Il Ministro Orlando firma due decreti per nuove sezioni di istituti penitenziari Agenpress, 22 dicembre 2016 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha firmato oggi due decreti ministeriali che istituiscono altrettante sezioni dedicate all’interno di istituti penitenziari. Con il primo D.M. viene istituita la sezione di Casa di reclusione a custodia attenuata presso la Casa circondariale di Lecce. I detenuti a bassa pericolosità sociale saranno da oggi ospitati presso l’ex sede dell’Istituto penale per minorenni della città, soppresso il 15 aprile scorso e ora destinato al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Con il secondo D.M. viene invece istituita presso la Casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto la sezione "Articolazione per la tutela della salute mentale in carcere", nell’ambito del Servizio sanitario previsto nello stesso istituto penitenziario dalla Regione Sicilia. La struttura accoglierà i detenuti con infermità psichica sopravvenuta nel corso della detenzione, i detenuti condannati a pena diminuita per vizio parziale di mente e i detenuti nei cui confronti sia stato disposto l’accertamento delle infermità psichiche. I Radicali: il Garante dei detenuti sostenga nostra proposta di riforma del Tso radicali.it, 22 dicembre 2016 Dichiarazione di Riccardo Magi e Michele Capano, segretario e tesoriere di Radicali Italiani. "È molto significativo l’avvio del dialogo tra il collegio del Garante dei diritti dei detenuti e il ministero della Salute e che riguarda esplicitamente anche le persone destinatarie di trattamenti sanitari obbligatori. Uno dei punti qualificanti della proposta di riforma delle procedure di Tso di Radicali Italiani riguarda proprio la sostituzione della figura del sindaco, nel ruolo di firmatario dell’ordinanza di ricovero coatto, con il Garante dei diritti dei detenuti: culturalmente e tecnicamente più attrezzato a svolgere un effettivo controllo di legalità, laddove i sindaci hanno mancato clamorosamente a questa funzione, ridotta a vuoto passaggio burocratico. Ecco perché sottoporremo presto questa proposta di riforma al Collegio dei Garanti, augurandoci che voglia sostenerla". Il Collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, stamani ha incontrato il Sottosegretario alla Salute Vito De Filippo. I tre componenti del Collegio del Garante - Mauro Palma, presidente; Emilia Rossi; Daniela de Robert - hanno ribadito la volontà di mettere in atto una collaborazione specifica su tutti i temi che riguardano la salute delle persone private di libertà sia in ambito penale che non, come i trattamenti sanitari obbligatori. "Rinnovamento nello Spirito Santo" porta 5 chef "stellati" dietro le sbarre di Stefania Careddu Avvenire, 22 dicembre 2016 I cuochi stellati prepareranno il pranzo per i detenuti. A servire personaggi di sport e tv. "Ristabilire un rapporto tra giustizia e misericordia". Sarà un Natale stellare quello che si apprestano a vivere i detenuti e le detenute di Rebibbia (Roma), Opera (Milano), Sant’Anna (Modena), Pagliarelli (Palermo) e Salerno. Domani infatti cinque chef "stellati" - Cristina Bowerman, Tommaso Arrigoni, Carmine Giovinazzo, Lorenzo Cuomo e Pietro D’Agostino - metteranno a disposizione creatività e maestria per preparare manicaretti di "ALTrA cucina… per un pranzo d’amore". Ad animare la giornata e a servire a tavola (alla quale nel caso di Milano siederanno pure i familiari) saranno numerosi personaggi del mondo dello spettacolo, della musica, del teatro e della tv, tra cui Francesca Fialdini, Alessandro Greco, Manlio Dovì, Giusy Versace, Nek, alcuni dei quali si esibiranno anche insieme ai carcerati. "Vogliamo testimoniare che è possibile essere diversamente misericordiosi, trovando il gusto di piatti prelibati, ma ancor di più e ancor prima il gusto di essere uomini e donne incarnati tra le pieghe dolorose del nostro tempo", ha spiegato Salvatore Martinez, presidente del Rinnovamento nello Spirito Santo e della Fondazione Alleanza del RnS Onlus, presentando ieri a Roma l’iniziativa promossa per il terzo anno consecutivo insieme a Prison Fellowship Italia, con il supporto di imprenditori, associazioni, aziende e volontari. Si tratta, ha detto, di "un altro modo di mettere i primi a servizio degli ultimi, facendoli incontrare e gioire insieme, senza riserve" per "accendere i riflettori sulla capacità che la società civile ha di costruire il bene comune", soprattutto mentre dilaga "una cultura dell’indifferenza, del malaffare e dello scarto che continua a generare nuovi poveri e nuovi prigionieri". "Crediamo fortemente che spetta a noi, alla società civile, ristabilire un vero rapporto tra giustizia e misericordia", ha aggiunto Martinez ricordando che "la misericordia non è contraria alla giustizia, ma la tempera, la umanizza". È fondamentale infatti "far capire che l’uomo non è il suo errore e che fare giustizia significa rispondere al male con il bene", gli ha fatto eco Marcella Reni, presidente di Prison Fellowship Italia, per la quale occorre rimettere al centro la persona e la relazione. "Offrire un pranzo stellato - ha sottolineato - è un gesto che esprime il prendersi cura e restituisce dignità, che fa sentire i detenuti serviti, amati e non giudicati". "Le emozioni che proverò cantando - ha confidato il cantautore Amedeo Minghi - non saranno le solite e certamente sarà più quello che riceverò di quello che darò". Perché ad essere misericordiosi e a fare del bene c’è più gusto. Se la legge elettorale la scrivono i magistrati di Francesco Damato Il Dubbio, 22 dicembre 2016 Come si sono lasciate scrivere spesso le leggi penali da una certa magistratura, magari solo subendone i veti e le proteste, così in Parlamento si sta prendendo la brutta abitudine di lasciare scrivere le leggi elettorali alla Corte Costituzionale. Che sempre magistratura è, sia pure di rango particolare, e superiore: ancora più in alto dell’omonimo Consiglio di Piazza Indipendenza, destinato peraltro a rimanere nell’angusta sede attuale, essendo svanito il sogno di trasferirsi a Villa Borghese. Dove la luminosa Villa Lubin avrebbe dovuto ospitare l’organo di autogoverno delle toghe se gli elettori del referendum del 4 dicembre non avessero graziato il malandato Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. L’ombra della penna o delle forbici della Corte Costituzionale sulla riforma elettorale, che è stata invocata dal capo dello Stato prima di rassegnarsi davvero a quello che lui stesso ha appena definito "l’orizzonte di elezioni" di questa legislatura, già vicina di suo alla scadenza, si è allungata dopo che il Pd, d’intesa con Forza Italia e 5 Stelle, ha deciso che di questa materia non si dovrà discutere a Montecitorio prima del 24 gennaio. Prima, cioè, che la Corte non avrà deciso sulla legittimità del cosiddetto Italicum, in vigore dall’estate scorsa per l’elezione della sola Camera. Per il Senato vale invece, allo stato delle cose, quel ch’è rimasto del cosiddetto Porcellum dopo i tagli apportati dalla Corte Costituzionale mentre le Camere, inutilmente sferzate dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, non riuscivano a modificare di loro iniziativa una legge così impietosamente definita dal suo stesso autore: l’allora ministro leghista Roberto Calderoli. Ogni tanto la politica, come un disco rotto d’altri tempi, rivendica il suo ‘ primatò e s’impegna a ristabilirlo, come promise tre anni fa Matteo Renzi assumendo la guida del Pd e poi anche del governo. Ma ogni volta che ne ha l’occasione la stessa politica se la lascia scappare o per un motivo o per un altro, prevalentemente per i giochi paralizzanti dei partiti, o delle rispettive correnti. In questo caso a muovere i fili della rinuncia sono stati a Montecitorio il capogruppo del Pd Ettore Rosato e il suo omologo nella competente commissione, Emanuele Fiano. Di cui solo la nostra Paola Sacchi si è accorta, con la sua solita arguzia, che appartengono alla stessa corrente: quella del ministro dei beni culturali Dario Franceschini, noto per l’abilità e la tempestività con le quali sa muoversi nel partito risultando decisivo per mantenere o cambiare gli equilibri di potere. Alla luce degli equivoci, diciamo così, sorti nelle scorse settimane, quando Franceschini sembrò, a torto o a ragione, competere col conte Paolo Gentiloni Silverj per la successione a Renzi a Palazzo Chigi dopo la batosta referendaria, ma anche dissentire dal segretario del partito sui tempi delle eventuali elezioni anticipate, la convergenza fra Rosato e Fiano può anche non apparire casuale. Ed essere scambiata per un’operazione politica di ritorsione, o quasi. La buonanima di Giulio Andreotti, si sa, soleva dire che a pensare male si fa peccato ma s’indovina: non ho mai ben capito se sempre, spesso o solo qualche volta. Dipende forse dal fatto di essere pessimisti o ottimisti. Con o senza malizia, l’allungamento dei tempi della riforma elettorale - ripeto - dà o lascia il pallino alla Corte Costituzionale. Che forse neanche lo voleva o lo vorrebbe, vista la calma presasi nella gestione della pratica dell’Italicum: prima rinviando il verdetto per il quale era pronta già in ottobre, per non interferire - si disse - nella campagna referendaria sulla riforma costituzionale che un po’ coinvolgeva anche la legge elettorale della Camera per il cosiddetto "combinato disposto", e poi fissando la nuova udienza per il già citato 24 gennaio. Se la politica, non importa per mano di chi, di Renzi o di Franceschini, o di altri ancora, avesse voluto davvero riprendersi il suo primato affrontando subito, e autonomamente, la scottante questione del ritorno al cosiddetto Mattarellum, proposto domenica scorsa dal segretario del Pd all’Assemblea nazionale del suo partito e alle altre forze politiche, i giudici della Corte Costituzionale si sarebbero forse sentiti sollevati ben volentieri, aggiornandosi all’epilogo della vicenda parlamentare. Che magari avrebbe reso superato l’Italicum e inutile il pronunciamento della Consulta, come si chiama comunemente il palazzo dove lavora la Corte, davanti al Quirinale. Si potrebbe ben dire o sospettare a questo punto che stavolta è stata o è la stessa politica a rinunciare alle sue prospettive e a lasciar fare alla Corte, piuttosto che il contrario. Cosa che francamente, farebbe, anzi fa cadere le braccia. E può ringalluzzire anche certa magistratura ordinaria nella pretesa di sostituirsi alle Camere, o di condizionarle pesantemente, sul terreno già ricordato della legislazione penale. Tutto si tiene, o si sfascia, come si vuole o si preferisce, sul piano istituzionale. È curioso comunque che ad affidarsi alla Consulta, in questa vicenda, sia stato pure Sivio Berlusconi, che di quel consesso non è mai stato entusiasta, trovandolo troppo pieno di giudici di sinistra, anche fra i nominati dai presidenti della Repubblica. All’elezione di nessuno dei quali egli ha potuto contribuire da quando si è messo in politica, fatta eccezione per la straordinaria conferma di Napolitano: tanto straordinaria che l’allora Cavaliere se ne pentì rapidamente, aspettandosi un intervento che lo salvasse dalla decadenza da senatore dopo la condanna definitiva per frode fiscale. D’altronde, il Senato votò in quell’occasione come peggio, francamente, non poteva: a scrutinio palese e in applicazione retroattiva di una legge che comunque lo privava di un diritto, per quanto non la si volesse chiamare penale. Adesso al presidente di Forza Italia un lodo della Corte Costituzionale, o qualcosa di simile, in materia di legge elettorale potrebbe fare comodo per sottrarsi a quella che lui stesso, secondo indiscrezioni di stampa sinora non smentite, avrebbe definito "l’opa ostile" del leghista Matteo Salvini alla sua leadership in una rinnovata edizione del centrodestra, con le primarie e tutto il resto. Di "opa" da fronteggiare a Berlusconi basta e avanza, evidentemente, quella di Vivendì per la conquista di Mediaset. L’odissea processuale di Alberto Stasi e una verità che pare introvabile di Annalisa Chirico Il Foglio, 22 dicembre 2016 Dove sta la verità? Si ripiomba nel plumbeo limbo dell’incertezza, nella foschia dei mezzi sospetti e delle mezze verità al punto che, se pure fosse colpevole, Alberto Stasi andrebbe immediatamente assolto. Assolto per la manifesta incapacità di provare la sua colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Uno stato di diritto non può accontentarsi di un colpevole purchessia, la condanna deve fondarsi sulla prova, non sul sospetto. "Se la difesa di Stasi ha un nome lo faccia pubblicamente, senza nascondersi dietro un dito", è la reazione della madre di Chiara Poggi dopo la rivelazione che un’altra madre, quella di Alberto Stasi, rilascia al Corriere della Sera. Secondo i risultati di una nuova perizia della difesa, sotto le unghie della vittima risulterebbero le tracce biologiche di una persona che non è Stasi. "Amo mio figlio, l’avrei amato anche da colpevole - dichiara la mamma del 33enne recluso da un anno nel carcere di Bollate. Chi sa del delitto ha continuato a non parlare scegliendo il silenzio che ha coperto e depistato. Così facendo non ha reso giustizia a una ragazza morta e, allo stesso tempo, sta uccidendo una seconda persona". In conferenza stampa gli avvocati di Stasi centellinano le informazioni a parte un dettaglio rilevante: il nome del secondo uomo c’è, appartiene alla cerchia dei conoscenti di Chiara e i magistrati ne sono al corrente. Ecco il coup de théàtre che potrebbe condurre alla meta agognata, la revisione del processo. Sono trascorsi nove anni dal terribile omicidio al civico 8 di via Pascoli a Garlasco, una parabola investigativa e processuale puntellata di lacune e contraddizioni, colpi di scena e iati inquisitori, con un solo filo rosso, l’incertezza. A ritrovare il corpo della fidanzata fu lo stesso Alberto, "il biondino con gli occhi di ghiaccio", secchione e introverso, frequentatore di porno online, un tipo strano che trascorreva un mese a Londra mentre la sua Chiara principiava lo stage a Milano... per i contenitori televisivi di cronaca nera il profilo del presunto killer era servito. "Quante volte ho sentito dire "occhi di ghiaccio", serviva a creare l’immagine del cattivo - dichiarò Stasi in una rara intervista nel 2014, dopo la morte del padre. E poi ghiaccio fa venire in mente occhi azzurri, e invece guardi: i miei sono verdi". Verdi, i suoi occhi sono verdi, e il porno online non basta a renderti un assassino, e i rapporti di coppia si reggono su equilibri imperscrutabili. Al giovane Stasi non fu risparmiata neppure l’accusa di pedopornografia, poi caduta in tribunale. All’indomani dell’omicidio l’allora 24enne fu imprigionato nel carcere di Vigevano, forse per indurlo invano a una confessione, dopo quattro giorni un gip ordinò la sua scarcerazione: "Non ci sono sufficienti indizi". L’attenzione si appuntò sui pedali della sua bicicletta, c’erano tracce di Chiara, così come sul dispenser nel bagno di lei c’erano tracce di lui, circostanza non sorprendente tra due fidanzati che si frequentano quotidianamente. Sui pedali della bicicletta nera la pubblica accusa rinvenne tracce di sangue che per i difensori erano invece saliva o forse sudore di Chiara, e alla fine il gip prese atto della non univocità dei risultati scientifici effettuati dal Ris di Parma: non esiste un quadro probatorio sufficiente per giustificare la misura cautelare. Seguirono due assoluzioni in primo e in secondo grado fin quando la Cassazione rinviò a un appello bis che condannò Stasi a sedici anni di carcere nel 2014. Il procuratore generale ne aveva chiesti trenta. "Poca prova, poca pena", commentarono gli avvocati della difesa: 16 anni per aver ammazzato "con un rapido susseguirsi di colpi di martello", mai ritrovato, una ragazza nel fiore degli anni. I pedali della bicicletta nera tornarono alla ribalta con una nuova "scoperta", a sette anni di distanza, a opera dei legali della famiglia Poggi: il ragazzo possedeva pure una seconda bicicletta, bordeaux, con pedali diversi dagli originali, su cui si rinveniva il dna di Chiara. L’ipotesi d’accusa era che l’assassino avesse smontato i pedali da una bici per rimontarli sull’altra. Nessuna arma, nessun movente. Adesso siamo all’ennesimo colpo di scena. Innocente, colpevole, il dna non è il suo, c’è un secondo uomo, chi è? Dove sta la verità? Perché Stasi è ancora dietro le sbarre? Questa giustizia non è innocente. Fatti di bancarotta fraudolenta commessi dagli amministratori o dai liquidatori Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2016 Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta patrimoniale - Ammissione al concordato preventivo - Fatti successivi all’omologa del concordato - Rilevanza penale - Fattispecie. Le condotte di spoliazione di una società ammessa al concordato preventivo hanno comunque rilievo penale, né lo perdono a seguito dell’omologa dello stesso. I fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale commessi dall’amministratore di fatto e di diritto della società - e non invece a titolo di liquidatore dei beni del concordato preventivo - consistenti nell’avere distratto o dissipato risorse della società fallita, dopo che questa era stata ammessa al concordato preventivo, assumono rilievo penale anche se post-concordatari e anche se coperti dal decreto di omologa del concordato preventivo del tribunale, con il parere favorevole del comitato dei creditori, del commissario giudiziale e con l’autorizzazione del giudice delegato. (Nella specie, l’amministratore delegato della s.p.a. assuntore del concordato, nonché amministratore di fatto di altre società interessate, aveva distratto e dissipato le risorse della Spa già ammessa al concordato omologato attraverso operazioni di compravendita di società e di cessione dell’attivo patrimoniale per quasi 11 milioni di euro. La Suprema corte su impulso del Pm cassa con rinvio al Tribunale del riesame perché siano rivalutate le esigenze di custodia cautelare dell’imputato e siano annullati gli arresti domiciliari). • Corte di cassazione, sezione V penale, 1° dicembre 2016 n. 51277. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Associazione sportiva - Amministratore di fatto - Bancarotta per distrazione e documentale - Regime di contabilità semplificata - Obbligo di tenuta di libri e scritture contabili - Fattispecie. In tema di bancarotta fraudolenta, una volta che, anche a seguito di attività illecite, sia entrato denaro nel patrimonio della società fallita, esso non può essere distratto in danno dei creditori. Grava sull’imputato di bancarotta fraudolenta per distrazione fornire la prova o quanto meno un concreto principio di prova sulla destinazione, conforme agli interessi della società, di risorse finanziarie di questa, poiché che nell’ambito dei reati fallimentari il regime tributario di contabilità semplificata previsto per le cosiddette imprese minori non comporta l’esonero dall’obbligo di tenuto dei libri e delle scritture contabili ex articolo 2214 del Cc. (Nel caso di specie, la Suprema corte respingeva il ricorso promosso dall’amministratore di fatto di un’associazione sportiva fallita, che svolgeva attività di direttore tecnico, intratteneva e gestiva le sponsorizzazioni e i rapporti bancari della società fallita, attraverso assegni e distinte bancarie in bianco, movimentando somme di denaro consistenti e distraendo circa 250 mila euro a titolo di presunta restituzione agli sponsor dell’associazione calcistica). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 1° dicembre 2016 n. 51265. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta documentale - Elemento soggettivo del reato - Dolo generico - Fattispecie. In tema di reati fallimentari e di bancarotta, la forma fraudolenta ricorre ogniqualvolta l’omessa o irregolare tenuta delle scritture contabili renda impossibile, o notevolmente difficoltosa, la ricostruzione da parte degli organi fallimentari del patrimonio e del movimento degli affari. L’elemento soggettivo consiste nella coscienza e volontà degli effetti connessi alla irregolare tenuta. Il dolo richiesto per la bancarotta documentale è "generico", coincide con la stessa pretesa del ricorrente, non richiedendosi che si manifesti altresì la volontà di danneggiare i creditori o di trarre altrimenti profitto dall’irregolare tenuta delle scritture contabili. (Nella specie, risultava impossibile al curatore - che rintracciava poche fatture di fornitori e alcune contabili bancarie - accertare le vicende e gli accadimenti societari successivi al 2008, nonostante l’obbligo sussistente in capo all’amministratore della società di curare la tenuta delle scritture contabili fino alla cancellazione della società dal registro delle imprese. La Suprema corte avallava la decisione della Corte territoriale di non concedere neppure le attenuanti, ponendo l’accento sull’assenza di indici positivi - a parte l’incensuratezza del soggetto, di per sé non decisiva - da valutare a favore dell’imputato e sulla gravità della condotta, caratterizzata dal totale dispregio per le ragioni dei creditori, essendosi l’imputato allontanato dall’Italia senza minimamente preoccuparsi della sorte della società e della possibilità di assicurare una, sia pur minima, soddisfazione delle ragioni creditorie). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 26 ottobre 2016 n. 44988. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Natura effettivamente dissipatoria dei negozi posti in essere - Principio di correlazione tra accusa e sentenza - Reato di bancarotta impropria da operazioni dolose - Concorso formale - Non configurabilità. Ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta patrimoniale è necessario che la condotta addebitata sia in grado di determinare quantomeno il pericolo di un’effettiva diminuzione della garanzia patrimoniale che non trovi una sua giustificazione in una scelta gestionale compatibile con la logica d’impresa. I confini del sindacato sulla gestione dell’impresa sono dunque determinati dall’oggetto della tutela (l’interesse dei creditori alla conservazione della garanzia), ma soprattutto dalle stesse modalità di aggressione selezionate per l’incriminazione (distrazione, dissipazione e occultamento). Non è configurabile il concorso formale tra il reato di bancarotta fraudolenta e quello di bancarotta impropria da operazioni dolose, che deve considerarsi assorbito nel primo quando l’azione diretta a causare il fallimento sia la stessa sussunta nel modello descrittivo della bancarotta fraudolenta. • Corte di cassazione, sezione V penale, 18 ottobre 2016 n. 44103. Reati fallimentari - Bancarotta - Concordato preventivo - Liquidatore di beni - Non punibilità. Il liquidatore dei beni del concordato preventivo di cui all’articolo 182 legge fall. non può essere soggetto attivo dei reati di bancarotta di cui agli articoli 223 e 224, richiamati nell’art. 236, comma 2, n. 1, in quanto non può ritenersi ricompreso in alcuno dei soggetti ivi espressamente indicati e, in particolare, tra i liquidatori di società. L’assenza di un rapporto organico con la società esclude la punibilità per bancarotta del liquidatore di beni in fase di concordato preventivo: non sono assimilabili tra loro le figura del liquidatore di beni e quella del liquidatore di società in fase di concordato preventivo, il primo venendosi a trovare in una posizione terza rispetto al debitore, che esclude il determinarsi di un suo rapporto organico con la società e circoscrive la sua sostituzione agli organi di quest’ultima, nei limiti funzionali all’esecuzione del mandato; il secondo essendo nominato dall’assemblea e restando un vero e proprio organo sociale a cui sono assegnati compiti e funzioni coerenti rispetto al rapporto societario. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, 7 dicembre 2010 n. 43428. Cnca: la Lombardia detiene il record di detenuti, 8mila, +10% rispetto al 2015 Askanews, 22 dicembre 2016 Al 31 dicembre 2015 i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 52mila; al 30 novembre 2016 sono risaliti a oltre 55mila unità, ben oltre la soglia di 49mila, capienza massima stimata. In Lombardia, la regione con il più alto numero di persone ristrette in carcere, si è di nuovo sulla soglia di ottomila detenuti (+10% in meno di un anno). Lo ha annunciato il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca), spiegando che questo accade malgrado "negli anni scorsi il governo, a fronte di una possibile sanzione da quattro miliardi di euro da parte dell’Unione Europea per le condizioni disumane e degradanti dovute al sovraffollamento nelle carceri italiane (arrivate a rinchiudere oltre 67mila persone nel 2013) aveva iniziato una politica deflazionista con leggi mirate a diminuire la presenza delle persone in carcere, estendendo la possibilità di accedere alle misure alternative, introducendo la messa alla prova anche per gli adulti per i reati con pene edittali fino a quattro anni, depenalizzando il reato di clandestinità". "In realtà una parte significativa di persone che avrebbero potuto uscire sono rimaste in carcere" si legge sempre in un comunicato diffuso dal Cnca, in cui si sottolinea che "da una parte i sepolti vivi del 41 bis per gli affiliati di peso, veri e presunti, alla criminalità organizzata; poi un gruppo consistente di detenuti sottoposto all’alta sorveglianza per reati come l’associazione a delinquere, l’associazione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti e il sequestro di persona. Al centro si trova un assembramento di poveri disgraziati, ammassati e sovraffollati in celle senza nulla, se non la disperazione". "Sono perlopiù tossici che cercavano droga e stranieri che cercavano cibo o rifugio, ma che hanno trovato davanti a sé solo sbarre" prosegue la nota, evidenziando che "la popolazione carceraria è raddoppiata e le carceri sono diventate il luogo, in senso letterale, dei miserabili: coloro che, costretti al di sotto del livello di povertà, non ce la fanno a sopravvivere. Le prigioni sono tornate a essere gli ospedali generali di un tempo: l’auberge des pauvres, il ricovero di ogni categoria di emarginati". Abruzzo: Uil-Pa; nelle carceri della Regione situazione drammatica di Elisabetta Di Carlo certastampa.it, 22 dicembre 2016 Riunione di fine anno del Consiglio Regionale Uil-Pa Polizia Penitenziaria Abruzzo. Allo stesso hanno partecipato al completo i quadri dirigenziali delle 4 Provincie abruzzesi capitanati dai Dirigenti Generali Territoriali Mauro Nardella (L’Aquila), Paolo Lezzi (Teramo), Ruggero Di Giovanni (Chieti) e Valdino Franchi (Pescara). Il Consiglio coordinato dal Segretario Generale Regionale Giuseppe Vincenzo Giancola ha tirato le somme di un anno di lavoro facendo un amaro consuntivo di un 2016 che, a seguito dell’epocale accorpamento del Provveditorato Abruzzese con quello laziale, ha di fatto reso peggiore ciò che già prima dell’accorpamento risultava scadente. A dir la verità l’Amministrazione centrale non ha mai dimostrato tanto affetto ai poliziotti penitenziari di stanza nella patria di Gabriele D’Annunzio considerato che, soprattutto nell’ ultimo decennio, aveva di fatto relegato a mero cimitero degli elefanti l’apparato amministrativo regionale. I Dirigenti generali che si sono succeduti, infatti, non hanno mai superato i due anni di permanenza e molti di essi hanno chiuso proprio con l’amministrazione penitenziaria abruzzese, andandosene in pensione, il loro rapporto con il mondo lavorativo senza di fatto completare il loro progetto di riforma. Se si pensava che accorpando gli uffici si sarebbe potuto migliorare il sistema delle relazioni sindacali allora possiamo tranquillamente dire che la medicina utilizzata è stata un rimedio peggiore del male, afferma Nardella. Dagli interventi fatti dai dirigenti provinciali sono emersi aspetti che non fanno assolutamente sorridere e non certo ben sperare per il futuro. La provincia di Chieti ha evidenziato gravi storture in sede di distribuzione del personale femminile presso il carcere del capoluogo di Provincia visto che a fronte di un inspiegabile quanto discutibilissimo surplus di poliziotte in quel del carcere di Pescara fa da contraltare una grave carenza proprio nella sezione femminile del carcere di Chieti laddove, cioè, paradossalmente proprio per sopperire alla mancanza di personale femminile, all’interno del reparto si vorrebbe far prestare servizio personale maschile. Sempre in provincia di Chieti, nella fattispecie nel carcere di Lanciano, ad un’annosa carenza di organico stimata in non meno di 20 unità di polizia penitenziaria si associano scadenti relazioni sindacali con la Direzione capaci di trasformare in "carta straccia" tutto ciò che dal sindacato viene proposto ed al sol fine di migliorare lo status di diritto all’interno del carcere di Villa Stanazzo. Non certo migliore è la situazione nella Provincia Aquilana. Sulmona conta una situazione disastrosa in fatto di organico. Ad un già deficitario numero di operatori penitenziari si sono aggiunte politiche dell’Amministrazione Regionale che stanno rendendo ancor più difficile la possibilità di garantire diritti soggettivi quali ferie e riposi. Basti pensare alla revoca dei provvedimenti di invio in missione di personale da Campobasso a suo tempo disposti proprio per sopperire alla riconosciuta carenza di personale allo stato stimata essere di 50 unità ed al disastroso piano di rientro del personale distaccato che più che migliorare il sistema ha di fatto rotto equilibri che hanno gettato nello sconforto il personale beneficiario e messo a soqquadro una situazione che stenta a riprendersi. Avezzano è una realtà che proprio in virtù del su citato piano di rientro dei distaccati sta pagando in maniera cara la politica assurda adottata per lo scopo. La situazione dal punto di vista dell’organico si è moltissimo aggravata. Il mancato apporto garantito dai 10 distaccati troppo frettolosamente fatti rientrare nel carcere dell’Aquila stanno facendo vivere incubi all’Ufficio servizi del carcere marsicano nonché aspetti deprimenti nei confronti del personale fatto rientrare e carichi di lavoro drammatici per coloro i quali sono rimasti (durante l’ultima forte scossa di terremoto a presidiare l’emergenza di un intero carcere vi erano soli 3 agenti). È notizia di pochi giorni fa della volontà di far pagare anche nel carcere dell’Aquila, una pigione agli agenti accasermati. Questo stato di cose sta scatenando l’ira dei poliziotti costretti non solo a vivere in spazi angusti ma a confrontarsi con uno Stato che se da un lato risarcisce economicamente il detenuto per averlo obbligato a dormire in celle non sufficientemente spaziose dall’altro pretende di recuperare somme da agenti costretti a dormire in spazi ancor più ridotti. Quegli stessi agenti che vorrebbero tanto poter vivere in un’abitazione che li faccia sentire un po’ più a casa ma che, in virtù di un territorio falcidiato dalle notissime questioni legate ai terremoti, non riescono a trovare, sono gli stessi che nelle occasioni emergenziali, proprio perché dimoranti in carcere, hanno offerto il loro immediato contributo. A tal proposito stiamo aspettando che la senatrice Pezzopane visiti, così come da Lei promesso, e proprio per rendersi conto personalmente della grave situazione in cui versano gli agenti aquilani, il carcere delle costarelle. A l’Aquila non vengono altresì garantite prerogative sindacali quali l’ottenimento dei dati sui servizi e sugli straordinari svolti dal personale, utili per capire se vi siano o meno sperequazioni di trattamento, e quindi quella trasparenza voluta dalle normative contrattuali vigenti e che in un contesto di lavoro democratico non dovrebbe mai mancare. Il carcere Pescarese seppur viva un contesto relativamente migliore rispetto al resto del territorio regionale non può non far rilevare disfunzioni amministrative quali il mancato utilizzo di personale del dismettendo Provveditorato per favorire la concessione di giorni di congedo e riposi al personale ivi di stanza da un lato e la sottrazione di ulteriori uomini per destinarlo in distacco al locale tribunale nonché in missione al servizio del servizio scorte del sottosegretario alla Giustizia dall’altro. Il penitenziario di Teramo vive una condizione drammatica sia dal punto di vista della carenza di organico privato di decine unità rispetto alla pianta organica prevista sia dal punto di vista meramente logistico-organizzativo. La presenza di numerosissimi circuiti tra i quali citiamo le sezioni per detenuti comuni, tossicodipendenti, alta sicurezza, semi-protetti (sex offenders, ex poliziotti, ex collaboratori di giustizia, etc.), sezione per soggetti psichiatrici, sezioni per detenute (As e comuni), semiliberi e detenuti lavoranti esterni e art. 21 O.P., rende non solo complicato il lavoro di tutti gli operatori penitenziari ma anche e soprattutto l’attuazione di un organizzazione del lavoro capace di rendere sereno un ambiente che tanto bisogno di tranquillità avrebbe per attuare alla lettera i principi costituzionali volti al recupero e reinserimento del detenuto. Parafrasando una battuta fatta da un noto presentatore televisivo del passato,- chiosa Nardella- a tutto questo Il Consiglio Regionale Uil-Pa Polizia Penitenziaria Abruzzo a seguito delle numerose falle createsi e alle quali l’avvenuto accorpamento del Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria abruzzese con quello laziale, non ha fatto altro che aggravare, ha detto Stop. Il consesso Uil-Pa Polizia Penitenziaria Abruzzo in virtù delle numerose vertenze inevase ha deciso all’unanimità di rompere le trattative con L’Amministrazione Penitenziaria e con la stessa non rapportarsi fino a quando non saranno sanate tutte le vertenze finora restate inascoltate, ovvero inevase. Di volta in volta ed attraverso le riunioni di segreteria che seguiranno saranno decise manifestazioni di protesta che si spera servano a destare quei sonni di un’Amministrazione Penitenziaria troppo sopiti per essere utili al soddisfacimento delle aspettative del popolo penitenziario. Toscana: scrittori in carcere per conversare, con i detenuti, sul senso dello scrivere Ristretti Orizzonti, 22 dicembre 2016 Il 7 dicembre, con la partecipazione dello scrittore Emiliano Gucci, presso la Casa Circondariale di Prato è partito il progetto promosso dal Prap di Firenze in collaborazione con la Libreria Rinascita di Empoli "Caro Amico, io scrivo…". Il progetto prevede che alcuni scrittori entrino in carcere per conversare, con i detenuti studenti e con quelli che partecipano ai laboratori di scrittura, sul senso dello scrivere. Consegneranno inoltre i premi (3 libri a testa frutto della raccolta libraria della precedenza iniziativa "C’è un libro per te") ai diplomati e ai diplomandi dell’anno scolastico 2015/2016. Gli incontri di dicembre hanno già visto coinvolti Federico Regeni al carcere di Porto Azzurro il 13 dicembre, Giampaolo Simi sarà alla casa di reclusione di Volterra il 15 dicembre mentre il 19 dicembre Simone Lenzi ha incontrato i detenuti nella Casa di reclusione di San Gimignano. Gli incontri proseguiranno a gennaio 2017 in date da definire, con Jacopo Chiostri al carcere di Livorno, Marco Malvaldi alla casa di reclusione di Massa, Francesca Melandri a Firenze Sollicciano ed Enzo Carabba a Massa Marittima e Firenze Mario Gozzini. Gli incontri saranno seguiti da Teresa Delogu della Libreria Rinascita di Empoli e coordinati dalla dott.ssa Monica Sarno dell’ufficio detenuti e Trattamento del Prap di Firenze. Il Provveditore Giuseppe Martone Torino: nel carcere ascensori fuori uso da otto mesi, detenuti disabili ostaggi di Gabriele Guccione La Repubblica, 22 dicembre 2016 Gli ascensori sono continuamente fuori uso e i vivandieri, per distribuire i pasti ai compagni detenuti, non possono fare altro che salire e scendere tre piani di scale, portando a braccia i recipienti con il cibo. Topi e blatte infestano le celle, le docce, i locali comuni, dove le infiltrazioni d’acqua sono all’ordine del giorno, e quando piove, come in questi giorni, non resta che armarsi di secchi e scodella. Queste sono le condizioni in cui versa il carcere "Lorusso e Cutugno", secondo quanto denunciato ieri dalla garante dei detenuti Monica Gallo: "Ho sempre cercato di adempiere al mio ufficio mantenendo un atteggiamento di grande equilibrio - ha esordito la delegata della città nell’audizione a Palazzo civico - Ma la situazione sta diventando davvero pesante ed è arrivato il tempo di esporla pubblicamente". Alle Vallette i detenuti sono aumentati nell’ultimo anno da 1.080 a 1.350 unità e all’affollamento si sommano i disagi provocati dal deterioramento di una struttura costruita 30 anni fa. "Non uno, ma tutti gli ascensori - segnala la garante - sono rotti da aprile: gli incaricati sono costretti a fare tre piani di scale per trasportare il cibo e i detenuti disabili non possono più scendere nei parlatori per i colloqui con i parenti". Per tamponare l’emergenza, la direzione del carcere ha concesso ai detenuti disabili di ricevere visite in cella. Ma il disservizio resta. "È un problema veramente serio - riconosce il direttore Domenico Minervini. L’istituto ha 30 anni di vita, ma i carrelli elevatori sembrano averne molti di più e si guastano sistematicamente". Ce ne dovrebbero essere due per ciascun padiglione, ma di fatto ne funziona quando va bene uno solo. "Al momento - fa sapere il responsabile del carcere - nei padiglioni A e C l’unico montacarichi funzionante è fermo da 2 mesi". Il problema tocca da vicino circa 800 detenuti. "Ora - prosegue Minervini - dovremmo essere riusciti ad avere dal provveditorato regionale le risorse per la manutenzione straordinaria degli impianti, ma il problema andrebbe risolto strutturalmente e per sostituire ciascun ascensore ci vorrebbero 40mila euro". Topi, blatte e infiltrazioni d’acqua sono gli altri problemi denunciati dalla garante dei detenuti, insieme alla mancanza nel carcere di un dispensario per i farmaci non mutuabili, che i detenuti devono procurarsi con i loro mezzi, affidandosi agli agenti. "A questo proposito - preannuncia Gallo - stiamo progettando con Farma Onlus l’allestimento di uno sportello farmaceutico all’interno del carcere, con la disponibilità di un farmacista volontario in pensione". I progetti e le esperienze di affrancamento all’interno del carcere non mancano, anzi si sono moltiplicati negli anni: dal negozio "FredHome" in via Milano, sotto Palazzo civico, dove vengono venduti i prodotti fabbricati nel carcere, all’inserimento lavorativo nelle cooperative sociali. "Con il sostegno del fondo Alberto Musy - racconta la garante - due detenuti lavorano dalle 8 alle 15 negli uffici del Comune e nel pomeriggio frequentano l’Università. Per poi rientrare in carcere". Firenze: a Sollicciano nascerà una nuova struttura per 30 detenuti semiliberi Redattore Sociale, 22 dicembre 2016 Lo ha annunciato il sindaco Dario Nardella visitando per il pranzo di Natale l’istituto penitenziario di Sollicciano, dove ha incontrato 80 detenute e ha suonato il violino. Una nuova struttura per accogliere una trentina di detenuti semiliberi nascerà a Firenze nei prossimi mesi. Lo ha annunciato il sindaco Dario Nardella partecipando al pranzo di Natale nel Giardino degli Incontri, all’intero del carcere di Sollicciano, alla presenza di oltre 80 detenute della sezione femminile". Una struttura, quella per i semiliberi che permetterà di sfoltire il sovraffollamento di Sollicciano e potrebbe offrire strutture alternative per la sezione femminile. Una visita molto lunga, quella di Nardella nel Giardino degli Incontri a Sollicciano, dove i volontari di Casa Caciolle e i parroci della Madonnina del Grappa e di varie parrocchie di Rifredi hanno allestito grandi tavolate e servito i commensali. Il sindaco, portando in dono un panettone di cinque chili e accompagnato nella visita dagli assessori Sara Funaro e Andrea Vannucci, si è intrattenuto a lungo a parlare con le detenute, ascoltando le loro storie con attenzione e prendendo appunti per tentare di aiutare alcune di loro. Campobasso: Antigone "celle oscure e condizioni drammatiche, il carcere va chiuso" di Stefania Potente primopianomolise.it, 22 dicembre 2016 La denuncia dell’associazione Antigone nella conferenza stampa di presentazione della sezione molisana. Vivono in situazioni drammatiche: celle piccole e oscure. L’ora d’aria? Impossibile farla quando fuori piove perché nel cortile non c’è nemmeno un piccolo tetto sotto cui ripararsi. Le cucine? "Al limite dell’agibilità". In parole povere "ci sono condizioni drammatiche e contrari ai protocolli europei: il carcere di Campobasso va chiuso". È la denuncia di Gian Mario Fazzini, presidente di Antigone Molise, l’associazione che ‘sbarcà pure nella nostra regione per difendere i diritti dei detenuti ad avere tutte le garanzie previste dal sistema penale e penitenziario italiano ed europeo. Una mission rimarcata durante la conferenza stampa di presentazione della sezione locale che si allinea a quella nazionale, nata a fine anni Ottanta. "Antigone Molise - spiega il suo massimo rappresentante - può offrire un grosso contributo sulla tutela dei diritti della giustizia e delle pene. La nostra sezione molisana ha visto una partecipazione veramente massiccia e spontanea di operatori. Parliamo di un’associazione apartitica e apolitica, che racchiude diverse anime", aggiunge Fazzini. Pordenone: il nuovo carcere-modello da 300 posti sarà pronto in 18 mesi Messaggero Veneto, 22 dicembre 2016 Inizio lavori entro la prossima primavera per concludersi a fine 2018: 300 posti, strutture per lo sport ed energia "autoprodotta" dal sole. E quella in eccesso sarà venduta. Svelato il progetto del carcere modello che sarà costruito a San Vito del Tagliamento. Al teatro Arrigoni i cittadini hanno potuto capire - per quanto possibile, visto che ci sono dettagli legati alla sicurezza - come sarà la "loro" Casa circondariale. Il responsabile del procedimento, Giorgio Lillini (sede di Trieste del provveditorato interregionale alle Opere pubbliche del Triveneto), ha delineato una nuova tempistica. I lavori dovrebbero iniziare entro la prossima primavera e concludersi a fine 2018. Con un’incognita: è attesa una sentenza del Consiglio di Stato. Il carcere modello. Un penitenziario da 300 posti per la circoscrizione di Friuli occidentale e Veneto orientale, che punta al reinserimento sociale del detenuto. Ventimila dei circa 45 mila quadri della dismessa caserma Dall’Armi saranno occupati da costruzioni. I due edifici principali dell’ex presidio militare saranno recuperati. Quello che si affaccia su via Oberdan sarà adibito alla direzione dell’istituto, quello sul retro a caserma agenti e detenuti in regime di semilibertà. Un nuovo stabile ospiterà gli alloggi di servizio. Questa zona avrà una recinzione più "leggera" rispetto al muro di cinta entro il quale sorgerà, ex novo, il padiglione detentivo, sviluppato su quattro piani (con tanto di biblioteca e sala per attività musicali). In questa zona le vecchie strutture, eccetto un paio, saranno smantellate. Si entrerà dalla "block house" (per il controllo accessi) affacciata su via Oberdan. Ci saranno un campo da tennis e uno da calcetto, un edificio per le matricole, uno per i colloqui, uno per le lavorazioni, uno per mensa, cucina e bar e uno per isolamento, culto e palestra. Le vie Oberdan e Divisione Garibaldi saranno riqualificate: quest’ultima ospiterà una nuova rotatoria e posti auto. L’impatto zero. "Il carcere sarà a impatto zero - ha evidenziato Lillini - perché alimentato da energie rinnovabili. Non ci sarà metano, a beneficio anche della prevenzione incendi". Pannelli solari produrranno "il doppio dell’energia necessaria: metà sarà venduta a società energetiche, a beneficio dell’amministrazione pubblica". I tempi. Dopo la sottoscrizione del protocollo di legalità per i lavori, si attende l’approvazione del contratto d’appalto (già stipulato) da parte della Corte dei conti, dopodiché "sarà approvato il progetto esecutivo, redatto in tempi brevi. Entro la primavera - ha stimato Lillini - dovremmo riuscire a consegnare i lavori, che dureranno un anno e mezzo". A occuparsene sarà l’associazione temporanea di imprese Kostruttiva (Marghera)-Riccesi (Trieste), aggiudicataria dell’appalto per 18 milioni 466 mila euro (l’importo complessivo è di 25 milioni 568 mila euro). L’incognita. La richiesta di sospensiva era stata respinta, l’udienza di merito è chiusa, ma la sentenza non è ancora disponibile. È quella sull’appello presentato al Consiglio di Stato dalla Pizzarotti di Parma, seconda in gara ha chiesto di annullare l’aggiudicazione dell’appalto. Ma per ora l’iter va avanti. Trieste: in carcere non c’è più l’emergenza cimici, ma bisogna migliorare la struttura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 dicembre 2016 Visita di un Consigliere regionale e di alcuni esponenti dell’Unione camere penali. L’ex capogruppo di "Sinistra ecologia libertà" nel consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, Giulio Lauri, il presidente della Camera penale di Trieste Alessandro Giadrossi, il responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane, Riccardo Polidoro, e gli avvocati Giuseppe Cherubino e Alessandra Devetag hanno visitato ieri la Casa circondariale di Trieste. Lo scopo della visita - l’ultima è stata effettuata 4 mesi fa - è stato quello di fare il punto sulla situazione generale dei detenuti all’interno del carcere, di approfondire le condizioni igienico sanitarie della struttura e soprattutto verificare che sia stata superata l’emergenza sanitaria causata dalle cimici da letto. Giulio Lauri, raggiunto da Il Dubbio, spiega che "tutti i materassi infestati dalle cimici sono stati cambiati e c’è stato un significativo miglioramento anche grazie a una disinfestazione effettuata in tutte le sezioni colpite dall’emergenza". Altro problema che, almeno in parte, si è risolto è quello relativo alle attività trattamentali. Prima scarseggiavano per mancanza di fondi. "Il miglioramento sottolinea Lauri - è dovuto soprattutto dal finanziamento di oltre un milione e mezzo di euro approvato dalla regione del Friuli Venezia Giulia per i progetti formativi a favore dei detenuti di tutte le case circondariali". I progetti, infatti, prevedono corsi - 37 in totale - che spaziano dagli elementi base di ristorazione alle tecniche di pulizia e sanificazione, dalle tecniche per le piccole manutenzioni in edilizia a quelle di falegnameria. Nel settore agricolo i corsi riguardano le tecniche di orto- floricoltura, di agricoltura biologica, di trasformazione dei prodotti agricoli e di gestione dell’azienda agricola. Inoltre, è stata prestata particolare attenzione alla popolazione detenuta femminile per la quale è stato studiato un corso ad hoc di tecniche di manicure e pedicure. Tutti i corsi sono strutturati con l’obiettivo di permettere agli utenti il conseguimento di una qualifica professionale che può essere ottenuta anche completando percorsi formativi frequentati nelle precedenti annualità. Il programma, infatti, si pone in continuità con l’azione formativa già sviluppata in questi anni a favore della popolazione detenuta, così come stabilito anche dai numerosi protocolli stipulati dalla regione con il ministero della Giustizia. Altro problema riguardante il carcere di Trieste che è in via di miglioramento, riguarda la mancanza di macchinari per il lavaggio degli indumenti dei detenuti. Oggi i reclusi sono costretti a lavare i loro vestiti utilizzando dei secchi all’interno delle docce comuni, creando quindi una situazione intollerabile dal punto di vista igienico. Il presidente della camera penale di Trieste Alessandro Giadrossi, racconta a Il Dubbio che "per ora hanno predisposto gli allacci per tre lavatrici ad ogni braccio del carcere, ma mancano i soldi che dovrebbero essere erogati dallo Stato". L’avvocato Giadrossi evidenzia come a livello generale c’è stato un miglioramento, anche se dal punto di vista strutturale, soprattutto all’interno delle celle e degli spazi vivibili, ci sono da fare ancora numerosi passi in avanti. Anche il consigliere regionale Lauri spiega che l’assistenza sanitaria è molto migliorata, soprattutto da quando la competenza è passata dal ministero della Giustizia alla regione. L’attività sanitaria è garantita attraverso i medici di assistenza primaria, gli specialisti, il personale infermieristico e altri professionisti dell’azienda sanitaria locale. Infatti nel carcere di Trieste è sempre presente un medico e gli infermieri. Inoltre, a breve, verrà attivato un progetto sociale relativo alla odontoiatria, in maniera tale che tutti i detenuti possano curarsi i denti con più facilità. Lamezia Terme: De Biase (CaC) "il carcere non sarà mai riaperto?" lameziaoggi.it, 22 dicembre 2016 "La struttura carceraria lametina sarà restituita al demanio? Il carcere a Lamezia non sarà mai riaperto?. Il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria è definitivamente perduto?". Sono delle domande che si è posto il consigliere comunale Salvatore De Biase, Capo Gruppo "Calabria al Centro", ed alle quali da una immediata riposta: "in sostanza, pare di sì". Perché spiega De Biase "non tanto velatamente, qualcuno in questi giorni, sta tramando affinché Lamezia, dopo aver visto chiudere lo storico Carcere e dopo l’impegno solenne atto a recuperare il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, sta lavorando a che tutto si perda o tutto si vanifichi". De Biase riferisce che "in questi giorni si susseguono i sopralluoghi presso la nostra struttura, affinché possa essere detta la parola fine a questa nuova ‘Tela di Penelopè". Quindi si domanda ancora "avrà vinto ancora una volta la resistenza di Catanzaro e quindi oltre al carcere, la città di Abramo ospiterà, senza indugi, anche il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e forse con qualche complicità lametina?". Altro interrogativo che pone De Biase: "si sono inventati di tutto, pur di non riconoscere a Lamezia quanto sottratto, perduto e meritato, a partire, da problemi di natura strutturale, per il vecchio carcere, a continuare, lievitazione di costi di rifacimento, e forse anche abusi edilizi. Qualcuno poi ricordava che per la ristrutturazione, si era partiti da 500mila euro ed ora pare si è giunti a circa 3milioni". Intanto - aggiunge - il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria che opera su Catanzaro, sembra che costi in fitto, circa 140,00 euro all’anno, e i nuovi locali offerti dal comune, sembrerebbero anch’essi non utilizzabili". De Biase non ha dubbi "la città di Perugini, nata per essere al centro della Calabria, "la nuova Brasilia", come la definì il Padre fondatore, rattrista che debba sempre dare notizia sulle proprie perdite e contestualmente offrire i larghi servizi, maggiori collegamenti, alta logistica, baricentricità, ecc., e quando può ambire, come nel caso specifico a vedere una struttura riconvertita e da utilizzare a "Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria" veder negata tale possibilità". Alla luce di tutto ciò De Biase pone altri interrogativi: "Il carcere lametino è definitivamente perduto? Il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria rimarrà su Catanzaro? Forse il "dado è tratto", dopo soprattutto l’apertura del padiglione a Catanzaro, che voglio ricordare, complessivamente può ospitare circa 600 detenuti e in emergenza 1.000, si può immaginare che la "parola fine sia stata detta"?. Roma: i giudici di sorveglianza "pace con gli avvocati" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 22 dicembre 2016 Dopo la protesta dei penalisti contro il Tribunale di Roma. Il Comitato nazionale dei magistrati dell’esecuzione penale e la sezione capitolina dell’Anm invitano "a riprendere la proficua interlocuzione per fronteggiare insieme le drammatiche carenze d’organico". Non si placa la polemica sulle criticità del Tribunale di Sorveglianza di Roma. Questa volta prende posizione direttamente il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza e la Giunta distrettuale dell’Anm della Capitale. La scorsa settimana la Camera penale di Roma aveva indetto una giornata di astensione dalle udienze per protestare contro le "intollerabili condizioni di esercizio del diritto di difesa nella fase dell’udienza, riservata alla decisione delle istanze sulla libertà personale, e in quella istruttoria, ove si registrano inaccettabili difficoltà di accesso alle cancellerie dei singoli magistrati". Da tempo gli avvocati romani denunciano le inefficienze organizzative dell’Ufficio di Sorveglianza. Ma, nonostante le rassicurazioni, i problemi sono rimasti irrisolti. Anzi, "oltre al peggioramento delle condizioni in cui versa la cancelleria centrale", i legali evidenziano anche "un irrigidimento delle decisioni univocamente orientate ad un’ottica ed ad una politica carcerocentrica". Autonomia & indipendenza, la corrente della magistratura associata che fa capo al presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, aveva replicato all’iniziativa dei penalisti con un durissimo comunicato, scorgendo dietro questa protesta "pericoli per la democrazia", tanto da richiedere l’intervento urgente del Csm e del ministro della Giustizia affinché fossero garantite ai magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Roma "condizioni di lavoro che con- sentano la libertà di coscienza nella valutazione delle delicate questioni giudiziarie rimesse alle loro decisioni". È dell’altro giorno la notizia della presa di posizione su questa vicenda anche del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza e dell’Anm della Capitale. Come si legge nel comunicato, il "Conams", "nel respingere ogni attacco ai fondamenti della giurisdizione rieducativa, ritiene inopportuna ed inadeguata una forma di protesta che abbia ad oggetto la ‘ qualità’ dei provvedimenti e auspica in ogni caso che le problematiche riguardanti gli accessi agli uffici del Tribunale di Sorveglianza di Roma e la lamentata compressione dei diritti di difesa siano risolte attraverso una proficua interlocuzione tra tutti i soggetti coinvolti". Il Comitato, prosegue la nota, "nella sua storia non ha mai svolto compiti di aprioristica difesa corporativa ma ha sempre contribuito a creare un clima costruttivo tra tutti i soggetti che operano nel mondo della esecuzione penale, mondo che oggi purtroppo sconta gravissime carenze di organico e ridottissime risorse umane e materiali, poiché il fine ultimo della nostra funzione è la realizzazione della finalità rieducativa della pena e il ripristino della legalità e dignità violate". Le toghe, conclude il comunicato, confidano "nel ripristino di un clima di leale collaborazione tra la Magistratura di sorveglianza di Roma e il Foro ed auspicano pertanto un confronto costruttivo". Dello stesso tenore anche la nota dell’Anm romana: "Una protesta attuata attraverso un’astensione dalle udienze, e che abbia ad oggetto l’esercizio della funzione giurisdizionale e le scelte discrezionali che competono ai magistrati, non potrà mai vederci concordi. L’unico risultato che questa ottiene è ostacolare quel dialogo che avvocati e giudici devono quotidianamente perseguire, pur tra mille difficoltà". In questa vicenda, però, un contribuito importante potrebbe venire dal Csm, con la nomina di un presidente il presidente della Sorveglianza della Capitale, da mesi senza vertice. Roma: Fp-Cgil "intollerabile poliziotti indagati per evasione Rebibbia" rassegna.it, 22 dicembre 2016 Chiaramonte: "Lasciati soli dai vertici e in cattive condizioni di lavoro, si guardi ai vertici". "Non è tollerabile che a pagare il prezzo più alto per la cattiva gestione del sistema penitenziario siano ancora una volta siano i poliziotti penitenziari". Così il segretario nazionale della Fp Cgil, Salvatore Chiaramonte, commenta la notizia degli undici poliziotti penitenziari in servizio a Rebibbia, indagati per l’evasione dei tre detenuti albanesi del 27 ottobre scorso. Il dirigente sindacale sottolinea "la totale fiducia nell’operato della magistratura, ma riteniamo che non possano pagare coloro i quali sono lascati soli dai vertici del sistema, che operano in un contesto difficile e che sono costretti a carichi di lavoro massacranti, a causa della grave carenza di organico, di cui soffre il corpo di Polizia penitenziaria. Carenza, causata dai mancati investimenti per le assunzioni, per i sistemi di sorveglianza e la formazione, che la politica non ha avuto il coraggio di fare nel settore, ma anche dalla cattiva gestione del personale, messa in atto negli anni dai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria". Per questo motivo, aggiunge il sindacalista, "risulta incomprensibile come questi stessi vertici non vengano chiamati a rispondere del loro operato. Per quale motivo non si vada ad indagare su come si siano create le gravi carenze di organico che affliggono l’istituto di Rebibbia - circa trecento unità, come molti altri nel resto del territorio nazionale, e sul perché molti poliziotti penitenziari siano stati distolti dai loro compiti istituzionali e distaccati in sedi amministrative a fare altro". Da tempo, ricorda l’esponente Cgil, "denunciamo tale fenomeno e, malgrado qualche incontro con le organizzazioni sindacali al Dap e qualche dichiarazione d’intenti, ancora non si è dato il via a un progetto di recupero del personale di Polizia penitenziaria verso le carceri. Riteniamo che il momento di agire non sia più rinviabile e che coloro che si sono succeduti negli anni alla guida del Dap comincino a rispondere del loro operato". Parma: quei sei preti, una luce in via Burla di Michele Ceparano La Gazzetta di Parma, 22 dicembre 2016 Le visite, l’ascolto e le telefonate ai familiari: un impegno quotidiano tra chi soffre. Quando qualcuno li chiama "preti di frontiera" sorridono. Ma questa è la verità. Se non è frontiera il carcere, allora cosa lo è? A Parma sono loro, coadiuvati dai volontari e da chi svolge la propria professione tra i detenuti, che si occupano di quelli che per chi è fuori spesso sono "invisibili". La loro è una missione quotidiana dove sembra che la luce non esista più. Una missione che svolgono nell’istituto penitenziario di via Burla, dove si sperimenta quello che viene comunemente definito il carcere duro. Tutti i giorni una parola, un gesto, un aiuto a chi troppo spesso ritiene di non fare più parte del mondo. Un apostolato che si fa strada tra la sofferenza, in cui spesso questi religiosi sono quasi soli. La politica nazionale infatti si occupa del carcere a corrente alternata. Tra le nobili eccezioni il senatore del Pd Luigi Manconi e il Partito radicale che, grazie alla sua radio, porta ciò che è dietro le sbarre nelle case degli italiani. Perché occuparsi di questi temi, amara constatazione dello stesso Manconi a ottobre in visita in via Burla, "fa perdere voti". Ma loro non si arrendono. Sono sei. Don Umberto Cocconi, sacerdote notissimo a Parma e animatore dell’Associazione San Cristoforo e i frati dell’Annunziata fratel Giovanni Mascarucci e fratel Felice D’Addario, cappellani del carcere. Oltre a loro prestano servizio nell’istituto parmigiano padre Marcello Gustavo Pantano, detto Marcellino - ottant’anni e un entusiasmo da far invidia a un ventenne, della Congregazione degli Stimmatini di via Montanara, don Stefano Bianchi, parroco della cattedrale di Fidenza, e don Nicola Liveri, vicario di San Leonardo. "Occuparsi di carcere - spiega don Cocconi - è un’esperienza che umanizza perché si entra davvero nelle piaghe e nelle sofferenze delle persone". È sbagliato considerarlo qualcosa che "non ci riguarda". Il carcere, infatti, continua don Cocconi, "potrà cambiare se anche la nostra città cambia. Ci sono persone che hanno sbagliato ma l’atteggiamento giusto è quello che il Papa più volte ha sottolineato: la misericordia. Che significa dare a una persona la possibilità di riconciliarsi con se stessa. Una persona che è capace di sentire che in lei c’è ancora fiducia può essere una grande risorsa per la società. Io ho incontrato persone profondamente cambiate, tanti giovani che adesso lavorano, si impegnano e sono dei testimoni. Io li chiamo agli incontri. E loro, che hanno sperimentato il buio, sono diventati una luce". Il servizio tra i detenuti ha ritmi ben precisi. "Io vado in carcere tutti i giorni eccetto il lunedì - racconta fratel Giovanni Mascarucci. Inizio alla mattina verso le 9, in sezione, dove faccio visita ai detenuti. In primo luogo prendo nota delle telefonate da fare perché alcuni di loro, ad esempio quelli dell’alta sicurezza, possono fare solo due chiamate al mese. Per loro è molto importante tenere i contatti con i loro familiari e io riporto i loro messaggi. Vanno da cose di tutti i giorni come cibo e vestiti alle informazioni sulle condizioni di salute dei loro cari". Nella "zona dei passeggi" - continua - "abbiamo invece la possibilità di fare dei colloqui. Ci mettiamo in una cameretta e parliamo con loro. A volte alcuni si confessano o affrontano le problematiche carcerarie. Io cerco di captare queste istanze e poi ne parlo con l’ispettore o il direttore sanitario. Cerco di mediare e di capire". Fratel Mascarucci ha iniziato a lavorare in carcere, quasi per caso, nel 2010. "Ero a Bologna - rivela - e cercavano un sacerdote che andasse alla Dozza (il carcere felsineo, ndr) alla domenica. Non pensavo di scoprire questo mondo. Ora, ogni volta che ci entro mi emoziono". Un’esperienza che lo ha arricchito e, soprattutto, un percorso di verità. "I detenuti, specie i più anziani - precisa - hanno una grande capacità di capire chi sei. Molti infatti vengono dalla strada. Capiscono se con te possono parlare. Davanti a loro non puoi mentire. Questo è molto utile anche a me, dal momento che nella vita di tutti i giorni è raro incontrare la verità". Fratel Felice D’Addario, italo-argentino di Buenos Aires, è l’altro cappellano di via Burla. "Sono stato cappellano - dichiara - a Genova e a La Spezia e ho visto tanti detenuti vivere un percorso che, se non possiamo sempre chiamare di conversione, è di verità e di accettazione. Noi, come religiosi, non ci presentiamo a loro con il Vangelo o la Bibbia in mano. Cerchiamo prima di stabilire un rapporto di empatia. Al Giubileo dei carcerati Papa Francesco infatti ha detto: "Perché lui e non io?". Io non chiedo mai a un detenuto che reato ha commesso. Noi non facciamo domande, ci sono già anche troppe persone intorno a loro che gliele fanno". Il dolore è un compagno di strada dei preti del carcere. Troppo spesso infatti si legge di detenuti che si suicidano. Qualcosa che dovrebbe suonare inaccettabile in una società che ama definirsi liberale, ma che invece purtroppo di liberale ha davvero poco. "Anche in un’esperienza come stiamo facendo noi - interviene don Stefano Bianchi - esistono successi e fallimenti. La domanda che ci si pone è: "Potevo fare di più per evitare, ad esempio, un suicidio?". Anche episodi dolorosi, però, "devono spingere a un ascolto sempre maggiore, ad essere più attenti a una sofferenza che a volte non si riesce a cogliere in tutta la sua profondità". Don Nicola Liveri, infine, si è avvicinato al carcere "grazie ai francescani come padre Celso. Da prete il motivo che più mi ha spinto è stato porre la mia fede in un contesto difficile". In carcere va tutto soppesato. Specialmente le parole. "Quando si dice messa per chi è detenuto - puntualizza - si deve valutare molto bene cosa dire nell’omelia. Le parole hanno un altro valore rispetto a quando si dice messa fuori. Va infatti cercata e trovata una sintesi per portare una speranza che non sia un’illusione". Il servizio è duro e l’impegno è costante. "Il passaggio per me più significativo - conclude - è la possibilità di avere dei colloqui con i detenuti, arrivando a conoscerli non superficialmente, ma in profondità. E la fedeltà con cui ci si reca in carcere viene premiata". La questione dei permessi-premio e delle dimissioni difficili Il permesso-premio anche di poche ore, più facile in altri istituti penitenziari, a Parma, carcere di massima sicurezza, è piuttosto raro. "Dipende non tanto da chi gestisce il carcere - spiega il cappellano fratel Giovanni Mascarucci, ma dai magistrati di sorveglianza. I detenuti ne soffrono tantissimo". Fratel Mascarucci ha conosciuto anche Toto Riina, il boss mafioso detenuto proprio a Parma. "Andavo al 41/bis per celebrare la messa davanti alla sua cella" racconta. Permessi: c’è chi li desidera e chi è ormai così assuefatto al carcere che, anche quando ne può beneficiare, resta freddo. A tale proposito, don Stefano Bianchi, parroco della cattedrale di Fidenza, diocesi che ha un ruolo importante nel servizio in carcere, racconta un episodio emblematico. "Durante queste festività - dice - accoglierò un ragazzo che ha ricevuto un permesso-premio di sei ore per venire a Fidenza. Ebbene, ciò che potrebbe sembrare un motivo di gioia per questa persona, che è da anni detenuta a Parma e che potrà così incontrare sua madre fuori dal penitenziario, da lui è stato vissuto in modo differente. In pratica, la routine del carcere ormai era tale che anche un permesso non riusciva a motivarlo. Abbiamo dovuto addirittura faticare per convincerlo che questa era una possibilità che gli veniva data e che rappresentava un momento da vivere nella bellezza senza rifugiarsi nel livore e nell’umiliazione". Alla fine lo hanno convinto e "quindi verrà da noi". Padre Marcellino Pantano per "aprire il cuore" dei detenuti ha invece diversi metodi. "Durante l’omelia - racconta - anche loro possono parlare. È accaduto così che uno di loro ha spiegato a tutti perché era in carcere e il suo percorso di avvicinamento al Signore. Vorrei portarlo nella mia parrocchia per fargli raccontare la sua testimonianza ai fedeli. Se sentiste adesso come parla di Dio (il volto di padre Marcellino si illumina, ndr). Io, comunque, devo anche ringraziare i miei straordinari collaboratori: Giacomo e suor Flavia". Il religioso, una vita sempre in mezzo a chi soffre - non solo i detenuti, ma anche gli anziani e i malati - domenica scorsa ha portato in via Burla il coro della sua parrocchia, che ha cantato durante la messa. "I detenuti li hanno applauditi, è stata una grande gioia per tutti. Un momento di serenità". Don Umberto Cocconi torna infine al dopo-carcere, di cui la sua associazione da tempo si occupa. "Quando uno esce non ha nulla - racconta. A volte ci sono dei malati a cui viene tolta perfino la sedia a rotelle, che è proprietà del carcere". Con il padiglione che verrà ultimato nel 2018 e che ospiterà duecento nuovi detenuti senza fissa dimora, i problemi aumenteranno. "Parma, la nostra città - riprende don Cocconi, deve cercare di aprirsi ancora di più a chi soffre. Il Comune, il cui garante per i detenuti Roberto Cavalieri sta svolgendo un ruolo importante, dovrebbe pensare anche alle cosiddette "dimissioni difficili". Una persona che ha scontato la sua pena deve infatti poter tornare nella società. Lo sancisce la costituzione e spetta alle istituzioni metterlo in pratica". Sondrio: tanti eventi per allietare il Natale in carcere La Provincia di Sondrio, 22 dicembre 2016 Anche quest’anno la Casa Circondariale di Sondrio ha organizzato una serie di piacevoli eventi per celebrare il Natale in carcere e continuare così ad alimentare la relazione e l’amicizia tra l’Istituto e la città. Venerdì 16 dicembre è stato il momento della partita di calcio giocata tra la squadra dei ragazzi della scuola Pio XII e quella dei detenuti sondriesi e conclusa da una merenda solidale. Sabato 17 alle ore 17.00 è stata, invece, protagonista la musica. Grazie alla disponibilità di Luca Trabucchi, responsabile didattico dell’indirizzo classico della Civica Scuola di Musica Danza Teatro della provincia di Sondrio, l’Orchestra Giovanile Alpinae Gentes della Civica Scuola, con i suoi 23 elementi e i suoi coordinatori, maestri Elia Senese e Francesca Vignato, si sono esibiti nella palestra del carcere, che per l’occasione si è trasformata in auditorium. Il giorno 20 alle ore 20.00 è stata la volta del Coro Alpi Retiche di Civo, un evento reso possibile grazie alla collaborazione tra Gianfranco Giambelli, Presidente della sezione Valtellinese degli Alpini dell’Associazione nazionale, e Federico Motta, responsabile per la provincia di Sondrio della giornata della Colletta alimentare, con cui il carcere collabora ormai da due anni. Sono stati, quindi, distribuiti i doni ai papà detenuti per i loro figli. Doni che, in realtà, sono stati un regalo dei sondriesi, perché acquistati grazie alle offerte raccolte all’evento che il cinema Excelsior ha organizzato con la proiezione del film Fiore, dedicato al tema dell’affettività in carcere. La serata si è, poi, conclusa con la cena offerta dalle persone detenute e preparata da loro nella cucina dell’Istituto. Il vino è stato donato dalla Fondazione Fojanini grazie al direttore Graziano Murada. Mercoledì 21 la Casa circondariale ha accolto il vescovo Oscar Cantoni, che si è intrattenuto per un momento di colloquio personale con i detenuti. "La visita del Vescovo è sempre un momento importante perché è l’incontro tra chi esprime una Fede e chi, se vuole e se lo sente, è chiamato a raccoglierla e a riflettere", ci ha detto la direttrice Stefania Mussio. "È un importante segnale di vicinanza e solidarietà: è il desiderio di ricordarsi degli ultimi e di non escludere nessuno, neppure chi ha sbagliato. Il Natale è un momento di gioia per tutti, proprio per tutti, nessuno escluso", ha concluso. Il giorno di Natale alle 9.15 il cappellano don Ferruccio Citterio celebrerà la Messa, mentre il 28 dicembre alle 21 il Coro Voci nel Tempo di Cortenova chiuderà l’anno. Tutti gli eventi sono stati e saranno aperti al pubblico. Le energie di tante persone si sono, dunque, unite fattivamente e felicemente a quelle della direttrice, degli operatori dell’Istituto, dei poliziotti penitenziari e del cappellano, diretti dalla presenza del comandante del reparto, Luca Montagna. Opera (Mi): un calcio alle sbarre, papà detenuti e bambini si sfidano in un torneo natalizio di Alessandro Puglia La Stampa, 22 dicembre 2016 Ogni anno sono circa 100mila i bambini che per vedere i loro genitori sono costretti ad entrare in un carcere. Per una volta, si ritroveranno a giocare insieme in un campo a 5. Una lunga coda di capelli svolazza nel campetto di calcio a 5 del carcere di massima sicurezza di Opera: pantaloncini sopra la tuta, scarpe bianche da tennis nuove di zecca, ma soprattutto tanto impegno e voglia di riabbracciare papà. Alla partita prenatalizia tra papà detenuti e figli, organizzata dall’associazione Bambinisenzasbarre, c’era anche Marica, il nome è di fantasia, nove anni, che da tempo si rifiutava di andare nella sala colloqui. "Ma per queste cose io ci sono", dice oggi emozionata al suo papà, mentre gli altri bimbi corrono dietro al pallone. Marica era nella pancia della mamma quando il padre era già dietro le sbarre. Oggi è tra i 100 mila bambini che ogni anno entrano in un carcere italiano per stabilire un legame con i propri genitori. "Quando si entra in un carcere, sembra di essere a scuola. Sono bambini con un segreto che spesso li porta all’emarginazione", racconta Lia Sacerdote, presidente di Bambinisenzasbarre che ha lanciato l’iniziativa dell’insolita partita in 40 istituti penitenziari italiani coinvolgendo 600 detenuti. A differenza delle altre partite che si sono disputate nel mese di dicembre, a Opera, i bimbi dei papà detenuti non erano a bordo campo a fare il tifo, ma veri e propri avversari, per due ore di partitelle da 20 minuti che nessuno qui dimenticherà. A cominciare dal direttore del carcere di Opera, Giacinto Siciliano, che ha accolto l’iniziativa dopo la richiesta dei papà detenuti di giocare insieme ai loro figli. La partita tra papà detenuti e figli rientra a pieno titolo nella serie di attività di sensibilizzazione sostenute dalla Carta dei figli dei detenuti, protocollo sottoscritto a settembre tra il ministero della Giustizia, l’autorità garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e Bambinisenzasbarre. Un protocollo che prevede un tavolo di monitoraggio sulle richieste dei bambini con genitori detenuti, mai così tante nel periodo natalizio. E che presto potrebbe diventare un modello europeo. Il protocollo è già stato inviato all’Enoc, la rete dei garanti europei, e l’Italia farebbe da apri pista. "La partita è un’occasione che dà a questi bambini un’occasione di vivere la quotidianità, alimentando così una continuità affettiva con i propri genitori", spiega il garante nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza, Filomena Albano. Il prossimo calcio d’inizio per la partita tra papà detenuti sarà al carcere di San Vittore. La piccola Marica intanto ha fatto gol. I bambini hanno sconfitto i papà detenuti per 10 a 4. Il difficile momento del saluto oggi sarà più lieve. Forlì: pranzo di Natale in carcere con doni di prima necessità per i detenuti forlitoday.it, 22 dicembre 2016 Techne si inserisce nell’accordo di collaborazione tra Istituto Don Calabria di Verona e Calzedonia Spa, nota ditta italiana produttrice di abbigliamento intimo, volto a devolvere a persone bisognose i capi fallati di propria produzione. Si è svolto mercoledì, nel carcere di Forlì il pranzo di Natale che ha visto sedere allo stesso tavolo 114 detenuti, operatori, formatori e volontari. Il pranzo è stato realizzato da 10 detenuti che, a seguito di un corso di cucina appena terminato, hanno preparato dall’antipasto al dolce per complessive 170 persone. Il tutto è stato coordinato da Massimiliano Cameli, titolare e chef del ristorante "Il Vecchio Convento" di Portico di Romagna che ha tenuto il corso in qualità di docente ed ha diretto i detenuti nella preparazione dei cibi e nella relativa distribuzione. Corso e pranzo sono stati resi possibili grazie al contributo di volontari, dell’ente pubblico di formazione Techne e delle numerose associazioni di volontariato che operano in carcere. "Un bellissimo momento - sottolinea Palma Mercurio, direttrice della Casa Circondariale di Forlì - per un sincero scambio di auguri e per un breve spazio di convivialità che restituisce dignità alle persone in esecuzione penale e che porta un po’ di calore natalizio in carcere. È d’obbligo ringraziare per questo pranzo - continua la Mercurio - l’Associazione Lions Club Forlì, che ha fornito le bibite ed i panettoni messi a disposizione dalla ditta Flamigni, il CdS di Forlì per gli allestimenti, l’imprenditore Tonino Montanari, il gruppo musicale TripparDò, il tenore Maurizio Tassani e la ditta Gobbi di Cesena che ha donato le verdure". In occasione del pranzo di natale, i detenuti hanno inoltre ricevuto da Techne, abbigliamento intimo e pigiami, ovvero beni di prima necessità che, a causa dell’indigenza in cui versano, rappresentano un bene prezioso. Techne si inserisce nell’accordo di collaborazione tra Istituto Don Calabria di Verona e Calzedonia Spa, nota ditta italiana produttrice di abbigliamento intimo, volto a devolvere a persone bisognose i capi fallati di propria produzione. "La nostra scelta - spiega Lia Benvenuti direttore generale di Techne - è stata quella di devolvere tali indumenti, confezionati in pacchi regalo, ai detenuti e detenute più bisognosi del nostro carcere. Si tratta di indumenti nuovi, con cartellino e prezzo ancora inseriti - continua la Benvenuti - che hanno difetti di produzione, spesso davvero impercettibili come scuciture, scoloriture in qualche punto del capo, in genere imperfezioni davvero minimali". Il carcere di Forlì ospita attualmente 114 persone, di cui indicativamente una quindicina sono donne. "Ringraziando Calzedonia e Techne per la sensibilità e disponibilità dimostrate - evidenzia Palma Mercurio - siamo convinti che il "pigiama di Natale" rafforzi il legame col territorio, rappresentando il simbolo dell’incessante e operoso lavoro che, tutto l’anno, senza sosta, i volontari delle diverse associazioni compiono nei confronti dei detenuti più bisognosi". Techne, agenzia di formazione di proprietà del Comune di Forlì (attraverso Livia Tellus Governance Spa) e del Comune di Cesena, lavora in carcere da oltre vent’anni anni, realizzando corsi di formazione ed operando nei 3 laboratori produttivi interni di cui è stato co-fondatore (la cartiera Manolibera, il laboratorio di assemblaggio Altremani ed il laboratorio di disassemblaggio di apparecchiature elettriche ed elettroniche), permettendo così ai detenuti di imparare un mestiere per reinserirsi nella società e scongiurare i rischi di recidiva. Firenze: il sindaco Nardella a pranzo con le detenute di Sollicciano gonews.it, 22 dicembre 2016 Pranzo di Natale nel carcere di Sollicciano per il sindaco Dario Nardella, che oggi nel Giardino degli incontri ha fatto gli auguri di Natale e fine anno alle donne detenute della Sezione femminile e ha suonato per loro il violino, intonando tra l’altro "Tu scendi dalle stelle". Con il primo cittadino hanno partecipato tra gli altri anche gli assessori al Welfare Sara Funaro e allo Sport Andrea Vannucci, il direttore della Casa circondariale di Sollicciano Loredana Stefanelli, il garante toscano dei detenuti Franco Corleone, il garante dei detenuti di Firenze Eros Cruccolini e don Vincenzo. "Stiamo lavorando a dei progetti molto importanti per questo carcere - ha detto il sindaco Nardella - prima di tutto per dare opportunità di lavoro ai detenuti, perché il lavoro è fondamentale per vivere i momenti difficili della reclusione e per viverli con la speranza e l’opportunità di imparare qualcosa perché una volta fuori si sappia cosa fare e come prendere in mano la vita". "Inoltre, abbiamo deciso con l’assessore Funaro di individuare una struttura nel Comune per l’attuazione dell’articolo 21 sulla semilibertà - ha spiegato - perché vogliamo consentire a chi entra nel processo di semilibertà di vivere davvero nella comunità della città. Questa struttura sarà esterna all’istituto penitenziario e se riusciremo in questo potremo consentire al provveditorato e alla direzione del carcere di trovare una struttura migliore per le donne. Infine, un altro progetto riguarda la possibilità di supportare le mamme e i bambini e su questo ci lavoreremo con l’assessore Funaro". "Per noi la vita del carcere è importante - ha concluso il sindaco: non è un luogo separato o diverso della nostra città, è uno dei luoghi della città e noi vogliamo sentirci vicini e utili a tutti i detenuti". "Sollicciano ci sta molto a cuore e soprattutto il futuro dei tenuti dopo il carcere perché il reinserimento nella nostra società è la cosa più importante - ha detto l’assessore Funaro. Per la detenzione esterna delle mamme con i bambini c’è il progetto dell’Icam che attraverso la Società della salute siamo riusciti finalmente a procedere con gli affidamenti di gara e perciò sarà un progetto che sarà realizzato. Ci auguriamo che i lavori vadano spediti in modo di avere a breve una struttura per le mamme detenute con i bambini". "Lo sport è un modo straordinario per stare insieme", ha detto l’assessore Vannucci, che ha raccontato di essere stato a Sollicciano lo scorso febbraio per una partita di calcio che ha visto protagonisti i detenuti, gli amministratori comunali e i dirigenti Uisp. "L’attività sportiva e ludica non va sottovalutata in nessuna realtà - ha continuato - e tanto meno in una realtà complessa come il carcere perché è un modo per fare attività sportiva e divertirsi allo stesso tempo". L’assessore allo Sport ha poi colto l’occasione per comunicare che anche il prossimo anno saranno garantite, attraverso la collaborazione con la Uisp, duemila ore di sport per i detenuti, maschi e femmine di tutte le età, e che il Comune sta lavorando con il Comitato toscano della Figc che fornirà palloni e materiale sportivo per i detenuti. Il pranzo, preparato è stato preparato e servito dai parroci della Madonnina del Grappa, della parrocchia di Castello, di Sant’Antonino al Romito, del Sodo, della parrocchia di San Bartolomeo e dai volontari delle varie parrocchie e di Casa Caciolle e dell’atletica Castello. Il pranzo a base di crostini misti, lasagne, arista con patate e insalata, si è concluso con il panettone di 5 chili donato dal sindaco Nardella. Lecce: giovani detenuti arbitri sportivi con il progetto di riabilitazione sociale leccesette.it, 22 dicembre 2016 Il progetto del Csi porta nei campi sportivi i giovani detenuti per insegnare l’arbitraggio sportivo. È possibile far amministrare la "Giustizia" ad un detenuto? Almeno quella sportiva certamente sì. Nasce da questo spunto il progetto del Csi Centro Sportivo Italiano di Lecce per far entrare lo sport in carcere allo scopo di migliorare la vita dei detenuti. Un sogno di lungo corso per l’Ente di promozione sportiva, il più antico fra tutti, e che si distingue perché promuove lo sport come momento di educazione, di maturazione umana, di impegno e di aggregazione sociale, ispirandosi alla visione cristiana dell’uomo e mettendosi al servizio delle persone e del territorio, rispondendo in tal modo ad una domanda di sport non solo numerica, ma qualificata sul piano culturale, umano e sociale. Per volere del dottor Marco Calogiuri, vice presidente nazionale, nonché presidente del Centro Sportivo Italiano di Lecce, viene alla luce il progetto "Fischietto oltre il muro" elaborato dal settore Formazione dell’Associazione di Lecce, nel quadro delle iniziative organizzate per il Giubileo della Misericordia attraverso lo sport. Si tratta di un Corso di arbitri di calcio a 5, i cui destinatari, 12 giovani detenuti della Casa Circondariale di Lecce, hanno iniziato a frequentare nei giorni scorsi. Nelle diverse giornate formative questi giovani impareranno le regole del gioco del calcio, per rispettarle e farle rispettare, esattamente come nella vita di tutti i giorni. Una volta superati i test, a cui saranno sottoposti, i neo arbitri saranno, con il doveroso consenso della Direzione del Penitenziario, utilizzati sui campi da gioco per dirigere le gare dei vari campionati organizzati che il Csi organizza su tutto il territorio provinciale. Una occasione veramente unica per il reinserimento nella Società per questi giovani attraverso lo sport, in quanto il corso, sarà ovviamente indirizzato sugli aspetti tecnici e regolamentari del gioco del calcio a 5, ma i tecnici e i formatori della nostra Associazione faranno in modo di coinvolgerli non semplicemente al rispetto delle regole, ma soprattutto nel trasmettere ai ragazzi che giocano la loro partita sul campo, la cultura della legalità e della reciproca condivisione dei valori dello sport, peculiarità esclusiva dell’arbitro Csi. Attentati e opinione pubblica. I terroristi vogliono radicalizzare l’Europa di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 22 dicembre 2016 Nel 2017 voteranno molti Paesi. Dobbiamo evitare che siano gli jihadisti a decidere l’esito. Forse non c’è nulla di più crudele che spargere sangue sul Natale. Ma c’è qualcosa di più insidioso: spargerlo sulle elezioni. E il 2017 sarà per l’Europa un decisivo anno di voto. Il camion del massacro di Berlino, lanciato sulla folla da un terrorista che l’Isis riconosce come proprio "soldato", rievoca certo, per modalità e ferocia, l’orrore dell’attentato del 14 luglio sulla Promenade di Nizza. E tuttavia un’analisi più accorta della scelta di tempo deve forse indurci a qualche preoccupata, ulteriore riflessione: perché questo nuovo attacco potrebbe non essere rivolto soltanto, o soprattutto, "contro il Natale cristiano", come s’è detto, ma contro la libertà di scelta nelle urne di diverse nazioni europee, configurandosi come l’atto di un’infame "campagna elettorale" dei fedeli del Califfato. Noi italiani sappiamo bene, per avere vissuto gli anni di piombo, quanto il terrorismo possa cambiare destini e orientamenti politici di un Paese. E l’affollamento elettorale della primavera-autunno 2017 è di quelli che difficilmente sfuggono a velleità destabilizzanti. Il primo turno delle presidenziali francesi è fissato il 23 aprile: non c’è sondaggio che non dia per scontato l’accesso al ballottaggio del 7 maggio di Marine Le Pen, che ha portato il Front National a un passo dall’Eliseo. A marzo tocca intanto all’Olanda, dove l’ultradestra di Geert Wilders è accreditata del triplo dei consensi ottenuti nel 2012. Dopo l’estate, probabilmente a settembre, i tedeschi voteranno sulla decisione più importante nel futuro d’Europa: concedere o meno un quarto mandato ad Angela Merkel, respingendo le suggestioni estremiste di Frauke Petry, leader xenofoba di Alternative für Deutschland, cui veniva attribuito un 12 per cento già prima della strage del tir. Non è da escludere che, anticipando la scadenza naturale della legislatura, vada al voto anche l’Italia, in un quadro dove il populismo di Grillo (alle corde per la disastrosa gestione Cinque Stelle di Roma Capitale) potrebbe essere insidiato da quello di Matteo Salvini, che avrà anche un solo tasto su cui battere ma non manca mai di usarlo. Ed è, esattamente, il medesimo tasto battuto dai suoi sodali europei. Da Wilders come da Le Pen e da Petry, Angela Merkel con la sua politica coraggiosa e tollerante verso i rifugiati è dunque descritta come la vera responsabile dell’attentato di Berlino ("mani sporche di sangue" che, nella versione salviniana, la renderebbero passibile di "un processo per alto tradimento in caso di guerra"). Ammesso che questa sia una guerra, forze nazionali responsabili farebbero fronte comune contro il nemico. Le destre populiste europee lo fanno, sì, tra loro, ma identificano il primo nemico nel fronte interno: nei partiti "di sistema" liberali o riformisti che guidano i rispettivi Paesi, additandoli al pubblico come traditori. Fin qui, rende. Tuttavia, a ben guardare, la vera scommessa jihadista non è radicalizzare qualche migliaio di giovani islamici: è radicalizzare noi, milioni di europei. Quale avversario sarà infatti preferibile per chi vuole trascinare la propria gente alla Guerra Santa in nome di Allah? Governanti razionali come Merkel, capaci di accogliere chi ne ha diritto e reagire distinguendo, oppure leader che cavalchino il panico, come Le Pen o Frauke Petry, e promettano una reazione così indiscriminata da spingere allo scontro totale le comunità musulmane europee? Se la sfida per i cuori e le menti è tra le forze della paura e quelle della ragione, il "fronte della ragione" non deve però dimenticare che i temi posti dalla destra xenofoba non sono inventati, sono vissuti dai cittadini come ferite. Non serve il buonismo, occorre agire su più questioni. La sicurezza intanto (più Europa ai confini, stop agli agglomerati di profughi fuori controllo nelle città): un nodo da sciogliere prima che strangoli le elezioni. Poi l’intelligence europea (da unificare, magari prendendo a modello il nostro eccellente antiterrorismo). Infine l’integrazione, rispettosa di ciascuno ma senza scivoloni multi-culturalisti: l’Italia, ad esempio, deve riconoscere e regolare l’Islam come Giuliano Amato provò a fare nel 2006. Ci vorrà tempo, ma un giorno quest’orrore nei nostri cortili finirà. E, poiché l’orrore sempre cambia le nostre anime, ne usciremo diversi. Sarebbe saggio non permettere ai boia jihadisti di decidere come. Migranti. Così funziona la rete Sprar: posti triplicati in 10 anni Redattore Sociale, 22 dicembre 2016 Un approfondimento per capire il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati in Italia. Nato nel 2001 è stato pensato per gestire il fenomeno in una cornice istituzionale, definita e omogenea. In dieci anni ha triplicato la capacità ricettiva: oltre 27mila posti nel 2016. Per molti è il modello a cui tendere: una forma di accoglienza integrata, basata su progetti portati avanti insieme agli enti locali, che prevede anche iniziative di integrazione e avviamento al lavoro. Ma cos’è e come funziona lo Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati? Lo spiegano Daniela Di Capua e Monica Giovannetti, rispettivamente direttrice del sistema centrale Sprar e responsabile dell’area minori, in un lungo intervento sul giornale online Secondo Welfare. Nato nel 2001 il modello Sprar "ha segnato un momento di svolta nella storia dell’asilo in Italia", scrivono le autrici. "In primo luogo perché per la prima volta si è iniziato a pensare e a programmare in termini di sistema, in secondo luogo perché l’accoglienza è uscita dalla dimensione privata per entrare in quella pubblica". E così mentre prima le realtà del terzo settore, gestivano l’accoglienza in totale autonomia e al di fuori di una cornice istituzionale definita e omogenea, "con l’avvio del Pna (Programma nazionale asilo), "si è concretizzata un’assunzione di responsabilità da parte degli enti locali e dello Stato centrale". Come funziona. Lo Sprar può contare, infatti, su una rete strutturale di enti locali che accedono al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo (Fnpsa) per realizzare progetti di accoglienza integrata destinati a richiedenti protezione internazionale, rifugiati, titolari di protezione sussidiaria e umanitaria, grazie al sostegno delle realtà del terzo settore. "Oltre alla formalizzazione di un dovere di accoglienza delle istituzioni pubbliche, la nascita dello Sprar ha comportato la riappropriazione da parte delle amministrazioni locali di strategie e interventi di welfare - continuano Di Capua e Giovannetti. Nei 14 anni del Sistema di protezione i progetti di accoglienza dello Sprar, supportati dalla copertura politica dell’ente locale e dal contributo degli enti di tutela, sono infatti diventati un punto di riferimento forte sui territori per tutte le azioni in favore di richiedenti e titolari di protezione internazionale. Tale peculiarità ha consentito la crescita di competenze e capacità, specifiche e riconoscibili, in capo agli operatori dell’accoglienza, i quali sono diventati i principali interlocutori per gli enti e i servizi chiamati in causa nei percorsi di inclusione dei beneficiari dei progetti". Gli Enti locali implementano, infatti, i progetti territoriali di accoglienza, coniugando le Linee guida e gli standard dello Sprar con le caratteristiche e le peculiarità del territorio, vale a dire che possono scegliere la tipologia di accoglienza da realizzare e i destinatari che maggiormente si è in grado di prendere in carico, fermo restando un livello di standard e servizi che tutti i progetti sono tenuti a garantire. Pertanto i progetti possono essere rivolti a singoli adulti e nuclei familiari, oppure a famiglie monoparentali, donne sole in stato di gravidanza, minori non accompagnati, vittime di tortura, persone bisognose di cure continuative o con disabilità fisica o psichica. Per le persone con una vulnerabilità riconducibile alla sfera della salute mentale sono previsti progetti specificamente dedicati. L’evoluzione negli ultimi 10 anni: da 1.365 posti a oltre 27 mila. Negli ultimi tempi il Sistema ha conosciuto ampliamenti notevoli, sia per quanto riguarda la capacità dei posti messi a disposizione per l’accoglienza, sia per quanto riguarda i beneficiari accolti. Tali ampliamenti, disposti dal Ministero dell’Interno, sono avvenuti in risposta a un fenomeno ormai strutturale di afflussi consistenti, che impone l’esigenza di ripensare e adeguare l’intero sistema di accoglienza. "Già dalla fine del 2012, grazie all’esperienza della cosiddetta "Emergenza Nord Africa" e alla conseguente esigenza di dar vita a un sistema nazionale unico, flessibile e in grado di dare risposte più strutturali che emergenziali al fenomeno, il Ministero dell’Interno ha predisposto diversi allargamenti straordinari della rete Sprar, che in meno di un anno hanno più che triplicato la capacità ricettiva del Sistema - scrivono ancora le autrici. In dieci anni, si è progressivamente passati dai 1.365 posti disponibili del 2003 ai 20.752 del 2014. Nel 2015 lo Sprar ha visto il consolidarsi della rete di accoglienza per un totale di 21.613 posti e nel primo semestre del 2016 la capienza è salita a 27.089 posti. Nel 2015 e, soprattutto, nel 2016, una quota importante degli ampliamenti ha riguardato la categoria dei minori stranieri non accompagnati, protagonisti di crescenti arrivi sul territorio italiano e interessati da recenti modifiche normative tese a incrementare la loro tutela. In particolare, a partire da dicembre 2015, a seguito della pubblicazione della graduatoria afferente al bando del 27 aprile 2015 con il quale si prevedeva l’ampliamento dei posti dedicati a minori stranieri non accompagnati all’interno della rete Sprar, i posti dedicati a questo particolare segmento dei flussi migratori sono giunti a 1.916. Si perfeziona così il modello dello Sprar, che garantisce un’accoglienza sicura e strutturata dei minori stranieri non accompagnati anche non richiedenti asilo, così come previsto dal "Piano Nazionale per fronteggiare il flusso straordinario di cittadini extracomunitari, adulti, famiglie e minori stranieri non accompagnati" (Intesa sancita in Conferenza Unificata il 10 luglio 2014)".Oltre ai progetti rivolti ai minori, nel 2015 sono poi entrati a far parte della rete Sprar nuovi progetti dedicati a specifiche tipologie di beneficiari: progetti per l’accoglienza di famiglie siriane dai campi profughi in Libano, inserite attraverso le attività di resettlement. Infine, l’intervento di Di Capua e Giovannetti si concentra sulla situazione del 2016: nei primi sei mesi dell’anno i progetti finanziati sono 674, ovvero 244 in più rispetto al 2015, di cui 520 destinati all’accoglienza di richiedenti e titolari di protezione internazionale appartenenti alle categorie ordinarie, 109 destinati a minori non accompagnati e 45 a persone con disagio mentale o disabilità fisica. Complessivamente, i progetti finanziati dal Fnpsa hanno reso disponibili 27.089 posti di accoglienza, di cui 24.593 destinati alle categorie ordinarie, 1.916 all’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati e 580 a persone con disagio mentale e disabilità fisica. I beneficiari accolti nel primo semestre, sono stati 21.226 nei progetti ordinari, 243 nei progetti per disabili e disagio mentale e 2.027 in quelli per minori stranieri non accompagnati (che costituiscono il 9% degli accolti, +3 punti percentuali rispetto al 2015), per un totale di 23.496 accolti. Anche per il 2016 va evidenziato che di questi 23.496, 513 beneficiari sono transitati in più progetti Sprar di categorie e tipologie differenti (e pertanto censiti come beneficiari da tutti i progetti che li hanno presi in carico), per lo più a seguito di subentrate e gravi esigenze emerse successivamente all’inserimento in accoglienza nel primo progetto Sprar: pertanto il numero effettivo degli accolti è pari a 22.983, 2.187 in più rispetto al 2015. Le prime quattro regioni per numero di accolti sono, come negli anni passati, i territori che detengono la maggiore capienza dello Sprar, ossia la Sicilia (che rispetto al 2015 balza al primo posto con il 20,9%), il Lazio (20,3%), la Calabria (9,8%) e la Puglia (8,8%): complessivamente rappresentano il 59,8% del totale. Nelle restanti regioni il peso di tale presenza è inferiore al 6% e va inoltre ricordato che in Valle d’Aosta non sono presenti progetti della rete Sprar. "Taci o ti querelo", il giornalismo italiano tra minacce di carcere e liti temerarie fnsi.it, 22 dicembre 2016 Nel biennio 2014-2015 si sono celebrati in Italia 6813 procedimenti ai danni dei giornalisti. 155 sono state le condanne. Sono alcuni dei dati contenuti del dossier "Taci o ti querelo" pubblicato da Ossigeno per l’Informazione in occasione delle iniziative promosse, insieme all’European Centre for press e media freedom (Ecpmf) di Lipsia, nell’ambito dell’omonimo progetto sostenuto dalla Commissione europea per celebrare a Roma la Giornata internazionale per mettere fine all’impunità per i reati compiuti contro i giornalisti. Cifre impressionanti, quelle prodotte dall’Ufficio statistiche del ministero della Giustizia e raccolte dall’Osservatorio Ossigeno, a testimoniare gli effetti delle leggi sulla diffamazione a mezzo stampa in Italia. Negli ultimi anni sono state 5125 le querele infondate (quasi il 90% del totale), 911 le citazioni per risarcimento, oltre 45 milioni di euro l’ammontare delle richieste di danni, 54 milioni di euro l’ammontare delle spese legali. Ai 6.813 procedimenti per diffamazione a mezzo stampa "definiti" (cioè per i quali l’ufficio giudiziario ha assunto una decisione) dai Tribunali italiani nel biennio 2014-2015 bisogna aggiungerne - dice ancora il rapporto - altri 1300 che rappresentano il carico pendente stimato, ovvero il numero dei processi che si accumulano di anno in anno. Soltanto l’8 per cento dei 5.902 procedimenti penali definiti ha concluso l’iter con la condanna dell’imputato, mentre nell’87% dei casi i giudici hanno prosciolto il giornalista imputato con le varie formule previste dal codice di rito e nel restante 5% dei casi le soluzioni non sono classificabili in alcuna di queste due categorie. Le condanne sono state 475, 320 delle quali al pagamento di multe e 155 a pene detentive che "nella quasi totalità dei casi non superano mai un anno di reclusione": due sentenze di condanna su tre hanno comminato una multa, una su tre una pena detentiva. Le querele per diffamazione a mezzo stampa crescono al ritmo dell’8 per cento annuo. Molte delle accuse sono dunque pretestuose, formulate strumentalmente e presentate per ragioni che non hanno niente a che fare con la tutela della reputazione personale: veri abusi del diritto che fanno girare la macchina della giustizia a vuoto e la trasformano in uno strumento di intimidazione e ricatto, un bavaglio per i giornali e i giornalisti. "Chi commette questi abusi - recita lo studio - dovrebbe essere scoraggiato con gli strumenti previsti dal diritto, applicando in modo sistematico le penalità già previste per punire le liti temerarie, contestando d’ufficio il reato di calunnia e introducendo nuove norme deterrenti, come già avviene in altri paesi. Si dovrebbe, infine, introdurre una norma che preveda, per la diffamazione, la condanna automatica del querelante alle spese e al risarcimento in caso di archiviazione". E non va meglio sul fronte dei procedimenti civili. L’importo del risarcimento richiesto per ciascuna delle 3643 cause civili promosse fra il 2010 e il 2013 è stato in media di 50 mila euro. Quindi, nei quattro anni, sono stati chiesti complessivamente 182,5 milioni di euro di risarcimento, pari a circa 45 milioni l’anno. E, a causa dell’obbligo contabile di iscrivere quale passività di bilancio parte dell’importo dei risarcimenti richiesti, queste pretese condizionano un’editoria già in ginocchio per le crisi economica e del settore. Domande di danni esagerate, in genere, vengono rigettate dai giudici, ma finché i giudici non ne decretano il rigetto le richieste pendono come spade di Damocle sulle teste di editori e giornalisti e spingono anche i più coraggiosi a essere molto prudenti, a pensarci mille volte prima di pubblicare notizie sullo stesso argomento, anche se di grande rilevanza pubblica. Il tutto - conclude il rapporto di Ossigeno - con un effetto raggelante sui giornalisti, sui giornali, sull’intero mondo dell’informazione e, in definitiva, sulla vita democratica del Paese. Pena di morte, calano esecuzioni negli Usa. Ma con Trump svanisce ipotesi cancellazione La Repubblica, 22 dicembre 2016 Un rapporto del "Death Penalty Information Center" rileva: viene applicata meno ed è sempre più impopolare. Timori per le nomine alla Corta Suprema che deciderà la Casa Bianca. Sarà molto difficile che i politici decidano di abolirla, ma negli Usa le statistiche dimostrano che la pena di morte viene applicata sempre di meno, e fra l’altro cala il sostegno popolare alla misura. Secondo un rapporto del "Death Penalty Information Center", organizzazione non-profit di Washington, c’è stato un calo record dell’uso punitivo della morte. "L’America è nel pieno di cambiamento climatico sulla pena di morte" ha detto Robert Dunham, direttore esecutivo del Dpic e autore del rapporto. "Tra le preoccupazioni per l’innocenza, i costi, la discriminazione, l’alternativa dell’ergastolo, e il modo discutibile in cui gli stati tentano di eseguire le sentenze, l’opinione pubblica ogni anno è sempre meno a suo agio con la pena di morte". Due terzi degli stati dell’Unione prevedono la pena di morte, ma quest’anno le esecuzioni dovrebbero fermarsi a 31, in calo del 37% rispetto al 2015, quando furono 49, il minimo da 40 anni. Le esecuzioni quest’anno sono state il numero minore dal 1972 quando la Corte Suprema dichiarò la pena capitale incostituzionale. Quattro anni dopo la reintrodusse. Secondo il rapporto, il sostegno dell’opinione pubblica alla pena di morte è al minimo da quattro decenni. Ma le possibilità che la Corte Suprema torni a vietare le esecuzioni sono svanite dopo l’elezione alla Casa Bianca di Donald Trump. Il nuovo presidente, che si insedia il 20 gennaio, dovrebbe nominare un giudice conservatore al posto vacante sui nove della Corte Suprema, spostandone gli equilibri in senso conservatore. Solo cinque stati, dei 31 in cui è ammessa, hanno eseguito una condanna a morte quest’anno. In testa la Georgia con nove casi, seguita dal Texas con sette, l’Alabama con due e la Florida e il Missouri con uno ciascuno. Per la prima volta in oltre 40 anni nessuno stato ha raggiunto la soglia delle 10 esecuzioni. E un numero così ridotto di stati che hanno eseguito esecuzioni non si è mai visto dal 1983. I referendum dell’8 novembre hanno mostrato che il paese è ancora diviso sulla pena di morte: tre stati, California, Nebraska e Oklahoma, hanno votato per mantenerla. Ma gli abolizionisti hanno segnato vittorie in Florida e Delaware. La Francia si blinda di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 22 dicembre 2016 "Arresti preventivi" dopo l’attentato in Germania. Il capo di stato maggiore chiede maggiori finanziamenti per l’esercito: "il prezzo della pace è lo sforzo di guerra". Per i poliziotti più facilità nell’uso delle armi. Arresti "preventivi" ieri in Francia, per "evitare qualsiasi rischio di attentati" o di "organizzazione di attentati", in seguito a Berlino. L’affermazione è del portavoce del governo, Stéphane Le Foll, che non ha però precisato né le circostanze né i dettagli di questi arresti. I controlli alla frontiera con la Germania sono stati rafforzati. La vigilia, il primo ministro Bernard Cazeneuve ha ripetuto che nel 2016 in Francia sono stati sventati 17 attentati. In Francia permane "un alto livello di minaccia", ha dichiarato François Hollande subito dopo Berlino. Il paese "è in guerra", ha sottolineato a varie riprese il presidente. Ieri, in un inedito intervento su un quotidiano (Les Echos), il capo di stato maggiore degli eserciti, Pierre de Villiers, ha chiesto un aumento dei finanziamenti per la Difesa: ora sono pari all’1,77% del pil (32,7 miliardi), ma per l’alto papavero militare dovrebbero salire al 2% già dal 2022 (mentre la Francia ha promesso alla Nato di raggiungere questa percentuale nel 2025), per avere un "budget robusto". Per de Villiers (che è fratello del leader politico di destra estrema Philippe de Villiers), "il prezzo della pace è lo sforzo di guerra". Hollande ha risposto che la spesa militare è per il momento adeguata ai compiti. I militari mostrano segni di fatica: da quando è in vigore lo stato d’emergenza, dal giorno dopo gli attentati del 13 novembre 2015, 10mila soldati pattugliano le strade. Il Fronte nazionale non ha perso l’occasione per trasformare la polemica in argomento di campagna elettorale: Marine Le Pen ha affermato ieri che, se sarà eletta presidente, farà costruire una seconda portaerei, oltre alla Charles-de-Gaulle già operativa e in questo periodo presente nel Mediterraneo orientale. Tutti i temi della sicurezza si trasformano in argomenti elettorali, a quattro mesi dalle presidenziali. Il governo è con le spalle al muro, pressato dagli attacchi della destra e dall’ondata di manifestazioni di poliziotti nell’ultimo mese. Dopo aver dotato la Brigata anticrimine di fucili d’assalto, ieri in Consiglio dei ministri è stata presentata una modifica delle regole che governano l’uso delle armi da parte della polizia nazionale, equiparandole a quelle più ampie della Gendarmerie. È una vecchia richiesta dei sindacati di poliziotti, che come i gendarmi potranno rispondere con l’uso di armi da fuoco non solo più nei casi estremi di legittima difesa, ma anche di fronte a una "minaccia" o a tentativi di fuga. "Diritto di uccidere" per gli oppositori, il governo si difende affermando che resta il principio dell’"assoluta necessità" per giustificare l’uso di armi da fuoco e quello della "stretta proporzionalità" della reazione (del resto sono principi imposti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo). Siria. Quella generazione perduta di bambini di Mosul di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 dicembre 2016 Di ritorno da una missione di oltre due settimane nel nord dell’Iraq, Amnesty International ha denunciato la disperata situazione di un’intera generazione di bambini coinvolti nella battaglia di Mosul, rimasti gravemente feriti e traumatizzati a causa dei combattimenti tra lo Stato islamico e le forze del governo iracheno sostenute da una coalizione a guida statunitense. Le testimonianze, raccolte negli ospedali della regione autonoma curda e nei campi per sfollati, sono sconvolgenti: bambine e bambini di ogni età non solo hanno riportato ferite orribili ma hanno anche visto familiari e vicini di casa decapitati dai colpi di mortaio, fatti a pezzi dalle autobomba e dalle mine o sbriciolati sotto le macerie delle loro abitazioni. Ali, due anni, è stato ferito nel quartiere Hay al-Falah di Mosul il 14 dicembre. Quando Amnesty International l’ha incontrato, respirava a malapena e aveva il volto irriconoscibile a causa delle ferite sanguinanti. Sua nonna, Sokha, ha già perso due nipoti: Zaira di 14 anni e Wàda di 16, uccise nello stesso attacco del 14 dicembre: "Le mie nipoti stavano da 30 giorni nella cantina di un vicino. Avevano finito le scorte di acqua e cibo. Siccome due giorni prima la zona era stata riconquistata dalle truppe governative, si sono fidate e sono uscite. Sono state colpite appena raggiunto il cancello". In un campo per sfollati interni, Amnesty International ha incontrato Mohammed, quattro anni. Non riesce a stare fermo, si prende a schiaffi e batte la testa contro il pavimento. Si fa i bisogni addosso più volte al giorno e ogni volta piange inconsolabilmente. Sua madre Mouna, immobilizzata su un lettino a causa di una frattura a una gamba, ha raccontato che fa così dal colpo di mortaio del 12 novembre che ha ucciso due delle sue sorelle, Teiba di otto anni e Taghreed di 14 mesi. Ecco il racconto di Mouna: "Continuavo a dire alle bambine di rimanere in casa. C’erano colpi di mortaio e sparatorie 24 ore al giorno. Poi è arrivato quel colpo di mortaio. Io sono caduta a terra, le bambine sono andate a sbattere la testa contro il cancello. La più piccola, gattonando, è arrivata fino da me e mi è morta in braccio". "Mohamed e Taghreed erano inseparabili. La prendeva sempre in braccio. Non riesce a capire che la sorellina è morta, è triste e arrabbiato perché pensa che l’abbiamo lasciata a Mosul. Penso che abbia bisogno di psicoterapia ma qui nel campo non c’è niente". Le due figlie sopravvissute, di 10 e 12 anni, devono occuparsi di ogni cosa: andare a prendere l’acqua, cucinare, lavare i vestiti e medicare le ferire dei genitori. Non hanno il minimo tempo per giocare o studiare. Dall’arrivo al campo per sfollati interni, bambini che hanno visto le loro sorelle e i loro fratelli morire non hanno ricevuto alcun sostegno psicologico. Le poche attività di assistenza psicosociale previste in alcuni di questi campi sono del tutto insufficienti a causa dell’alto numero di bambini coinvolti nel conflitto e in molti casi vittime dirette della violenza. Gli operatori umanitari hanno riferito ad Amnesty International che i bambini e le bambine sfollati dalla battaglia di Mosul mostrano evidenti segni del trauma: piangono spessissimo, rimangono muti, hanno scatti di violenza e vogliono rimanere attaccati ai loro genitori o agli adulti che si prendono cura di loro. A causa della mancanza di risorse, questi bambini non stanno ricevendo il sostegno psicologico necessario per aiutarli a elaborare eventi enormemente traumatici e iniziare a ripristinare un senso di normalità nelle loro vite. Per chi è rimasto intrappolato a Mosul la situazione è drammatica. L’aumento del prezzo dei beni di prima necessità, così come la mancanza di cibo, carburante da riscaldamento, medicine e acqua potabile espongono i bambini a fortissimo rischio di malnutrizione, disidratazione, infezioni batteriche e altre malattie. La catastrofe umanitaria potrebbe essere alle porte. La campagna militare per riconquistare Mosul è stata pianificata per lungo tempo. Per questo, le autorità irachene e i loro partner internazionali avrebbero potuto e dovuto organizzarsi meglio in vista delle inevitabili perdite civili, soprattutto sapendo che gli ospedali della regione autonoma curda sarebbero entrati in sofferenza a causa dell’afflusso di un gran numero di feriti. Se ci sono risorse per fare la guerra, devono essercene anche per affrontarne gli effetti. Così non è stato. Così un’intera generazione di bambini di Mosul rischia di perdersi. Libia. Migranti detenuti in meno di mezzo metro quadrato a testa La Repubblica, 22 dicembre 2016 Le persone vivono in condizioni antigeniche e inumane e in strutture malsane. Situazione drammatica dei rifugiati e dei migranti detenuti in un paese dilaniato dalla guerra civile e in balia di bande di delinquenti, formate da forze militari, milizie, reti di contrabbando, gang criminali e individui privati. Lo staff di Medici Senza Frontiere (Msf) che fornisce assistenza in 7 centri per migranti a Tripoli e dintorni, attraverso le ormai celebri cliniche mobili, segnala le condizioni infernali di vita delle persone trattenute nelle carceri libiche in una detenzione tanto arbitraria, quanto indefinita, di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Libia. Un Paese ancora diviso da un conflitto interno, dove i combattimenti imperversano in diverse zone. La mancanza di sicurezza, il collasso economico e l’inesistenza di un sistema di legalità trasformano la vita quotidiana di molti libici in una vera e propria lotta per la sopravvivenza. Come non bastasse, la Libia è ormai sia un luogo di destinazione che un approdo di transito per centinaia di migliaia di rifugiati, richiedenti asilo e migranti che scappano da conflitti, estrema povertà, o persecuzioni. Esposti a violenze e sfruttamenti. Una volta in Libia, rifugiati e richiedenti asilo non possono ricevere protezione poiché manca un sistema di asilo funzionante, l’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati (Unhcr) svolge un ruolo limitato e la Libia non è firmataria della Convenzione sullo status dei rifugiati. I migranti sono esposti ad altissimi livelli di violenza e sfruttamento per mano di forze militari, milizie, reti di contrabbando, gang criminali e individui privati. Quelli intercettati in mare dalla guardia costiera libica, o trattenuti in Libia sono inviati in centri di detenzione per migranti. Qui le persone affrontano una detenzione arbitraria per periodi prolungati in condizioni antigeniche e inumane. Non c’è alcun modo di contestare la legittimità della detenzione, che espone le persone a maltrattamenti, le priva di contatto col mondo esterno e della possibilità di accedere a cure mediche. Accesso alle cure nelle carceri. Da luglio, Msf ha condotto 5.579 consultazioni mediche, con una media di 500 visite ogni settimana. 32 donne incinte hanno ricevuto assistenza prenatale e sono stati visitati 41 bambini con meno di 5 anni di età. Molti di loro sono nati nelle strutture di detenzione: il bambino più piccolo visitato aveva solo 5 ore di vita. Nell’eventualità di un’emergenza medica all’interno di una struttura detentiva, Msf tenta di organizzare il trasferimento in ospedale. Finora, 113 casi medici urgenti o con complicazioni sono stati trasferiti in una struttura sanitaria, incluse 7 persone con gravi disordini psichiatrici. Ogni trasferimento è complicato e richiede molto tempo, poiché diversi ospedali di Tripoli non accettano africani sub-sahariani. Le patologie prevalenti. Msf sta trattando infezioni respiratorie, diarrea grave, malattie della pelle, e infezioni urinarie. Questi malesseri sono per lo più legati alle condizioni presenti all’interno dei centri detentivi che sono sovraffollati e privi di luce e areazione naturali. In alcune strutture, la quantità di spazio per ogni persona è molto limitata (poco meno di 0.41 m² per persona). Manche anche il cibo. Nei centri detentivi c’è carenza di cibo che rende le persone più suscettibili di ammalarsi. Un numero significativo di detenuti ha sofferto di una drammatica perdita di peso, ha un aspetto estremamente emaciato e mostra segni di insufficienza nutrizionale. A volte una razione di cibo è divisa tra 5 o più detenuti, o il cibo è servito in scodelle comuni così i più deboli o invalidi non mangiano nulla. Nella prima metà di novembre, MSF ha visitato 41 persone affette da malnutrizione moderata ma anche acuta. Questo dato, che rappresenta il circa 3% di tutti i detenuti nelle strutture visitate da Msf, è molto preoccupante considerato che il Paese non è affetto né da siccità né da disastri naturali. Il disastro dei servizi igienici. I detenuti non hanno un adeguato accesso all’acqua potabile, quindi soffrono di mal di testa, costipazione e disidratazione. L’accesso alle latrine o alle docce è gravemente limitato e i servizi igieni sono inadeguati, causando molte infezioni della pelle e infestazioni di pidocchi, acari della scabbia e pulci. Msf si è occupata della distribuzione di kit per l’igiene, di taniche di acqua, secchi e materiale per la pulizia in diversi centri di detenzione. MSF inoltre, oltre a sollecitare le autorità competenti a fornire cibo in modo adeguato, in alcuni casi specifici, dove le riserve di cibo erano finite e la situazione era diventata critica, ha fornito generi alimentari. Difficile assistere chi ha perduto la dignità. Un’équipe di pronto soccorso psicologico supporta i detenuti coinvolti in incidenti traumatici in mare. Il supporto è stato fornito a 29 sopravvissuti del naufragio avvenuto il 27 ottobre dove almeno 100 persone sono annegate. L’équipe cerca anche di migliorare l’accesso ai servizi di salute mentale e sostegno psicologico non solo per i migranti ma anche per i libici dell’area di Tripoli. È una scelta difficile per MSF quella di lavorare in un ambiente dove le persone sono tenute in condizioni che ledono la dignità umana, con nessuna prospettiva di migliorare la loro situazione e con nessuna idea del perché o per quanto ancora rimarranno rinchiusi. Il lavoro quotidiano di Msf. Ciononostante l’aspettativa è che con la presenza e l’assistenza medica, Msf possa assicurare un miglioramento immediato delle condizioni di vita dei detenuti. Ogni giorno le équipe di Msf si fanno promotrici di un trattamento umano per le persone trattenute nei centri, sottolineando l’importanza di ricevere cibo e acqua adeguati, e di accedere a latrine e docce funzionanti. Lo staff di Medici Senza Frontiere preme affinché le autorità rilascino le donne incinte, le donne con neonati, bambini e ragazzi al di sotto dei 18 anni di età, e persone disabili o con gravi condizioni di salute. Etiopia. Le autorità annunciano il rilascio di 10mila detenuti Nova, 22 dicembre 2016 Le autorità etiopi hanno stabilito il rilascio di circa 10 mila persone arrestate durante lo stato di emergenza entrato in vigore ad ottobre. Lo riferisce l’emittente "Bbc", secondo cui altre 2.500 persone dovranno rispondere all’accusa di avere fomentato proteste nel paese. Secondo quanto riferito dalle autorità, le persone rilasciate sono state sottoposte a una formazione speciale" per evitare il ripetersi di "atteggiamenti distruttivi". La maggior parte dei detenuti proviene dalle regioni di Oromia e Amhara, teatro delle recenti proteste antigovernative, che hanno portato il governo a imporre lo stato di emergenza. La recente ondata di manifestazioni ha avuto inizio all’inizio di ottobre dopo l’uccisione di almeno 55 persone a seguito di una manifestazione religiosa organizzata nella regione di Oromia, dove decine di persone sono morte a seguito degli scontri avvenuti nel corso di una festa religiosa. A riaccendere i riflettori sulla questione oromo era stato nel mese di agosto il plateale gesto di Feyisa Lilesa, il maratoneta etiope che alle Olimpiadi di Rio ha concluso la gara con le braccia incrociate in segno di protesta contro il governo per la repressione dei manifestanti di etnia oromo. Le proteste oromo sono scoppiate nel novembre 2015 contro il piano di espansione della città di Addis Abeba nella regione di Oromia. Il piano è stato in seguito abbandonato, ma le proteste dei manifestanti di etnia oromo e ahmara hanno continuato ad infiammare a più riprese il paese. I dimostranti temono in particolare che i progetti del governo costringano gli agricoltori oromo, maggiore gruppo etnico del paese con alle spalle una storia piuttosto conflittuale con le autorità centrali, ad abbandonare la propria terra. La crisi si è acuita il 23 dicembre 2015 scorso, quando la polizia ha arrestato il vicepresidente del Congresso federalista oromo (Ofc) Bekele Gerba, già in passato condannato a quattro anni di carcere perché riconosciuto dalle autorità etiopi come membro dell’Organizzazione per la liberazione dell’Oromia. Le proteste sono iniziate nella località di Ginchi, 80 chilometri a sud-ovest della capitale Addis Abeba, dopo il tentativo da parte delle autorità di abbattere una foresta per fare spazio a un progetto edilizio.