"Il giustizialismo surrogato della giustizia sociale", la fine della grande soggezione di Piero Sansonetti Il Dubbio, 20 dicembre 2016 Il ministro della giustizia, nel breve discorso che ha tenuto domenica alla riunione della Direzione del Pd, ha posto alla sinistra italiana (schieramento al quale appartiene) una questione cruciale: quella del giustizialismo. Ha individuato nel giustizialismo l’origine di molti dei mali che hanno portato la sinistra a perdere la sua fisionomia e hanno reso sempre più flebili le sue connessioni con i grandi problemi del popolo. Andrea Orlando ha detto testualmente: "Il giustizialismo è diventato il surrogato della giustizia sociale". E sorprendentemente, la platea, che fino a quel momento aveva ascoltato in silenzio, ha salutato le parole di Orlando con un lungo applauso. Potrebbe essere l’applauso che pone fine alla "grande soggezione" che ha imprigionato nell’ultimo quarto di secolo tutta la politica italiana, e in particolare la politica di sinistra. Orlando non si è limitato a porre il problema della prevalenza del giustizialismo sul garantismo, ma ha collegato la scelta "neo autoritaria" con la rinuncia alla lotta per i grandi valori tradizionali di uguaglianza e libertà. Credo che abbia toccato il punto decisivo: dall’inizio degli anni novanta (quando in Italia si congiunsero gli effetti della fine del comunismo sovietico con l’inizio di Tangentopoli e dell’offensiva della magistratura contro il ceto politico) la sinistra ha concentrato l’opera di revisione e di ricostruzione della propria identità su questa semplice "sostituzione": la giustizia penale al posto della giustizia sociale. E ha blindato questa svolta realizzando una alleanza di ferro con la parte più conservatrice e anche reazionaria della magistratura. Da lì son nati i girotondi, i "popoli viola", i travaglismi e tutto il resto. Da lì è nata l’idea che una forte immagine antiberlusconiana potesse da sola sostituire la lotta sociale e il pensiero politico. Da quel momento la sinistra ha continuato a marciare sul doppio binario ( di lotta e di governo): lotta intesa come sostegno al populismo giudiziario, governo inteso come rinuncia alla battaglie per i diritti e per l’equità sociale. Non due scelte distinte e autonome tra loro: l’una necessaria all’altra. Il giustizialismo è stato lo strumento che ha permesso l’attenuazione della lotta per la giustizia sociale che a sua volta era funzionale a una concezione moderata del governo, che la sinistra riteneva l’unica scelta possibile. Del resto persino sul piano lessicale l’operazione era molto chiara. La parola "giustizialismo", in origine, non ha nulla di particolarmente forcaiolo. Al contrario, il giustizialismo è il movimento politico e di pensiero che sostiene, all’inizio degli anni cinquanta, l’azione in Argentina di Juan Peron, e cioè un piano avanzatissimo di riforme sociali e del diritto, che determina un forte miglioramento della condizione dei lavoratori e una riduzione delle diseguaglianze. È un fenomeno politico profondo, che ha continuato a influenzare la politica sudamericana, e ha persino influenzato la cultura di personaggi di grande valore, come lo stesso papa Bergoglio. Da noi la parola è stata usata invece esattamente per mascherare un’operazione di segno opposto: di restaurazione, di restringimento degli spazi per la democrazia e per le lotte sociali. Francamente è assai difficile attribuire la colpa di tutto questo a Matteo Renzi, che aveva si e no vent’anni quando è iniziata la svolta giustizialista in Italia. Così come è difficile assolvere una buona parte degli oppositori interni di Renzi, che negli anni novanta e nei primi anni del 2000 sono stati invece i protagonisti del giustizialismo governista. Ora il ministro Orlando, in modo autorevole, getta il problema sul tavolo, e lo illustra in modo molto chiaro. Forse getta sullo stesso tavolo anche il guanto di sfida. Quale sfida? Quella di non considerare più la battaglia politica uno scontro sulla legge elettorale. È chiaro a tutti, specie dopo il risultato del referendum, che non è una legge elettorale a produrre il cambiamento. La possibilità di riformare il paese è legata alla possibilità che si producano idee politiche, e su quelle si costruiscano gli schieramenti, e su quelle avvengano gli scontri, le mediazioni, i dialoghi i compromessi. Si tratta di vedere se Orlando resterà isolato, se il suo sarà solo un ululare alla luna, o se nel Pd tornerà a farsi strada il desiderio di fare politica: fare politica, non più, semplicemente, contentarsi di essere ceto politico Il Ministro Orlando: "il giustizialismo è il male della sinistra" di Errico Novi Il Dubbio, 20 dicembre 2016 L’accusa del guardasigilli e (a sorpresa) scattano gli applausi. Andrea Orlando va all’attacco dei Cinque Stelle. Ma la vera notizia è che il ministro, nel suo intervento all’assemblea dem di domenica, dimostra che si può essere duri con il movimento di Grillo senza invocare le dimissioni di Virginia Raggi. Tutt’altro: il cuore dell’antigrillismo è in una frase che Orlando pronuncia dal palco dell’Ergife: "Abbiamo utilizzato il giustizialismo come surrogato della battaglia per la giustizia sociale". Giù applausi. Molti. Molti più di quanti ce ne sarebbero stati solo pochi anni fa, al culmine di un ragionamento su Berlusconi e gli errori commessi dal centrosinistra nel combatterlo. In quell’appello a dismettere strategie abusate per un ventennio e a "far tornare le periferie dentro il partito" c’è la linea del 47enne leader dei Giovani turchi. Ma Orlando non annuncia candidature al congresso. Chiede di "ricostruire il partito", innanzitutto. Andrea Orlando va all’attacco dei Cinque Stelle. E il ministro, nel suo intervento all’assemblea pd di domenica, dimostra che si può essere duri con il movimento di Grillo senza invocare la rimozione di Virginia Raggi. Tutt’altro: il cuore dell’antigrillismo è in una frase che Orlando pronuncia dal palco dell’Ergife: "Abbiamo utilizzato il giustizialismo come surrogato della battaglia per la giustizia sociale, è ora di voltare pagina". Giù applausi. Molti. Molti più di quanti ce ne sarebbero stati solo pochi anni fa, al culmine di un ragionamento su Berlusconi e gli errori commessi dal centrosinistra nel combatterlo. In quell’appello a dismettere strategie abusate per un ventennio e a "far tornare le periferie dentro il partito" c’è la linea del 47enne leader dei Giovani turchi: vocazione popolare, radicamento e garantismo. Orlando non annuncia candidature al congresso, piuttosto chiede di "ricostruire il partito". In un’intervista uscita sul Corriere della Sera sempre domenica scorsa, il guardasigilli chiarisce che i nomi per la segreteria verranno dopo. Non è casuale, la scelta: Orlando non ha il tono della resa dei conti bersanian-dalemiana. È sì alternativo a Renzi, ma non in un’ottica di conflitto personale, casomai in termini di battaglia delle idee. Non ha dunque bisogno di utilizzare l’annuncio della discesa in campo come antipasto dell’offensiva. Orlando ha il vantaggio di evocare quasi in solitudine un modello di Pd popolare. "In periferia ci vivo", ricorda pure nell’intervista al Corriere. La novità è appunto l’incontro inedito tra radicamento e rottura col giustizialismo. Operazione in apparenza temeraria: oggi il popolo ha sete di colpevoli. Lui se ne infischia in nome di un’analisi che coincide, non a caso, sempre con una spallata ai Cinque Stelle: "C’è un’affermazione di cui il grillismo è solo la parossistica degenerazione, e che risale a inizio anni Novanta: i partiti non andavano riformati, semplicemente non servivano più, perché si sarebbe affermata una repubblica dei cittadini. I quali, più liberi, avrebbero concorso al governo. Ma non è andata così", ricorda il ministro, "sono diventati più forti gli interessi particolari e quelli criminali", sempre più penetranti, ricorda Orlando, "proprio perché i partiti sono diventati più deboli, leaderistici, privi di radicamento sociale effettivo". Sa di bocciatura della partecipazione ridotta ai social network altro must del grillismo - e dello stesso Italicum, esplicitata dal guardasigilli: "Con un quadro tripolare, una maggioranza che sia nel Paese infima minoranza conquista il diritto a governare, ma poi bisogna vedere se riesce a farlo avendo contro l’80 per cento delle persone in carne e ossa di un Paese". Guarda non al "proporzionale puro" ma neanche a un "maggioritario muscolare". Su questo Orlando marca un’altra distinzione da Renzi. Ma senza seguire la bussola del conflitto personalistico. Anzi, dice che l’ex premier "ha torto su un punto, quando dice che la sconfitta è sua: ai suoi errori vanno aggiunti i nostri". Errori che sono a volte "peccati di omissione", e qui Orlando trova il modo di agganciarsi all’autocritica di Delrio. Così come, sempre nel discorso di domenica, sa riconoscerli "nelle questioni sollevate da Gianni Cuperlo" a proposito della crisi e della disgregazione sociale prodotta nel Paese. Se si è "rotto quel senso di comunità", secondo il confermato ministro della Giustizia, è per un meccanismo che "tu Matteo hai descritto ma non hai spiegato". Prova a farlo lui, Orlando, e ricorda, fino a commuoversi, come "una figura da cui sono personalmente colpito, quella di Pio La Torre, dimostri che nel dopoguerra un figlio di contadini o un maestro di scuola potevano diventare dirigenti di partito, classe dirigente del Paese: dubito che una vicenda simile potrebbe ripetersi oggi, se una persona del genere venisse a bussare a uno dei nostri circoli". Giù applausi, ancora. Segno che sull’idea dell’urgente ritorno a una dimensione popolare, almeno su quella, renziani e antirenziani si sentono ancora nella stessa casa comune. Genuflettersi alla magistratura significa volere una società autoritaria di Giuseppe Bedeschi Il Foglio, 20 dicembre 2016 Nei giorni scorsi in un editoriale del Foglio si leggeva, a proposito dell’autosospensione del sindaco di Milano Sala, a causa di un avviso di garanzia. "La storia di Milano, al di là dell’indagine in sé, è il termometro di un’incapacità della politica a saper resistere al potere mostruoso esercitato dalla magistratura, e il sindaco Sala, annunciando la sua sospensione dall’incarico, ha fatto un gesto che sarà apprezzato dall’indignato collettivo ma che è il contrario di quello che dovrebbe fare un manager eletto dal popolo: un sindaco risponde agli elettori, non ai magistrati, e fino a che si è indagati, e non condannati con sentenza definitiva, si ha il dovere di amministrare una città". Parole giustissime, a mio avviso, alle quali vorrei aggiungere qualche considerazione. Nel nostro paese si è diffusa largamente, a partire da Tangentopoli, un’opinione pubblica "giustizialista", che vede nella magistratura il potere supremo. Si tratta di un’opinione che lede i fondamenti stessi della democrazia liberale. Tralasciamo pure il fatto che in una democrazia come la nostra un cittadino non è colpevole fino a sentenza definitiva (figuriamoci con un avviso di garanzia, al quale può seguire anche un non luogo a procedere), e soffermiamoci soprattutto su un punto: l’opinione pubblica che si genuflette di fronte alla magistratura, considerandola come il potere supremo, incorre in un errore gravissimo, perché la magistratura non è nemmeno un potere, è un ordine nello stato democratico. Il potere deriva solo e soltanto da un’investitura popolare, cioè da un voto liberamente espresso: dunque il potere è sempre e solo politico. Quando si parla, a destra e a manca, di "divisione dei poteri" - intendendo con ciò il potere legislativo, quello esecutivo, e quello giudiziario - si dice cosa profondamente fallace. Del resto, la nostra Costituzione non parla di potere giudiziario, bensì di "ordine giudiziario" (art. 104). Questo concetto viene espresso con grande chiarezza dai grandi pensatori liberali. Così John Locke, nel Secondo trattato sul governo (1690), quando parla dei diversi poteri, elenca il potere legislativo (che per lui è il potere supremo), il potere esecutivo e quello federativo (che spettano al monarca), e non nomina nemmeno il giudiziario (che per lui è un’articolazione del potere legislativo). Quanto a Montesquieu, molto erroneamente gli si attribuisce una dottrina della "divisione dei poteri". Nello Spirito delle leggi (1748) egli cerca piuttosto una separazione (funzionale) e un equilibrio fra i vari poteri (che sono il monarca, la Camera alta e la Camera bassa), in modo che sia impossibile raffermarsi di un potere assoluto. E il giudiziario? Montesquieu ne tratta così "non deve essere attribuito a un senato permanente, ma deve essere esercitato da persone scelte fra il popolo, in determinati periodi dell’anno, secondo la maniera prescritta dalla legge, per formare un tribunale, il quale rimanga in vita soltanto per il periodo che la necessità richiede". A ciò Montesquieu aggiunge, per rendere ancora più chiara la propria preoccupazione circa il ruolo del giudiziario: "In questo modo il potere giudiziario, così terribile tra gli uomini, non essendo legato né a una determinata condizione, né a una determinata professione, diviene, per cosi dire, invisibile e nullo". Da queste formulazioni dei classici del liberalismo emerge assai bene che per essi il potere vero e proprio è il potere politico, il quale è legittimo solo finché gode del consenso dei cittadini (e dunque è anch’esso un potere limitato); ma finché gode di tale consenso, il potere politico deve poter governare tranquillamente, nei limiti delle leggi. L’ordine giudiziario ha sì una funzione fondamentale, e deve essere libero e indipendente (in caso contrario non c’è stato di diritto), ma è appunto un ordine, non un potere. Chi si genuflette di fronte a questo sedicente potere, e anzi vede in esso il fondamento di tutti gli altri poteri, auspica, lo voglia o no, una forma non tanto larvata di società autoritaria. Patto Cassazione-avvocati sui nuovi ricorsi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2016 Protocollo d’intesa Cassazione-Cnf. Avvocatura dello Stato del 16 dicembre 2016. Si allarga l’area della trattazione in camera di consiglio. E la Corte di cassazione firma un protocollo con il Cnf per una gestione dei ricorsi civili. Obiettivo l’adeguamento a quanto previsto, da l 30 ottobre, per effetto dell’entrata in vigore della nuova disciplina prevista dal decreto legge n. 168 del 2016. Quanto al regime transitorio, si introduce la possibilità dell’intimato, per i ricorsi già depositati al 30 ottobre nei quali avrebbe avuto la possibilità di partecipare alla discussione orale, di presentare memoria, con procura speciale, negli stessi termini entro i quali può farlo il contro ricorrente. In linea generale le memorie da presentare in vista della trattazione camerale non dovranno superare le 15 pagine. La proposta di trattazione camerale davanti alla sesta sezione sarà formulata secondo il modello predisposto che verrà notificato ai difensori insieme al decreto di fissazione dell’udienza e al relativo avviso. Nei contenuti dovrà essere indicata per la prognosi di inammissibilità e improcedibilità a quale ipotesi si fa riferimento; come pure dovrà essere indicato nel giudizio di manifesta fondatezza qual è il motivo manifestamente fondato e il precedente giurisprudenziale di riferimento. Stesso discorso per il pronostico di manifesta infondatezza. In ogni caso, quando un ricorso è avviato alla trattazione in camera di consiglio di sezione ordinaria, le parti potranno chiedere che la trattazione avvenga invece in pubblica udienza indicando la questione di diritto di particolare rilevanza che giustifica la discussione pubblica. Canale digitale da utilizzare poi, appena il sistema lo renderà possibile per le comunicazioni del procuratore generale. I criteri valutativi alla base della sentenza di non luogo a procedere. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2016 Udienza preliminare - Sentenza di non luogo a procedere - In genere - Valutazione del Gup - Parametro di riferimento - Inutilità o superfluità del dibattimento - Conseguenze. Ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, il criterio di valutazione per il giudice dell’udienza preliminare non è l’innocenza dell’imputato, ma l’inutilità del dibattimento, anche in presenza di elementi probatori contraddittori od insufficienti; ne consegue che, nell’ipotesi di diverse ed opposte valutazioni tecniche, non spetta al Gup decidere quale perizia sia maggiormente attendibile, dovendo egli solo verificare se gli elementi acquisiti a carico dell’imputato risultino irrimediabilmente insufficienti o contraddittori, in ragione di eventuali manifeste incongruenze del contributo dell’esperto posto a sostegno dell’accusa o dell’errata piattaforma fattuale assunta ovvero della palese insipienza tecnica del metodo o dell’elaborazione. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 27 luglio 2016 n. 32574. Procedimento penale - Procedimento (in genere) - Giudice dell’udienza preliminare - Sentenza di non luogo a procedere - Elementi acquisiti - Accusa in giudizio. Il giudice dell’udienza preliminare nella pronuncia di sentenza di non luogo a procedere deve limitarsi a valutare se gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 20 maggio 2016 n. 21051. Falsità in scrittura privata - Reato - Falsità in atti - Falsità in scrittura privata - Prescrizione - Sentenza di non luogo a procedere. Nel procedimento di appello avverso la condanna per il reato di cui all’articolo 485 c.p., va emessa sentenza di non luogo a procedere quando il reato si sia estinto per prescrizione maturata prima della sentenza di primo grado. Conseguentemente, non possono essere confermate le statuizioni civili. • Corte d’Appello L’Aquila, penale, sentenza 2 febbraio 2016 n. 197. Udienza preliminare - Sentenza di non luogo a procedere - Giudice - Contraddittorio- Inutilità del dibattimento - Innocenza dell’imputato - Sostenibilità dell’accusa. Se è vero che il giudice deve pronunziare sentenza di non luogo a procedere soltanto qualora sia ragionevolmente prevedibile che gli elementi di prova siano destinati a rimanere contraddittori o insufficienti all’esito del giudizio e, quindi, il criterio di valutazione per il giudice dell’udienza preliminare non è l’innocenza dell’imputato, ma l’inutilità del dibattimento, tuttavia, il gup è legittimato a verificare la sostenibilità dell’accusa in dibattimento anche con riferimento all’elemento psicologico del reato. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 14 luglio 2016, n. 29974. Udienza preliminare - Decreto che dispone il giudizio - In genere - Valutazione del giudice sul materiale probatorio acquisito - Rinvio a giudizio o sentenza di non luogo a procedere - Presupposti. Il giudice dell’udienza preliminare è chiamato ad una valutazione di effettiva consistenza del materiale probatorio posto a fondamento dell’accusa, eventualmente avvalendosi dei suoi poteri di integrazione delle indagini, cosicché, ove ritenga sussistere tale condizione minima, deve disporre il rinvio a giudizio dell’imputato, dovendo, invece, emettere sentenza di non luogo a procedere quando vi siano concrete ragioni per ritenere che il materiale individuato, o ragionevolmente acquisibile in dibattimento, non consenta in alcun modo di provare la sua colpevolezza. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 27 gennaio 2016 n. 3726. Nel carcere di Parma pranzo di Natale per le persone detenute e le loro famiglie di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 20 dicembre 2016 Sono uomini giovani, meno giovani, già anziani. E poi sono donne, bambini, ragazzi e ancora uomini. La palestra della Casa di Reclusione di Parma raccoglie dolori, emozioni, lacrime trattenute. Ma anche gesti d’affetto, qualche bacio, qualche abbraccio. I bambini sono i primi a rompere il ghiaccio; si slanciano tra le braccia di papà, zii e forse anche qualche nonno recluso. L’associazione "Per ricominciare" con la sua instancabile presidente Emilia Zaccomer ha organizzato il terzo pranzo di Natale per le persone detenute e le loro famiglie. La scorsa settimana per primi hanno festeggiato i ristretti nelle sezioni di "media sicurezza", quindi quelli di "AS3", infine stamattina diciotto uomini reclusi in "AS1" hanno potuto trascorre circa tre ore pranzando e parlando con i loro cari in un clima di palpabile serenità. È sempre carcere ma per qualche momento è soprattutto incontro, scambio, consolazione. Sono confidenze, mani intrecciate, sorrisi. La polizia penitenziaria vigila con grande discrezione e l’atmosfera di Natale riesce a infiltrarsi anche tra queste mura solitamente fredde e respingenti. È bello sapere che alla preparazione del pranzo hanno contribuito altre persone detenute impegnate a sfornare pizze e focacce molto apprezzate da tutti. Le nostre emozioni contano ben poco ma ci piace condividere alcune riflessioni. L’umanizzazione del carcere e della pena, innanzitutto. Che poi altro non è che quel senso di umanità a cui fa riferimento la nostra Costituzione. Ma le persone possono restare umane solo all’interno di relazioni significative, calde, importanti. E l’istituzione può e deve impegnarsi di più per permettere a queste relazioni di restare vive, di crescere, di avere senso. Esistono nel nostro Paese esperienze importanti come le "casette" delle carceri milanesi di Opera e Bollate dove le persone detenute possono trascorrere alcune ore in tranquillità con i loro bambini e le loro famiglie, esistono istituti dove è possibile telefonare con Skype. Esistono già, sono esperienze consolidate, perché non estenderle a tutti gli istituti di pena? Perché le carcerazioni possono ancora essere così differenti a seconda di dove ti capita di scontare la pena? Credo che un Paese civile dovrebbe trovare almeno uno standard minimo obbligatorio e condiviso. Non solo sui metri quadrati delle celle ma sulle attività, sugli orari di apertura, sull’attenzione alle famiglie, sulla tutela dei bambini e sulla cura degli affetti. Nella fiduciosa attesa di tempi migliori, per fortuna che c’è il volontariato, esiste una cittadinanza attiva impegnata a mettere quel di più necessario a rompere l’isolamento - talvolta patologico - del carcere e a restituire tratti di umanità a un’istituzione che, nonostante i numerosi, encomiabili sforzi di provveditori, direttori, educatori, comandanti impegnati a rispettare lo spirito e il mandato della nostra Costituzione, è lenta a trasformarsi e ad evolvere. Pranzi "stellati" per i detenuti di 5 carceri italiane affaritaliani.it, 20 dicembre 2016 Torna "L’ALTrA cucina… per un pranzo d’amore", iniziativa di Prison Fellowship Italia Onlus, Rinnovamento nello Spirito Santo e Fondazione Alleanza RnS Onlus. "L’ALTrA cucina… per un pranzo d’amore" è un’iniziativa promossa da Prison Fellowship Italia Onlus, Rinnovamento nello Spirito Santo e Fondazione Alleanza del RnS Onlus per offrire a circa 1500 persone - tra detenuti, detenute, familiari e volontari - un pranzo natalizio preparato da Chef "stellati" e servito da testimonial del mondo dello spettacolo, della musica, del teatro, della televisione. Dopo il felice esito delle due esperienze realizzate il 24 dicembre 2014 nel carcere di Rebibbia e il 23 dicembre 2015 a Rebibbia (Roma), Casal del Marmo (Roma), Opera (Milano), Sant’Anna (Modena), Pagliarelli (Palermo), quest’anno l’evento avrà luogo il 22 dicembre ancora a Rebibbia, Opera, Sant’Anna, Pagliarelli e, per la prima volta, a Salerno. Nella Casa di reclusione Opera di Milano, Tommaso Arrigoni preparerà il pranzo per 60 detenuti del carcere, riuniti per l’occasione con 60 familiari; parteciperanno Barbara Benedettelli, il comico Pino Campagna, i Notte New Trolls, Giusy Versace, Piero Salvatori. Il pranzo inizierà alle ore 13.00, dopo la Celebrazione della Messa di Natale, in programma alle 11.00. Dopo il pranzo, la giornata prosegue nel teatro del carcere con uno spettacolo per i detenuti. Saranno presenti mons. Luca Bressan, vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale per la Diocesi di Milano; Marcella Reni, presidente di Prison Fellowship Italia Onlus; Lorenzo Pasquariello, membro di Comitato nazionale per l’area Pastorale. Sarà la dott.ssa Cristina Bowerman, Chef stellato del Ristorante "Glass Hostaria" e di "Romeo chef&baker" a Roma, a cucinare per 320 detenute della Casa circondariale femminile di Rebibbia; presso la Casa circondariale Sant’Anna di Modena si riconferma lo Chef Carmine Giovinazzo, finalista di MasterChef e Chef al Doc Taverna Gourmet a Piove di Sacco (PD), per 420 detenute e detenuti; per l’esordio alla Casa circondariale di Salerno, sarà lo Chef stellato Lorenzo Cuomo, del Ristorante "Re Maurì" a Salerno, a cucinare per 90 detenuti; a Palermo, nella Casa circondariale Pagliarelli, 320 detenuti gusteranno i piatti dello Chef stellato Pietro D’Agostino del Ristorante "La Capinera" a Taormina. Calabria: 7 carceri su 12 sono sovraffollate, ai primi posti Reggio, Cosenza e Paola di Emilio Enzo Quintieri primapaginanews.it, 20 dicembre 2016 Manca il personale di Polizia penitenziaria ed un Provveditore regionale in pianta stabile. Anche quest’anno, come da tradizione, durante le prossime festività visiteremo con attenzione gran parte degli Istituti Penitenziari della Calabria. Mercoledì 21 inizieremo dalla Casa Circondariale di Vibo Valentia, venerdì 23 saremo a Palmi, sabato 24 a Paola, domenica 25 a Cosenza, martedì 27 a Castrovillari, venerdì 30 a Catanzaro e sabato 31 alla Casa di Reclusione di Rossano. Lo dichiara Emilio Enzo Quintieri, già membro del Comitato Nazionale dei Radicali Italiani, a capo delle delegazioni visitanti autorizzate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Attualmente, nei 12 Istituti Penitenziari della Calabria, a fronte di una capienza regolamentare di 2.661 posti, sono ristretti 2.702 detenuti (43 donne), 542 dei quali sono di nazionalità straniera (20.06%). 25 sono i semiliberi, 1 dei quali straniero. Quindi, apparentemente, vi sarebbero soltanto 41 detenuti in esubero. Ma non è proprio così poiché, dalla capienza generale regionale, bisogna togliere altri 223 posti che non sono disponibili ed utilizzabili. Per cui, allo stato, sono 264 i detenuti in eccesso e quelli che sono coinvolti nel sovraffollamento, cioè quelli che sono ristretti in carceri sovraffollate, sono 1.637, quindi il 60,58% del totale dei detenuti presenti. L’indice di affollamento è del 101.54%. Oltre la metà delle nostre Carceri e per la precisione 7 su 12 sono sovraffollate. Al primo posto c’è la Casa Circondariale "Giuseppe Panzera" di Reggio Calabria col 140,76% di sovraffollamento (capienza 184, detenuti presenti 259, 75 in esubero); a seguire la Casa Circondariale "Sergio Cosmai" di Cosenza col 131,19% (capienza 218, detenuti presenti 286, 68 in esubero); la Casa Circondariale di Paola col 125,82% (capienza 182, detenuti presenti 229, 47 in esubero); la Casa Circondariale "Filippo Salsone" di Palmi col 123,68% (capienza 152, detenuti presenti 188, 36 in esubero); la Casa Circondariale di Arghillà di Reggio Calabria col 109,06% (capienza 302, detenuti presenti 331, 29 in esubero); la Casa Circondariale di Crotone col 104,17% (capienza 120, detenuti presenti 125, 5 in esubero) e la Casa di Reclusione di Rossano col 101,86% (capienza 215, detenuti presenti 219, 4 in esubero). Negli altri 5 penitenziari calabresi (CC di Locri, Castrovillari, Vibo Valentia, Catanzaro e C.R. di Laureana di Borrello) non vi sono problemi di sovraffollamento. Ma non è solo il sovraffollamento il problema che affligge il sistema penitenziario regionale perché a questo deve aggiungersi anche la gravissima carenza di personale del Corpo di Polizia Penitenziaria che oltre a limitare fortemente le attività trattamentali intramurali comporta anche rilevanti problemi di gestione degli Istituti. Rispetto ad una pianta organica, divisa per ruoli, che prevede 1.441 unità di Polizia Penitenziaria, sono effettivamente in servizio 1.398 unità. Anche in questo caso, apparentemente, la carenza di organico (43 unità) sarebbe del tutto irrisoria ed invece tale problematica è molto più importante, grave e complessa. Infatti, mancano 11 Commissari, 74 Ispettori e 93 Sovrintendenti. Ci troviamo solo 43 unità mancanti perché vi sono in servizio 135 unità del ruolo Agenti-Assistenti rispetto a quelli previsti dalla pianta organica che distorcono quella che è la statistica "reale". Fatto ancora più grave, degno di nota, è che in Calabria, da oltre 6 anni, manca il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria. Dopo il suicidio di Paolo Quattrone, il Ministro della Giustizia che procede su proposta del Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, non ha più nominato un Dirigente Generale in pianta stabile a capo del Provveditorato calabrese. Attualmente, la reggenza del Provveditorato per la Calabria con sede in Catanzaro, è stata assegnata alla Dott.ssa Cinzia Calandrino, che ricopre l’incarico di Provveditore Regionale per il Lazio, l’Abruzzo ed il Molise. All’esito delle ispezioni, oltre a relazionare in merito al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, alla Magistratura di Sorveglianza competente ed al Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti presso il Ministero della Giustizia, solleciteremo anche la presentazione di una dettagliata Interrogazione Parlamentare sul "Caso Calabria" al Governo Gentiloni affinché vengano presi gli opportuni provvedimenti per risolvere le gravi problematiche che affliggono il sistema penitenziario calabrese. Le Delegazioni visitanti, autorizzate dal Direttore Generale dei Detenuti e del Trattamento dell’Amministrazione Penitenziaria Roberto Calogero Piscitello, su disposizione del Capo del Dipartimento Santi Consolo, oltre da Quintieri, saranno composte da Valentina Moretti, Maria Ferraro, Ercole Blasi Nevone, Manuel Pisani, Annabianca Iero e dagli Avvocati Sebastiano Brancati del Foro di Locri, Nicola Galati del Foro di Palmi e Carmine Curatolo del Foro di Paola. Calabria: partono da Vibo le visite natalizie dei Radicali negli istituti di pena calabresi ilvibonese.it, 20 dicembre 2016 Sulle tracce del compianto leader Marco Pannella, il Partito Radicale Nonviolento si recherà a verificare le condizioni di detenzione e ringraziare i detenuti. "Marco Pannella non c’è più, ma anche quest’anno, nell’ambito di una più ampia iniziativa nazionale del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito che coinvolgerà un totale di 40 istituti penitenziari che saranno visitati da esponenti e militanti del Partito della Nonviolenza, in Calabria, come c’ha insegnato a fare Marco, la mattina di Natale, visiteremo i detenuti della Casa circondariale di Vibo Valentia, a Santo Stefano, il 26 dicembre, saremo in visita alla casa circondariale di Cosenza e a Capodanno visiteremo i detenuti nella casa circondariale di Crotone". È quanto si legge in una nota dei due esponenti calabresi del Partito Radicale, Giuseppe Candido segretario associazione "Non mollare", autore del libro "La peste ecologica e il caso Calabria", già candidato alla Camera nel 2013 per la lista "Amnistia Giustizia Libertà", e Rocco Ruffa, che - l’anno scorso - proprio durante le festività natalizie effettuarono un giro di visite ispettive che riguardò tutte le dodici carceri calabresi. Tassi di sovraffollamento, tipologie e percentuali di detenuti in attesa di giudizio, carenze strutturali, carenze di agenti, ispettori, direttori e di educatori, furono rilevate attraverso un questionario e riportate in un dettagliato rapporto pubblicato al termine delle visite e ancora consultabile online. Altre visite furono effettuate anche a Pasqua e a Ferragosto. "Dopo la morte del leader ed un congresso tenutosi nel carcere di Rebibbia, il Partito Radicale non molla le battaglie per la vita del diritto e il diritto alla vita e - si legge ancora nel comunicato - grazie alle autorizzazioni ottenute dal Dap anche quest’anno da Rita Bernardini, potremo recarci a verificare le condizioni di detenzione e, contemporaneamente, ringraziare i detenuti che, il 5 e 6 novembre - in occasione della Marcia per l’amnistia, la giustizia giusta e la libertà intitolata a Papa Francesco e a Marco Pannella - hanno digiunato due giorni per chiedere, in modo non violento, assieme a Rita Bernardini e altri dirigenti del Partito, lo stralcio della riforma dell’Ordinamento penitenziario in modo che potesse essere discusso prima del referendum, ed il rispetto del dettato costituzionale sull’effettività rieducativa della pena che deve riguardare tutti i detenuti, nessuno escluso". Il tour delle carceri, anche in Calabria, è molto nutrito e, si legge ancora nel comunicato, "proseguirà con altre visite in provincia di Reggio Calabria alle quali parteciperà l’ex deputata Radicale, Rita Bernardini, il 3 e il 4 gennaio 2017, nelle carceri di Panzera e Arghillà e il 5 gennaio a Palmi (Rc). Sempre il 4 gennaio Giuseppe Candido e Rocco Ruffa faranno visita alla casa di reclusione di Rossano Calabro Trento: il suicidio in carcere e il dialogo con la sanità di Luca Malossini Corriere del Trentino, 20 dicembre 2016 Merita un’amara riflessione il grave fatto del suicidio del trentacinquenne Luca Soricelli avvenuto l’altro giorno nel carcere di Spini Gardolo. Giuste le osservazioni del sindacato autonomo guardie carcerarie sulla carenza di organico, altrettanto giusta la sottolineatura, fatta da molte parti e ormai da qualche anno, dell’opportunità dell’istituzione anche in Trentino del garante dei carcerati. C’è però un dato molto preoccupante da non dimenticare. Luca Soricelli non era affatto sconosciuto ai servizi sociali della Vallagarina: non è stato preda solo di un improvviso colpo di testa e difficilmente le sue condizioni di salute mentale potevano ritenersi compatibili con la detenzione, seppure in infermeria. Giustamente l’avvocato difensore, Alessandra Zoccatelli, aveva proposto con forza la custodia cautelare in una struttura sanitaria adeguata. Non è il primo caso tragico che vede detenute persone a vario titolo ammalate e che si conclude in questo modo. Probabilmente un’intesa operativa tra i movimenti della giustizia e quelli della sanità riuscirebbe a prevenire simili esiti. misericordia, semplicemente sa che tutto scorre, tutti gli omuncoli, i partituncoli, tutti noi scorriamo. Dunque, tale genio ancestrale dove si era ritirato? A un centinaio di metri dalla piazza, sulle antiche fratte, tra i muri a secco tirati su dagli antenati. E con chi ha potuto interloquire? A chi ha chiesto aiuto per salvare la bellezza, la storia, la memoria della borgata già altrove sfregiate? Lo ha chiesto con il suo fine sussurro, al femminile, saranno le indagini in corso a dire se siano stati presi gli accorgimenti necessari nel valutare la situazione. Compito di un giornale non è sostituirsi ai magistrati, ma riferire tutti i fatti nonché aiutare a tenere alta l’attenzione sulle condizioni di vita dentro il carcere affinché simili episodi non abbiamo a ripetersi. Ciò che lei suggerisce, ovvero di ricercare una migliore intesa tra mondo della giustizia e della sanità, è quindi proposta da sottoscrivere. C’è poi un discorso legato alla struttura di Spini. Inaugurata pochi anni fa all’insegna della modernità, sembra invece riproporre i problemi che per anni hanno accompagnato l’edificio di via Pilati: mancanza di personale, sovraffollamento, assenza del servizio sanitario durante la notte. Sono questioni da affrontare urgentemente. In tale direzione potrebbe essere un aiuto la figura del garante dei detenuti che il Consiglio provinciale dovrebbe discutere (il condizionale è d’obbligo viste le difficoltà politiche già emerse sul disegno di legge al riguardo) nei prossimi mesi. Anche in una cella si deve sempre tutelare la dignità della persone perché, come è stato giustamente osservato, "un detenuto che si toglie la vita in carcere è sempre una sconfitta dello Stato". Trento: si è suicidato in cella. Il perito: era idoneo alla reclusione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 dicembre 2016 Il Garante dei detenuti, dopo una visita nella Casa circondariale, ha denunciato alla Procura la situazione di alcune stanze della sezione di isolamento, segnalata da alcuni reclusi. Era stato portato al carcere trentino di Spini di Gardolo e messo nella cella dell’infermeria insieme a un altro detenuto. Tre giorni dopo il suo ingresso nella casa circondariale, colto dalla disperazione, ha deciso di farla finita impiccandosi al cancello della cella. La tragedia è accaduta nella notte di venerdì scorso e nel momento del suicidio, non solo c’era un unico agente per coprire quattro posti di servizio, ma soprattutto non c’era alcun medico o infermiere. Quando l’agente ha fatto visita alla cella, ha trovato l’uomo impiccato: per lui non c’era purtroppo nulla da fare. Eppure non doveva neppure starci in carcere visto il suo stato psicofisico mentale precario. Si chiamava Luca Soricelli e aveva trentacinque anni. Era stato arrestato lunedì notte dai carabinieri per l’incendio appiccato al distributore di benzina di via Cavour a Rovereto. Un gesto folle. Quando i carabinieri lo avevano fermato era stato trovato in stato confusionale e poco lucido. Il trentacinquenne pochi minuti prima aveva pagato di propria 150 euro di benzina, poi aveva cosparso di carburante le pompe del distributore e aveva appiccato il fuoco. L’intervento di uno dei gestori prima e quello dei vigili del fuoco poi aveva scongiurato il peggio, ma i danni sono stati comunque ingenti. Dal momento dell’arresto non ha detto una parola, forse non ha nemmeno parlato con lo psichiatra che l’ha visitato e assicurato sulla sua idoneità a essere rinchiuso in una cella. È stato processato per direttissima. Luca era risultato idoneo per il carcere. Talmente idoneo che si è poi impiccato con un lenzuolo intorno al collo. Eppure la storia di Luca, segnata dal disagio sociale che intaccato la sua capacità psichica, era cosa nota ai servizi e alle strutture pubbliche di assistenza sociale e psichiatrica. Eppure, prima della sentenza, è stato condotto preventivamente in carcere. Tre sono i motivi per giustificare la custodia cautelare: il pericolo di reiterazione del reato, il pericolo di fuga o l’inquinamento delle prove. Per una persona con problemi psichiatrici come Luca Soricelli, c’è solo il primo pericolo. Ma nei casi compiuti da persone con disturbi psichici esiste il trattamento sanitario obbligatorio. La "stanza delle percosse" - I detenuti a Trento, stando agli ultimi dati del Dap, sono 337. Secondo il Sappe l’organico è di 214 agenti, ma gli effettivi sono di fatto sono solo 108 e di questi molti vengono impiegati per i piantonamenti all’ospedale. La notte della tragedia doveva esserci qualcuno a sorvegliare il trentacinquenne, ma l’agente incaricato doveva coprire quattro posti contemporaneamente. Pochi minuti di assenza e c’è stata l’impiccagione. Nel carcere di Trento, da quando è stato inaugurato, a fine gennaio 2011, sono avvenuti quattro suicidi. Ma c’è un altro problema che il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ha denunciato alla Procura. Nel suo rapporto racconta di aver visitato la sezione di isolamento. All’ingresso ci sono due stanze: una, a destra, utilizzata come magazzino, mentre un’altra, a sinistra (indicata come stanza 2706) trovata vuota, arredata solo con un armadio di metallo, che presentava sulla parete segni di colpi da cui partivano striature nere e sotto delle piccole macchie a forma di schizzi di colore bruno che potevano essere indicativi di sangue. Il comandante di reparto, presente al momento della visita, ha ipotizzato che il sangue, qualora accertato, potesse essere dovuto ad atti di autolesionismo. A questa stanza, la delegazione del garante, era arrivata su segnalazione di diversi detenuti: sia di alcuni ospitati a Trento nel giorno della visita, sia di altri non più detenuti a Trento e incontrati in altri Istituti, che avevano fornito convergenti indicazioni. La stanza era stata indicata come luogo in cui alcuni di essi avevano subito percosse da parte di personale della Polizia penitenziaria. Mauro Palma ha quindi chiesto che si faccia luce sulla natura e sull’origine delle macchie sul muro e di sapere quale sia ufficialmente l’uso della stanza 2706. Qualora si accerti che all’origine vi siano atti di autolesionismo, il Garante chiede di sapere perché persone a rischio siano state messe in una stanza non detentiva priva di qualsiasi arredo tipico di una stanza di pernottamento e non in infermeria o in una stanza dove sia possibile una continua osservazione. Qualora invece tale ipotesi non venisse confermata e le macchie risultassero di sangue, chiede che ne venga trasmessa informazione alla Procura della Repubblica, anche in considerazione delle altre denunce che questo stesso Garante ha ricevuto nonché di quanto apparso sulla stampa dopo una specifica audizione del responsabile sanitario da parte della Prima commissione del Consiglio della Provincia di Trento. La Procura, in seguito all’esposto, aveva aperto un’indagine. Recentemente però ha chiesto l’archiviazione del fascicolo, ritenendo le accuse infondate. Ma il garante ha presentato opposizione. Ora si attende l’udienza davanti al gip. Trento: il carcere "modello" ormai è sovraffollato di Sergio Damiani L’Adige, 20 dicembre 2016 È nuovo, moderno, eppure già sovraffollato. Il nuovo carcere di Spini avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi legati alla detenzione a Trento, invece neppure sei anni dopo la sua inaugurazione in pompa magna con tanto di ministro Angelino Alfano, a Spini si ripropongono molti dei problemi che erano anche della vecchia Casa circondariale di via Pilati. Due in particolare sono i nodi, che si intrecciano, da sciogliere: troppi detenuti e troppo pochi agenti di polizia penitenziaria. Questa duplice emergenza fa sì che il penitenziario, con le carte in regola per essere un istituto di pena modello, non funzioni come avrebbe dovuto. La Provincia, nell’ambito di un accordo economico sottoscritto con lo Stato nel 2001, si fece carico di un’operazione di civiltà sostenendo i costi per la costruzione del nuovo carcere di Spini di Gardolo. Nell’accordo sottoscritto con il Ministero dall’ex presidente della Provincia Lorenzo Dellai, c’era anche una clausola che avrebbe dovuto mettere Trento al riparo dal cronico sovraffollamento tipico delle carcere italiane: il limite massimo doveva essere di 245 detenuti. Quella barriera invalicabile è in realtà un colabrodo. A Spini i detenuti sono costantemente oltre quota 300. "In questi giorni - conferma il comandante della polizia penitenziaria, Daniele Cutugno - siamo intorno ai 366-368 detenuti, vicini alla capienza massima tollerabile per le aree normalmente utilizzate per le detenzione". Viene dunque rispettato il parametro di 3 metri quadri a detenuto per non incorrere nelle sanzioni dell’Unione europea, ma certo al taglio del nastro nessuno immaginava che il sovraffollamento sarebbe stato un problema cronico anche a Spini. Può la Provincia puntare i piedi e pretendere il rispetto dei patti? Probabilmente no. "Non credo ci siano strumenti giuridici su cui far leva - conferma Dellai - perché la gestione delle carceri è una competenza rimasta in capo allo Stato". Ma ci sarebbe una strada da percorrere, lunga ma più efficace: "Se la Provincia lo vuole, più utile potrebbe essere cercare di raggiungere una nuova intesa. Attraverso una norma di attuazione specifica - prosegue il presidente della Commissione dei Dodici - si potrebbero trovare forme di collaborazione per la gestione delle carceri tra Provincia autonoma e Stato, nel solco di quanto è stato fatto per l’amministrazione della giustizia. È un terreno, però, ancora tutto da esplorare". La collaborazione tra Stato e Provincia potrebbe contribuire a risolvere anche l’altro cronico problema del carcere di Spini: la carenza di personale nelle fila della polizia penitenziaria. A fronte delle 214 unità previste dal Ministero, quelle disponibili sono 108. Tolte ferie, malattie, congedi, per le attività di custodia in carcere e per il servizio di traduzioni e piantonamento (per un detenuto ricoverato in ospedale, magari per un mese, sono necessari anche 8 agenti al giorno) rimane un manipolo di uomini, costretti a fare turni di lavoro spesso massacranti. "Dall’esterno - sottolinea Cutugno - è difficile cogliere quanto possa essere duro e stressante un turno di servizio di un agente di polizia penitenziaria. Posso assicurare che non è facile stare seduto per otto ore in una postazione che da sola, attraverso monitor, controlla tre braccia per un totale di 110-120 detenuti che ti tempestano di richieste attraverso l’interfono. Tra i detenuti ci sono tossicodipendenti cronici con psicosi, paranoie e altre patologie psichiatriche che possono distruggere tutto quello che hanno in cella in pochi secondi. Nelle loro celle abbiamo dovuto mettere sanitari di metallo e plexiglas alle finestre perché altrimenti sfasciavano tutto e usavano i cocci per devastarsi. Nonostante tutto questo, il lavoro viene fatto con impegno, ma non basta perché poi vieni criticato e accusato ingiustamente". La soluzione dei problemi purtroppo non è all’orizzonte. Sul fronte della polizia penitenziaria un po’ di sollievo potrebbe venire da 17 uomini il cui arrivo è stato chiesto da tempo dalla direzione. Se poi rientrassero in servizio a Trento anche parte dei 24 agenti distaccati altrove (alcuni però sono atleti delle Fiamme Azzurre), la situazione migliorerebbe. Ma per poco perché nei prossimi 3 anni si calcola che oltre trenta agenti in servizio a Trento andranno in pensione. Pisa: il direttore del carcere "nessun sovraffollamento, normative rispettate" di Carlo Venturin Il Tirreno, 20 dicembre 2016 "I bagni a vista delle detenute sono lì da sempre e non possiamo fare interventi occasionali oppure a spot". Lo dichiara con nettezza il direttore del carcere Don Bosco, Fabio Prestopino. Una risposta alle criticità che erano state messe in evidenza sia dal garante dei diritti per i detenuti Alberto Di Martino che dalla consigliera regionale del Pd, Alessandra Nardini. Sul sovraffollamento, Prestopino dice: "Non c’è un vero sovraffollamento, dato che tutti i detenuti dispongono dello spazio minimo di tre metri stabilito dalle normative. Il problema è che ci sono reparti dove sono ubicate meno persone ed altri in cui c’è più concentrazione. Ciò è dovuto, ad esempio, all’attuazione di specifici progetti come il polo universitario ed il progetto Prometeo. Anche a Pisa si assiste comunque ad un leggero, ma costante aumento delle presenze di detenuti come di semiliberi". Sulla necessità di impegnare i detenuti in attività artigianali professionalizzanti, il direttore puntualizza: "Il lavoro penitenziario oggi ha carattere assistenziale più che formativo e rieducativo ed è perlopiù limitato a mansioni non qualificate. Affermazioni sull’implementazione di tale lavoro sono apodittiche, ma non trovano riscontro nella realtà normativa. La normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro esclude la possibilità di far svolgere mansioni qualificate in mancanza di adeguata formazione che non viene più finanziata e raramente è posseduta da detenuti". Proprio per questo, dopo aver letto le dichiarazioni, il direttore aveva scritto a Nardini chiedendo un suo interessamento affinché la Regione finanzi progetti formativi in carcere. "Conoscendo il professor Di Martino - continua Prestopino - che è ben consapevole della situazione ed ha sempre proposto idee innovative, sono convinto che intendesse propugnare la necessità di una reale svolta anziché parlare di mera implementazione". In ogni caso, riferisce il dirigente, "è impensabile che, con l’attuale stato della normativa e la carenza di risorse umane, economiche e strumentali, si facciano manutenzioni o ristrutturazioni affidandosi alla buona volontà dei detenuti e di qualche agente che ha qualche nozione di muratura". Sulla situazione dei bagni nel reparto femminile, il direttore è chiarissimo: "Gli uffici tecnici hanno escluso la possibilità di interventi diversi da una completa ristrutturazione del reparto femminile per risolvere il problema dei bagni a vista. Ciò comporterà la temporanea chiusura del reparto. Sono esclusi quindi interventi provvisori o parziali, che pure avevamo immaginato proponendoli ai tecnici. Devo rilevare che quei bagni sono a vista sin da quando è nato il carcere e che la maggioranza delle detenute rifiuta il trasferimento in altre sedi". Sulla pensilina di attesa per i familiari, la competenza è comunale, tant’è che Prestopino ribadisce che "l’installazione di una pensilina è una delle prime proposte che ho rivolto alla municipalità, unica competente a provvedervi. Dovrebbe essere realizzata al limitare del giardino Solarino. Ma realizzando, come più volte proposto, una sala attesa interna, la pensilina diverrebbe inutile. La Fondazione Pisa sarebbe disponibile a finanziare la sala e le altre opere, ma, ancora una volta, vi sono ostacoli tecnico-normativi". Il malfunzionamento delle linee telefoniche è un errore. "Le notizie circa il malfunzionamento dei telefoni sono state equivocate - dice il direttore -. Abbiamo tuttora problemi al centralino degli uffici, che sarà al più presto sostituito, che non riguardano in alcun modo i telefoni usati dai detenuti. Capita che il sistema da loro usato si blocchi, ma si tratta di blocchi che sono sempre stati risolti in breve tempo". Un’ultima segnalazione a cui risponde il direttore riguarda il centro clinico che secondo Di Martino versa in pessime condizioni: "L’edificio in cui si trova il centro clinico è in condizioni manutentive accettabili, grazie agli interventi conclusi all’inizio del 2015. Si tratta comunque di un immobile molto vecchio che abbisogna, come gli altri edifici, di continua ed importante manutenzione. È poi in costruzione un nuovo edificio, ma i lavori sono fermi dal 2012 perché l’impresa appaltatrice ha avuto difficoltà economiche". Trieste: il carcere non chiuderà, in arrivo 1,3 milioni di euro per ristrutturarlo di Francesco Fain Il Piccolo, 20 dicembre 2016 Fasiolo: "Serviranno a rimettere in sesto le celle e a installare un ascensore" Uffici e spazi ricreativi per i detenuti all’ex scuola Pitteri: il progetto va avanti. "Il carcere è salvo". E, nel rispetto dell’effetto-domino, pure il tribunale. Sullo sfondo, poi, prosegue il progetto per la realizzazione della "Cittadella della giustizia" andando a creare ex novo uffici e spazi ricreativi al servizio della casa circondariale nella vicina ex scuola Pitteri, oggi ridotta a un rudere. Sono notizie decisamente positive quelle che rimbalzano da Roma, dal Ministero della Giustizia. La senatrice Laura Fasiolo (Pd) ha ricevuto risposta ai suoi quesiti riguardo al futuro della Casa circondariale. E si può tranquillamente dire che l’allarme è cessato. Da tempo, infatti, si parla dell’inadeguatezza della struttura di via Barzellini, costruita tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento: per quanto nata come "prigione", risulta inevitabilmente superata alla luce della sensibilità diffusa che si riserva, oggi, al tema della pena e delle condizioni di carcerazione. Nonostante alcuni limitati lavori di sistemazione, la struttura rimane sotto molti aspetti carente, inadeguata, obsoleta. "Ma è in corso di progettazione - spiega la parlamentare - un lotto funzionale di lavori che comporterà il completamento dei reparti detentivi dell’istituto penitenziario, compresi i servizi posti nelle aree del piano interrato. Sono previste anche l’installazione di un ascensore monta-lettighe a servizio dei vari piani e la riqualificazione della cucina detenuti. I lavori sono stati inseriti nel corrente programma annuale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per un importo complessivo a 1,3 milioni di euro. L’istituto penitenziario fa parte di un più complesso compendio demaniale che comprende pure la sede del tribunale". L’amministrazione ha deciso, dunque, di avviare un programma di interventi manutentivi, di recupero e di adeguamento normativo. Già effettuati i lavori al piano rialzato e al primo e al secondo piano con la realizzazione anche di aule didattiche e ricreative. L’alloggio, in passato destinato al comandante di reparto, è stato invece trasformato ad uso uffici della Direzione. "Le stanze della nuova ala dell’edificio offrono una quotidianità spartana ma dignitosa, rispetto a quella vissuta nelle celle fatiscenti della sezione ristrutturanda del vecchio carcere, dove staziona la gran maggioranza dei detenuti", rimarca la senatrice goriziana. Non è tutto. Sta andando avanti l’ambiziosa operazione che dovrebbe portare alla realizzazione della cosiddetta "Cittadella della giustizia". Il carcere, infatti, potrebbe svilupparsi con l’aggregazione all’attuale complesso carcerario dell’adiacente area che ospita l’ex scuola Pitteri, oggi inutilizzata, in pessime condizioni di conservazione e utilizzata soprattutto come area di parcheggio. Si vuole ricavare in quegli spazi, una volta ristrutturati, uffici ma anche spazi ricreativi e culturali a supporto dell’attività di riabilitazione e reintegrazione dei carcerati, nonché ulteriori indispensabili servizi. "Anche su questo tema, la risposta del Ministero è stata positiva perché l’iter sta andando avanti. La Direzione generale del personale e delle risorse è stata investita per una più compiuta valutazione della fattibilità". In ultimo, la questione del personale. Oggi risultano esserci 42 detenuti. E il personale del corpo di polizia penitenziaria è composto da 38 agenti. "Ciò significache il rapporto complessivo agenti/detenuti è pari al 90,5%. Il Ministero afferma che da un comparazione di tale rapporto rispetto a quello nazionale che è pari al 67,6 per cento, c’è una situazione favorevole alla casa circondariale di Gorizia. Praticamente, c’è quasi un agente per ogni detenuto", conclude Fasiolo. Rimini: le criticità del carcere dei Casetti, tra organico carente e magistrato assente di Maurizio Ceccarini newsrimini.it, 20 dicembre 2016 Sovraffollamento stimato oggi al 10% (140 detenuti su una disponibilità di 126 posti), in peggioramento rispetto a otto mesi fa, quando le due cifre si equivalevano. E un problema di carenza di personale: sono 113 gli agenti assegnati rispetto a un piano organico previsto di 144. Se rispetto a una quindicina di anni fa la situazione della casa circondariale di Rimini, ci sono comunque criticità che restano. C’è la sezione per i transessuali che ancora presenta condizioni penalizzanti. E si lamenta ancora l’assenza del magistrato di sorveglianza (Rimini dipende da Bologna), che a Rimini non si vede ormai da due anni. Bloccando, ad esempio, la possibilità di concedere permessi premio ai detenuti per Natale o anche la possibilità di inserimento sociale tramite il lavoro. È il quadro emerso dalla visita di oggi al carcere di Rimini promossa dal Partito Radicale, così come in un’altra quarantina di strutture carcerarie che saranno visitate in tutta Italia nel periodo delle feste. E alla quale ha partecipato anche il deputato riminese Tiziano Arlotti del Pd, che più volte ha chiesto rinforzi per il carcere riminesi. Il Governo ha disposto 1.400 assunzioni per le 200 carceri di tutta Italia: per Rimini potrà essere un sollievo anche se non la soluzione del problema. Nel gruppo che ha preso parte alla visita, oltre ad Arlotti e Innocenti dei Radicali anche rappresentanti della Camera Penale, l’artista Massimo Modula e delle ragazze del Centro Sociale Autogestito Grotta Rossa. "Degli interventi devono essere fatti ancora alla struttura e alla sezione che ospita i transessuali. Inoltre, sarebbe opportuna una continuità nella direzione del carcere di Rimini per mantenere una gestione più efficace e rispondente alle esigenze della struttura, dove c’è necessità di una direzione permanente e di un organico di cui attualmente non è dotata", commenta Tiziano Arlotti a seguito della visita annunciando che, alla ripresa dell’attività parlamentare dopo la sospensione per le festività natalizie, presenterà un’interrogazione al Ministero della Giustizia visto che nel 2017 saranno assunte ulteriori 1.400 unità di agenti di Polizia penitenziaria di cui 600 attraverso concorso e 800 andando ad attingere dalla graduatoria vigente. Per Arlotti sono fondamentali "le iniziative di recupero attraverso esperienze formative e di lavoro che permettono la rieducazione e la reintegrazione sociale". Così come Innocenti e tanti riminesi, il 6 novembre scorso l’onorevole Arlotti aveva aderito al Giubileo dei Carcerati, indetto nell’ambito del Giubileo della Misericordia proclamato da Papa Francesco. L’auspicio, per il deputato del Pd, è che questo evento sia stato "un ulteriore passo per rinnovare profondamente il nostro modello di detenzione, garantendo la sicurezza della comunità e al contempo consentendo ai detenuti il recupero e l’integrazione attraverso l’istruzione, il lavoro, l’apertura alla società esterna, come ha avuto modo di osservare anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nell’anniversario della fondazione della Polizia penitenziaria". Roma: "sbarre segate, niente controlli". Rebibbia sotto accusa per gli evasi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 20 dicembre 2016 Cinque in fuga in pochi mesi. Indagato l’ex direttore del carcere e altri 13. L’evasione da Rebibbia fu ripresa dalle telecamere: mentre i fuggitivi si calavano da un tetto, mentre prendevano le misure di un muro da scavalcare, mentre si nascondevano tra gli alberi prima di superare l’ultima barriera. Ma nessuno si accorse di nulla. Scattò persino un allarme. Inutilmente. Così, poco dopo le 2 della notte tra il 26 e il 27 ottobre scorso, i tre detenuti albanesi Tesi Basho (condannato all’ergastolo per omicidio e traffico di droga), Ilir Pere (fine pena tra 25 anni per tentato omicidio) e Mikel Hasanbelli (fine pena nel 2020 per estorsione e sfruttamento della prostituzione), poterono andarsene indisturbati con il più classico e rocambolesco dei copioni: sbarre segate e recinzione superata grazie alle lenzuola annodate. Tutto, o quasi, immortalato dai monitor. Immagini sfocate o poco nitide, però decifrabili. Solo che nella "sala regia" del penitenziario, durante il turno da mezzanotte alle 8, gli agenti in servizio non notarono alcuna stranezza, nonostante all’1.46 si fosse attivato l’allarme collegato alle figure in movimento. E il servizio di sorveglianza "dinamico", che doveva essere effettuato con due autopattuglie, in realtà sarebbe rimasto piuttosto "statico", con le macchine tenute ferme per circa sei ore. Tanto che delle lenzuola penzolanti si accorse una guardia al momento di entrare in servizio, il mattino seguente. L’ordine di ricerca fu diramato solo alle 11.26, con nove ore di ritardo che si trasformò in eguale vantaggio per i tre evasi, considerati molto pericolosi, tuttora latitanti. Per aver agevolato la loro impresa oggi sono indagati l’ex direttore del carcere Mauro Mariani (sostituito da poche settimane), il dirigente dell’Ufficio detenuti regionale Claudio Marchiandi (già coinvolto nel caso Cucchi, prima condannato e poi assolto), il comandante degli agenti penitenziari del reparto G9 di Rebibbia, Massimo Cardilli, insieme ad altri undici agenti penitenziari. I primi tre responsabili, secondo la Procura di Roma, di "colpa del custode", una sorta di favoreggiamento colposo dell’evasione: gli inquirenti li accusano di averla resa fin troppo facile attraverso "l’omissione delle doverose cautele" e la violazione di altre norme. Otto mesi prima, dalla stessa prigione, erano scappati due rumeni, con modalità pressoché identiche: due fughe fotocopia, compreso il particolare di essere sbucati nel settore sorvegliato da garitte desolatamente vuote. Al punto che gli inquirenti ipotizzano un possibile contatto tra i due gruppi, visto che uno degli albanesi e uno dei rumeni si conoscevano per aver trascorso un periodo di detenzione comune. Dopo la prima evasione, avvenuta il 14 febbraio, furono disposte delle contromisure per evitare episodi simili. Puntualmente disattese, stando alla ricostruzione dei fatti che il procuratore Giuseppe Pignatone ha voluto inviare al ministro della Giustizia Andrea Orlando, per informarlo della "gravissima vicenda" e valutare eventuali iniziative di sua competenza. Per esempio: non fu disposto alcun adeguamento delle inferriate che s’erano rivelate di "qualità di metallo non idoneo", tant’è che non è stato difficile rimuoverle con un normale seghetto, sia la prima che la seconda volta. A luglio furono consegnati 3.600 metri di filo spinato zincato, alto due metri, appositamente ordinati per recintare la zona interessata dalla fuga di febbraio, ma a ottobre i rotoli erano ancora custoditi in magazzino. E dopo che ad aprile era stata ripristinata la sorveglianza armata per una garitta, a maggio la disposizione fu revocata (a seguito di un apposito accordo con i sindacati), sostituendo la sentinella con due "ronde automontate"; che peraltro quella notte rimasero ferme. Secondo l’accusa queste e altre "omissioni" hanno "obiettivamente reso possibile e agevolato" i detenuti evasi. Uno dei quali - Basho, quello con il "fine pena mai" - aveva già provato a scappare e il 21 giugno era stato mandato via dal carcere di Viterbo dove, con altri albanesi, aveva creato un gruppo "dedito alla sopraffazione e prevaricante": l’hanno messo in cella con due connazionali tra cui Pere (anche lui con una tentata fuga alle spalle), che a febbraio aveva ottenuto di spostarsi a Rebibbia in modo da facilitare i colloqui con i familiari. In quattro mesi, però, ne ha fatto solo uno, a giugno doveva andarsene ma a ottobre era ancora lì. In compagnia dei due complici e di un seghetto con il quale hanno lavorato senza problemi, nonostante la raccomandazione di perquisizioni e "battiture" delle sbarre frequenti. Dalle perquisizioni successive sono saltati fuori quattro "seghetti rudimentali" vicino al reparto G9, ma "ancora più inquietante" viene definita la scoperta di "armi improprie e stupefacenti". S. M. Capua Vetere (Ve): delegazione di Nessuno tocchi Caino e Lidu in visita al carcere caserta24ore.org, 20 dicembre 2016 Gli attivisti Giuseppe Ferraro di Nessuno tocchi Caino e della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo e Domenico Letizia di Nessuno tocchi Caino, Lega Italiana dei diritti dell’Uomo, si sono recati in visita, ai sensi dell’art. 117 dell’ordinamento penitenziario, presso la struttura penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere. Ad accompagnare i due attivisti durante la visita la direttrice Carlotta Giaquinto e il Commissario Capo della Polizia Penitenziaria Gaetano Manganelli. Numerosi i dati raccolti. Si registra un ottimo rapporto tra polizia penitenziaria e detenuti, mentre la storica problematica della mancanza di acqua sembra quasi del tutto risolta. Dai dati raccolti risulta che nella struttura sono presenti 914 detenuti, 850 uomini e 64 donne, a fronte di una capienza regolamentare di 833 detenuti. Risultano 556 agenti di Polizia Penitenziaria, anche se gli agenti effettivamente in servizio sono 473. I detenuti comuni sono 579, mentre i detenuti in Alta Sicurezza sono 335. I detenuti stranieri sono 174, mentre nel corso dell’anno 2016 hanno usufruito di intervento psichiatrico 361 uomini e 30 donne. Attualmente i detenuti con disabilità motorie sono 3, mentre i detenuti che lavorano alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria sono 190. Nel corso del 2016 gli atti di autolesionismo registrati sono 91 e non è presente la figura del mediatore culturale. Si è registrata una discreta attività di laboratori ludico ricreativi all’interno della struttura e in occasione delle feste natalizie sono previste recite teatrali e mostre di arte presepiale. Nella struttura vi è un laboratorio di Arte Presepiale che coinvolge alcuni detenuti che, come in passato, chiedono la partecipazione della società civile per l’organizzazione di mostre ed eventi affinché si possa far conoscere "oltre le sbarre" il talento artistico di molti dei detenuti. Infine, numerosi detenuti lamentano la sistematica assenza del Magistrato di Sorveglianza che non riescono a contattare e che non risponde alle domande che i detenuti presentano. Milano: condannata a 9 anni di carcere Fatima, la prima "foreign fighter" italiana di Claudia Guasco Il Messaggero, 20 dicembre 2016 Maria Giulia Sergio, arruolata in Siria con il nome di Fatima, dovrà scontare nove anni di reclusione per terrorismo internazionale. La sentenza della prima Corte d’Assise conferma la richiesta del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e del pubblico ministero Paola Pirotta, titolari dell’inchiesta. Condannati anche gli altri cinque imputati. Per il marito di Fatima di nazionalità albanese, Aldo Kobuzi, la pena è di dieci anni (uno in più rispetto alla richiesta della procura), mentre la madre e la sorella di Kobuzi, Donika Coku e Seriola Coku, sono state condannate entrambe a otto anni. Nove anni per Haik Bushra, che gestiva gruppi di indottrinamento e avrebbe dato a Fatima la spinta finale per partire, quattro anni (con il riconoscimento delle attenuanti generiche) per Sergio Sergio, il padre di Fatima, unico non latitante. Per tutti gli imputati, con l’esclusione di Fatima e del padre, i giudici hanno ordinato l’espulsione dal territorio nazionale, anche se nessuno di loro si trova al momento sul suolo italiano. È Fatima il personaggio centrale dell’inchiesta: ventinove anni, di origini campane, è la prima combattente jihadista italiana. È partita due anni fa da Inveruno, in Brianza, e ora si troverebbe in Siria dove insegna il Corano agli albanesi. Mentre il marito, sostengono gli investigatori, lavora per la polizia religiosa del Daesh, il sedicente Stato islamico. "Non è una pazza", ha sottolineato il pm Maurizio Romanelli nella sua requisitoria. "Ha una straordinaria pericolosità", così come gli altri "soldati" che hanno raggiunto i territori controllati dall’Isis dall’Italia e da altri Paesi e che "fino a ieri vivevano qui tra noi". Fatima, ha spiegato il magistrato, "ha approfondito le sue conoscenze" e mentre ne parlava ai suoi familiari attraverso Skype "aveva accanto un addetto della polizia religiosa dell’Isis". Le intercettazioni sono scioccanti: "Non avrete, probabilmente, altri casi come questo in cui si è riusciti a sentire le voci dallo Stato islamico, sia dei foreign fighter che dei coordinatori dell’organizzazione terroristica", ha detto il pm Romanelli rivolgendosi alla Corte d’Assise. "Per loro il Califfato è lo Stato perfetto, perché si è sempre in azione e si tagliano le teste: decapitano i ladri, i miscredenti e le spie in nome di Allah". Con questa indagine condotta dalla Digos, che ha già portato a quattro condanne con rito abbreviato, "per la prima volta in Italia si è riusciti a ricostruire dall’interno le attività dell’Isis, la più importante al mondo". E, tra il dicembre del 2014 e il gennaio del 2015, intercettando l’utenza di un "emiro" coordinatore per l’arrivo dei combattenti in Siria, "abbiamo scattato una fotografia dell’Isis nel momento della sua massima espansione". Dalle conversazione intercettate spicca il ruolo di Fatima, "che già in Siria non vedeva l’ora che il Califfo facesse combattere anche le donne e insegnava che il vero musulmano che non può raggiungere lo Stato islamico deve compiere la jihad nel territorio in cui si trova". Una missione nella quale ha coinvolto i genitori e la sorella, indottrinandoli nella villetta di Inzago: "Venite qui e morirete da martiri", li esortava. Il padre si è difeso in aula: "Non volevo fare la guerra, volevo stare con mia figlia, non sapevo queste cose. Non ero contento di partire, ma le mie figlie mi hanno forzato ad andare con loro". Secondo l’accusa, invece, "è stato lui ad organizzare la partenza della moglie e di Marianna in Siria". Torino: visitò il carcere con due No Tav, chiesti 10 mesi per l’ex eurodeputato Vattimo La Stampa, 20 dicembre 2016 All’ingresso disse che erano due "consulenti per i movimenti sociali". La condanna a dieci mesi di reclusione per un reato di falso è stata chiesta oggi a Torino per il filosofo Gianni Vattimo, processato in tribunale per una questione legata al movimento No Tav. Nel 2013, quando era parlamentare europeo, Vattimo visitò il carcere delle Vallette facendosi accompagnare da due attivisti dalla Valle di Susa che intendevano incontrare dei loro compagni agli arresti: all’ingresso presentò entrambi come "consulenti per i movimenti sociali", cosa che secondo il pm Antonio Rinaudo non corrispondeva al vero. Quanto agli altri due imputati, il magistrato ha proposto nove mesi per Nicoletta Dosio (che accompagnò Vattimo in due occasioni) e sette mesi per Luca Abbà. Foggia: detenuti in campo per dare voce ai bambini con un genitore recluso Ristretti Orizzonti, 20 dicembre 2016 Tifo e tanta emozione per la partita organizzata da Luigi Talienti, dedicata alle famiglie. Pasquale Marchese, Presidente del Csv Foggia: "Con la collaborazione dell’Istituto, grande spazio al volontariato". Padri e figli in campo, per giocare e sorridere oltre le barriere fisiche ed emotive. È stato un pomeriggio diverso quello del 19 dicembre nella Casa Circondariale di Foggia, per le persone ristrette, per le loro famiglie ma anche per i volontari e per chi nel Carcere ci lavora. I detenuti con e senza figli si sono sfidati per dare voce e visibilità ai bambini - oltre 100mila ogni anno in Italia - che hanno un genitore recluso, per sensibilizzare istituzioni, sistema carcerario, media e opinione pubblica affinché non vengano emarginati solo perché figli di detenuti. Sugli spalti, a tifare per i propri papà, mariti e figli una decina di famiglie, che hanno sfidato il freddo con il sorriso. "È stata una festa di famiglia - spiega il volontario Luigi Talienti, organizzatore dell’evento - che intendiamo ripetere già all’inizio del nuovo anno. Per questo, lanciamo un appello alle Autorità cittadine, affinché condividano momenti così intensi: in fondo, queste iniziative hanno come obiettivo l’apertura del carcere al territorio e alla comunità". "Il carcere di Foggia - sottolinea il Presidente del Csv Foggia, Pasquale Marchese - è sempre molto attento e disponibile con il mondo del volontariato. Grazie alla collaborazione e alla disponibilità del Direttore, Mariella Affatato, dell’Area Educativa, coordinata da Eleonora Arena e dell’intero corpo di Polizia Penitenziaria, è possibile realizzare diversi progetti presentati dalle realtà del Terzo Settore, con il sostegno della Fondazione Banca del Monte di Foggia. L’associazionismo in ambito penitenziario ha grandi potenzialità: il volontariato passa da un ruolo prettamente assistenziale ad un ruolo più attivo, nella misura in cui gli viene riconosciuto il compito di cooperare al reinserimento sociale previsto dall’art. 27 della Costituzione. Viene così ad agire in un’ottica più ampia, che si colloca nella linea della legge quadro n. 266 del 1991, che riconosce al volontariato organizzato un ruolo attivo di partecipazione e stimolo alle istituzioni e agli enti pubblici". "È stato bello vedere, nell’ultimo scorcio del secondo tempo della partita - racconta il cappellano del Carcere di Foggia, Frà Eduardo Giglia - i bambini piccoli tirare i calci in porta ai propri papà, tenendo per mano i nonni. Sono emozioni difficili da raccontare". "Sono proprio i bambini, la loro gioia i protagonisti di questa iniziativa - conclude Talienti - per qualche ora è sembrato di non essere in un Istituto Penitenziario. Tante, troppe famiglie si rompono per nulla e invece iniziative come questa dimostrano che ci si può anche riunire nella lontananza e nella sofferenza". Lo scorso 16 dicembre, sempre nel Carcere di Foggia, con la collaborazione dell’Ass. Arbitri Acsi, è stato disputato un torneo quadrangolare che ha visto scendere in campo rappresentanti dell’Ordine degli Avvocati di Foggia, del Cara di Borgo Mezzanone (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) e alcuni studenti dell’Istituto "Pacinotti", che hanno affrontato la squadra dei detenuti del Vecchio Complesso. Intanto, gli assistenti volontari del Carcere, con la collaborazione di Fra Eduardo, stanno preparando una sorpresa per la vigilia di Natale, per la quale è già partita una raccolta fondi, cui hanno partecipato l’Ass. Legali di Capitanata, il Cpia 1 e il personale del Csv Foggia. Roma: a Rebibbia presentazione del film "Naufragio con spettatore", di Fabio Cavalli di Adriana Letta diocesisora.it, 20 dicembre 2016 Realizzato con i detenuti-attori di Rebibbia e i detenuti-cantanti di Cassino. Ieri, 19 dicembre, nella Casa Circondariale "San Domenico" di Cassino, oggi a Rebibbia a Roma, la presentazione del film "Naufragio con spettatore": soggetto, sceneggiatura e regia di Fabio Cavalli, realizzato con i detenuti-attori del Teatro Libero di Rebibbia. Fatto ordinario? No, per niente, anzi è un fatto straordinario, perché il film non solo si avvale per la parte musicale del contributo di due reclusi del carcere di Cassino ma perché, presentato alla 73ª Mostra del Cinema di Venezia, ha ricevuto il Premio MigrArti 2016 - Menzione Speciale della Giuria. E scusate se è poco! Erano presenti molte autorità, a cominciare dal Prefetto Emilia Zarrillo, ai comandanti delle forze militari del territorio alle autorità religiose. Il Vescovo Antonazzo, impedito da altri impegni pastorali a presenziare, ha inviato in sua rappresentanza il suo cerimoniere, Don William Di Cicco e Don Antonio Molle, Rettore del Santuario Basilica di Canneto, "amico" dei detenuti, oltre che il cappellano Don Lorenzo Vallone. Ha accolto l’invito l’Abate di Montecassino D. Donato Ogliari, accompagnato da Don Luigi Maria Di Bussolo. Presenti anche amici e sostenitori delle attività trattamentali miranti al recupero dei detenuti. A dare inizio ai lavori è stata la dott.ssa Irma Civitareale, Direttore della Casa Circondariale, che ha illustrato il nascere e lo svilupparsi del progetto ed ha ringraziato il regista Fabio Cavalli. Questi, prendendo la parola, ha a sua volta raccontato di sé, del suo operare da volontario con i detenuti da circa 15 anni, dell’idea che ha guidato quest’ultimo lavoro, che ha come titolo: "Naufragio con spettatore". Titolo ripreso da un’opera di un filosofo del 900, Hans Blumenberg, che ne aveva fatto il "Paradigma di una metafora dell’esistenza". A questa lettura si è per l’appunto rifatto il regista Cavalli che ha detto: "Alludo alla mia personale condizione di naufrago nella vita. Nel film parlo degli altri, ma parlo di me stesso. Siamo tutti quanti prigionieri e condannati a morte, questo ci fa tutti uguali". Egli ha ringraziato poi calorosamente la Direttrice ed il personale, nonché gli ospiti della casa Circondariale di Cassino, per l’ospitalità e la disponibilità, il calore ed il rispetto per il suo lavoro, dimostrato, per esempio, dal grande silenzio che accompagnava il lavoro dei tecnici. Da parecchi anni ha detto di dedicarsi al volontariato in carcere, facendo teatro, cinema e attività artistiche, attività che a lui hanno dato un enorme arricchimento tanto che, ha dichiarato, "ritengo di dover più ringraziare che essere ringraziato". Inoltre è dimostrato che il tasso di recidiva, normalmente al 65%, scende al 10% per i detenuti che fanno attività artistiche come musica e teatro. È seguita la visione del cortometraggio, durato 15 minuti; grandi applausi son venuti da parte di tutti i presenti, particolarmente fragorosi, come era da prevedere, da parte dei detenuti. Il film emoziona e al tempo stesso fa riflettere e comprendere il problema del proselitismo e reclutamento islamista nelle carceri italiane, "posto all’ordine del giorno della riflessione politica e culturale negli ultimi tempi". Naufragio con spettatore dà voce a Nadil, un giovane detenuto di origine egiziana di fede musulmana che ha incontrato in carcere alcuni jihadisti e se n’è tenuto lontano con la forza ed il desiderio di continuare ad essere se stesso, senza abiure ma anche senza cedimenti al fanatismo: Nadil ama la pittura e non può accettare l’interpretazione della legge coranica che vieta l’arte figurativa, pena la condanna eterna. La storia narrata è la storia vera di un testimone che gliel’ha raccontata, ma - per cautela - non ha voluto farsi riprendere. Infatti l’attore che lo interpreta non è colui che ha vissuto questa difficile esperienza in prima persona. È stato invitato l’Abate a parlare ed ha lodato l’iniziativa e ha rivelato che immaginava di trovare nelle immagini l’intenzione profonda del regista. Ed ha aggiunto: Non c’è naufragio in cui lo spettatore non si senta coinvolto. Le scene ci hanno colpito molto, ha infine dichiarato, ma ci dicono che nella vita bisogna saper guardare sempre più in alto, sempre "oltre". Infine il prefetto ha incoraggiato la voglia di riscatto e di vita attraverso la bellezza della musica, della pittura e dell’arte. Occorre guardare più in alto delle sbarre e del carcere che vi circonda. Ma poiché, ha aggiunto, il male non è solo fuori ma anche dentro e il tema toccato è quanto mai arduo e attuale, occorre anche che gli operatori siano sempre più vigili e presenti di fronte a un fenomeno, quello dello jaidismo che cerca proseliti, e che si diffonde velocemente ma che va contrastato. Al Prefetto un detenuto ha offerto un mazzo di fiori, al regista una artistica scatola di legno, decorata da un altro detenuto, che all’interno del coperchio riportava l’immagine di Montecassino, con l’augurio al regista di fare ancora tanti progetti e la raccomandazione che non si dimentichi dei detenuti di Cassino. Il detenuto Rody, "scoperto" insieme ad un altro dal regista Cavalli, ha ringraziato commosso e cantato con la sua voce calda e appassionata, dicendo - in rima! - che ora che è uscito dal carcere e riacquistato la libertà, vuol fare il cantautore, senza più delinquere. Era appunto questo il sentire di tutti i presenti, l’augurio che questi giovani uomini reclusi per qualche colpa commessa, sappiano riprendere in mano la propria vita, scovare e coltivare i talenti che sicuramente ognuno ha dentro, e possano, aiutati dalla struttura del carcere, ricostruire una nuova vita, tutta in positivo. Novara: i detenuti celebrano il Natale con il concerto dei Red Hot Blues di Maria Rosa Marsilio buongiornonovara.com, 20 dicembre 2016 L’avvicinarsi del Natale, per i detenuti della Casa circondariale di Novara, è un momento certamente non facile per coloro che si trovano a vivere una situazione carceraria lontani da famiglie e da affetti; ecco perché, all’interno della struttura, vengono organizzate iniziative di serena convivenza e momenti in comune che possano far sentire meno acuta la mancanza di libertà. Coordina il carcere la direttrice Rosalia Marino, a capo anche di altre strutture carcerarie del Piemonte: un’innata attenzione ai detenuti e a quelle persone che "hanno sbagliato ma che stanno affrontando il loro percorso di pena e di riabilitazione". Nell’ottica di un percorso rieducativo, sabato 17 dicembre si è tenuto un concerto a cura dei Red Hot Blues, con Giuliano Gallini armonica e voce, Angelo Fiombo batteria e percussioni, Franco Montarese chitarre acustiche. Un pomeriggio di Blues, Blues To Choose, con sonorità che vengono dalle lontane cantilene degli schiavi afroamericani nelle piantagioni del profondo Sud statunitense, passando attraverso le rivisitazioni del novecento. Prossimo appuntamento mercoledì 21 dicembre con il pranzo organizzato dalla Comunità di S. Egidio per i detenuti. Perché Natale non sia una parola vuota, ma piena di speranza anche per coloro che hanno sbagliato ma a cui "possiamo offrire spiragli di rinascita sociale". Trapani: carcere, va in scena "L’Uccello Cantore", racconta la bruttezza morale della mafia di Ornella Fulco trapanioggi.it, 20 dicembre 2016 È andato in scena stamane in prima nazionale, alla Casa circondariale di Trapani, "L’Uccello Cantore" opera teatrale dell’Officina Teatro Lmc diretta da Enzo Caputo tratto dall’omonima opera letteraria di Alma Passarelli Pula. L’iniziativa è stata promossa dall’associazione Antiracket e Antiusura di Trapani. La pièce, ambientata nella cella di un carcere femminile, racconta la storia di Costanza e Maria, nate in famiglie mafiose dello stesso paese, arrestate quando erano ancora poco più che ragazze e condannate all’ergastolo. Le due donne ricordano il loro percorso di vita prima del carcere e rappresentano due aspetti diversi: Costanza irremovibile nella sua "mafiosità" e Maria, vittima degli eventi e decisa a collaborare per abbreviare la sua detenzione. La terza donna in scena rappresenta la madre, conservatrice delle regole, "istigatrice e mandante, causa di tutti i mali". I personaggi sono stati affidati all’interpretazione di Tiziana Ciotta, Rosalba Santoro e Alma Passarelli Pula con la regia di Enzo Caputo e le musiche originali "Canto dell’anima" di Enzo Toscano (voce di Simona Guaiana) e "Ninna Nonna" di Valeria Cimò. "L’Uccello Cantore" vuole essere un’occasione per riflettere sulla "bruttezza" morale della vita dei mafiosi che non sempre riceve una generale condanna da parte della società e sulla necessità, quindi, di una incisiva azione formativa, specie sui giovani, capace di far crescere in loro il senso della responsabilità civile e la netta condanna della "cultura" e della criminalità mafiosa. Palermo: al carcere minorile pranzo di Natale preparato dagli chef lasiciliaweb.it, 20 dicembre 2016 Saranno due chef a preparare domani il menu del pranzo a base di pesce con cui i giovani rinchiusi nell’Istituto penale per minorenni, di Palermo, festeggeranno il Natale. Sono Giulio Sorrentino e Fiamma Formisano. Il primo è uno dei protagonisti della terza stagione tv di Hell’s Kitchen Italia, programma televisivo andato in onda anche quest’anno su Sky. La Formisano è un volto noto, tra l’altro, del Sicilian Fish on the Road, il tour itinerante promosso dalla Regione che, qualche tempo fa, ha proposto in diverse città italiane ed europee, le tipicità a tavola del made in Sicily. Il pranzo nella Casa circondariale è stato organizzato dal direttore Michelangelo Capitano. Il menu sarà costruito sul pescato del giorno. E i due chef saranno affiancati dai ragazzi di Cotto in Flagranza, il marchio di biscotti prodotti al Malaspina nell’ambito del progetto di reinserimento che vuole garantire un futuro ai giovani, una volta terminata la pena. All’evento prenderanno parte l’associazione Asd YouDive Club Capo Gallo, di Altofonte, impegnata nelle iniziative di riqualificazione dei minori reclusi attraverso il contatto col mare e la natura, concepita come luogo di inclusione. E il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando. Benevento: pranzo della Comunità di S. Egidio, rivolto ai detenuti indigenti e soli Ristretti Orizzonti, 20 dicembre 2016 Ieri presso la Casa circondariale di Benevento si è tenuto il "Pranzo della Comunità di S. Egidio" organizzato con il Responsabile Dr. Antonio Mattone rivolto ai detenuti indigenti e soli. I detenuti sono più di cento appartenenti ai vari circuiti penitenziari sia maschili che femminili. L’evento si è svolto alla presenza dell’Arcivescovo Metropolita S.E. Felice Accrocca, S.E. Il Prefetto Dott.ssa Paola Galeone, il Magistrato di Sorveglianza Dott.ssa Donatella Bove, Il Sindaco di Benevento On.le Clemente Mastella. Il pranzo offerto dalla Ditta Ventura e dalla Coldiretti di Benevento è stato preparato dagli alunni ed insegnanti dell’Istituto I.P.S.A.R. "Le Streghe" di Benevento, al termine del quale sono stati serviti sontuosi dolci preparati dalla Signora Sandra Lonardo Mastella. Ad ogni detenuto è stato consegnato un dono confezionato dagli appartenenti alla Comunità di S. Egidio. Il Direttore della Casa circondariale Dr.ssa Maria Luisa Palma Cresce il divario poveri-ricchi. Pessimista il 40% degli italiani di Daniele Marini* La Stampa, 20 dicembre 2016 Peggiora la percezione della situazione politica e di quella economica. Per il 2017 poche aspettative tra pensionati e ceti medi: siamo marginali. L’approssimarsi della fine dell’anno, e l’aprirsi del nuovo, induce a fare bilanci, a soppesare quanto è avvenuto e prefigurare ciò che si attende. Veniamo da diversi anni di difficoltà economica e da instabilità politica, non ultimo quello generato dall’esito referendario. Dal 2008 abbiamo avuto cinque governi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi e ora Gentiloni), in media più di un esecutivo a biennio. È evidente che con un simile incedere qualsiasi attività politica e azione riformatrice subisca uno "stop and go" continuo. Il tentativo di offrire un disegno coerente al Paese e, quindi, una direzione da perseguire diventa come la tela di Penelope: ciò che si tesse di giorno, è dipanato il giorno successivo. Così, l’emergenza è diventata la nostra normalità. Viviamo una condizione di continua discontinuità, alimentando fra gli operatori economici e nella popolazione un orientamento di adattamento e prudenziale. Perché nell’incertezza è meglio muoversi con cautela. Esattamente il contrario di ciò che servirebbe in un’epoca come l’attuale dove la velocità e un disegno strategico costituiscono i fattori determinanti per una ripresa di competitività del sistema-paese. Ciò nonostante, seppure con dati economici altalenanti, il Pil è rientrato leggermente in campo positivo e, nonostante tutto, l’azione del governo Renzi qualche esito positivo l’ha portato. Tuttavia, la svolta, la ripresa più volte evocata non arriva. Continuiamo a procedere per piccoli passi, mentre altre zone del globo corrono a velocità elevate. E in questa doppia velocità, nella sindrome dello "zero-virgola", maturano condizioni sociali ed economiche progressivamente divergenti: aumentano i divari fra chi è in grado di affrontare le difficoltà e chi, invece, vede perdere progressivamente le proprie risorse, sospinto ai margini. È questo il quadro generale che emerge dall’ultima rilevazione sugli italiani di Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo, per La Stampa. Facendo un bilancio su come sono andate le cose nel 2016, mediamente il 44,6% non ha percepito cambiamenti sostanziali. Per contro, una quota analoga (42,6%) denuncia un peggioramento, mentre solo un decimo (12,8%) ha vissuto un miglioramento. La media nasconde alcune diversificazioni. Gli aspetti che non hanno avuto scostamenti particolari sono la sicurezza personale (56,8%), il reddito percepito (53,7%) e la lotta all’evasione fiscale (51,2%). Le dimensioni che più di altre, invece, sono avvertite peggiorate rinviano alla dimensione del mondo politico (politica italiana: 57,7%; corruzione politica: 47,9%) e della situazione economica (economia italiana: 47,9%; pressione fiscale: 43,4%). L’unico fattore che ottiene una valutazione positiva è la credibilità internazionale dell’Italia, ritenuta migliorata dal 32,8% degli italiani. In sintesi, la percezione della popolazione è che nel 2016 l’Italia abbia accresciuto la sua autorevolezza nelle relazioni con partner esteri, sia rimasta perlopiù stabile nel reddito individuale e nella sicurezza, ma sia peggiorata la situazione economica e soprattutto politica. Cosa ci riserverà il 2017, come andranno le cose il prossimo anno? In generale, emerge una visione pragmatica (o rassegnata?). Quanti attendono un miglioramento non si discostano dalla valutazione sul 2016. Poco più di un decimo (13,6%) auspica vi sarà un cambiamento positivo, in particolare per quello che riguarda l’economia del nostro paese (21,7%) e migliorerà ulteriormente la nostra credibilità sul piano internazionale (20,7%). Aumentano, invece, quanti ritengono che le condizioni generali rimarranno tutto sommato stabili (50,6%), soprattutto per ciò che riguarda la sicurezza personale (65,6%), il proprio reddito (58,9%) e la corruzione politica (55,1%). Un terzo degli italiani, però, prefigura un ulteriore peggioramento (35,8%), specialmente sul versante della politica italiana (51,0%) e della nostra economia (38,9%). Si potrebbe sostenere che per il futuro prossimo la maggior parte degli italiani intravede (e auspica) scenari "non peggiorativi", considerato che le condizioni generali (politiche ed economiche) sono percepite ancora fortemente critiche. Unendo le opinioni espresse sul bilancio del 2016 con quelle delle previsioni per il 2017 è possibile individuare la mobilità di opinione degli intervistati fra un anno e l’altro. In questo modo otteniamo tre gruppi. Il primo, e più rilevante quantitativamente, è degli italiani che non rilevano discontinuità fra i due anni considerati. Il 52,7% non muta la propria valutazione e sottolinea come il nostro paese resti ancorato alla sindrome dello "zero-virgola", alla "stabilità": il sentore è di un’Italia vischiosa. Ed è interessante osservare come sia soprattutto il ceto medio-alto (68,4%), composto da liberi professionisti e dirigenti, a rimarcare maggiormente quest’orientamento. Il secondo gruppo intravede una recrudescenza ulteriore delle condizioni, un "degradamento": si tratta di una quota cospicua (40,0%) annidata soprattutto nei ceti medio-bassi (44,2%, lavoratori manuali, pensionati) e bassi (61,6%, operai, disoccupati). Il terzo gruppo, costituito da una quota largamente minoritaria (7,3%), all’opposto avverte un miglioramento e una crescita fra i due anni, concentrato nei ceti medio-alti (9,3%) e, soprattutto, alti (35,8%, imprenditori, manager). A cavallo fra i due anni prevale negli italiani una previsione priva di scostamenti, quasi piatta: un misto di adattamento e disincanto, di cautela e rassegnazione. Pochi scorgono una crescita, mentre molti fra i ceti medio-bassi e bassi intravedono una progressiva erosione delle loro opportunità, anziché la possibilità di una mobilità ascendente. Ed è questa polarizzazione nelle condizioni, come certificato dall’Istat e dall’esito del voto referendario, a muovere il malessere. Coesione e sviluppo dovranno essere le parole chiave dell’agenda per il futuro dell’Italia. *Università di Padova Dieci anni fa l’addio a Welby "c’era una volta un malato che voleva morire senza soffrire" di Marco Cappato Il Manifesto, 20 dicembre 2016 "C’era una volta un malato che voleva morire senza soffrire, tutti parlarono di lui, alla fine trovò un anestesista e ci riuscì, il Vaticano gli negò i funerali, e tutti parlarono ancora più di lui (oltre che del Vaticano), tanto che, a dieci anni dalla sua morte, sarà ricordato alla Camera dei Deputati il 20 dicembre, con la Presidente Boldrini, e sarà proiettato un film su di lui". Questa potrebbe in sintesi sembrare la favola di Piergiorgio Welby. Ma l’apparenza, inganna. La realtà è più radicale. Quella notte del 20 dicembre 2006 con la famiglia di Piergiorgio e l’anestesista Mario Riccio c’era anche la sua famiglia politica: Marco Pannella, Mirella Parachini, Rita Bernardini e io. E c’erano due medici venuti dal Belgio: Eric Picard e Marc Reisinger. Portavano con loro una dose di farmaco letale. Il piano di Welby era il seguente. Se Mario Riccio non fosse riuscito a "trovare la vena" per praticare la sedazione in assoluta legalità, Piergiorgio l’avrebbe congedato, Riccio sarebbe salito sulla sua macchina e se ne sarebbe tornato a Cremona. A quel punto, avrebbero chiesto l’intervento di Eric e Marc, con i quali Piergiorgio aveva attivato da due mesi il protocollo belga per l’eutanasia. Per ottenere il medesimo risultato - la morte senza sofferenza di Welby - in questo caso però la pena prevista sarebbe stata fino a 15 anni di carcere, per il reato di omicidio del consenziente. Eric e Marc avevano in tasca il biglietto del primo volo della mattina per Bruxelles, nella speranza che una rogatoria internazionale nei loro confronti, per un’azione che è legale in Belgio ed è illegale in Italia, sarebbe magari stata respinta. La straordinaria storia che commosse il mondo dovrebbe dunque iniziare così: c’era una volta un radicale, Co-Presidente dell’associazione Luca Coscioni, che chiese ai propri compagni di aiutarlo ad ottenere l’eutanasia. Insieme, si erano tanto battuti "per la vita", per i diritti delle persone con disabilità e la ricerca scientifica per dare speranza ai malati. Insieme decisero di non lasciare nulla di intentato per seguire e onorare la Costituzione: interpellarono il Presidente della Repubblica, che subito ricambiò con un’attenzione tanto forte e decisa da scuotere il Paese (un po’ meno il Parlamento); convocarono medici, scienziati e tra i massimi giuristi, che confermarono l’applicabilità diretta di quel comma della Costituzione che recita "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge"; attivarono - con Giuseppe Rossodivita - i tribunali. Parallelamente, non persero di vista il punto di partenza di tutto, e di arrivo, costi quel che costi: il diritto umano fondamentale, ancora non riconosciuto, di Piergiorgio Welby, come di qualsiasi essere umano ovunque sia nato, di poter interrompere senza soffrire quella che ormai era divenuta una tortura. Mario Riccio "trovò la vena". Mina trovò una canzone di Bob Dylan per accompagnare il loro amore. Piergiorgio trovò ciò che aveva chiesto. Dopo la conferenza stampa, con Mario trovammo gli agenti della Digos. Al funerale, la piazza del Tuscolano trovò chiuse le porte della Basilica Don Bosco, ma anche la presenza di due suorine a rappresentare la speranza di una Chiesa che può cambiare, in un’Italia che deve cambiare. Dieci anni dopo, il coraggio di Mario Riccio non gli ha fatto fare molta carriera all’Ospedale di Cremona, ma ne hanno fatta le libertà di tutti, con i casi Nuvoli, Englaro, Velati, Fanelli e tanti altri. Poche settimane fa, Walter Piludu, malato di Sla che ci ha fatto, anche lui, l’onore di fidarsi dell’Associazione Luca Coscioni, ha ottenuto dal tribunale di Cagliari ciò che il Tribunale di Roma negò a Welby: l’ordine alla Asl di sospendere le terapie e morire senza soffrire. Una settimana fa, la Commissione affari sociali della Camera ha licenziato un testo di legge che include la legalizzazione del testamento biologico. Per la legalizzazione dell’eutanasia, invece, la nostra proposta di iniziativa popolare è ancora ferma, ma sarà formalmente valida anche per la prossima legislatura. Nel frattempo, con Mina e Gustavo Fraticelli aiutiamo i malati terminali che vogliono andare in Svizzera per il suicidio assistito. La storia di Piergiorgio continua a creare nuove libertà. Ma è una storia, non una favola: continua solo se saranno in tanti altri a voler lottare per questa libertà fino alla fine. Terrorismo. La doppia miccia dell’odio di Alessandro Orsini Il Messaggero, 20 dicembre 2016 Un camion si è lanciato contro un mercatino di Natale a Berlino. La violenza sembra nascere dalla fine terribile che sta divorando l’Isis, travolto dai colpi delle due coalizioni guidate dalla Russia e dagli Stati Uniti. La Germania non bombarda le postazioni dell’Isis in Siria e in Iraq, ma ha inviato soldati, navi e aerei in sostegno della Francia. Fornisce un supporto importante. L’attentato, sotto Natale, era atteso e altri potrebbero arrivare. I governi occidentali hanno imparato a conoscere la logica di ragionamento dell’Isis, che si riassume nella formula: "Colpiamo coloro che ci colpiscono". Eppure, gli attentati dell’Isis mostrano debolezza più che forza. Dalla strage di Bruxelles del 22 marzo 2016 a oggi, l’Isis si è affidato all’azione dei lupi solitari. Non è più riuscito a pianificare gli attentati dall’esterno come aveva fatto un tempo. Le sue capacità operative sono state drasticamente ridotte. Se guardiamo le sconfitte terribili che subisce sul campo di battaglia, i suoi attentati nelle capitali occidentali appaiono per quello che sono: gli spasmi finali di un corpo morente. L’Isis sta crollando e ricorre alla vendetta. Vendette terribili, devastanti, è vero, ma sempre più sporadiche. L’odio, la paura, la rabbia, tutto nasce da quella martoriata zona mediorientale che va dal Golfo Persico al mare Mediterraneo. Di quella zona ora Aleppo è il simbolo. Aleppo era il vaso di Pandora. Una volta conquistata dagli uomini di Bassar al Assad, l’odio ha preso a correre in molte direzioni. Ha raggiunto Ankara e poi Berlino. L’uomo che ha assassinato l’ambasciatore russo voleva vendicarsi contro la Russia per il suo sostegno ad Assad nella conquista di Aleppo. Il gesto desta impressione, ma non rovinerà le relazioni tra la Turchia e la Russia per la semplice ragione che l’omicidio non è stato organizzato dal governo turco. Gli omicidi politici si dividono infatti in due categorie. Quelli che vengono organizzati dai governi e quelli che vengono compiuti dai lupi solitari o dai militanti di un movimento politico. Il primo tipo di omicidio danneggia le relazioni tra i paesi. Il secondo tipo, raramente. L’ex agente segreto russo Alexander Litvinenko fu assassinato nel novembre 2006 mentre sorseggiava un the in un albergo di Londra. Le indagini degli investigatori inglesi hanno stabilito che Putin è "probabilmente responsabile" dell’omicidio. David Cameron, l’ex premier inglese, disse di averlo sempre sospettato e rilasciò queste parole: "Si tratta di un omicidio spaventoso commissionato da uno Stato. Ora Londra irrigidirà la sua linea con Mosca". Non è un caso se l’Inghilterra è uno dei paesi più ostili verso la Russia. L’Italia spera che vengano ritirate le sanzioni contro Putin per l’invasione della Crimea. L’Inghilterra, no. Gli omicidi politici realizzati dai servizi segreti non hanno le caratteristiche dell’omicidio che ha tolto la vita all’ambasciatore russo ad Ankara. Nessun governo del mondo invia un proprio agente segreto a uccidere a viso aperto. Quale strano tipo di agente segreto si renderebbe riconoscibile mentre uccide la sua vittima? La spia che uccise Litvinenko non si mise a gridare come un ossesso in un albergo. Era segreto ed è rimasto tale, visto che nessuno ha mai scoperto il suo nome, nemmeno i servizi segreti inglesi, che sono tra i migliori al mondo. Quando un governo ordina un omicidio, si pone sempre nella condizione di poter dire: "E chi lo dice?". È proprio ciò che Putin rispose a Cameron. È vero, invece, che gli omicidi politici, con caratteristiche simili a quello di Ankara, possono svolgere la funzione di migliorare le relazioni tra il paese della vittima e quello dell’assassino. Mentre il primo paese piange la vittima, il secondo si scusa e assicura di utilizzare la mano dura contro tutti coloro che sono sospettati di essere coinvolti nell’omicidio. Se poi si tratta di un leader nazionalista come Erdogan, un omicidio del genere gli offre la possibilità di porsi in modo deferente verso Putin. Nessun’altra circostanza politica gli consentirebbe di assumere un simile contegno davanti al suo elettorato nazionalista. Il nazionalismo è, prima di tutto, un fenomeno psicologico che consente le scuse in un clima emotivo particolare. Terrorismo. Il crudele messaggio dell’attentato di Berlino di Franco Venturini Corriere della Sera, 20 dicembre 2016 Quel centro della città è il centro dell’Europa e anche dei valori occidentali. L’azione degli jihadisti non avrebbe potuto essere più crudele e riconoscibile, con quel tir lanciato sul mercatino di fine anno esattamente come il camion di Nizza si lanciò il 14 luglio contro la folla inerme sulla Promenade. Sangue sotto l’albero di Natale, in quel centro di Berlino che è il centro dell’Europa e forse anche, al giorno d’oggi, dei valori occidentali. Il messaggio dei jihadisti non avrebbe potuto essere più crudele e riconoscibile, con quel tir lanciato sul mercatino berlinese di fine anno esattamente come il camion di Nizza si lanciò il 14 luglio contro la folla inerme che passeggiava sulla Promenade. Che l’assassino sia un "soldato" dell’Isis o un lupo solitario, che abbia voluto vendicare i morti di Mosul o quelli di Aleppo (perché è possibile anche questo), il suo odio criminale si è rivolto come sempre contro innocenti, contro l’assembramento festoso che serve a terrorizzare dimostrando che tutti sono vulnerabili. E se poi l’estrema visibilità del gesto può contribuire a mettere in difficoltà una Cancelliera sotto accusa per i suoi presunti eccessi di accoglienza nei confronti dei profughi e ormai in campagna elettorale, tanto di guadagnato. Lo avevano detto tutti i servizi di sicurezza d’Europa che il rischio attentati era di molto cresciuto negli ultimi due mesi. La spiegazione era ed è semplice: l’Isis ha perso il quaranta per cento del territorio che aveva occupato in Siria e in Iraq, Mosul è sotto assedio e seppur lentamente le forze irachene appoggiate dalla coalizione a guida americana avanzano, Raqqa sta per essere anch’essa attaccata, in Libia è caduto il caposaldo di Sirte, gli oscuri finanziamenti di un tempo non arrivano più, e i bombardieri russi, ora che è pronto l’accordo con Erdogan e con Trump per dare più tempo ad Assad, stanno per volgere tutto il loro potere distruttivo contro lo "Stato islamico". Le cose vanno malissimo, per i jihadisti. E quando le cose vanno male sul terreno, aumenta per compensazione il ricorso al terrorismo, nelle sue varie declinazioni. La strage di Berlino obbedisce a questa logica del taglione: più voi ci colpite, e più noi vi colpiremo. Dobbiamo essere consapevoli di questo scambio aberrante, dobbiamo sapere che la determinazione usata finalmente contro i tagliagole di Al Baghdadi comporta questo terribile rovescio della medaglia. Ma se non si agisse per battere l’Isis, se ci lasciassimo ingannare da impossibili compromessi o da vergognosi cedimenti, il prezzo sarebbe molto più alto, sarebbe la nostra cancellazione civile e probabilmente fisica. Per questo a tutti è chiaro che il terrorismo non deve piegarci ma deve essere piegato, al di là delle scontate retoriche pubbliche. E tuttavia nel momento della fermezza necessaria è anche indispensabile riconoscere i propri errori, le proprie colpe. L’Occidente esce con le ossa rotte dal martirio di Aleppo, gestito in vario modo da Assad, da Putin, da Erdogan e da chi comanda in Iran. L’America di Obama esclusa dai negoziati che si terranno anche oggi a Mosca e indecisa sul da farsi, quella di Trump ancora alla finestra ma interessata soltanto a chiudere la partita, l’Europa addirittura non pervenuta. Eppure bisognerebbe sapere che le mattanze di civili lasciano tracce, entrano nella storia, puntano l’indice contro chi ha strillato ma non si è mosso. Ecco perché ha una sua orribile logica l’uccisione dell’ambasciatore russo ad Ankara per mano di un poliziotto. Ecco perché il ricordo di Aleppo può aver avuto un posto anche nella mente dell’attentatore di Berlino. Ecco perché Aleppo contribuirà a fomentare il terrorismo, e recluterà nuovi stragisti. Tutto è interconnesso, nell’ecatombe siriana e nei suoi tentacoli. Con l’Isis alle corde, sono tornate in Europa centinaia di foreign fighters che erano andati a combattere sotto le bandiere nere. Quanti di loro sono terroristi pronti a colpire? Pochi, ma purtroppo bastano. E intanto, in assenza dell’Occidente, Erdogan e Putin perfezionano il loro patto, il turco ottiene mano libera contro i curdi siriani e il russo ottiene più tempo per Assad al potere. Ora si tratta di prendere a bordo l’Iran, e non sarà agevole ma sarà inevitabile. E l’Isis, nel suo recinto sempre più stretto, venderà cara la pelle, sparirà per ricomparire altrove (si pensi a Palmira che pareva ormai sicura), continuerà ad attrarre la rabbia dei sunniti, continuerà ad istruire o ad incoraggiare via web i terroristi ormai infiltrati nelle nostre società. La guerra continua e non sarà facile vincerla davvero, anche dopo la caduta di Mosul e di Raqqa. Non sarà facile ma è obbligatorio. Migranti. Caso Mered, la difesa punta sulla testimonianza di un eritreo detenuto a Rebibbia di Silvia Buffa meridionews.it, 20 dicembre 2016 Michele Calantropo ha chiesto di depositare un nuovo documento con le parole di un detenuto eritreo rinchiuso a Rebibbia. L’uomo ha riconosciuto in una foto il boss Medhanie: questo lo avrebbe riscattato durante il viaggio verso l’Europa, costringendolo poi a lavorare per l’organizzazione criminale. "Abbiamo chiesto di depositare dei nuovi atti che sono alla Procura di Roma, i pm ovviamente si sono opposti", lo spiega Michele Calantropo, legale dell’uomo detenuto al Pagliarelli e accusato di essere Medhanie Yedhego Mered, uno dei più pericolosi boss della tratta di esseri umani, ma che dichiara invece di essere l’eritreo Medhanie Tesfamarian Berhe, vittima di un clamoroso scambio di persona. Tutto rinviato a gennaio quindi, il collegio dovrà decidere nel frattempo se ammettere le nuove prove raccolte dalla difesa. Tra i documenti che dovranno essere esaminati c’è il verbale d’interrogatorio reso da un eritreo detenuto nel carcere di Rebibbia a Roma, che ha ricostruito dettagliatamente il viaggio affrontato per giungere in Italia. Viaggio che, secondo il racconto e da quanto verificato anche dagli inquirenti, si interrompe quasi subito. L’uomo viene infatti sequestrato da un gruppo di miliziani, che lo rinchiude insieme a una trentina di altri malcapitati all’interno di un rudimentale carcere a Grumbli, in Libia. Per sfuggire alle torture dei sequestratori, i familiari di ogni migrante devono sborsare un riscatto di 1.200 dollari, ma chi non ha alle spalle nessun parente disposto a farlo, è costretto a contattare un trafficante referente, per chiedergli di fare da garante: serviva, insomma, qualcuno disposto a pagare per liberarlo. Per passare, in realtà, da una prigionia a un’altra, divenendo sostanzialmente una merce nelle mani del boss di turno, che lo costringe a collaborare all’organizzazione criminale per pagarsi la tratta via mare. Il trafficante che si prende in carico l’eritreo è proprio Medhanie, secondo la ricostruzione riportata: "Io sono stato fortunato che Jamal Musa e Medhanie hanno comprato la mia vita, di tanta gente non si è saputo più nulla", si legge nelle carte dell’interrogatorio avvenuto a Roma il 15 maggio dell’anno scorso. Gli inquirenti hanno mostrato al detenuto delle fotografie, in due di queste ha riconosciuto Jamal Musa, "l’uomo che venne a pagare la nostra scarcerazione a Grumbli, è lui che ci ha consegnato a Medhanie". Nella seconda immagine riconosce quest’ultimo, descrivendolo come "un re in Libia", uno molto rispettato e "forse l’unico che si può permettere di andare in giro con un crocifisso al collo. Aveva sempre al seguito due telefoni - si legge nel verbale - uno per lavoro e uno personale". Le foto riportate nel resoconto dell’interrogatorio mostrano in maniera evidente le differenze fra il boss riconosciuto dal detenuto eritreo come Medhanie e l’uomo attualmente rinchiuso al Pagliarelli di Palermo. Turchia. Alla vigilia del negoziato siriano l’ambasciatore russo ucciso ad Ankara di Chiara Cruciati Il Manifesto, 20 dicembre 2016 Medio Oriente. Andrey Karlov colpito da un cadetto poliziotto. Diverse le ipotesi, dal lupo solitario al gruppo islamista. Erdogan, già sconfitto in Siria, cerca di salvaguardare almeno la guerra all’unità kurda mentre ad Aleppo prosegue l’evacuazione. Stava parlando ad una mostra fotografica al Centro di Arti Moderne di Ankara quando è stato centrato alla schiena da una pallottola: l’ambasciatore russo in Turchia, Andrey Karlov, è morto ieri sera per le gravi ferite riportate in un attacco armato. Dopo l’assalto, l’aggressore - che avrebbe urlato "Allah è grande" e "Vendetta per Aleppo" - è stato ucciso dalle forze di sicurezza per poi essere identificato come Mevlüt Mert Altintas, cadetto all’accademia di polizia. Poco dopo colpi di arma da fuoco riecheggiavano vicino all’ambasciata Usa. Il presidente Putin si è riunito d’emergenza con il ministro degli Esteri Lavrov e i servizi segreti, mentre l’ambasciata parlava di "atto terroristico" compiuto da islamisti radicali. La stessa affiliazione dei gruppi che combatte in Siria e che hanno più di un punto di contatto con la Turchia e la stessa di chi in questi giorni manifesta nelle città turche: molte bandiere nere accompagnano le marce di protesta per l’intervento russo in Siria. Così si presentano i due nemici-amici all’incontro di oggi a Mosca, con cui si apre un nuovo negoziato sulla crisi siriana. Diverse le ipotesi sull’omicidio di Karlov: il gruppo islamista contrario al coinvolgimento russo in Siria; un lupo solitario; soggetti interni al governo interessati a indebolire il presidente Erdogan. Di certo la sua morte getta un’ombra sui rapporti traballanti tra i due paesi, indebolendo la Turchia. Già uscita sconfitta dalla guerra siriana, Ankara deve ora salvare il salvabile per cui - si vocifera - abbandonerebbe le mire su Aleppo in cambio di mano libera nel nord della Siria, nella kurda Rojava. Dopo il puntuale riavvicinamento alla Russia, la scorsa estate, Erdogan ora prova a realizzare almeno parte degli obiettivi prefissati, impedire l’unità dei kurdi, attori sacrificati e sacrificabili per Mosca e per Washington. Non a caso ieri il governo turco diceva di aver identificato il responsabile dell’attacco di sabato a Kayseri: un kurdo, E. G, proveniente da Kobane. Spiegazione che calza a pennello con la narrativa turca, ma non così verosimile visto il controllo serrato alla frontiera dove chiunque tenti di passare finisce nel mirino delle pallottole dell’esercito. Proprio al confine, aggiunge Ankara, sarà aperto un campo per gli evacuati di Aleppo. Non specifica però chi accoglierà: probabilmente i soli miliziani foraggiati per anni. Ieri l’evacuazione da Aleppo est è cominciata davvero. Bloccate per ben tre volte da violazioni della tregua, dalla mezzanotte 5mila persone sono arrivate nei quartieri occidentali: famiglie siriane circondavano i camioncini di aiuti, senza affollarsi né spingere. Dai pick-up volontari in casacca rossa distribuivano pane arabo, acqua e vestiti per riscaldarsi dopo ore di attesa. E il trasferimento continua: restano 5mila miliziani e 40mila civili, molti in strada in attesa dell’evacuazione. Le loro condizioni sono drammatiche: le temperature toccano i 5 gradi sotto lo zero e di cibo e acqua a est non se ne trovano quasi più. I pochi beni alimentari a disposizione, raccontano i residenti, venivano venduti alla borsa nera a prezzi esorbitanti e spesso confiscati dai gruppi armati: 13 dollari per un pacco di zucchero, 20 per un kg di farina. La tregua sembra reggere nonostante gli attacchi di domenica nella provincia di Idlib: gruppi riconducibili a Jabhat Fatah al-Sham, l’ex al-Nusra, hanno preso d’assalto il convoglio diretto a Fua e Kefraya per evacuare i civili feriti. Uno degli autisti è stato ucciso, 20 bus distrutti dal fuoco mentre i miliziani armati gridavano oscenità contro la comunità sciita accusata di blasfemia. Solo ieri la situazione si è sbloccata (fonti russe dicono a seguito di un nuovo intervento della Turchia, la cui influenza sugli islamisti è figlia di un prolungato e strutturato sostegno) e i primi 500 civili si sono mossi in direzione Aleppo nelle identiche condizioni degli aleppini, malnutriti e malati: i due villaggi subiscono un durissimo assedio interno da parte della galassia islamista guidata dall’ex al-Nusra. Ne restano altri 2mila in attesa di evacuazione insieme a 1.500 civili delle città di Madaya e Zabadani, al confine con il Libano, anch’esse controllate dai gruppi armati anti-Assad e assediati all’esterno dal governo e da Hezbollah. A monitorare le evacuazioni sarà l’Onu: ieri il Consiglio di Sicurezza ha votato a favore di una bozza di risoluzione presentata da Parigi su cui in mattinata Mosca aveva dato il beneplacito dopo una minaccia di veto. Saranno immediatamente inviati 100 funzionari in Siria per verificare trasferimenti e consegna degli aiuti, evitare "atrocità di massa", salvaguardare i team medici e garantire ai civili di trasferirsi in sicurezza nella destinazione preferita. Una previsione che mira ad evitare il timore maggiore dei siriani, lo sradicamento dalla propria città. Siria. Focsiv: "vergognoso il silenzio dei leader mondiali sul genocidio ad Aleppo" Redattore Sociale, 20 dicembre 2016 Il commento del presidente Cattai: "Sta alla società civile gridare che sia fermato questo genocidio compiuto in nome del denaro". A Napoli la mostra "Nome in codice: Caesar. Detenuti siriani vittime di tortura" che denuncia la "viltà di quanto sta accadendo in Siria". "Ad Aleppo muore l’umanità. Credevamo fermamente che dopo Sarajevo non avremmo mai più assistito all’eliminazione sistematica della popolazione di una città - ha dichiarato Gianfranco Cattai, presidente della Focsiv. È vergognoso l’assoluto silenzio dei leader politici mondiali ed europei nell’esprimere il proprio dissenso e nel non decidere azioni che possano fattivamente fermare questa ultima tragedia che colpisce e annienta il popolo siriano. Sta alla nostra voce, quella della società civile, gridare che sia fermato questo genocidio compiuto per l’ennesima volta in nome di un interesse superiore: l’economia, le scelte finanziarie, il denaro. È la globalizzazione dell’indifferenza, come ha più volte denunciato Papa Francesco, che non ci fa vedere l’altro come un fratello, componente di diritto dell’Umanità". Per questo motivo la Focsiv è tra i promotori della mostra "Nome in codice: Caesar. Detenuti siriani vittime di tortura" aperta in questi giorni a Napoli che "denuncia la viltà di quanto sta accadendo in terra siriana e della campagna del Consorzio Focsiv in Medio Oriente che racconta, grazie anche alle pagine di Avvenire, come i volontari di 6 Ong in Libano, Siria, Kurdistan e Turchia siano a fianco delle tante persone disperate in fuga e delle popolazioni che le accolgono. Siamo Esseri umani a servizio degli Esseri umani". La campagna "Humanity. Esseri umani con gli esseri umani." per il Medio Oriente si fa portatrice del messaggio di pace per la Siria lanciato da Papa Francesco a luglio 2016 in occasione della campagna di Caritas Internationalis "Syria: Peace is possible" e si unisce agli sforzi già presenti nell’area mediorientale per promuovere attivamente la risoluzione del conflitto armato, per instaurare un dialogo inclusivo e basato sul rispetto della dignità umana e per sostenere i paesi e le persone colpite dal dramma della guerra, in particolare gli sfollati, i rifugiati, le minoranze e le comunità ospitanti dei paesi limitrofi. "La Campagna vuole ricordare ad ognuno di noi che bisogna interrogarsi su questa situazione e di fronte a questa umanità, avendo la consapevolezza che la solidarietà potrà terminare solo quando il bisogno non sarà più un’urgenza, quando i campi dei rifugiati e degli sfollati non saranno più una necessità, quando ognuno potrà ritrovare la dignità di essere umano e con questa la pace". Sei soci insieme a Focsiv - Associazione Francesco Realmonte, Celim Milano, Engim Internazionale, Fondazione Internazionale Buon Pastore, Fmsi - Fondazione Marista per la Solidarietà Internazionale, Associazione Punto Missione - in un consorzio che supporta migliaia di persone in fuga dalla guerra siriana e irachena in terra curda, libanese, giordana e turca; che si pone a fianco alla gente intrappolata in alcune città siriane e irachene assediate; che accoglie i tanti nei campi profughi del Kurdistan iracheno lontani dalle aree controllate dal Califfato e dall’Isis; che si preoccupa e si occupa dell’educazione e della formazione professionale, dello sviluppo agricolo, del benessere sanitario e psicologico, della disabilità e delle necessità e bisogni di tanti uomini e donne del Medio Oriente travolti da questi tragici anni". Nicaragua. Il presidente Ortega ha graziato 557 prigionieri, tra cui 52 donne farodiroma.it, 20 dicembre 2016 In risposta alla richiesta di un atto di clemenza formulata a conclusione del Giubileo della misericordia da Papa Francesco, il presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, ha graziato 557 prigionieri, tra cui 52 donne, che scontavano condanne per reati con pene minori di cinque anni. Con questa decisione sale a oltre 5.000 il numero dei prigionieri liberati quest’anno. "I 557 prigionieri hanno ricevuto dal nostro presidente questo beneficio legale dopo aver scontato una buona parte della loro pena", ha detto il portavoce del governo e First Lady Rosario Murillo (nella foto con Ortega), ai media ufficiali. I prigionieri sono stati rilasciati nel corso di una cerimonia tenutasi nella più grande prigione del paese, La Modelo, 22 km a nord est della capitale, in presenza di funzionari governativi e religiosi. Il nunzio apostolico in Nicaragua, Fortunatus Nwachukwu, ha detto che i detenuti sono stati rilasciati come risposta di Ortega ad una richiesta di Papa Francisco per segnare la fine dell’anno di misericordia. Secondo il nicaraguense cardinale Leopoldo Brenes, che ha anche partecipato alla cerimonia, il governo quest’anno ha rilasciato più di 5.000 prigionieri. Tra il 2014 e il 2015, le autorità in Nicaragua hanno liberato 8.100 prigionieri condannati per altri reati, al fine di decongestionare le prigioni. Ogni settimana più di 100 sospetti criminali sono arrestati in Nicaragua, secondo i rapporti della polizia. Birmania. Pulizia etnica,"la premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi non può tacere di Paolo Salom Corriere della Sera, 20 dicembre 2016 Chi avrebbe immaginato che il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, celebrata icona del coraggio civile contro la dittatura dei generali birmani, un giorno si sarebbe trovata ad accusare le organizzazioni umanitarie internazionali di "esagerare" volutamente i loro rapporti a proposito di una minoranza che le autorità continuano a discriminare legalmente. Parliamo dei Rohingya, popolazione di origine bengalese, di religione islamica e concentrata soprattutto nello Stato di Rakhine. Ora, Amnesty International, sempre in prima fila nel difendere la Signora quando era lei a subire l’oppressione del regime, ha pubblicato un rapporto che evidenzia "seri pericoli" di violazioni dei diritti umani e, addirittura, "gravi atti" da parte dell’esercito che potrebbero essere classificati come "crimini di guerra": a novembre, un funzionario dell’Onu aveva sollevato l’ipotesi di una vera e propria "pulizia etnica" in atto contro i Rohingya. In un primo momento, Aung San Suu Kyi, furiosa, ha smentito le accuse, parlando, appunto "di ricostruzioni esagerate" da parte degli organismi internazionali quando "si tratta della popolazione musulmana". Tanto che - nonostante le sue responsabilità di governo (è ministro degli Esteri e, in particolare, consigliere di Stato: in altri termini, capo dell’esecutivo) - ha cercato di scongiurare l’ingerenza dell’Asean, l’Associazione dei Paesi del Sudest asiatico che, in un atto senza precedenti, ha chiesto una riunione ufficiale sulla questione per volontà di Malaysia e Indonesia. Suu Kyi, a denti stretti, ha dovuto accettare di preparare un rapporto per il mese prossimo. Ma intanto la situazione, secondo quanto ricostruiscono Amnesty International e Human Rights Watch, è tutt’altro che tranquilla nell’Ovest della Birmania. Tutto è cominciato con un attentato portato a termine da un nuovo gruppo armato "di difesa dei Rohingya". I militari birmani hanno reagito con rabbia e le conseguenze, secondo il rapporto, non si sono fatte attendere: uccisioni indiscriminate, stupri, torture. La pulizia etnica è stata accertata da foto satellitari presentate da Human Rights Watch, immagini che dimostrano come interi villaggi siano stati rasi al suolo. Possibile una simile vergogna nella Birmania di Aung San Suu Kyi? Brasile. Canti e balli fra le celle il Natale delle detenute di Omero Ciai La Repubblica, 20 dicembre 2016 In Brasile, non lontano da Rio de Janeiro, c’è un carcere speciale: dove le condannate ogni anno s’impegnano in una gara che premia le migliori decorazioni. Fra piatti di plastica e contenitori di latte, si celebra la festa più amata. Anche ai Tropici per chi sta in carcere la settimana di Natale è la più dura dell’anno da trascorrere dietro le sbarre. Così ogni anno le cinquecento detenute nella prigione Nelson Hungria, 50 chilometri a sud ovest di Rio de Janeiro, organizzano un concorso di decorazioni natalizie delle loro celle. Gli alberi sono fatti con strisce di plastica verdi ritagliate dalle bottiglie dell’acqua, la neve sono briciole di polistirolo, i regali contenitori di latte vuoti avvolti in carta igienica. Le coroncine vengono ricavate dalle ciotole dall’alluminio che le detenute usano per mangiare e con le tazze di plastica costruiscono piccole bambole. Quelle che possono si fanno portare dai parenti i vestiti di Natale e altri ornamenti. Al Nelson Hungria - un carcere che fa parte del grande complesso penitenziario di Bangú - in ogni cella ci sono circa 50 detenute che oltre agli addobbi preparano insieme anche una pièce teatrale sceneggiata da storie della Bibbia. È un festival del riciclaggio, dettato soprattutto dalla penuria che si vive in prigione, dove per dare l’idea della barba di un personaggio basta disegnarla sulla guancia con la penna dell’ombretto per le palpebre, o riutilizzare un pezzo di cartone per fare un cappello. Alla fine però si vince. Prodotti per i capelli, ventilatori e perfino un televisore nuovo da mettere nella cella. La direttrice della prigione, Ana Gabriela Rosa Maia, va molto fiera dell’iniziativa per la quale la maggior parte delle detenute iniziano a lavorare almeno tre mesi prima del periodo natalizio. "Quando sono arrivata qui, sette anni fa, tutte le celle erano molto sporche e le relazioni tra le detenute complicate", ha detto, "ora invece questo concorso che organizziamo da sei anni ci aiuta a risvegliare nelle donne un autentico spirito natalizio di amore, eguaglianza, fede e speranza". Il Brasile è famoso per lo stato deplorevole delle sue prigioni, il loro eccessivo affollamento e le condizioni disumane nelle quali vivono i detenuti fra sporcizia, mosche e scarafaggi. Così anche la pulizia è diventato uno dei criteri sulla base dei quali i giudici del concorso - i direttori degli altri padiglioni di Bangú - scelgono le tre celle migliori da premiare. Il complesso penitenziario di Bangú è uno dei più grandi del Brasile. Formato da ventisei padiglioni con oltre 17mila detenuti è un carcere di massima sicurezza con un circuito video interno per i controlli, altissime mura, e guardie carcerarie armate con i fucili mitragliatori. La maggior parte delle donne detenute nel Nelson Hungria sono state condannate per reati legati al traffico di droga e tra i prigionieri di Bangú ci sono anche i più noti narcotrafficanti del Paese. Costruito nel 1987 in una regione agricola è stato più volte segnalato dalle organizzazioni dei diritti umani per le condizioni di vita come uno dei peggiori penitenziari del Brasile. I suoi padiglioni sono divisi secondo i gruppi mafiosi di appartenenza dei carcerati. Ce n’è uno per il "Comando Vermelho", uno dei gruppi del crimine organizzato più violenti delle favelas brasiliane; un altro per il cosiddetto "Terceiro comando". Il concorso natalizio in uno dei padiglioni femminili di Bangú serve a migliorarne un po’ la reputazione. Per la stessa ragione, anni fa, un altro direttore del carcere aveva deciso di organizzare addirittura un concorso di bellezza, poi archiviato.