannella, a cui i reclusi, appena lo vedevano fare il suo ingresso nei corridoi tra le celle, dedicavano in coro il ritornello "Marco uno di noi, uno di noi" o gli gridavano "together forever". Nella conferenza stampa di ieri nella storica sede di Via di Torre Argentina, Rita Bernardini, organizzatrice e anima dell’iniziativa, e che tra le varie tappe sarà il 25 dicembre nel carcere di Regina Coeli e il 31 a mezzanotte in quello di Rebibbia, ha sottolinea- che "la nostra presenza radicale, ramificata e radicata laddove lo Stato è in una palese condizione di violazione della legge, rappresenta lo sforzo di non mollare nemmeno di un millimetro affinché il prossimo governo affronti perentoriamente il gravissimo problema dell’illegittimità dell’esecuzione penale quindi, non solo carcere - e dell’amministrazione della giustizia quando queste non corrispondono - come accade sovente oggi - al dettato costituzionale". All’iniziativa radicale prenderanno parte anche Ilaria Cucchi, l’onorevole Nicola Ciraci e Giuseppe Gulotta, vittima di uno dei più clamorosi errori giudiziari italiani. "È il proseguimento - ha detto Maurizio Turco, della presidenza del Partito - della marcia per l’Amnistia che si è svolta in concomitanza con il Giubileo dei carcerati di Papa Francesco. Quel 6 novembre vi è stata una partecipazione massiccia all’insegna della nonviolenza come ci ha insegnato Marco Pannella nelle lotte per i diritti umani fondamentali: ben 19.056 detenuti dalle carceri di tutta Italia. Abbiamo fotocopiato a colori tutte le lettere, tutte le buste e tutte le firme con i loro nomi e stiamo preparando tre grandi libri che consegneremo al Papa, al ministro della Giustizia Andrea Orlando e al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella". Presente all’incontro anche il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio: "In Italia il carcere è considerato una discarica della società, è un problema non gestito o gestito male. Purtroppo l’opinione pubblica ritiene inaccettabile e intollerabile il discorso sulle carceri; le notizie ansiogene rappresentano i due terzi di tutte le notizie che riempiono i giornali e le televisioni. Invece è proprio sul fronte delle carceri che si gioca la partita importante per vedere dove va la nostra umanità". Ha concluso Sergio D’Elia, Segretario dell’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino: "Il carcere non è solo un luogo emblematico dove, come diceva Voltaire, si misura la civiltà di un Paese, è anche un luogo politico, il luogo delle lotte di una vita di Marco Pannella, attraversato, vissuto, abitato da Marco (e Rita è stata la sua coinquilina) come fosse la sua casa, dove vivevano i suoi figli, i suoi fratelli, e quindi se ne è preso cura, come un padre di famiglia si prende cura della sua casa oltre che della sua famiglia di detenuti e detenenti. Anche in questo, continuando a visitarle, cerchiamo di mantenere vive le "fissazioni" di Marco Pannella, tra le quali quella delle carceri che era sempre in cima ai suoi pensieri, sentimenti e azioni". Rischio di radicalizzazione dei detenuti, è allarme sulle conversioni in carcere di Fabio Tonacci La Repubblica, 23 dicembre 2016 Sono salite a 369 le segnalazioni del Dap. Nell’ultimo anno venti cittadini italiani si sono convertiti all’Islam in carcere. Sette di questi sono stati subito messi sotto controllo dagli uomini del nucleo investigativo del Dap, perché a rischio radicalizzazione violenta. Un piccolo focolaio, certo. Ancora contenuto nei numeri, ma che racconta il grado di attenzione che c’è nei confronti di qualsiasi vagito potenzialmente pericoloso rilevato dentro le mura di un penitenziario. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha di recente aggiornato le statistiche: sono saliti a 369 (erano 345 ad agosto) i soggetti a rischio di estremismo religioso; sono quasi tutti stranieri, su un totale di 18mila detenuti non italiani, di cui 11.500 provenienti da aree di religione islamica. Ad oggi nelle nostre prigioni ci sono 8.000 musulmani praticanti, che pregano con imam "certificati". Imam, cioè, che non sono più scelti tra i detenuti come avveniva un tempo, ma provengono da una lista stilata dall’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche italiane, vagliata dal Viminale. E più di una volta è successo che gli imam non andassero bene, perché risultavano con precedenti penali oppure il ministero dell’Interno ne ha sconsigliato l’utilizzo perché con un passato poco chiaro. "Il fenomeno della radicalizzazione in carcere negli ultimi due anni è un po’ aumentato", dice Santi Consolo, il Capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria. "Ma non siamo a livelli allarmanti. Anche la conversione degli italiani è al momento contenuta. E ovviamente non bisogna criminalizzare chi professa la religione islamica. Come si fa la prevenzione? Abbiamo attivato programmi di deradicalizzazione. Ma quando notiamo manifestazioni che possono preludere a scelte di radicalismo confessionale, parte l’osservazione del soggetto". Al momento i 369 casi sono suddivisi così: 144 sono solo segnalati (il primo stadio, pericolo lieve), 73 sono attenzionati, ben 152 sono i monitorati. Quest’ultimi sono i "clienti" più difficili da trattare, perché sono stati convinti da qualcuno ad abbracciare posizioni fanatiche, hanno mutato i loro comportamenti quotidiani e il modo di vestire, si fanno crescere la barba, si mettono a pregare ovunque, cercano contatti con persone psicologicamente più deboli per fare proselitismo. I numeri crescono ulteriormente se si aggiungono agli attenzionati i 40 detenuti condannati per reati di associazione terroristica e reclutamento. Non esiste più una Guantánamo d’Italia, com’era fino a poco tempo fa il carcere di Rossano Calabro che da solo ospitava quasi la metà dei terroristi. Adesso sono spalmati su dodici istituti, non sono in regime di isolamento perché la norma non lo prevede ma sono comunque i più vigilati. Secondo i primi report dopo l’attentato di Berlino, nessuno tra i 55mila detenuti nel sistema italiano ha esultato alla notizia della strage del mercatino di Natale, diversamente da ciò che era successo dopo Charlie Hebdo e gli attentati di Parigi del novembre 2015. Non è necessariamente un buon segno: significa solo che i più radicali hanno capito che gli agenti del Dap li controllano e li ascoltano, si sono fatti meno ingenui. A volte riescono a coprire per mesi la propria reale identità, nascondendola dietro decine di "alias". "Solo nell’ultimo anno ne abbiamo identificati oltre 1300", rivela Santi Consolo. La vita da detenuto arabo in Sicilia "a rischio di contagio criminale" di Claudio Reale La Repubblica, 23 dicembre 2016 Nell’ultimo rapporto di Antigone, appena quattro mesi fa, l’allarme è stato messo nero su bianco. Nella casa circondariale "Petrusa" di Agrigento, è la tesi dell’associazione che tiene d’occhio il rispetto dei diritti umani nelle carceri, c’è un problema. "La polizia penitenziaria - sosteneva allora il referente siciliano dell’associazione, il deputato regionale Pino Apprendi - non riesce a comunicare con i detenuti immigrati perché non ci sono mediatori culturali. Ovviamente, però, quelli che parlano la stessa lingua riescono a dialogare fra loro". Non sapeva, Apprendi, che qualche mese prima, proprio da Agrigento, era partito un allarme: per uno dei 1.343 detenuti stranieri presenti in Sicilia, Amri Anis, era stato segnalato il rischio di radicalizzazione. Oggi sulla testa del ventiquattrenne tunisino pende una taglia da 100 mila euro della polizia federale tedesca, che lo accusa di essere la mente dell’attentato di Berlino. La situazione, d’altro canto, è esplosiva. Perché se nelle carceri siciliane è presente una percentuale relativamente bassa di detenuti immigrati (secondo il ministero della Giustizia, il 30 novembre erano 1.343 su 6.119, il 22 per cento, contro una media nazionale che sfiora il 34), al di qua dello Stretto di Messina i detenuti immigrati in attesa di primo giudizio, cioè reclusi preventivamente senza aver ancora subito una condanna, sono il 40 per cento (in tutta Italia meno del 22). Il rischio di "contagio criminale", così, diventa elevatissimo: criminali conclamati al fianco di presunti tali, in un contesto che vede secondo Antigone "una quasi totale assenza" dei mediatori culturali, gli operatori che devono fare da trait d’union fra le differenti lingue. "Così - osserva Apprendi - gli stranieri si possono incattivire, anche perché si tratta quasi sempre di detenuti più poveri degli altri: nessuno, spesso, va a visitarli, quindi non ricevono abbigliamento o cibo aggiuntivo. Queste circostanze, ovviamente, creano malcontento". Un malcontento nel quale, secondo gli osservatori, si può insinuare il rischio di radicalizzazione. Che viaggiano in spazi di socializzazione di vario genere: dalle ore d’aria, come ad Agrigento, alle comunicazioni da una cella all’altra, come avviene quasi ovunque. "Su questo tema - ammette Aldo Tiralongo, che dirige proprio il carcere di Agrigento - c’è un’attenzione altissima. Cerchiamo di raccogliere notizie da più fonti per comprendere cosa accade". Una ricerca condotta al "Petrusa", che con 96 stranieri su 362 è l’undicesimo penitenziario siciliano a più alta densità di immigrati, ma anche nell’altro istituto che Tiralongo dirige, la minuscola casa circondariale di Giarre: qui gli immigrati sono 21 su 79, il 26,6 per cento, e i contatti fra immigrati sono continui. "Il perimetro detentivo - prosegue il direttore - è il reparto. Le porte delle celle, in altre parole, sono aperte". Eppure proprio a Giarre - il decimo carcere con la più alta percentuale di immigrati nell’Isola - si è tentato uno degli esperimenti più riusciti: un mediatore culturale che aiuta gli stranieri con i permessi di soggiorno, a tenere i contatti con la famiglia e in generale a gestire i problemi di ogni giorno. Qualche problema, però, rimane: a Giarre viene celebrato il ramadan, ma non ci sono spazi dedicati al culto dell’Islam né sono presenti imam. Un problema che, d’altro canto, è sostanzialmente condiviso da Trapani a Siracusa, da Messina a Palermo. "La pratica di religioni diverse dal cattolicesimo - annota Apprendi - è difficile in quasi tutti i penitenziari dell’Isola". Eppure ci sono carceri con più ospiti stranieri che italiani. A Ragusa, ad esempio: nel penitenziario con la più alta presenza di immigrati i passaporti esteri sono 68, gli italiani 54. Appena un po’ meglio va a Sciacca, dove il 44,8 per cento proviene da oltre confine, o a Enna (37,1). Sono invece quasi tutti italiani gli ospiti delle due carceri palermitane (15,9 per cento di immigrati al Pagliarelli, 12,5 all’Ucciardone) e di Termini (21,5 per cento di stranieri). Nella gran parte dei casi, sia secondo Apprendi che per Tiralongo, si tratta di detenuti di provenienza maghrebina: secondo le statistiche ministeriali, d’altro canto, da Marocco, Tunisia, Egitto e Algeria proviene oltre il 34 per cento di tutti gli immigrati presenti nelle carceri italiane, ma in Sicilia il dato è più elevato. Senza mediatori culturali, senza riferimenti. In un cocktail ad alto rischio radicalizzazione. La direttrice del carcere Pagliarelli: Anis Amri aveva disagio psicologico Askanews, 23 dicembre 2016 Era riottoso e violento ma non c’erano segnali di radicalizzazione. Francesca Vazzana, direttore del carcere di Pagliarelli, ricorda perfettamente Anis Amri, detenuto nell’istituto penitenziario di Palermo da settembre a gennaio 2015, poi trasferito all’Ucciardone "per gravi e comprovati motivi di sicurezza" ora ricercato dalla polizia tedesca perché accusato di essere l’autore della strage al mercatino di natale di Berlino. Prima di Palermo il tunisino era stato nelle carceri di Catania, Enna, Sciacca e Agrigento, sempre trasferito dopo aggressioni e molestie nei confronti dei compagni. "Era un soggetto molto difficile", racconta Vazzana al Messaggero, "la sua condotta degenerava frequentemente nell’aggressione. Era con ogni evidenza un soggetto che manifestava un disagio psicologico, dovuto alla mancata accettazione culturale del nostro sistema". Poteva trattarsi di un problema di radicalizzazione? "Alla luce dei fatti accaduti, sembra scontato trarre questa conclusione, di fatto Amri aveva atteggiamenti che, generalmente, assumono le persone che non stanno bene, che hanno un disagio psicologico. Il totale rifiuto delle regole sfociava spesso in aggressività, soprattutto nei confronti dei compagni di cella. È stato subito chiaro che questa forma di aggressività derivasse da un problema culturale. Ovviamente era uno dei soggetti monitorati, ma allora non emergeva con chiarezza un profilo di radicalizzazione". Per la direttrice del carcere palermitano, "ha picchiato alcuni detenuti, è stato aggressivo con le guardie penitenziarie, ma dagli episodi che si sono verificati nell’istituto che dirigo, non sono emersi elementi che facessero pensare a un fenomeno di radicalizzazione. Era un riottoso violento". In generale, "i soggetti monitorati sono moltissimi. Tutti i detenuti islamici ormai lo sono. Siamo diventati attenti a ogni minimo segnale". L’imam della comunità islamica a Palermo: ai reclusi servono vere guide spirituali di Claudio Reale La Repubblica, 23 dicembre 2016 "Se nelle carceri non c’è attenzione per il risanamento spirituale dei detenuti immigrati, il rischio di radicalizzazione c’è". Così Ahamad Abd al Majid, all’anagrafe Francesco Macaluso, imam della comunità religiosa islamica a Palermo, commenta la parabola discendente del tunisino Anis Amri, accusato di essere la mente dell’attentato di Berlino. C’è davvero un rischio di radicalizzazione nelle carceri? "Il rischio c’è. E la situazione per alcuni aspetti è preoccupante. Le condizioni pessime in cui vivono i detenuti, insieme con un’ideologia fuori controllo, può essere una miscela esplosiva. Parliamo di persone che perdono il contatto con il mondo esterno e che alimentano dentro se stesse percorsi errati che nulla hanno a che vedere con l’Islam. Quello che serve è più attenzione e controllo sul fronte del risanamento spirituale di queste persone". Cosa si può fare, in concreto? "Intervenire con mediatori che abbiano una preparazione religiosa specifica. O, ancora meglio, far avvicinare i soggetti ritenuti a rischio da imam davvero preparati, capaci cioè di discernere fra l’ideologia e la religione e di essere, quindi, una guida spirituale". Avete progetti in questa direzione? "Quello che auspichiamo è un dialogo sempre aperto con lo Stato per poter intervenire nelle carceri anche dei progetti specifici. Solo grazie a un’intesa di questo genere si può fare qualcosa di concreto". Quanti presidenti delle Regioni rischiano la galera? Il 30 per cento di Piero Sansonetti Il Dubbio, 23 dicembre 2016 Formigoni, Scopelliti, e lombardo Condannati e ora aspettano il giudizio definitivo. Cuffaro, Galan e Del Turco ci sono già stati. Errani e Bassolino l’hanno sfiorata. Certamente è un caso, però sembra proprio l’offensiva di Natale della magistratura contro i presidenti (ormai ex) delle Regioni. Il più famoso di loro, il fondatore di Comunione e Liberazione Roberto Formigoni, è stato condannato in primo grado a sei anni di prigione. Beppe Scopelliti, ex potentissimo sindaco di Reggio Calabria e poi ex potentissimo governatore della Calabria, si è beccato cinque anni abbondanti in appello. Per Raffaele Lombardo, ex Presidente della Sicilia, bisognerà aspettare un po’: la sentenza d’appello arriverà a metà gennaio. Il Pm ha chiesto la conferma a una decina d’anni. Formigoni è stato condannato per corruzione, Scopelliti per abuso d’ufficio, Lombardo, in primo grado, per il reato sempre molto fumoso di concorso esterno in associazione mafiosa. Lui si difende. Dice: "Ma io non ho mai incontrato un mafioso in vita mia!". I magistrati rispondono: "Infatti, ti diamo concorso esterno, mica interno". Scopelliti, se non interverrà la Cassazione ad annullare le condanne, finirà in carcere tra qualche mese, perché una condanna superiore ai tre anni non ammette condizionale. Formigoni può sperare nell’appello, ma rischia. E così rischia molto Lombardo. Se pensate che il predecessore di Lombardo ha scontato cinque anni di carcere, senza nemmeno il permesso di andare al letto di morte della madre, e che il governatore dell’Abruzzo, prima di essere assolto dalla Cassazione, ha trascorso diversi mesi in cella, per l’arresto preventivo, e ha trascorso dieci anni di inferno, e che il governatore del Veneto, Galan, sta scontando ai domiciliari una condanna per l’affare del Mose di Venezia, siamo a sei governatori, quattro del sud e due del nord, che hanno avuto a che fare o che rischiano di avere a che fare con le manette e con le sbarre alla finestra. Le Regioni in Italia sono venti, mica tante. Sei su venti è una bella media, precisamente una media del 30 per cento. (E non abbiamo voluto mettere nel conteggio alcuni governatori che hanno avuto la carriera stroncata dai procedimenti giudiziari, ma poi se la sono cavata, ottenendo l’assoluzione piena prima di finire in cella: per esempio Vasco Errani, in Emilia Romagna, o Antonio Bassolino, assolto da tutti i reati dopo cinque anni di campagne martellanti contro di lui e l’obbligo a ritirarsi dalla vita politica. Né abbiamo messo in elenco l’attuale governatore della Campania, De Luca, che di avvisi di garanzia e rinvii a giudizio né riceve abitualmente, tutti gli anni, e con egual frequenza ottiene assoluzioni. Se contassimo anche questi casi, arriveremo a quasi la metà delle regioni italiane). Ci sono due possibili conclusioni da trarre, visto che in nessun altro paese del mondo libero succede niente di simile. Due ipotesi in alternativa tra loro (o forse no). La prima è che la politica italiana abbia deciso, per qualche motivo che non conosciamo, di mandare al vertice delle Regioni gente poco raccomandabile. La seconda è che la magistratura italiana abbia deciso di fa pagare ai presidenti delle regioni (ma spesso anche ai sindaci: vale per tutti il recente caso di Marta Vincenzi, sindaca di Genova condannata a 5 anni di prigione perché ha fatto piovere troppo forte sulla sua città) la difficoltà ad arrestare i deputati, per via di una fastidiosissima norma costituzionale che impedisce irruzioni con le manette in Parlamento (che invece, per esempio, sono possibili in Turchia). I presidenti delle regioni non godono dell’immunità dall’arresto, e poi sono coinvolti in un numero altissimi di atti amministrativi, nei quali compare la loro firma, e che spessissimo riguardano assegnazione di opere pubbliche o di altre attività che muovono quattrini. Talvolta, in questi casi, il confine tra illecito e lecito è molto labile, e reati come l’abuso d’ufficio sono ancor più labili e nebbiosi. L’esercizio dell’ufficio è un dovere, non è opzionale, e stabilire quando è abuso e quando no, non è cosa agevolissima. Un amministratore serio non resta con le mani in mano, che in fondo è il comportamento più semplice e senza rischi: con rischi enormi però sulla vita pubblica della propria città o della regione. Se si finirà per percepire, da parte degli amministratori, come rischiosa l’iniziativa politica ed economica, avremo tra poco un esercito di amministratori impauriti e immobili (un po’ come sta succedendo a Roma) e lo Stato va a scatafascio. Non conosco abbastanza bene il caso Formigoni per poter giudicare, ma l’impressione che ci sia un certo accanimento contro di lui non mi sembra del tutto campata in aria. Conosco meglio il caso calabrese, e sono convinto che Scopelliti ha governato in modo spavaldo e un po’ arrogante - e probabilmente ha meritato la punizione da parte degli elettori - ma non ha commesso reati. Del resto la Procura di Reggio, ai tempi di Pignatone - che pure non mi pare un tipo tenero - lo aveva considerato sempre innocente. Conosco il caso di Del Turco e credo che ormai sia evidente a tutti che fu un errore giudizio di quelli brutti. Ho seguito un pochino le vicende siciliane, e ritengo di poter dire con una certa tranquillità che né Lombardo né Cuffaro sono mafiosi. Né interni né esterni. Allora c’è un problema di inadeguatezza della classe politica regionale? Penso che questo problema ci sia, non ovunque, ma ci sia. La politica si deve porre il problema, altrimenti perde ancora credibilità, e nell’opinione pubblica si crea un collasso pericolosissimo. Dopodiché penso anche che bisognerebbe che la stessa politica avesse il coraggio di difendersi e lanciare l’allarme. C’è un pezzo di magistratura che è travolta da un complesso di superiorità e di "missione", si sente mandata da Dio per radere al suolo la politica e lo sta facendo. Ieri Silvio Berlusconi ha definito Dell’Utri un prigioniero politico. Secondo me ha ragione. E non è il solo prigioniero politico. Se non si trova un modo per moderare l’eccesso di protagonismo della magistratura che porta a veri e propri, non infrequenti, fenomeni di persecuzione verso la politica, il pericolo di un corto circuito della democrazia diventa altissimo. Non è la prima volta - lo so - che questo giornale denuncia queste cose. Temo che non sarà l’ultima. In Cassazione 4 riti per non cambiare nulla di Tommaso Basile* Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2016 Qualche giorno fa un’assemblea della Corte di cassazione, indetta per discutere le modifiche al rito civile conseguenti alla legge n. 197 del 2016, ha visto una partecipazione di magistrati molto scarsa. L’accaduto, anche al netto della ormai chiara disaffezione verso rituali sempre meno significativi, può essere interpretato in due modi: è possibile che solo pochi si siano resi conto dell’impatto della riforma sul giudizio civile in Corte? O forse l’assenza è il segno dello scoraggiamento di chi non comprende più il senso del proprio lavoro (una volta, per molti, una vera missione)? Che ai giudici sfugga il cambiamento del modo in cui verranno trattati i processi è da escludere: non c’è un solo magistrato che non conosca le nuove disposizioni, che non si interroghi circa i loro effetti sulla funzionalità della Corte, che non comunichi la propria perplessità in ordine allo scopo reale della nuova previsione. Dunque, è lecito ipotizzare che la ragione della mancata partecipazione all’assemblea sia il silenzioso, crescente rifiuto di una logica legislativa inadeguata che determinerà un nuovo strappo nella già precaria coerenza del giudizio in Cassazione. Nell’ultimo quarto di secolo il codice di procedura civile è stato oggetto di una lunga serie di modifiche: nessuna, tra quelle relative alla Cassazione, è stata sviluppata all’interno di un progetto complessivo e secondo linee strategiche. Nessuna, infatti, è riuscita a rendere il processo civile in cassazione più efficiente o rapido. Oggi, elaborata nei due mesi tra un decreto legge che originariamente non la prevedeva e la legge di conversione che invece la contiene, viene varata una riforma che moltiplica e confonde le forme processuali individuandone addirittura quattro: una sommaria, una "semplice", una pubblica, una davanti alla sezioni unite. Eppure stiamo parlando della Corte di cassazione, del luogo cioè dove i conflitti nell’interpretazione della legge dovrebbero trovare composizione, dove dovrebbero essere custoditi i limpidi principi cui i giudici nazionali si atterranno. Stiamo parlando del luogo ove la norma si fa evidente e permette a magistrati ed avvocati (ai cittadini, soprattutto) di essere certi circa la rule of law, la regola della legge che governerà la controversia. La contraddizione è palese (e stride particolarmente con il nuovo passo di questo Governo nell’affrontare, infine, gli antichi problemi della giustizia): quanti contrasti nasceranno già solo per individuare la tipologia del rito? E a che serve (se non ad introdurre surrettiziamente canali processuali di finta trattazione delle cause) aumentare le configurazioni del processo quando l’intero sistema è già soffocato da inutili complicazioni? Ogni nuovo cambiamento, in una complessa organizzazione (di prassi e di concetti) che a fatica si assesta sul cambiamento precedente, produce instabilità e incoerenza. Il processo, soprattutto in cassazione, dove la tecnica giuridica prevale sulla rappresentazione del fatto (nella struttura del ricorso, nelle categorie del giudizio, negli effetti di ricaduta sugli orientamenti successivi) è un congegno delicato: degradarlo al rango di fabbrica sommaria di decisioni approssimative non solo tradisce il mandato costituzionale ma fa un danno grave. Eppure nulla ci impedirebbe, tornando ad essere un paese normale, di conformarci alla regola della modernità che, semplicemente, stabilisce per legge i (pochi) casi in cui è dato accesso al giudizio di legittimità. Ne conseguirebbe, per alcuni, una riduzione del fatturato della giustizia. Tutti invece ne guadagneremmo in termini di certezza del diritto ed equilibrio del sistema. *Sostituto Procuratore generale della Cassazione No all’estradizione in Turchia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2016 Corte di Cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 21 dicembre 2016 n. 54467. No all’estradizione verso la Turchia. Neppure per traffico di stupefacenti. La Cassazione, sentenza n. 54467 delle Sesta sezione penale, è chiara,: si tratta di un Paese nel quale le violazioni dei diritti umani rappresenta "una situazione di fatto diffusa e non episodica, di carattere sistemico o comunque generalizzato". Una situazione che, sottolinea la Cassazione, si è adesso aggravata dopo il tentativo di colpo di Stato del 15 luglio 2016. Tentato golpe che ha portato alla sospensione, ricorda la Corte, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo in particolare limitando i diritti difensivi dell’imputato nel processo penale con un forte aumento dei poteri di polizia. Significativa in questo senso è la previsione del fermo di polizia fino a 30 giorni senza controllo dell’autorità giudiziaria. A corroborare la propria posizione ostile al riconoscimento dell’estradizione, la Cassazione ricorda anche un recente precedente di Corte d’appello tedesca. Anche in quel caso la consegna del detenuto è stata negata, valorizzando in particolare misure di stampo autoritario come la sostituzione del difensore da parte della Procura senza il consenso dell’imputato e le rigide limitazioni alla partecipazione al dibattimento. A pesare ci sono state anche le condizioni delle carceri, sempre più affollate. Determinante la documentazione presentata da Amnesty International, in cui si mettono in evidenza casi generali di detenzione arbitraria, di violazione delle regole del giusto processo, e pratiche di tortura eseguite ai danni dei detenuti. Altro elemento importante che la Corte, mette in evidenza in chiusura sono le destituzioni e sospensioni di migliaia di magistrati da parte di una struttura controllata dal ministero della Giustizia turco. Di conseguenza l’estradizione avrebbe esposto l’imputato a un duplice rischio: quello di un processo ingiusto e quello di una detenzione inumana. Licenziamento per giusta causa del dipendente detenuto per spaccio di stupefacenti di Daniela Dattola Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2016 La Corte di cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 24566 del 1° dicembre 2016 ha stabilito che la detenzione da parte di un lavoratore dipendente di sostanza stupefacente a fine di spaccio, sebbene avvenga in ambito extra lavorativo, integra la giusta causa di licenziamento dello stesso. Il lavoratore, infatti, è tenuto non solo a fornire la prestazione lavorativa contrattualmente richiesta, ma anche a non porre assolutamente in essere comportamenti che ledano gli interessi morali e materiali del datore di lavoro, compromettendone così il rapporto fiduciario. Il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore - l rapporto giuridico tra il datore di lavoro e il lavoratore dipendente si basa sulla fiducia che deve sempre sussistere per tutta la durata del medesimo, anche se non esiste una specifica norma giuridica che lo affermi espressamente. In caso contrario, già la stessa Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 15004 del 21 novembre 2000 aveva stabilito che l’effetto, per così dire naturale, del venir meno della fiducia era la negazione del rapporto di lavoro. Tale fiducia è definibile come l’affidamento riposto dal datore di lavoro nell’esatta esecuzione della prestazione dedotta nel singolo contratto lavorativo. Affidamento che in detto ambito assume il massimo rilievo non solo per il fatto che si tratta di un rapporto di durata, ma anche perché in questo legame vi è necessariamente l’immissione di una parte (il lavoratore) nella sfera di interessi della propria controparte (quella datoriale) così forte che la scelta del datore di lavoro di assumere il tale dipendente piuttosto che un altro è in larga parte determinata dal particolare apprezzamento delle qualità personali del primo: il cosiddetto intuitu personae. La nozione estensiva della Cassazione sulla giusta causa di recesso contrattuale - La nozione di giusta causa di recesso dal contratto individuale a tempo indeterminato di lavoro subordinato si rinviene nell’articolo 2119 del codice civile, il quale prevede che le parti possano recedervi senza necessità alcuna di preavviso qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto medesimo. La giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 20158 del 3 settembre 2013) è intervenuta sul punto precisando che l’elencazione, contenuta nell’articolo 41 del contratto collettivo nazionale di lavoro, delle condotte legittimanti l’irrogazione del licenziamento per giusta causa ha valore puramente indicativo e non tassativo "... laddove il fondamento del recesso possa essere individuato nella nozione legale di giusta causa e cioè in un comportamento di gravità tale da comportare la lesione del vincolo fiduciario tra le parti". E ancora, la Cassazione sezione lavoro con la sentenza n. 16524 del 6 agosto 2015 ha stabilito che nella nozione di giusta causa devono includersi anche quelle condotte che, pur riguardanti la vita privata del lavoratore, possono tuttavia risultare idonee a danneggiare irrimediabilmente il vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore. Queste condotte, infatti, posseggono un indubbio riflesso oggettivo sulla funzionalità del rapporto lavorativo, potendo compromettere le aspettative di un futuro adempimento puntuale dell’obbligazione lavorativa propria del dipendente che le tiene. Il caso - Un dipendente di una società ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza della Corte d’appello che aveva confermato la sentenza di primo grado la quale aveva respinto il ricorso dello stesso diretto a far dichiarare illegittimo il proprio licenziamento, che era stato intimato per detenzione a fini di spaccio di un quantitativo significativo di sostanze stupefacenti, anche se effettuata al di fuori del luogo di lavoro. La motivazione che aveva sorretto la decisione del Giudice di prime cure era stata quella del discredito dell’immagine aziendale e dell’allarme di possibile spaccio anche nell’ambiente di lavoro che la condotta stigmatizzata e il conseguente arresto del suo autore avevano cagionato. La Corte d’appello aveva poi evidenziato anche il disvalore sociale del reato commesso, dal momento che questo si pone in contrasto sia con norme penali, sia con i fondamentali principi etici, per non trascurare poi il fatto che la notizia sulla stampa locale dell’arresto dell’appellante aveva provocato una lesione dell’immagine della società in cui questi prestava la propria opera lavorativa. Con il ricorso alla Cassazione il dipendente lamentava la violazione e la falsa applicazione degli articoli 2119 e 2697 del codice civile, l’incongruenza e la carenza di motivazione della sentenza del Giudice di secondo grado, sia con riferimento al danno all’immagine societaria, sia con riferimento al giudizio di gravità della condotta e alla proporzionalità tra la stessa e la sanzione inflitta: la più grave possibile. La decisione - Con la decisione in commento la Corte di legittimità ha respinto il ricorso, precisando che un comportamento quale quello tenuto dal ricorrente è idoneo ad integrare la giusta causa di licenziamento. Il lavoratore, infatti, è tenuto, non solo a fornire la prestazione richiesta dal contratto di lavoro, ma anche a non porre in essere nella sua stessa vita privata comportamenti tali da danneggiare gli interessi morali e materiali del datore di lavoro e l’immagine aziendale, perché altrimenti il rapporto fiduciario è irrimediabilmente compromesso. Sardegna: Caligaris (Sdr) "il 2016 nelle carceri, un anno con troppe ombre" Ristretti Orizzonti, 23 dicembre 2016 "Il 2016 sarà ricordato negli Istituti della Sardegna per le troppe ombre. Insufficienti i direttori che sono 7 per 10 Istituti - ma due di loro trascorrono nei Penitenziari di assegnazione in missione - soltanto qualche giorno nella settimana garantendo esclusivamente l’ordinario; assenti i Vice Direttori; inadeguati gli Agenti della Polizia Penitenziaria, con carenze che richiedono interventi immediati; amministrativi in numero irrisorio rispetto alle necessità delle diverse realtà nonché Educatori impossibilitati a svolgere il loro difficile compito per le carenze e le condizioni in cui operano, specialmente nei nuovi più grandi e complessi Istituti". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento alla situazione nelle strutture penitenziarie isolane dove "le pecche limitano l’applicazione della legge sull’ordinamento penitenziario e il pieno rispetto del dettato costituzionale, determinando talvolta condizioni che favoriscono gravi o addirittura estremi atti di autolesionismo". "Molte speranze per far fronte alle oggettive carenze erano state riposte - sottolinea - nell’autorevole presenza nell’isola del nuovo Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria, dirigente generale del Ministero della Giustizia. Alla prova dei fatti però sembra che non possa annoverarsi finora tra quelli con il maggiore indice di attenzione verso le problematiche del personale e delle strutture. È infatti apparso a molti più preoccupato di applicare pedissequamente delle norme anziché verificare e provvedere alla soluzione razionale di problemi in una regione-discarica dove si moltiplicano nelle Case Circondariali i ristretti con alto indice di criminalità provenienti dalla Penisola e dove le Colonie penali all’aperto sono ancora quasi vuote. Basti pensare che i detenuti sardi sono complessivamente un migliaio mentre nelle strutture isolane sono rinchiuse 2.171 persone, oltre un quarto delle quali (535) sono straniere". "Davanti a condizioni di disagio come quelle di Mamone-Onanì (Nuoro) e Is Arenas (Oristano) dove le forti piogge provocano allagamenti e isolamento perfino con i telefoni. Dinnanzi alla difficoltà di gestire Istituti in cui oltre la metà dei ristretti è tossicodipendente. Considerando altresì che in Sardegna nei nuovi Istituti spesso l’acqua piovana non solo filtra ma addirittura cade dal soffitto costringendo gli operatori degli ultimi piani a utilizzare secchi per la raccolta. Apparirebbe più utile - rileva ancora la presidente di Sdr - evitare di sospendere i distacchi di persone ammalate che abitano in località eccessivamente distanti dal luogo di lavoro. Così come sembrerebbe opportuno riconsiderare le condizioni di madri con bambini sotto i tre anni facendo prevalere il buon senso e valutando la possibilità di misure straordinarie. Potrebbe apparire assurdo infatti alleggerire del personale Istituti con detenuti oltre il limite regolamentare per inviarli in altri quasi vuoti, ciò vale anche per gli Educatori che per esempio si sono ridotti di diverse unità nella Casa Circondariale cagliaritana provocando gravissime difficoltà nell’organizzazione di attività trattamentali. Chissà se le Festività Natalizie - conclude Caligaris - porteranno a una rivalutazione delle situazioni e a ristabilire il quadro delle priorità. Altrimenti si rischia di sostenere che si stava davvero meglio quando si stava peggio e rivolgere un nuovo appello al Ministro Andrea Orlando affinché in Sardegna vengano garantiti in numero adeguato innanzitutto Direttori e Vice ma escludendo però l’impiego del part-time. Campania: la Comunità di sant’Egidio e gli eventi nelle carceri con il cardinale Sepe Il Mattino, 23 dicembre 2016 Programma quasi a sé fanno gli incontri organizzati dalla Curia e dalla "Comunità di sant’Egidio" nelle Case circondariali di tutta la Campania. Oltre al pranzo previsto per martedì 27 al carcere di Secondigliano, cui prenderà parte il cardinale Crescenzio Sepe, ne sono stati organizzati diversi altri. A partire da quello di quest’oggi alle 13 a Poggioreale; gli altri previsti saranno negli istituti di pena di Pozzuoli e Santa Maria Capua Vetere, di Benevento, Ariano Irpino, Carinola. Inoltre, sabato 31 alle 10, il cardinale Sepe sarà al carcere di Poggioreale per la celebrazione eucaristica - un modo per augurare un anno il migliore possibile a chi dovrà iniziarlo dietro le sbarre. Roma: dopo l’evasione da Rebibbia a rischio il "regime aperto" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 dicembre 2016 Per Susanna Marietti di Antigone, è "lo stesso Consiglio d’Europa a raccomandare che la vita negli istituti sia per quanto possibile simile a quella esterna". Indagati il direttore del carcere di Rebibbia (non più in carica da qualche settimana), il capo dell’ufficio detenuti del Provveditorato regionale (già coinvolto nella vicenda di Stefano Cucchi, condannato in primo grado per abuso d’ufficio e falso, assolto per due volte in appello dopo un annullamento della Cassazione) e il comandante di reparto della polizia penitenziaria per l’evasione di tre reclusi albanesi avvenuta il 27 ottobre scorso. Nei loro confronti il pm Nadia Plastina contesta il reato di "colpa del custode", una inosservanza colposa nelle regole di vigilanza all’interno della casa circondariale. C’è però chi teme che tale inchiesta possa ripercuotersi sulle varie conquiste acquisite nel tempo per il recupero dei detenuti. Nello specifico c’è il rischio che i capi d’accusa emessi dalla procura di Roma mettano in discussione le politiche penitenziarie dirette alla responsabilizzazione e alla risocializzazione delle persone detenute. Susanna Marietti, la coordinatrice nazionale di Antigone, ha infatti denunciato che "l’imputazione del reato di colpa del custode nei confronti del direttore, del comandante di reparto e di un certo numero di poliziotti penitenziari, può costituire un freno ingiusto nei confronti di chi è impegnato in attività dirette al recupero sociale dei detenuti". Marietti poi spiega: "Il comandante sarebbe stato accusato tra le altre cose di non aver accompagnato costantemente i detenuti nei loro spostamenti interni al carcere. Ma è lo stesso Consiglio d’Europa a raccomandare che la vita in carcere sia per quanto possibile simile a quella esterna e consenta spazi di libertà capaci di responsabilizzare le persone detenute. La cosiddetta sorveglianza dinamica, che non punta solamente al contenimento, ha fino a oggi avuto buoni risultati". La coordinatrice di Antigone infine conclude: "Una simile imputazione penale nei confronti di chi ha ruoli di direzione e di gestione della sicurezza all’interno di un carcere rischia di inibirne una gestione aperta e rispettosa della dignità umana. A tal fine andrebbero riviste o cancellate quelle norme che prevedono una responsabilità colposa e non dolosa degli operatori penitenziari". I tre detenuti evasi, che sono ancora latitanti, hanno seguito un tragitto identico a quello dei colleghi evasi prima di loro: si sono arrampicati sulla stessa parte del muro di cinta, dopo aver segato le sbarre della cella. Prima di calarsi di sotto, hanno avuto il tempo di misurare la distanza che li separava dal suolo, utilizzando delle scope. Secondo la Procura, la colpa degli indagati consisterebbe nell’aver omesso "le doverose cautele e nella violazione delle norme regolamentari, nonché delle norme generiche di prudenza, la cui osservanza avrebbe impedito o reso più difficoltoso l’allontanamento dei detenuti". Si parla di "carenze molto rilevanti e diffuse a tutti i livelli", di scambi di informazioni tra detenuti, di coltelli e seghetti nascosti nelle celle. I pm denunciano anche anomalie nelle perquisizioni effettuate del personale "che non ha garantito l’effetto sorpresa". L’ex direttore Mariani, sempre secondo i pm, "ometteva di rimediare alle carenze organizzative". Il 28 maggio, con un ordine di servizio "sopprimeva la vigilanza armata", consentendo ai fuggiaschi di allontanarsi con un’azione analoga a quella dei loro predecessori. Ma la soppressione della vigilanza armata non è un reato, così come la vigilanza dinamica è una conquista che riguarda il recupero dei detenuti. Tale conquista viene messa puntualmente in discussione quando si verificano casi di cronaca come è accaduto con Rebibbia. La vigilanza dinamica avviene attraverso il "regime aperto", il quale consente ai detenuti di trascorrere parte della giornata fuori da quella che impropriamente viene indicata come "cella", ma che la norma (art. 6 Ordinamento penitenziario) definisce "locali destinati al pernottamento". Una circolare del Dap del 18 luglio 2013 spiega il concetto di "carcere aperto". È un chiaro riferimento all’art. 6 della Riforma penitenziaria del 1975 che definisce le celle come luogo di pernotto, intendendo che la vita del detenuto debba normalmente svolgersi al di fuori di esse. Questo tipo di regime, inoltre, ha l’obiettivo di responsabilizzare le guardie penitenziarie e non confinarle in un ruolo di mera custodia. Trieste: il Garante regionale dei detenuti "carcere duro, ma è il meno disumano del Fvg" di Stefano Mattia Pribetti diariodelweb.it, 23 dicembre 2016 I detenuti vagano nei corridoi tutto il giorno e lavano i panni sotto le docce. Lauri: "Le statistiche dimostrano che la rieducazione abbatte il rischio di recidiva: la Regione sta per intervenire in tal senso". "Il carcere di Trieste è il meno disumano in regione. Quindi lascio immaginare gli altri". Queste le parole del garante regionale per i diritti alla persona Pino Roveredo in seguito alla visita alla Casa circondariale di Trieste in via Coroneo per valutare le condizioni in cui versano i detenuti del capoluogo giuliano. Insieme a Roveredo, il consigliere regionale Giulio Lauri, i rappresentanti dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane Riccardo Polidoro e Giuseppe Cherubino, il presidente della Camera penale di Trieste Alessandro Giadrossi e la referente dell’Osservatorio carcere della Camera Alessandra Devetag. Costretti a vagare - La visita è stata resa necessaria in seguito a un’invasione di cimici da letto, questione non risolta ma contenuta dal cambio dei materassi e dall’acquisto di un dispositivo a vapore per la disinfestazione. Sono stati tuttavia rilevati problemi più gravi. Innanzitutto nella struttura manca una vera direzione da 5 anni, la direttrice è Silvia della Branca, che ha in carico anche l’istituto carcerario di Tolmezzo. Questa struttura gestisce situazioni di massima sicurezza e assorbe quindi gran parte delle energie della direzione. "I detenuti del Coroneo sono in tutto 201 - spiega Lauri - di cui più della metà stranieri, e ciononostante non esiste un mediatore culturale in grado di farli comunicare con gli altri, personale compreso. Oltre a questo, mancano del tutto spazi di socialità condivisa: in base alla norma vigente, tutti loro dovrebbero rimanere in cella solo per dormire, ed essere impegnati in altre attività durante il giorno. La questione è stata risolta aprendo semplicemente le porte delle celle e lasciandoli vagare nel corridoio antistante". Mancano risorse - Sono state citate situazioni limite: "Non ci sono lavatrici, sono stati installati gli scarichi ma poi sono mancati i finanziamenti e adesso i detenuti devono lavare i vestiti nelle docce, dentro un secchio" specifica Devetag. "Il personale carcerario è in sotto-numero - continua Roveredo - ci sono solo tre educatrici per 201 persone, e anche la sorveglianza è carente: un detenuto ha dovuto rinunciare a una visita medica perché il poliziotto che avrebbe dovuto accompagnarlo è stato impegnato in un’emergenza". Un problema della Giustizia italiana - È stata inoltre smentita da tutti la risoluzione del sovraffollamento, millantata dal ministro Orlando: "L’Europa ci sta ancora bacchettando per questo problema - spiegano gli avvocati dell’osservatorio Ucpi - che è derivato da un uso smodato dell’incarcerazione per custodia cautelare: basti pensare che il 43 percento dei detenuti a Trieste è in attesa del processo, 80 persone in tutto (di cui 58 aspettano addirittura la sentenza di primo grado). Sono soggetti senza condanna definitiva, situazioni che potrebbero risolversi come pena non dovuta. Il fatto più grave - concludono gli avvocati - è che non c’è attualmente alcuna attività trattamentale e di rieducazione" Investire nella formazione - Lauri ha poi fornito dei dati significativi: "Le statistiche dimostrano che una pena detentiva senza un progetto di rieducazione per il reinserimento in società, porta a un tasso di recidiva del 70 percento. Per contro, quando vi è una sanzione alternativa e formativa, la percentuale scende al 10 percento". "A questo proposito - continua Lauri - la Regione sta investendo 1 milione e mezzo di Euro del Fondo sociale Europeo per corsi di formazione (tra cui pulizia e sanificazione, manutenzione edilizia e gestione aziende agricole), che interesseranno 400 persone nel Fvg". Sono stati poi citati casi virtuosi come la pasticceria Giotto di Padova, gestita da ex detenuti, ed è stato rimarcato che il denaro investito in rieducazione carceraria non è uno spreco ma garantisce un ritorno per l’economia e disincentiva il crimine reiterato. Trento: suicidio di Luca Soricelli, domani presidio di protesta sotto il carcere di Spini da Assemblea degli amici e solidali "Stefano Frapporti" Il Dolomiti, 23 dicembre 2016 "Nel carcere di Spini si pesta, nel carcere di Spini si muore. Non dimentichiamo Luca", questa la scritta su uno striscione che è stato esposto in via Torre Vanga in un sit-in promosso da una ventina di persone che sono scese in strada per manifestare dopo le recenti vicende che hanno coinvolto il carcere di Trento con la morte di un detenuto che si è tolto la vita. Nel corso della manifestazione, che si è svolta in maniera pacifica, è stato annunciato un presidio presso il carcere per domani alle ore 18. Venerdì 16 dicembre, lo stesso giorno in cui uscivano sulla stampa locale stralci del rapporto stilato dal Garante nazionale dei detenuti contenente denunce precise e circostanziate di pestaggi ai danni dei prigionieri avvenuti nel carcere di Spini di Gardolo, nel reparto infermeria di quello stesso carcere veniva trovato impiccato Luca Soricelli. Il quarto suicidio a Spini. Luca era stato arrestato in evidente stato confusionale la settimana precedente, dopo aver incendiato un distributore di benzina a Rovereto. Nonostante da giorni lanciasse appelli di aiuto in internet ("Sono arrivato agli sgoccioli non ho più idee per andare avanti contattatemi per piacere o faccio follie"), e nonostante la richiesta dell’avvocato di ufficio di una soluzione diversa dal carcere, una psicologa aveva definito il suo stato mentale "compatibile con la detenzione". Già, perfettamente compatibile. Ora tutti, sindacati degli agenti, istituzioni e media, si lamentano della carenza di organico della polizia penitenziaria quale causa di questa morte. Scompaiono i pestaggi, scompare la "cella liscia" (la 2076) e i carcerieri diventano vittime del troppo lavoro e addirittura dello stress che provocano loro i suicidi. Durante le ispezioni condotte dal Garante (nel maggio e nel luglio scorsi), nella "cella liscia" sono state trovate macchie di sangue. Nel corso di una intervista su "l’Adige" del 18 dicembre, il direttore del carcere Valerio Pappalardo dichiarava testualmente: "Non posso escludere che ci sia una macchia di origine ematica su uno dei muri della stanza. Del resto non potrei escludere che una macchia del genere ci sia anche a casa mia". Pesta moglie e figli, il signor Pappalardo? Secondo il Sindacato di polizia penitenziaria Sappe non è escluso che il sangue sia quello di qualche agente ferito da un detenuto. Il carcere è un’istituzione totalitaria. E quello "modello" di Spini (dove sono stipati 368 detenuti a fronte della capienza massima prevista di 245) non fa eccezione. Noi lo sapevamo già, ed è emerso pubblicamente persino con una nota istituzionale (il Garante dei detenuti non è un nemico del carcere, ma una figura che ne controlla il "corretto funzionamento"). Il carcere è anche un’istituzione classista. La stragrande maggioranza dei detenuti è costituita da poveri. Se Luca fosse stato ricco non sarebbe finito in galera. La sua morte è il risultato di un sistema, non è una terribile anomalia. La sentenza di morte era già stata scritta in qualche riga burocratica, magari stesa in fretta prima di andare a pranzo: "compatibile con la detenzione". Ma tanto di un proletario, per di più "folle", chi se ne importa? Qualche giorno di polemica, e poi si torna alla normalità, ai piccoli soprusi, alle tante disperazioni e, quando serve, alla cella 2076. Il carcere non è un pianeta così distante. Quello che è successo a Luca potrebbe capitare a chiunque. I responsabili della morte di Luca - la psicologa, i magistrati, il direttore del carcere Pappalardo, il comandante della Polizia penitenziaria Cotugno - si sentono a posto. Ricorderemo a lungo le loro responsabilità. Ma proprio noi, che non conoscevamo Luca, che carcerieri non siamo e non vogliamo esserlo, non ci sentiamo a posto. Non ci sentiamo a posto. Per Luca. Per le tante vite recluse, offese, stroncate. Non ci sentiamo a posto. E vogliamo dirlo, venerdì 23 dicembre, dalle ore 18 presidio sotto il carcere di Spini (lato ciclabile). Firenze: oggi il Comitato StopOpg in visita all’Opg di Montelupo Fiorentino Ristretti Orizzonti, 23 dicembre 2016 Questa mattina alle ore 11 una delegazione di StopOpg tornerà in visita all’Opg di Montelupo Fiorentino. Sarà occasione per incontrare le persone internate e gli operatori, con la direttrice Antonella Tuoni, confermando l’impegno del nostro Comitato per la chiusura definitiva degli Opg, che deve avvenire rispondendo ai bisogni di cura dei pazienti e ai diritti dei lavoratori della struttura. Infatti, seppure vi siano ormai solo poche persone internate e la chiusura sia imminente, l’Opg di Montelupo Fiorentino è ancora aperto è ancora aperto a quasi due anni dalla data fissata dalla legge per la chiusura (come quello di Barcellona Pozzo di Gotto). Sono chiusi quelli di Aversa, Napoli, Reggio Emilia, mentre l’Opg di Castiglione delle Stiviere ha solo cambiato targa diventando una mega Rems. La delegazione è formata da Stefano Cecconi (Cgil nazionale), Denise Amerini (Fp Cgil nazionale), Cesare Bondioli (Psichiatria Democratica), Vito D’Anza (Forum Salute Mentale), Giovanna Del Giudice (CoperSam Basaglia), Mauro Fuso (Cgil Toscana) Maria Grazia Giannichedda (Fondazione Basaglia), Donato Petrizzo (Fp Cgil Toscana), don Armando Zappolini (Cnca), Maria Grazia Antoci e Chiara Fusi (Cittadinanzattiva), Paolo Grasso, Antonio Fortarezza video maker e Rita Filomeni Poeta e autrice teatrale. Sarà presente il Commissario unico per il superamento degli Opg Franco Corleone. I giornalisti sono invitati a partecipare. Torino: l’Ipm diventa fabbrica di cioccolato, progetto di recupero per 32 ragazzi di Massimiliano Peggio La Stampa, 23 dicembre 2016 Amara come a volte è la vita, ma anche dolce com’è la speranza. A prima vista può sembrare solo una tavoletta di cioccolato, avvolta in carta da pacchi. In realtà è molto di più, non solo un insieme di ingredienti. È un appiglio per aggrapparsi e risalire, per credere in sé, per dimostrare al mondo che si può sbagliare e poi cambiare rotta. Dalla scorsa estate i ragazzi detenuti del Ferrante Aporti, l’istituto penale per minorenni di Torino, hanno prodotto 5000 tavolette di cioccolato, 3000 solo nell’ultimo quadrimestre. Sono stati proprio i "pasticcieri" in erba a curare il progetto, scegliendo di chiamare la tavoletta "La Vita...", da dedicare agli innamorati. Settanta grammi di cioccolato al latte o fondente. Un cuore rosso disegnato sull’etichetta per ricordare che la fiducia, in fondo, è il primo ingrediente dell’amore. Il progetto della tavoletta di cioccolato per innamorati si è sviluppato nei laboratori della cooperativa sociale Spes, della Comunità Murialdo Piemonte, con il programma Spes@Labor, partito nel 2013, prima come una start-up sostenuta da Unicredit Foundation e proseguito nel sostegno economico dal Miur attraverso l’Istituto comprensivo di via Sidoli. "Da tre anni - spiega Antonio Peyrano, il vice presidente del Gruppo Spes - con la nostra attività aiutiamo il reinserimento di giovani detenuti all’interno del tessuto sociale, attraverso interventi di inclusione lavorativa e professionale". I ragazzi che partecipano al progetto imparano a lavorare il cioccolato nel laboratorio allestito all’interno del Ferrante Aporti. Chi approda alla fase della "borsa lavoro", collegata alla fase successiva di reinserimento, indossa il camice bianco e viene accolto nella fabbrica del cioccolato di via Saorgio, verso la periferia nord di Torino. Fino ad oggi, 32 ragazzi hanno partecipato al progetto: italiani, sudamericani, africani, rumeni. In cinque, concluso il progetto, hanno continuato a lavorare con Spes. Dalla scorsa estate, tra i prodotti della cooperativa, è stata inserita la tavoletta di cioccolato "completamente ideata e prodotta dai giovani detenuti". Un traguardo che sa di partenza. Così è per Andrea, romeno, finito in carcere minorile per una rissa finita male. Se mai spezzerete un pezzetto di quel cioccolato, sappiate che c’è un po’ della sua nuova vita in quella tavoletta. Fin da piccolo gli avevano detto che non era un buono a nulla. Oggi è pasticciere. Ma ha ancora paura di gridarlo al mondo. Francesco, invece, faceva furti. "Avevo pessime amicizie, facevo tante sciocchezze", dice infilando arancini in un sacchetto. Anche la sua vita è cambiata grazie al cioccolato. Lui è uno di quelli che ce l’ha fatta. Dopo un lungo percorso, dal primo gennaio, avrà un contratto di lavoro alla Spes. Non lo sapeva. L’ha scoperto durante l’intervista. Livorno: Nunzio Marotti, il bilancio dei 18 mesi da Garante dei detenuti di Porto Azzurro tenews.it, 23 dicembre 2016 Il bilancio delle attività svolte e gli obiettivi futuri. Un anno e mezzo di attività del Garante dei Detenuti, Nunzio Marotti. Il bilancio di questi primi mesi è stato esposto con una conferenza stampa nella sala della Gran Guardia. Tante le attività che hanno visto impegnato il Garante e tanti gli obiettivi posti per il fututo. Al momento sono 236 i detenuti ospitati nella Casa di Reclusione "De Santis" di Porto Azzurro. In questi 18 mesi sono stati effettuati 311 colloqui, è stato sperimentato il Circolo dei detenuti e sono stati portati a termine molti progetti. Tra gli obiettivi raggiunti la riqualificazione di alcuni spazi come la sala colloqui, l’incremento delle attività educative anche grazie all’ausilio di alcune scuole elbane, la possibilità di telefonare via Skype, l’aumento delle ammissioni al lavoro esterno, le attività creative ed educative e tanti altri già descritte in alcuni nostri servizi. Molti però i punti su cui ancora lavorare secondo le stesso Marotti. L’idea è di creare una struttura che permetta la crescita dell’uomo che riesca a imparare a dare alla società. "Il nostro lavoro è accompagnare queste persone in un percorso che li aiuti a migliorare sè stessi, diminuendo fino ad evitare i casi di recidività, che purtroppo ad oggi in Italia arrivano al 70%". Con l’occasione Nunzio Marotti ha voluto ringraziare tutte le persone che lavorano all’interno della struttura e augurare a tutti Buone Feste. L’Elba e i reclusi, timidi passi in avanti (quinewselba.it) Il garante dei diritti dei detenuti, Nunzio Marotti, parla del suo primo anno e mezzo di lavoro: "Bene le iniziative in carcere, manca il territorio". "Il carcere elbano ha cambiato passo con l’arrivo di un direttore stabile ma c’è ancora molto da fare per quanto riguarda l’integrazione con il territorio". È questa la sintesi che Nunzio Marotti, garante dei diritti dei detenuti dal 5 agosto 2015, fa dei suoi 18 mesi di lavoro al fianco delle istituzioni e delle persone private della libertà personale con il difficile compito di affiancare gli uni e gli altri verso la realizzazione del dettato costituzionale che vuole il carcere come finalizzato al reinserimento sociale del detenuto. I numeri. Nella casa di reclusione De Sanctis di Porto Azzurro sono presenti 236 detenuti per una capienza regolamentare di 363 persone di cui il 48% sono stranieri. Tutti i detenuti sono di categoria comune e solo due sono sottoposti a regime di alta sicurezza. Il personale dipendente è composto da 208 persone di cui 188 agenti di Polizia penitenziaria e 20 civili di cui 3 assegnati all’area educativa. Dall’agosto 2015 all’agosto 2016 il garante si è recato 56 volte a Porto Azzurro per un totale di 200 ore di permanenza e 4 volte a Pianosa sostenendo 311 colloqui individuali. "C’è un obiettivo comune - commenta Marotti - fra amministrazione penitenziaria e Comune ed è quello di rilanciare il carcere di Porto Azzurro verso il ruolo di avanguardia che aveva negli anni scorsi. La svolta c’è stata con l’arrivo di un direttore stabile (Francesco D’Anselmo) e del nuovo comandante (Giuliana Perrini), con loro un nuovo passo". Risolto il problema del sovraffollamento, che pure aveva interessato l’Elba negli anni passati: "Parliamo adesso di un carcere aperto in cui le celle si aprono alle 9 e si chiudono alle 19 e nel quale stiamo sperimentando il Circolo dei Detenuti, uno spazio nel quale si cercano insieme soluzioni ai problemi che interessano tutti, personale e carcerati". "Abbiamo approvato il Patto per la Riforma, una serie di innovazioni che vogliono anticipare i contenuti della riforma carceraria ferma in Parlamento, abbiamo investito negli spazi con le opere di riqualificazione, nei tempi con le attività educative insieme alle scuole, nel lavoro concedendo ben 80 articoli 21 (possibilità di lavoro all’esterno) contribuendo con i lavori socialmente utili a Rio nell’Elba e Porto Azzurro e abbiamo sviluppato le attività del tempo libero come il teatro e la biblioteca". A fronte del lavoro fatto non mancano tuttavia le criticità, sia interne che esterne. "Il rischio di aumento di popolazione carceraria esiste - ammette Marotti - e può arrivare dai trasferimenti da altri istituti, c’è bisogno di manutenzione straordinaria (ma pare siano in arrivo 4 milioni di euro per rifare la 17° sezione), la chiesa seicentesca ha bisogno di restauri e ci sono continui ritardi da parte del Ministero nel versare i fondi ai detenuti". Il problema maggiore è però quello dei mediatori linguistici: "Non ne abbiamo ed è un problema con quasi la metà di detenuti stranieri: senza interpreti loro non capiscono i propri diritti e si creano situazioni di conflittualità che possono degenerare e che sarebbero risolvibili con un dialogo". Sul versante esterno manca l’appoggio del territorio: "Ci sono stati segnali da alcuni sindaci ma in generale pare che le amministrazioni abbiano sempre altre priorità rispetto ai progetti di inserimento lavorativo e sociale per i detenuti e questo è un errore. I detenuti sono i primi a chiedere di poter svolgere attività di volontariato che andrebbero a beneficio di tutti, non solo loro ma della comunità". "Ci tengo a concludere - chiude Marotti - rivolgendo gli auguri di buone feste natalizie a tutti quelli che vivono e operano all’interno del carcere". Alessandria: carcerati, ma per venti ore a settimana addetti di Amag Ambiente di Francesco Conti radiogold.it, 23 dicembre 2016 A gennaio i detenuti impiegati raddoppieranno, da 8 a 16, e c’è la volontà di arrivare a quota 40. La sinergia tra il Carcere di San Michele, Amag Ambiente e Comune di Alessandria ha dato vita a un progetto unico in Italia, vista la sua durata di almeno 12 mesi e per il numero di detenuti coinvolti. Da inizio novembre, infatti, otto ospiti della Casa di reclusione stanno svolgendo quattro ore di lavoro al giorno, dal lunedì al venerdì come dipendenti della azienda alessandrina di raccolta rifiuti. I detenuti, divisi in quattro squadre, sono affiancati da un tutor di Amag Ambiente, dalle 14 alle 18: portati nella sede di Amag Ambiente con un pulmino di Amag Mobilità, due di loro restano al lavoro nel cantiere della azienda mentre gli altri sei operano in strada, per spazzare, rimuovere le foglie cadute, raccogliere i rifiuti lasciati fuori dai cassonetti. A gennaio i carcerati impiegati raddoppieranno, da 8 a 16, e c’è la volontà di arrivare a toccare le 40 unità. "Molti alessandrini hanno espresso il loro apprezzamento quando li hanno visti al lavoro anche durante i giorni dell’emergenza maltempo" ha raccontato il presidente di Amag Ambiente Claudio Perissinotto "una volta saputo che erano carcerati stentavano a crederci". "Si tratta di un progetto eccezionale, tra i pochi se non l’unico in Italia" ha raccontato il professor Davide Petrini, garante dei detenuti "i carcerati lavorano in strada a contatto con la gente, sono inseriti nella società. È un aspetto fondamentale per scardinare il concetto di emarginazione che accompagna tutto ciò che riguarda gli istituti penitenziari. Questo progetto apre nuove prospettive: è complicato sbrigare tutte le pratiche burocratiche per l’assicurazione, il trasporto e tutte le autorizzazioni del caso ma non mi sarei mai immaginato che fosse così facile mettere insieme tutte queste istituzione come è avvenuto". "È un modo diverso per poter pagare il proprio debito con la società" ha detto il direttore del Carcere di San Michele Domenico Arena "non funziona l’idea che un uomo debba rimanere chiuso in attesa di un cambiamento. Servono percorsi di riabilitazione e socializzazione. Nella valutazione di una persona, il contesto in cui vive conta molto. In questo caso i detenuti coinvolti vengono stimolati a dare il meglio di loro. Il carcere diventa così una risorsa, in grado di fornire servizi a costo zero". Il criterio di selezione dei primi otto è stato molto rigido e coordinato dagli stessi responsabili della struttura di San Michele attraverso una serie di colloqui dove è stata valutata attentamente la loro motivazione. Sono stati organizzati anche diversi incontri tra i detenuti e i tutor di Amag Ambiente per favorire la conoscenza reciproca. "Proporremo lo stesso progetto anche per i detenuti del Carcere Cantiello e Gaeta" ha sottolineato Rossella Procopio, presidente della Commissione Politiche Sociali. Montesilvano (Pe): giustizia riparativa, tra qualche mese i detenuti al lavoro saranno due giornaledimontesilvano.com, 23 dicembre 2016 Reintegrare i detenuti attraverso il lavoro. Rinnovata la convenzione con il Carcere di Pescara. Danilo Palumbo: "Con il rinnovo della convenzione tra alcuni mesi saranno due i detenuti che lavoreranno sul nostro territorio e si occuperanno di manutenzione delle aree verdi comunali e di pulizia delle spiagge in concessione al nostro Comune". "Le esperienze condotte sino ad oggi, che hanno visto due detenuti al lavoro a Montesilvano Colle sono particolarmente positive in maniera bilaterale. Per il Comune che trova un supporto concreto nella cura e nella gestione dei beni comuni e per il detenuto che mette al servizio della collettività il suo impegno, riscattandosi di fronte alla società". Così il Consigliere comunale Danilo Palumbo, annuncia il rinnovo, sino al 31 dicembre 2017, della convenzione stipulata dal Comune di Montesilvano con la Casa circondariale di Pescara. La Giunta ha infatti deciso di confermare il protocollo sottoscritto dal sindaco Francesco Maragno e dal direttore del carcere di Pescara, Franco Pettinelli, che stabilisce la prosecuzione del progetto di "giustizia riparativa per l’inserimento lavorativo e il recupero del patrimonio ambientale locale", il cui obiettivo primario è quello di reintegrare i detenuti e offrire loro un’occasione per ripagare il danno arrecato alla collettività attraverso lavori di pubblica utilità. "Attualmente - spiega Palumbo, che ha seguito il progetto in qualità di consigliere comunale e agente di Polizia Penitenziaria - un detenuto è impegnato a Montesilvano Colle dove si sta occupando di attività di manutenzione delle strade, sfalcio dell’erba, sistemazione e pulizia dell’area esterna del circolo degli anziani, pulizia delle aiuole e del borgo. Grazie al suo lavoro, il borgo di Montesilvano è molto più curato, con grandi vantaggi per tutta la comunità". La convenzione stabilisce che il detenuto, individuato dall’equipe di educatori della casa circondariale, svolge le sue prestazioni dalle 9 alle 17 dal lunedì al sabato. Soddisfatto anche il detenuto coinvolto nel progetto, rimasto colpito dall’accoglienza positiva e dallo spirito di solidarietà dimostratogli dai residenti del borgo. Lo scorso anno ha preso parte al progetto di giustizia riparativa Nicola Di Rocco che vinse il Campionato Nazionale di pugilato categoria Pesi Mediomassimi, durante la 93° Edizione dei Campionati Italiani Assoluti Elite Maschili di Pugilato, dopo aver ripreso gli allenamenti presso la Pugilistica Di Giacomo, proprio durante lo svolgimento del progetto. Prato: detenuto incendia la cella, evacuata intera sezione Il Tirreno, 23 dicembre 2016 Un detenuto della Dogaia ieri, giovedì 22, ha incendiato la cella e si auto-lesiona procurandosi ferite da taglio, complicando le procedure di evacuazione. "Ancora una volta la polizia penitenziaria di Prato, in assenza di dispositivi di sicurezza e mettendo a repentaglio la propria salute, ha dovuto evacuare una intera sezione detentiva" si legge in una nota della Fp Cgil di Prato. "Se si aggiunge che il detenuto dopo aver appiccato l’incendio, si è procurato molteplici tagli è facilmente comprensibile la difficoltà operativa dei colleghi intervenuti" comunica il delegato della Fp Cgil del luogo di lavoro Giulio Riccio. Non bastasse, contemporaneamente è scattato un altro allarme in una diversa sezione per l’ennesima rissa. "Come più volte denunciato è evidente che si è perso il controllo del carcere, ma la Direzione continua ad essere sorda" sostiene il segretario della Fp Cgil di Prato Sandro Malucchi. "Ci preoccupa il silenzio assordante dell’amministrazione penitenziaria. Il lavoro della Polizia penitenziaria è di per sé un lavoro assai difficile, svolto in queste condizioni diviene impossibile. Esprimiamo vicinanza e solidarietà ai colleghi che in questo periodo svolgono servizio, in particolare a chi lavora nei reparti detentivi della media sicurezza, per le condizioni disastrose in cui sono chiamati quotidianamente a lavorare. Personale che nonostante le numerose difficoltà continua a garantire per come può la funzionalità della struttura. È evidente che se non ci saranno cambiamenti di rotta ci vedremo costretti a mettere in atto forme di protesta eclatanti. Non è più sostenibile lavorare in queste condizioni, non si può giocare sulla pelle delle persone". Bari: progetto "Talking bench", panchine d’arte con le frasi scelte dai detenuti di Anna Puricella La Repubblica, 23 dicembre 2016 Il lungomare di Bari ha preso colore. Grazie al lavoro di un gruppo di nove studenti dell’Accademia di belle arti e alla tenacia dei loro docenti: dopo oltre un mese di lavoro, sono state svelate le dieci "panchine parlanti" del progetto "Talking bench". Guardano il mare, da un lato, e sullo schienale riportano frasi tratte da romanzi ambientati in città. Le hanno selezionate i detenuti del carcere nell’ambito di un laboratorio letterario. E hanno fornito l’ispirazione ai giovani artisti, che le hanno tradotte in installazioni. "Talking bench" è un progetto ideato da Maria Paola Spinelli, messo in pratica con l’ausilio di Antonella Marino e Anna De Francesco, che ha coordinato il lavoro dei ragazzi. "È nato da una visione avuta una sera di due anni fa - dice Spinelli - mentre passeggiavo sul lungomare ho osservato queste panchine così vissute, e ho pensato che si sarebbe potuto animarle con delle voci". Un primo tentativo in tal senso era stato fatto poco tempo dopo, con la decorazione di una panchina in piazza Cesare Battisti. Poi una lunga pausa fino alla ripresa dei lavori, stavolta sul lungomare Nazario Sauro. L’iniziativa nel frattempo si è allargata e ha coinvolto, oltre al Comune, anche l’ufficio del Garante regionale per i diritti dei detenuti e l’associazione PopHub. Con loro ovviamente, in maniera indiretta, gli scrittori. "Dall’alto la città era uno spettacolo", si legge allora sulle assi dipinte di viola, ed è una citazione da "Orecchiette Christmas stori" di Raffaello Ferrante. A primeggiare, in quanto a frasi selezionate, c’è Antonella Lattanzi con l’ultimo "Prima che tu mi tradisca": le sue parole occupano il retro di tre panchine, seguite da "Riportando tutto a casa" di Nicola Lagioia, Giancarlo Carofiglio con "Né qui né altrove", e Alessio Viola. All’estro degli studenti il collegamento fra i romanzi, i sogni e le speranze di chi vive in cella e l’immagine di Bari: "Abbiamo aiutato i detenuti a tirar fuori la loro voglia di libertà", commenta De Francesco. Una delle panchine, poi, ha una dedica speciale: "Abbiamo incontrato una mamma e una bambina che avevano perso il loro uomo, era un capotreno". Perciò il cuore rosso realizzato da Davide Mangione è un omaggio alle vittime del disastro ferroviario accaduto fra Andria e Corato. Il progetto non è ultimato: l’idea è di continuare a decorare nuove panchine, "come succede nelle grandi città", continua Spinelli. Ci sono già dei finanziatori pronti: "Sia l’associazione Ambiente Puglia che Domenico Di Paola hanno manifestato il desiderio di finanziare il prosieguo del progetto su altre panchine nel lungomare - annuncia l’assessore alle Culture Silvio Maselli - Questa è la dimostrazione che la bellezza è un enzima che consente a ciò che ci circonda di migliorare, e alle città di crescere". Reggio Calabria: delegazione in visita al carcere di Palmi, donati volumi per i detenuti zmedia.it, 23 dicembre 2016 Accolta dal direttore Romolo Pani e dal comandante della polizia penitenziaria della struttura carceraria situata nel cuore della piana di Gioia Tauro è stata ricevuta una delegazione alla Casa circondariale di Palmi composta da rappresentati dell’Anci Giovani e del Forum Nazionale dei Giovani che rappresenta le più importanti realtà associative italiane. La delegazione composta dal consigliere Metropolitano Antonino Castorina, componente del gruppo carceri per l’Fng e da Serena Minniti, Stefania Porcino, Caterina Epifanio e Michela Calabrò ha avuto modo di vedere i due circuiti dell’istituto, quello di media sicurezza e quello di alta sicurezza che al netto delle problematiche rilevanti relative al sovraffollamento carcerario ha al suo interno personale qualificato e competente a supporto delle varie situazioni tanto sanitarie quanto rieducative o comunque di sicurezza necessarie all’interno del plesso. La struttura seppure gestita in modo ordinato e professionale a causa del progressivo aumento della popolazione carceraria riscontra una carenza di organico di Polizia Penitenziaria ma mantiene un buon livello per quanto riguarda il servizio sanitario interno alla struttura. Un valore aggiunto al migliore funzionamento dell’intero plesso potrebbe derivare dall’attivazione di un numero maggiore di laboratori e corsi di formazione che sono tra l’altro già in programma come del resto l’attivazione di un campo polivalente di basket e pallavolo già progettato e che sarà in supporto del campo di calcio che ad oggi è già funzionante ed operativo. È nostra intenzione afferma Antonino Castorina, consigliere Metropolitano di Reggio Calabria attivare anche dentro l’area Metropolitana la figura del garante dei diritti dei detenuti e potenziare le possibilità all’interno delle varie strutture carcerarie di creare momenti di formazione e confronto necessari per garantire il dettame costituzionale di rieducare e reinserire un domani il detenuto. La nostra attività, prosegue il consigliere Metropolitano Castorina, ci porta a vedere da vicino la situazione che si vive all’interno delle nostre carceri e pensare insieme soluzioni in supporto di un mondo che deve provare con l’aiuto di tutti a dare risposte sul tema della certezza delle pene ma anche e soprattutto sulla capacità riabilitativa del soggetto detenuto nel sistema sociale che dovrà accoglierlo a fine pena, questo prosegue Castorina né costituisce uno strumento efficace di riduzione della criminalità nel medio e nel lungo periodo oltre ad essere il rispetto di quello che ci dice la nostra Costituzione. Augusta (Sr): uno spazio colorato nell’area colloqui, il carcere inaugura la ludoteca siracusanews.it, 23 dicembre 2016 Un’iniziativa portata avanti nell’ambito del progetto internazionale Diritti dei minori. Per i più piccoli a disposizione giochi, pupazzi e libri. Inaugurata ieri, nel periodo della vigilia di Natale, la nuova sala giochi per bambini del carcere di Augusta, grazie all’associazione Soroptimist club Val di Noto, nell’ambito del progetto internazionale Diritti dei minori. Si tratta di uno spazio ancora più colorato nel reparto colloqui dove già le porte azzurre, gialle, rosse, rosa ed i murales che adornano tutte le sale rendono accoglienti i locali ed attenuano il senso di disagio che può caratterizzare i colloqui fra persone detenute e familiari. Dopo giorni e giorni di preparativi ieri mattina il taglio del nastro ad opera di Marinella Fiume, presidente del club, di Maria Alecci segretaria e del Capo di Gabinetto della Prefettura Minutoli. A fare gli onori di casa il direttore della casa di reclusione dottor Gelardi, il direttore aggiunto Rinaldi, che si è spesa particolarmente nell’allestimento della sala e nella preparazione della cerimonia, il Comandante di reparto Abate, il responsabile del Reparto colloqui sovrintendente Pedone, il capo area tratta mentale dottoressa Spuches, educatori, volontari e insegnanti. La sala, arredata con un grande tappeto, casette per giochi, tavolini, pupazzi, libri per bambini sarà quindi uno spazio a disposizione dei più piccoli che si aggiunge all’area verde esterna. Questa iniziativa, realizzata nella casa di reclusione si aggiunge a molte altre che l’amministrazione penitenziaria sta portando avanti nell’ambito del progetto "Bambini senza sbarre" per rispondere al grido "Non un mio crimine ma una mia condanna" lanciato dalle decine di migliaia di bambini che ogni anno varcano le porte delle carceri italiane. Prima della cerimonia gli ospiti, insieme ad altre autorità avevano assistito alla replica degli spettacoli natalizi allestiti insieme ai detenuti da Michela Italia e Maria Grazia Morello e la Swing Brucoli Band. Pesaro: Natale in carcere, "Bracciaperte Onlus" porta libri e panettoni ai detenuti ilfoglia.it, 23 dicembre 2016 Se il carcere è un luogo di recupero e abilitazione, il calore e l’attenzione del mondo esterno giocano un ruolo fondamentale. Specialmente a Natale. Ecco perché, come consuetudine, anche per questo Natale l’Associazione Bracciaperte o.n.l.u.s, sarà presente all’interno del carcere di Pesaro dove venerdì 23 dicembre consegnerà diversi panettoni, dolciumi e libri raccolti e acquistati da volontari che verranno condivisi con i detenuti ed in particolare verranno distribuiti nella zona colloqui, dove le famiglie e soprattutto minori, avranno modo di incontrare i genitori reclusi. Nell’occasione di scambiarsi gli auguri con i detenuti e con il personale del carcere, verranno esposti i progetti futuri che interesseranno l’Istituto di Villa Fastiggi, dove da anni si è creata una collaborazione sinergica. La vicinanza di "Bracciaperte" alla casa circondariale si rinnova ogni anno nonostante le carenze di fondi per realizzare nuovi progetti formativi, e per questo, l’associazione ha rivolto un ringraziamento particolare a tutti i volontari che hanno partecipato all’acquisto e donazione dei beni e che costantemente si adoperano consentendo aiuto e conforto a chi vive in regime di privazione della libertà. Durante lo scorso anno l’associazione ha ideato progetti e corsi di formazione all’interno degli istituti di Pesaro, Ancona Montacuto, Ancona Barcaglione e Ascoli Piceno mentre il Presidente Mario Di Palma ha voluto rivolgere un ringraziamento a tutto il personale di Polizia Penitenziaria, all’area trattamentale e alla Direzione, senza loro supporto, lo svolgimento di attività educative non sarebbe possibile A Buon Diritto (Luigi Manconi): un Portale Web sullo stato dei diritti In Italia Ristretti Orizzonti, 23 dicembre 2016 Da oggi è on line il sito rapportodiritti.it che nasce dal progetto di monitoraggio continuativo sullo stato dei diritti in Italia avviato nell’ottobre del 2014 con la pubblicazione a cura di Ediesse de "L’articolo 3 Rapporto sullo stato dei diritti in Italia" e proseguito successivamente nel 2015 con la realizzazione di un primo aggiornamento annuale. Il sito è uno strumento di informazione e promozione della cultura dei diritti, che costituisce uno dei principali impegni propri dell’attività dell’Associazione A Buon Diritto. L’idea alla base della realizzazione e aggiornamento di un portale web, specifico sulla tematica dei diritti, è quella di dotarsi di uno strumento di documentazione costante che risponda, anche, ad esigenze specifiche riguardanti l’attualità e l’azione di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e di pressione a livello istituzionale. Il sito è frutto del lavoro continuo di un collettivo di 19 ricercatrici e ricercatori e da una redazione di appartenenti ad A Buon Diritto che aggiornerà costantemente il sito attraverso segnalazioni, news, interventi e approfondimenti relativi a specifici campi di interesse, a differenti categorie di diritti e alle iniziative politico-normative in materia. Il rapporto completo sarà aggiornato a cadenza semestrale con la pubblicazione on-line dei 16 saggi tematici che riassumeranno e approfondiranno gli elementi più significativi registratesi nel semestre precedente, facendo, quindi, il punto della situazione, delle criticità emergenti e delle iniziative politiche necessarie per il loro superamento. Il Portale Web è organizzato nelle seguenti aree tematiche: Persone con disabilità; omosessualità e diritti; pluralismo religioso; rom, sinti e caminanti; immigrazione; profughi e richiedenti asilo; habeas corpus e garanzie; carceri e condizioni detentive; libertà di espressione e informazione; tutela della privacy; tutela dei minori; istruzione e mobilità sociale; libertà femminile e autodeterminazione; diritto alla salute e libertà terapeutica; diritto al lavoro e diritto al reddito; ambiente e diritti delle generazioni future. Il Ministro Orlando: "Contro la propaganda dell’odio alleati con la società civile" giustizia.it, 23 dicembre 2016 "Costruiamo un’alleanza contro la propaganda d’odio veicolata sulla rete". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha introdotto così la prima riunione che si è tenuta ieri a via Arenula con i rappresentanti di Unar, dell’Unicri, dell’Unhcr, di Amnesty International, della Comunità Ebraica, della Comunità di Sant’Egidio, del Cospe - Cooperazione per lo sviluppo dei Paesi emergenti, e delle associazioni Arci, Carta di Roma, Studi giuridici sull’immigrazione, Unione forense per la tutela dei diritti umani, Apice, Aicem, Arcigay, Per esempio onlus, Consiglio italiano per i rifugiati, Rete Lenford, Anddos. Il guardasigilli ha chiesto ai rappresentanti della società civile un’alleanza, nella consapevolezza che le istituzioni non possono contrapporre una verità di Stato alla falsa narrazione che è il presupposto della propaganda d’odio. Deve essere invece la società civile a proporre una contro-narrazione che si basi sulla verità e che bandisca pregiudizi razziali, religiosi, di genere e orientamento sessuale. "Lo Stato - ha ribadito il Ministro - può invece favorire la capacità di reazione della società civile mettendo a sua disposizione strumenti specifici". Sull’argomento anche la Commissione europea ha assunto misure condivise dagli Stati membri ed in collaborazione con tre delle più famose piattaforme di social network - Facebook, Twitter e YouTube - ha adottato il 31 maggio 2016 un "Codice di condotta sul contrasto all’illecito incitamento all’odio online", con il quale le società informatiche si sono impegnate ad esaminare, in meno di 24 ore, qualunque segnalazione relativa a forme illegali di incitamento all’odio, e rimuovendole laddove necessario e a studiare assieme all’organismo europeo forme di narrazioni alternative e di contrasto. Allo scopo è stato costituito un Gruppo di alto livello per la lotta al razzismo, alla xenofobia e a tutte le forme di intolleranza. Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, in collaborazione con Facebook, ha poi presentato il 3 novembre le linee guida "Pensa prima di condividere" per l’utilizzo consapevole dei social media e per la sicurezza online, promuovendo una serie di iniziative che hanno portato da un lato a riflettere con le principali piattaforme social sulle possibili modalità di collaborazione su un piano volontaristico, dall’altro alla elaborazione in corso d’opera di un progetto per la realizzazione di un rapporto sinergico tra il ministero stesso e l’Unar, al fine di realizzare un piano pluriennale di attività comuni volte a sensibilizzare, informare, formare e promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione sociale, nonché la prevenzione e il contrasto di ogni tipo di violenza. È stato infine avviato un monitoraggio sui provvedimenti giudiziari relativi ai reati d’odio ed è in corso di elaborazione un disegno di legge che preveda ulteriori meccanismi inibitori e di rimozione dei contenuti lesivi dalle piattaforme internet. La stretta europea sulle armi? Un accordo al ribasso di Mario Porqueddu Corriere della Sera, 23 dicembre 2016 Poco più di un anno fa, il 18 novembre 2015, le autorità di un’Europa sconvolta dalle stragi di Parigi proposero di inasprire i controlli sulla vendita legale di armi, renderle più tracciabili per non alimentare un già florido mercato nero, e aumentare la cooperazione tra Stati. Martedì scorso, il giorno dopo il massacro di Berlino, la fase preliminare della trattativa si è conclusa. Un po’ al ribasso. Europarlamento e Consiglio d’Europa hanno trovato un’intesa su vari punti - dal commercio online fino alle regole su una definizione delicata come quella di armamenti un tempo funzionanti e poi "disattivati" - ma non sulla messa al bando di armi semiautomatiche e letali come AK47 (il Kalashnikov) e AR15 (fucili d’assalto Usa), né sul divieto per caricatori con capacità superiore a 10 colpi. "Abbiamo lottato per un accordo ambizioso che riducesse i rischi di sparatorie in scuole e campi estivi, o attacchi terroristici con armi legalmente detenute - ha detto il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker. Ci sarebbe piaciuto andare oltre, ma confido che il testo rappresenti una pietra miliare per l’Ue". Andare oltre non è stato possibile per resistenze in seno all’Unione, dove in materia di armi mutano da Paese a Paese non solo le norme su acquisto e detenzione ma anche le sensibilità. La Finlandia, per esempio, si è detta contraria alla proposta iniziale di Bruxelles perché divieti troppo severi avrebbero nuociuto all’allenamento dei suoi tanti riservisti. Praga si è battuta perché cacciatori, frequentatori dei poligoni di tiro, collezionisti e musei potessero continuare ad approvvigionarsi di armamenti vari (in realtà musei e collezionisti dovrebbero essere soggetti alle nuove indicazioni). "I terroristi usano armi di contrabbando" è stato un refrain ascoltato negli scorsi mesi. Ed è vero. Altri invece hanno evocato qualcosa che nel nostro immaginario fa rima con Stati Uniti e ha il volto di Charlton Heston: la "lobby delle armi". Le guerre che non fanno notizia continuano a mietere vittime di Fausto Biloslavo Il Giornale, 23 dicembre 2016 Dalla guerra che non fa notizia nello Yemen alla carneficina nel Sud Sudan fino all’Afghanistan, la Somalia e il Donbass, nel cuore dell’Europa, non sono pochi i conflitti che abbiamo volutamente dimenticato. Un silenzio tombale dettato da motivazioni politiche, sdegno a senso unico in nome di un falso buonismo o semplice disinteresse. Lo Yemen non fa notizia - La pietà dell’Occidente, che si riflette su giornali e tv, talvolta è spudoratamente a senso unico. La tragedia di Aleppo riaffiora sempre in prima pagina, ma la feroce guerra dei sauditi nello Yemen non fa notizia. Dal marzo dello scorso anno, con l’inizio della campagna saudita contro i ribelli Houti spalleggiati dall’Iran, sono morti 12mila yemeniti. Gli sfollati sono più di tre milioni e metà della popolazione sopravvive grazie agli aiuti umanitari. La guerra censurata nello Yemen è un fronte dello scontro più ampio fra gli sciiti filo iraniani e i sunniti sponsorizzati dalla monarchia di Riad. Solo le Ong, come Medici senza frontiere, denunciano i crimini di ambo le parti nel disinteresse generale. Lo Yemen non vale i fiumi di lacrime da coccodrillo versate per la Siria nonostante vengano colpiti in egual maniera ospedali e funerali; dei 500 feriti curati solo in un mese a Taiz il 23% erano donne e bambini. Anche se la guerra è volutamente dimenticata, l’importanza strategica dello Yemen non sfugge ad Al Qaida e allo Stato islamico, che si contendono il primato di attacchi kamikaze. Somalia, caos dimenticato - Il 29 dicembre, la Somalia dovrebbe avere un presidente, dopo tre rinvii e decadi di guerra civile e anarchia. A patto che gli Al Shabab, i talebani del Corno d’Africa, non lo facciano saltare subito per aria. Nelle ultime settimane i loro "martiri" hanno colpito ripetutamente, nel cuore di Mogadiscio, al volante di macchine minate. L’attacco suicida più sanguinoso è avvenuto all’ingresso del porto con un furgone bomba che ha ammazzato 29 civili e ferito cinquanta persone. Nessuno ne ha parlato nonostante le vittime siano quasi tre volte superiori alla strage del mercatino di Natale a Berlino. Nell’aeroporto della capitale somala hanno la loro base 110 paracadutisti italiani al comando del generale Maurizio Morena. L’Italia guida la missione di addestramento europea dello scassato esercito somalo, ma anche l’impegno nazionale interessa poco. Pure la guerra dei trecento uomini dei corpi speciali americani con l’appoggio di droni e caccia bombardieri viene combattuta in silenzio. Gli specialisti del Navy Seal team 6 affiancano le truppe dell’Unione africana e quelle somale nella caccia ai terroristi. Quest’anno le operazioni Usa sono aumentate a 5-6 raid al mese. La minaccia è diventata duplice: da una parte il grosso degli Al Shabab legati ad Al Qaida a dall’altra una fetta impazzita che ha giurato fedeltà al Califfato. I 21mila soldati dell’Unione africana avrebbero bisogno del doppio degli uomini per spazzare via definitivamente i militanti islamici annidati soprattutto sulle coste. Nel nord, le forze della regione semi autonoma del Puntland hanno scalzato le bandiere nere dalla città portuale di Qandala. Però il loro capo, Abdiqadir Mumin, non si arrende e sogna che la Somalia diventi una provincia del Califfato. Silenzio sui crimini in Birmania - Vi ricordate l’eroina birmana, Aung San Suu Kyi? Il premio Nobel per la pace, simbolo della resistenza democratica al regime dei generali ha finalmente preso il potere nel Myanmar. E cinque mesi dopo le associazioni dei diritti umani, che l’hanno sempre difesa a spada tratta, l’accusano di chiudere un occhio sulla "pulizia etnica" in corso nell’ovest del paese ai danni dei Rohingya, una semi sconosciuta minoranza musulmana. Human Rights Watch ha presentato come prove delle immagini satellitari, che dimostrano come i militari abbiano raso al suolo i villaggi degli islamici. Orribili testimonianze parlano di stupri di gruppo della soldataglia birmana, torture ed esecuzioni sommarie. Il governo di Aung San Suu Kyi prima ha taciuto e poi ha smentito con stizza, ma la zona è off limits per giornalisti e osservatori dei diritti umani. Dal 9 ottobre al 2 dicembre 21mila musulmani sono fuggiti davanti "al genocidio", come ha denunciato Najib Razak, primo ministro malese. I Rohingya sono appena 800mila e non hanno diritto alla cittadinanza su una popolazione di 50 milioni di birmani con minoranze di vario genere, anche cristiane. Dal 2012 almeno centomila persone sono state cacciate dalle loro case e costrette a vivere in squallidi campi presidiati dalla polizia. Se fosse capitato in Siria per mano di Assad, i giornali di tutto il mondo avrebbero denunciato l’ennesimo orrore in prima pagina, ma dei crimini della lontana Birmania, con il nuovo corso dell’eroina dei diritti umani, non si parla. Sud Sudan, l’orrore sconosciuto - L’ultimo paese diventato indipendente, appena cinque anni fa, è sprofondato in una paurosa guerra civile. Il Sud Sudan è dilaniato dallo scontro politico ed etnico fra il presidente, Salva Kiir e il suo ex vice, Riek Machar. I due leader rappresentano le diverse anime del Movimento per la liberazione del popolo sudanese, che ha portato alla nascita del nuovo stato dopo decenni di lotte contro gli arabi del nord. Ribelli e governativi si sono macchiati di atrocità nei confronti dei civili. In novembre è stato denunciato l’ultimo massacro. Un convoglio di auto di civili in fuga dalla città di Yei, nel sud del paese, è stato attaccato dai ribelli. Non solo hanno aperto il fuoco senza pietà, ma dato alle fiamme un camion bruciando vivi gli sfollati. Dall’altra parte della barricata le forze governative vengono accusate di stupri, arresti arbitrari e sparizioni. Una pagina di orrore silenziata dai grandi media. In ottobre 3.500 persone al giorno scappavano dalle loro case per evitare di venire massacrate. Dall’inizio del conflitto, tre anni fa, sono stati reclutati a forza 17mila bambini soldato, da tutti e due i contendenti, ma l’Africa rosso sangue non fa notizia. Il generale keniota Johnson Mogoa Kimani Ondieki, che comandava un esiguo contingente dell’Onu, è stato silurato per non avere protetto i civili durante i combattimenti esplosi questa estate a Giuba, la capitale. Il 15 dicembre sono arrivati 250 militari giapponesi. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale i soldati del Sole levante vengono impiegati all’estero con l’ordine di usare le armi per difendere i civili. Purtroppo, però, Adama Dieng, consigliere speciale delle Nazioni Unite, ammette che "l’Onu non dispone dei mezzi adeguati per fermare le atrocità di massa". Guerra dimenticata in Afghanistan - Dopo quindici anni di intervento alleato, mezzo trilione di dollari spesi e 150mila morti, ci siamo dimenticati dell’Afghanistan, dove la guerra continua e i talebani avanzano. Cinque capoluoghi di provincia sono minacciati dagli insorti del defunto mullah Omar. Uno è Farah, nell’ovest dell’Afghanistan, dove i soldati italiani hanno sputato sangue e sudore per garantire la sicurezza. Adesso sono rimasti solo 900 nella grande base di Herat, ma con compiti soprattutto di addestramento e monitoraggio delle forze armate afghane. I talebani quest’anno sono entrati due volte nel capoluogo Kunduz, nel nord del paese e hanno ripiegato solo grazie ai massicci raid dei caccia americani. Le truppe Usa, che la Casa Bianca voleva ritirare del tutto, sono oramai ridotte a diecimila uomini. Non è una sorpresa che i talebani abbiano il totale controllo di 33 distretti su 400 e circondano le forze governative in altri 116. E ancora più grave è la crescita della bandiere nere, soprattutto nell’Est del paese. Il Califfato afghano conta su 2-3mila uomini in armi, ma il conflitto al crocevia dell’Asia è uscito dai riflettori dei media. Il buco nero del Donbass - La guerra nel cuore dell’Europa, nell’est dell’Ucraina filo russo, continua, ma non ce ne accorgiamo perché il Donbass è stato relegato in un buco nero. Sia i russi sia gli occidentali hanno preferito congelare l’attenzione su questo fazzoletto di terra controllato dai separatisti e circondato dall’esercito ucraino. In teoria dovrebbe essere in vigore una tregua, ma in realtà si spara e si tirano cannonate ogni giorno. E il processo di soluzione politica previsto dai secondi accordi di Minsk è nato morto. Il Donbass è tormentato da un conflitto a bassa intensità, che fino a oggi è costato, secondo le Nazioni Unite, trentamila morti e feriti. L’ennesima guerra dimenticata. Stati Uniti: mai così poche condanne a morte ed esecuzioni capitali da quarant’anni di Sara Volandri Il Dubbio, 23 dicembre 2016 Nel 2016 "solo" 30 casi, il numero più basso dal 1972. Crollano anche esecuzioni capitali, negli ultimi 12 mesi sono state venti, altro record "negativo" nell’ultimo quarto di secolo. I più smaliziati mettono già in guardia: ora che sta arrivando Donald Trump il boia tornerà a fare gli straordinari, tutto verosimile, ma intanto nell’eredità di Barack Obama entra anche questo dato: gli Stati Uniti hanno registrato nel 2016 il record, negativo nei numeri ma positivo nei contenuti, di condanne a morte. Nell’anno che si sta per chiudere infatti 30 persone sono state condannate alla sentenza capitale, il numero più basso da quando, nel 1972, la Corte Suprema ha permesso agli stati di reintrodurre la pena di morte. Si è avuto il 39% in meno di condanne a morte rispetto al 2015, anno in cui comunque si era registrato un altro record negativo. Per quanto riguarda le esecuzioni, nel 2016 sono state 20, il numero più basso dal 1991. E sono avvenute solo in cinque stati: Florida, Texas, Alabama, Georgia e Missouri. Sono diversi gli elementi che stanno portando alla progressiva diminuzione dell’utilizzo negli Stati Uniti della pena di morte che è vigore in 32 stati ed invece abolita in altri 18. Ma in generale i gruppi che si battono per la sua totale abolizione registrano come "l’America sia nel mezzo di un drastico cambiamento di clima riguardo alla pena capitale", come afferma Robert Dunham, direttore Death Penalty Information Center. Un cambiamento che però potrebbe entrare in rotta di collisione con la politica del nuovo presidente Donald Trump che ha promesso di usare più spesso la pena capitale, in particolare con chi uccide poliziotti. Durante la campagna elettorale, Trump ha infatti affermato che una delle sue prime azioni da presidente sarà quella di firmare "un ordine esecutivo" con cui ordinare la pena capitale per i processi a responsabili di omicidi di agenti di polizia. È poco chiaro come un ordine esecutivo del presidente possa influenzare i processi e le condanne statali. Dal 2001 ad oggi si sono avute solo tre esecuzioni federali, l’ultima nel 2003. Un sondaggio dello scorso settembre del Pew Reserach Center ha registrato che il 49% degli americani è favorevole alla pena di morte, quasi la metà dell’ 80% che la sosteneva nel 1994. Germania. "Amri pericoloso e radicalizzato", l’Italia lo aveva segnalato alla polizia europea di Francesco Viviano La Repubblica, 23 dicembre 2016 Il tunisino ricercato per la strage di Berlino in prigione in Sicilia minacciò un detenuto cristiano: "Ti taglio la testa". Si distinse anche per "comportamenti violenti" che il Dap denunciò all’antiterrorismo. E appena sbarcato a Lampedusa, nel 2011, appiccò un incendio insieme ad altri a una struttura dell’isola. "Radicalizzato", "soggetto pericoloso", "leader tra gli islamici all’interno del carcere", "trasferito per gravi e comprovati motivi di sicurezza". Un "curriculum" criminale di tutto rispetto eppure, quando è uscito dalle carceri siciliane nel 2015 dopo avere scontato quattro anni di detenzione, è andato via dall’Italia indisturbato come se fosse un normale turista in vacanza raggiungendo la Germania, Berlino e spostandosi poi chissà dove. Un anno dopo si scopre che anche ln Italia Amri Anis era un soggetto da tenere d’occhio, da non lasciare certamente scomparire nell’esercito dei migranti fantasma. Tutti sapevano: dal Dap (Direzione dell’amministrazione penitenziaria) all’Antiterrorismo italiano, ai nostri servizi segreti che Amri Anis, era estremamente pericoloso, tanto da essere stato segnalato al Sis (Sistema Informazioni Schengen), ma nessuno lo ha poi controllato e monitorato, come forse doveva essere fatto. Ma quando le autorità italiane si allertano o vengono allertate sulla reale pericolosità di Amri Anis? Tardi, troppo tardi, quando il tunisino è ormai uccel di bosco e lontano dall’Italia. Quel che è certo che il nostro antiterrorismo comincia a scavare quando riceve una richiesta di informazioni sulla personalità di Amri nell’estate scorsa. Lo testimonia una nota datata 21 giugno 2016 che la questura di Catania, rispondendo ad una richiesta arrivata dal Viminale ricostruisce i quattro anni trascorsi nelle carceri siciliane di Amir. Appena sbarcato a Lampedusa, nel 2011, Amri appiccò un incendio e causò danni insieme ad altri giovani profughi a una struttura dell’isola, la Casa Fraternità della parrocchia. Lo ritrae una foto Ansa scattata a Lampedusa il 3 aprile in cui si riconosce Anis Amri, il giovane seduto a terra e controllato dalle forze di polizia. Amri allora era stato accolto tra i minorenni, ma ci sono dubbi sulla vera età. Intervenne la polizia in tenuta antisommossa. La rivolta era esplosa perché, nonostante la promessa che in giornata sarebbero partiti per raggiungere il continente, dovevano ancora restare nell’isola. La questura definisce il tunisino "leader dei giovani islamici" sia nella comunità di Balpasso (Catania) dov’era stato ospitato subito dopo il suo arrivo a Lampedusa che nelle carceri di Catania, Enna e Palermo e "rispettoso dei precetti religiosi islamici", ma non radicalizzato, come invece scrive il Dap in un’altra nota che viene inviata all’antiterrorismo italiano e da questo, insieme a tutti gli altri dati sul tunisino alla banca dati della polizia europea. E, nonostante tutta questa mole di informazioni, sulla pericolosità del tunisino, Amri Anis, continua a girare indisturbato a Berlino dove poi attua la strage. La pericolosità e personalità di Amri era stata segnalata dal Dap al Comitato Analisi strategica dell’antiterrorismo, si segnalavano "episodi in cui manifestava forme di radicalizzazione e di adesione ideale al terrorismo di matrice islamica riportando anche alcuni episodi di violenza e tra questi quello con un altro detenuto cristiano minacciandolo: "Ti taglio la testa". Germania. Migranti e terrorismo, scambio di accuse tra Cdu e socialdemocratici di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 23 dicembre 2016 Tra la nera previsione del piccolo führer di Pegida e l’orgoglio della cancelliera Merkel per l’impegno della polizia e "la reazione prudente dei berlinesi". Si consuma così la reazione politica tre giorni dopo la strage di Berlino costata 12 morti (più l’autista polacco) e 56 feriti. Baruffe tra alleati della Grande coalizione, "bastonate" tra i due maggiori partiti riprese dopo la fine del fronte comune contro il leader Csu Horst Seehofer, che martedì aveva accusato il capo di governo di colposità nel massacro. Le bordate, questa volta, partono dal responsabile interni Cdu Wolfgang Bosbach: accusa i socialdemocratici di aver bloccato l’introduzione delle famigerate "zone di transito" per migranti, profughi e richiedenti asilo. "Nessun uomo dovrebbe circolare in Germania senza un’identità e una nazionalità certa" spiega Bosbach. Perfettamente allineato al progetto su cui spinge, da mesi, il ministro degli esteri della Baviera Joachim Herrmann (Csu) più che convinto che "i rifugiati dovrebbero essere detenuti finché la loro origine e l’identità non siano stati completamente chiariti". A rispondere, sulla tv pubblica, è il numero due Spd Ralf Stegner, pronto a ricordare come "credere che si possano ottenere risultati diversi con un po’ di durezza in più è una grande sciocchezza". Mentre alle critiche per i "bug" nell’intelligence tedesca - da mesi sulle tracce del sospetto attentatore ma non in grado di fermarlo - replica impassibile: "Impossibile monitorare per 24 ore al giorno i 500 soggetti pericolosi attualmente schedati dagli Uffici criminali del Paese". È la dichiarazione ufficiale della fisiologica impotenza, più che del governo, dell’intero sistema di sicurezza nazionale. Che fa acqua da tutte le parti: a partire dall’incredibile fuga di informazioni sensibili (smentita dalla polizia di Berlino) che ha permesso a Lutz Bachmann, leader del movimento islamofobo Pegida, di conoscere con esattezza la nazionalità del ricercato tunisino dopo appena due ore di distanza dall’attacco al mercatino di natale. "Non è necessario avere la sfera di cristallo. Bastano buoni informatori dentro la polizia, stufi delle bugie ufficiali" riporta il suo post su Facebook indirizzato alla stampa. Di ufficiale, per ora, ci sono solo le parole di Merkel dopo il pomeriggio trascorso nella centrale operativa dell’Ufficio criminale federale (Bka) nel quartiere berlinese di Treptow. "Il mio pensiero anche oggi è per le vittime e i feriti. Voglio che si sappia però che sono orgogliosa di come i tedeschi hanno risposto all’attacco, e fiera dei dipendenti del Bka che hanno svolto il loro dovere con grande vigore e professionalità" spiega Merkel. Prima di ricordare: "In milioni di persone c’è la speranza che si possa arrestare il colpevole il più presto possibile. In queste ore stiamo restringendo il cerchio intorno al terrorista islamista". Parole forse dovute, certamente necessarie almeno quanto la "spiegazione" politica della sua declinazione della lotta allo Stato islamico. "Negli ultimi anni in Germania abbiamo fatto sforzi notevoli per combattere il terrorismo. Da tempo ci ha messo nel mirino. Ciò che è accaduto lunedì, però, è un caso nuovo e completamente diverso dai precedenti" precisa Merkel, al pari della democrazia e dello stato di diritto "sempre dalla nostra parte". Un’ora dopo il sindaco di Berlino Michael Müller, nel consueto messaggio pre-natalizio, ha espresso il cordoglio della Città-Stato per i morti e i feriti insieme alla necessità di elaborare il lutto. "Le famiglie delle persone coinvolte nell’attentato devono sapere che non sono sole. A tutti gli altri dico chiaramente che a Berlino non lasceremo alcuno spazio a chi intende diffondere o cavalcare l’odio". Egitto. Nessuna diplomazia sulla verità delle "mele marce" di Riccardo Noury* Il Manifesto, 23 dicembre 2016 "Verità per Giulio Regeni". Il 25 gennaio lo grideremo ancora a Roma. Era successo già a settembre. Voci insistenti, riprese dalla stampa da ambienti della Farnesina, sull’imminente ritorno del (nuovo) ambasciatore italiano al Cairo. Ed era stato semplice evidenziare come non vi fosse alcuna novità sul piano delle indagini, che potesse giustificare una tale decisione. Cosa sarebbe cambiato da allora che oggi potrebbe renderla più comprensibile? Dal punto di vista delle indagini, ciò che emerge dagli ultimi incontri tra le procure di Roma e del Cairo è che, secondo la magistratura egiziana, Abdallah, l’ex presidente del sindacato degli ambulanti della capitale egiziana avrebbe giocato il ruolo di "deux ex machina", attivando tra denunce e ricatti verso Giulio Regeni l’attenzione dei Servizi locali. Ricatti e attenzioni sarebbero arrivati quasi a ridosso del 25 gennaio, il giorno della sua scomparsa, quando potrebbero essere entrati in scena agenti di polizia che avrebbero agito in modo indipendente e autonomo fino ad arrivare al 3 febbraio, quando venne ritrovato il corpo di Giulio, irriconoscibile a causa delle torture subite. Questa è peraltro un’ipotesi e non una conclusione d’indagine. Se a ciò si arrivasse, saremmo dalle parti di quella "verità di comodo" che più volte le istituzioni italiane hanno dichiarato di rifiutare. Ma non siamo neanche a quel punto. Come ha precisato ieri pomeriggio la procura di Roma, "non è stata avuta notizia di alcuna imminente svolta". E dunque, come già detto a settembre, oggi dobbiamo ribadire che rimandare l’ambasciatore italiano al Cairo sarebbe un atto decisamente prematuro per il quale mancano i presupposti. Anzi, in questa fase - a indagini ancora in corso, compreso l’esame della documentazione fornita dalla procura egiziana il 6 e 7 dicembre - una decisione di questo genere (in realtà, anche il mero fatto di averla ventilata pubblicamente) rischierebbe di trasmettere al Cairo un messaggio sbagliato, facilmente interpretabile dalle autorità egiziane come una sorta di "pre-chiusura" dell’intera vicenda, come un premio, un riconoscimento, un attestato di buona condotta che esse al momento non hanno affatto mostrato di meritare. Rimandare oggi o domani o dopodomani, in assenza di "alcuna imminente svolta", l’ambasciatore al Cairo potrebbe avere l’effetto di rallentare, piuttosto che di accelerare la ricerca della verità completa e non "di comodo" sull’arresto, la sparizione, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Il punto è che non la magistratura ma il governo italiano quel riconoscimento pare abbia voglia e fretta di darlo. Di chiudere in qualche modo, magari con una verità meno inverosimile di quella del "piatto d’argento" di Pasqua - costata la vita a cinque innocenti - ma chiudere questo periodo di relazioni complicate e tese con l’Egitto. Riprendere una collaborazione piena, tornando a chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti umani in quel paese. Chiudere quel periodo senza una verità completa, ignorando che questa e solo questa potrebbe, tra l’altro, contribuire a incrinare il muro dell’impunità, ad aiutare la ricerca della verità in favore di centinaia e centinaia di vittime della tortura in Egitto. Come Aser Mohamed, 14 anni, arrestato il 12 gennaio e desaparecido per 34 giorni, durante i quali è stato seviziato con l’elettricità, bastonato, appeso al soffitto per costringerlo a confessare di aver preso parte, qualche giorno prima dell’arresto, all’attentato all’hotel Tre Piramidi del Cairo. Il 27 dicembre c’è la nuova udienza del processo in cui è imputato di reati di terrorismo. È quella verità, non quella delle "mele marce", che dobbiamo continuare a pretendere. Per questo, sul sito di Amnesty International Italia prosegue la raccolta di firme. E per questo il 25 gennaio, primo anniversario della scomparsa di Giulio, promuoveremo una manifestazione nazionale a Roma. L’appuntamento è già fissato: alle 12.30 all’università La Sapienza. *Portavoce Amnesty International Italia Libano. Per i rifugiati siriani non è la Valle dell’Eden di Michele Giorgio Il Manifesto, 23 dicembre 2016 Viaggio tra i profughi siriani. Nella Valle della Bekaa e nella regione di Akkar, i rifugiati sono esposti allo sfruttamento, alle discriminazioni e ora anche alla violenza dei residenti libanesi. Ad aiutarli due ong italiane, Gvc e Terre des Hommes, e i ragazzi della Papa Giovanni XXIII. Il taxi corre come la lingua del suo autista. Ali al Mallah è un fiume in piena. I profughi siriani sono il bersaglio. Le parole ricordano quelle che ripetono i leghisti nel nord-est italiano. "I siriani ci stanno rubando il lavoro" ci spiega mentre ad alta velocità andiamo da Sidone verso Beirut. "Quel ragazzino lì che vende fazzoletti di carta? È un siriano. Il garzone della panetteria? È un siriano. E quelli che portano quei sacchi? Tutti siriani, tutti siriani". Alza la voce al Mallah quando ci racconta del lavoro che avrebbe perduto a causa dei profughi siriani. "Fino a poco tempo fa ero un camionista, non un taxista, - premette - poi il proprietario della ditta di trasporti mi ha licenziato e con i 1.200 dollari del mio stipendio ha preso a nero due autisti siriani. Ormai (i profughi) ci sostituiscono in tutto e per tutto anche se la legge vieta loro di lavorare in Libano. A nero entrano ovunque. Li incontri pure nei cantieri edili, come ingegneri non più solo come manovali". Vero, falso? Di sicuro il taxista che ci porta a Beirut esprime la rabbia di una buona fetta di libanesi per la presenza di un milione e mezzo di profughi - tra quelli registrati e quelli "illegali" - giunti dalla Siria negli ultimi cinque anni. Un siriano ogni quattro libanesi, più o meno. Numeri che hanno quasi del tutto azzerato la solidarietà verso chi scappa dalle distruzioni, dai combattimenti e che, se cerca un lavoro, lo fa perché non riesce, con il solo sussidio mensile delle Nazioni Unite, a sopravvivere. Il Libano non ha mai firmato la Convenzione internazionale sui Rifugiati del 1951 e considera i profughi siriani degli "sfollati". Il 71% dei siriani entrati nel Paese dopo il 2011 vive sotto la soglia di povertà (3,8 dollari al giorno), il 50% è in condizioni di povertà estrema. Molte famiglie sono costrette a non mandare i figli a scuola perché contano sul lavoro minorile per sfamarsi. Da tempo anche violenza, discriminazione e razzismo prendono di mira chi è arrivato dalla Siria. Una recente indagine del Centro libanese per i diritti umani riferisce che l’85% dei profughi siriani denuncia di non avere in Libano la sicurezza e la serenità che sperava di trovare. Il precedente governo libanese a partire dal 2014 ha adottato gravi misure restrittive e poi, nel 2015, ha chiesto alle Nazioni Unite di non registrare più profughi. L’esecutivo libanese ha di fatto chiuso le frontiere, vincolando gli ingressi al pagamento di centinaia di dollari per l’ottenimento del permesso e della garanzia di uno "sponsor". Una somma fuori dalla portata di famiglie che il più delle volte hanno perduto tutto in Siria e composte in media da da 8-10 persone. Molti siriani perciò si trovano in Libano senza documenti, esposti al pericolo di una espulsione immediata se fermati ai posti di blocco o arrestati durante le operazioni di esercito e polizia. È pesante l’aria che si respira quando si va nella Valle della Bekaa, a ridosso del confine con la Siria, una delle regioni del Libano che accoglie più rifugiati, circa 360 mila, secondo i dati forniti dall’Unhcr. Sono sistemati in buona parte in campi "informali" fatti di tende e strutture leggere o in alloggi di fortuna: garage, stanze e scantinati. "In ogni caso devono pagare un affitto ai proprietari dei terreni dove hanno montato le tende" ci spiega Giuseppe Russo, responsabile in Libano dei programmi del Gvc (Gruppo di Volontariato Civile, un’organizzazione laica non governativa di Bologna), "le condizioni di vita sono difficili. Nei campi informali scarseggiano cibo, medicinali e acqua potabile". Il Gvc ad Hermel porta avanti un programma per il rafforzamento della resilienza delle popolazioni siriane rifugiate e anche delle comunità locali, grazie alla fornitura di servizi di base. Offre in una dozzina di villaggi della Bekaa sostentamento alle famiglie siriane e libanesi più vulnerabili. E lavora per il miglioramento dell’accesso ai servizi idrici e igienico-sanitari per i rifugiati siriani. "L’elevato numero di profughi ha portato al collasso dei servizi sanitari locali - aggiunge Russo - le tensioni sociali perciò sono forti e noi speriamo di poter contribuire a ridurle migliorando l’accesso ai servizi sanitari ed idrici". Non si lamentano invece i proprietari terrieri libanesi che ospitano i campi "informali". Grazie ai siriani si sono garantiti una rendita sicura oltre a braccia a buon mercato da impiegare nel lavoro agricolo. All’interno di questo quadro di grande difficoltà, le donne siriane risultato le più penalizzate, sia per l’accesso scolastico che per la loro sicurezza personale. "Le ragazze (siriane) adolescenti sono le più vulnerabili" ci dice Marta Ricci, sempre del Gvc, "hanno bassi livelli di iscrizione scolastica e anche quando sono iscritte non riescono a frequentare. I genitori per proteggerle preferiscono non farle allontanare dal nucleo familiare. Questo ha come conseguenza diretta un aumento dei matrimoni in giovanissima età e delle gravidanze precoci". Inoltre, aggiunge Ricci, "sappiamo dell’esistenza di un traffico di esseri umani che riguarda soprattutto le giovani, senza dimenticare lo sfruttamento nel lavoro che vede le donne lavorare per molte ore, spesso in agricoltura, ed ottenere una retribuzione largamente inferiore rispetto a quella già bassa offerta agli uomini". Il Gvc e Terre des Hommes Italia - che fra i tanti progetti eroga servizi specialistici ai bambini e adolescenti siriani e libanesi a rischio di violenza nella Bekaa settentrionale e di recente ha inaugurato, assieme alla Uisp, un campo sportivo a Jdeideh Fekehe, per favorire l’integrazione di 800 bambini e adolescenti libanesi e siriani - erano, almeno fino a qualche giorno fa, le uniche ong straniere autorizzate ad entrare e operare, sia pure con grande fatica, nell’area di massima sicurezza di Masharia al Qaa che ospita all’incirca 30,000 rifugiati siriani. Dopo gli attentati suicidi che in questa zona prima dell’estate fecero cinque morti, la presenza dell’esercito si à fatta massiccia e nessuna ong per mesi ha avuto accesso nella zona lasciando i profughi in condizioni disperate. I campi informali da allora sono circondati e soggetti a blitz improvvisi dell’esercito alla ricerca di "jihadisti". Della protezione e dell’assistenza ai profughi siriani si occupano anche i ragazzi della Giovanni XXIII, presenti da anni nei campi informali della regione di Akkar, all’estremo nord-est del Libano. "Viviamo con loro, assieme a loro, facciamo parte, con discrezione, delle loro comunità", ci racconta uno di loro A.L. che ha chiesto l’anonimato "i problemi sono enormi e non solo legati alle condizioni di vita. Cerchiamo, con la nostra presenza, di offrire una protezione passiva ai profughi soggetti a raid delle forze militari e talvolta ad attacchi da parte di civili libanesi. Ci occupiamo inoltre di garantire l’accesso dei profughi alle strutture sanitarie. I costi delle cure sono in gran parte coperti ma i medici libanesi non lo dicono ai pazienti siriani allo scopo di ottenere pagamenti non dovuti". Gran Bretagna: rivolta in un carcere nel Kent, i detenuti appiccano il fuoco Reuters, 23 dicembre 2016 A una settimana dai disordini scoppiati in un carcere di Birmingham, una nuova rivolta è esplosa nella prigione di Swaleside, nel Kent. Lo riporta Sky news. Coinvolti 60 prigionieri che hanno appiccato incendi, rubato attrezzature e chiavi delle celle. Dopo 12 ore le guardie carceriere sono riuscite a contenere le violenze e a circoscrivere la rivolta in una sola ala della prigione. Sono intervenute anche le squadre speciali. "Gli altri detenuti sono stati riportati nelle loro celle, il resto del carcere è stato riportato alla tranquillità", ha spiegato un portavoce del penitenziario. La settimana scorsa circa 600 detenuti sono insorti dopo aver aggredito una guardia e averle rubato una chiave, prendendo il controllo dapprima di due e poi di quattro ali del carcere. Si è trattato dell’episodio più grave in una prigione dal 1990. Almeno un paio d’altre proteste, seppure alla fine con conseguenze limitate, sono esplose nelle ultime settimane in altrettante carceri britanniche, accendendo il faro sulle condizioni di vita in cella. Filippine: l’inferno delle carceri rifugio dei drogati in fuga dagli squadroni della morte di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 23 dicembre 2016 Per evitare le esecuzioni sommarie nelle strade scatenate dal presidente Duterte (seimila vittime da maggio), molti tossicodipendenti si consegnano alla polizia: si sentono più al sicuro in cella o nei centri di disintossicazione. "Ridatemi la pena di morte e organizzerò esecuzioni ogni giorno, cinque o sei. Così vincerò la guerra contro il crimine". Questa sulla quota giornaliera di sentenze capitali è l’ultima esternazione di Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine, avvocato, ex sindaco pistolero di Davao. A maggio ha vinto le elezioni giurando di ripulire le strade del Paese e di estirpare il traffico di droga, schiacciando spacciatori e tossicodipendenti. Sta mantenendo la parola con feroce determinazione. Da quando è entrato in carica, il 30 giugno, sono stati contati seimila morti: duemila abbattuti dalla polizia, quattromila eliminati da vigilantes e mercenari organizzati per accelerare il "lavoro sporco". Il ritorno del patibolo: "5-6 al giorno" - La pena capitale a Manila fu abolita nel 1987, venne reintrodotta nel 1993 e di nuovo abolita nel 2006. Duterte, noto come "il castigatore", si è impegnato nel riproporla come arma totale della sua campagna di purificazione nazionale, per reati che vanno dall’omicidio allo stupro, dal possesso di droga al furto d’auto. La legge è già alla Camera e avanza nonostante le critiche della Chiesa cattolica, che nelle Filippine ha un vasto seguito. Il presidente sostiene che il capestro non abbia funzionato come deterrente in passato perché "pochi detenuti venivano giustiziati". Ecco spiegata la trovata della quota "cinque o sei davanti al boia ogni giorno". "Niente plotone d’esecuzione: costa troppo" - Duterte ha anche detto di volere l’impiccagione come sistema. "Il capestro è come spegnere la luce, togli la spina e finisce tutto. Il plotone d’esecuzione è più costoso, perché si usano pallottole ed è più crudele e anche la sedia elettrica fa spendere soldi in energia. Qui si tratta di uccidere i cattivi e non è il caso di spendere troppi soldi". Uccisioni extragiudiziarie e celle piene - In attesa del boia di Stato, il piano antidroga di Duterte si avvale di uccisioni extragiudiziarie e le carceri filippine si sono riempite - come testimoniano le immagini che vi proponiamo in questa pagina, frutto del lavoro sul campo del fotoreporter Alberto Maretti, specializzato in reportage (pubblicati anche dal network Al Jazeera) su questioni sociali e umanitarie -. Nelle celle i detenuti per reati di droga dormono ammucchiati in spazi che contengono il doppio, il triplo della popolazione carceraria per la quale erano stati concepiti. Sono piene anche le piccole celle di sicurezza annesse alle stazioni di polizia, dove alcuni arrestati aspettano per mesi di comparire davanti a un giudice. E non ci sono più posti nei centri di disintossicazione. Decine di migliaia di tossicodipendenti, terrorizzati dalle squadre della morte scatenate da Duterte, si sono consegnati alle autorità per farsi curare e il risultato è che i circa 40 centri di riabilitazione del Paese sono stati presi d’assalto: solo nel Bicutan di Manila arrivano fino a 30 pazienti al giorno, il doppio della sua capacità di accoglienza. Soldi dal governo ai centri di disintossicazione - Qualche giorno fa il presidente ha annunciato un "regalo" ai ricoverati: un finanziamento straordinario ai centri di disintossicazione. "Spero che un miliardo di pesos (20 milioni di euro circa, ndr) farà grandi cose per il vostro trattamento a Natale", ha detto Duterte. Ma subito il giustiziere ha aggiunto: "Però, se siete impazziti per la droga e non c’è più possibilità di recuperarvi, vi manderò una bella corda così vi potrete impiccare con le vostre mani". Brutalità e liste nere: si spara a vista - L’operazione antidroga è condotta con brutalità, ogni notte si contano una dozzina di uccisioni: la polizia batte le zone frequentate da spacciatori e tossicodipendenti con elenchi forniti da informatori, bussa alle porte dei sospetti con l’ordine ufficiale di convincerli ad arrendersi. Poi si verifica "un incidente", gli agenti sparano e il pusher o il cliente restano sul terreno. In realtà spesso non c’è stato nessun incidente, nessun tentativo di fuga o di resistenza da parte dei ricercati: semplicemente gli agenti o i mercenari erano venuti per uccidere. Francis, 6 anni, ucciso insieme al padre - Questo è il racconto fatto alla Cnn da Elizabeth Navarro, che ha visto il marito e il figlio di sei anni morire sotto i suoi occhi: "Era notte, abbiamo sentito bussare alla porta, mio marito ha chiesto "Chi è?", poi ci sono stati due colpi di pistola. Quando ho acceso la luce mio marito Domingo e mio figlio Francis erano per terra, pieni di sangue". Il piccolo Francis aveva l’argento vivo addosso, era il primo a svegliarsi al mattino e per questo la mamma lo faceva dormire accanto alla porta dell’unica stanza che era la casa dei Navarro, così poteva uscire in strada a giocare al mattino lasciando i genitori in pace, a smaltire gli effetti della dose di droga. Quella notte Francis si è trovato sulla linea di fuoco dei due colpi diretti al padre. Chi ha ucciso Domingo e Francis? Agenti di polizia o vigilantes? O mercenari? Ci sono testimonianze sull’impiego di killer da parte delle forze dell’ordine, che non hanno tempo per saldare i conti con tutti i ricercati. Anche donne negli squadroni della morte - Negli squadroni della morte ci sono anche donne. Come Maria (niente cognome) che ha raccontato alla Bbc di essere stata arruolata in un gruppo di fuoco addetto all’eliminazione degli spacciatori: per una donna è più facile avvicinarsi a un ricercato senza destare sospetti. Maria riceve 20mila pesos a contratto, 430 euro per una vita da terminare con un colpo alla testa. Maria sostiene di aver ucciso cinque volte. Le mani sporche di sangue del presidente - Ha ucciso anche Duterte, quando era sindaco della città di Davao. Lo ha rivendicato con orgoglio lui stesso qualche giorno fa. "Ho ammazzato tre ricercati... non so quanti dei colpi che ho sparato siano finiti nei loro corpi, ma li ho fatti fuori. È successo perché volevo mostrare ai ragazzi di pattuglia come si fa e che se lo facevo io lo potevano fare anche loro". La 44 Magnum dell’ispettore Callaghan - Questi sistemi hanno conquistato al presidente filippino il soprannome di "Duterte Dirty", che ricorda l’Ispettore Callaghan dei film interpretati da Clint Eastwood, sempre pronto a tirar fuori la sua 44 Magnum. E ancora oggi, dopo seimila morti nelle strade, il suo gradimento tra la popolazione è altissimo, come se fosse un divo del cinema: 89 per cento secondo l’ultimo sondaggio. Le uccisioni, le carceri strapiene, però hanno suscitato critiche e minacce di inchieste sui diritti umani violati da parte delle Nazioni Unite. E quando anche gli Stati Uniti hanno espresso qualche critica, è calato il gelo diplomatico con le Filippine. Duterte ha insultato Barack Obama, ha giurato di cancellare l’alleanza con gli americani ed è volato a Pechino tra le braccia del collega Xi Jinping. La strategia spregiudicata ha fruttato al giustiziere di Manila un posto tra i personaggi più potenti del mondo: Forbes lo ha inserito al 70° posto nella sua classifica.