Carcere, emergenza continua di Valter Vecellio L’Opinione, 1 dicembre 2016 Suicidi, sovraffollamento, condanne dalle Corti di giustizia. Il punto sugli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. "Face the facts", dicono gli anglosassoni; sta per "le chiacchiere stanno a zero"; e stanno a zero di fronte a cifre che sono, appunto "fatti". Vale a dire: al 31 gennaio 2016 i detenuti stipati nelle carceri italiane erano 52.475; la capienza regolamentare di 49.480 posti. S’ha un bel vantarsi del fatto che si tratta del livello di presenze più basso dal 2006. Si tratta comunque di tremila detenuti in più rispetto i posti disponibili. Alcuni casi: nel carcere di Regina Coeli a Roma i posti sono 624; i detenuti 850. A Firenze Sollicciano 494 posti, 700 detenuti. A Como: 226 posti, 400 detenuti. Dal 2009 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna l’Italia per trattamenti inumani e degradanti nei confronti di un recluso che aveva trascorso un periodo di detenzione usufruendo di uno spazio vitale di tre metri quadrati. Due anni dopo, stimolato dalle quotidiane sollecitazioni di Marco Pannella e del Partito Radicale, l’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano denuncia di emergenza assillante; la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna ripetutamente l’Italia, che viene chiamata a risolvere il problema del sovraffollamento carcerario entro il 28 maggio 2014. Un mese prima la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna l’Italia per il trattamento degradante subito da un detenuto affetto da problemi di incontinenza, denunciando il ritardo nelle prestazione delle cure e rilevando le condizioni di angoscia, inferiorità e umiliazione, nelle quali era costretto a vivere a causa della condivisione della cella con altri reclusi e dell’assenza di idonei servizi igienici. Siamo ora a fine 2016. Sovraffollamento a parte, altro "fatto" è che si registra nella comunità penitenziaria (non solo, cioè, tra i detenuti) una media di un suicidio ogni settimana. Lo rivela uno studio di Openpolis, basato sulle statistiche del ministero della Giustizia che registra ben 1.046 casi di detenuti suicidi per gli anni tra il 1992 e il 2015. Si tratta di cifre ufficiali, perché l’associazione per i diritti dei detenuti Ristretti Orizzonti, nel suo dossier "Morire di carcere" fornisce cifre superiori a quelle ministeriali. Ristretti Orizzonti, infatti, prende in considerazione, oltre i suicidi accertati, anche le morti meno chiare, comunque legate al disagio della detenzione. Colpisce il dato relativo ai casi di decessi auto-procurati tra gli agenti di custodia: secondo fonti sindacali si attesterebbero a circa un centinaio dal 2000 ad oggi. Sempre secondo Ristretti Orizzonti i detenuti suicidi dal 2009 al 31 agosto 2016 sarebbero ben 423: 326 si sarebbero procurati la morte con l’impiccagione, 64 con il gas, 20 con l’avvelenamento e sei con il soffocamento. Le fasce d’età: soprattutto i detenuti tra i 30 e i 44 anni. Sono 66 i casi di suicidi tra i 30 e i 34 anni; 66 quelli tra i 25 e i 29 anni; 65 tra i 35 e 39; 63 tra i 40 e i 44. Gli istituti penitenziari: nel carcere di Napoli Poggioreale 19 casi; a Firenze Sollicciano 17 casi; a Rebibbia a Roma 14 casi. A che punto siamo con la questione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Dovevano essere aboliti anni fa, e sostituiti da strutture adeguate non carcerarie. Di Opg ne sono sopravvissuti due: a Montelupo Fiorentino e a Barcellona Pozzo di Gotto; secondo l’ultima relazione del commissario straordinario Franco Corleone di fine giugno, ospitano ancora 52 internati, 26 nel primo, 26 nell’altro. Corleone promette che entro Natale gli internati saranno trasferiti definitivamente nelle Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) in via di realizzazione. A fine giugno nelle attuali Rems, risultavano internate 573 persone, 217 solo a Castiglione delle Stiviere. A queste vanno aggiunte le 195 persone "in lista d’attesa", cioè raggiunte da un provvedimento di misura di sicurezza detentiva in attesa di ricovero nelle Rems. Le Rems a disposizione risultano al completo. Per questo si verificano casi di persone che restano ancora in carcere, nonostante che il magistrato abbia disposto il ricovero nelle residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza. Indicativo il caso di Federico Bigotti, in carcere per l’omicidio della madre. Assolto per incapacità di intendere e di volere, viene disposto il ricovero presso una Rems. Scarcerato dopo mesi, per mancanza di posti viene trasferito presso il reparto di psichiatria dell’ospedale di Perugia. Dal 13 luglio 2016 andava trasferito in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario "da eseguirsi, scrive il giudice, mediante ricovero in una Rems". Data la rilevante pericolosità sociale del soggetto, alla procura si chiede di individuare una struttura riabilitativa. Trascorrono quattro mesi, e Bigotti risulta ancora in carcere: nella Rems di Volterra mancano posti. Più in generale, in molte Rems mancano programmi di recupero, progetti di cura, il rapporto con il territorio e formazioni lavoro. Il rischio che diventino mini Opg è concreto. Mattarella: "Il carcere è necessità e sconfitta". Il videomessaggio ai giovani di Poggioreale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 dicembre 2016 Il carcere è una necessità ma anche una sconfitta, soprattutto quando a varcarne le soglie sono i giovani. Perciò la rieducazione diventa l’unico percorso per garantire un futuro di dignità, per tornare ad essere cittadini a pieno titolo, per dimostrare che cambiare vita è possibile. Lo sottolinea il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, in un videomessaggio inviato in occasione della proiezione in anteprima a Napoli, nel carcere di Poggioreale, di "Robinù", il film documentario di Michele Santoro sui baby boss della camorra, presentato alla 73/ma Mostra internazionale cinematografica di Venezia. "L’istituzione carceraria - ricorda Presidente della Repubblica - rappresenta per lo Stato una necessità non derogabile, ma alcune volte anche una sconfitta. Diventa anche una sconfitta quando a varcare le porte del carcere è un giovane proveniente da un contesto sociale difficile e segnato da una forte presenza di criminalità. È una sconfitta, perché segnala la carenza del sistema educativo e della vicinanza dello Stato". "Il carcere comunque non è - e non deve mai essere - il luogo in cui viene negata la speranza. A nessuno, tanto meno ai giovani, deve essere tolta la possibilità di riabilitarsi, lasciando i sentieri dell’odio e della violenza che non portano felicità, ma producono e moltiplicano solo paura e sofferenza". "Ragazzi, anche nella cella di un carcere, nella privazione della libertà, nella lontananza dagli affetti familiari, le istituzioni - prosegue il Capo dello Stato - devono esservi accanto. La rieducazione, che la nostra Costituzione prescrive, non è un percorso facile. Serve anche il vostro impegno, la vostra tenacia, la forza di resistere. Ma è l’unico percorso che possa garantire davvero, a voi e ai vostri cari, un futuro di serenità, di dignità, di appagamento". "Lo Stato, come sta cercando di fare, deve impegnarsi per la sua parte: moltiplicando le occasioni per la formazione, per il reinserimento sociale, sviluppando un sistema di pene alternative. Servono anche, come è naturale, l’attenzione e la partecipazione della società civile, degli intellettuali, degli artisti, dei mezzi di comunicazione". "Perché chi esce dal carcere non sia un isolato, ma torni a sentirsi a pieno titolo cittadino e membro della nostra comunità nazionale. Cambiare vita è possibile, ed è l’unica strada positiva. Io - assicura Mattarella - sarò attento alla vostra condizione". L’appello per la riduzione della pena non investe le circostanze di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 30 novembre 2016 n. 50750. "La rinuncia a tutti i motivi di appello ad esclusione soltanto di quello riguardante la misura della pena deve ritenersi comprensiva anche di quei motivi attraverso i quali l’appellante ha richiesto il riconoscimento di circostanze attenuanti" (e anche quelli concernenti la recidiva). Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 30 novembre 2016 n. 50750, dichiarando infondato il ricorso di un uomo condannato a sette anni di reclusione per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di droga con l’aggravante del carattere armato e del numero dei componenti superiori a dieci. Il ricorrente ha eccepito l’omessa motivazione "in ordine alla dedotta insussistenza delle circostanze aggravanti e della configurabilità dell’ipotesi attenuata di cui all’articolo 74, comma 6, Dpr n. 309 del 1990". Aggiungendo di aver presentato a supporto la sentenza con cui il Tribunale di Napoli, nel 2014, in separato e parallelo processo, aveva escluso nei confronti di altri coimputati le aggravanti con riferimento alla medesima associazione (decisione poi confermata in secondo grado). La Corte di appello, invece, preso atto della rinuncia ai motivi assolutori e l’insistenza unicamente sulla riduzione di pena, le attenuanti generiche e il bilanciamento delle circostanze, ha limitato il proprio esame al trattamento sanzionatorio, senza esaminare i motivi che avevano ad oggetto la pretesa qualificazione dell’associazione, e la sussistenza delle circostanze aggravanti. Ed ha escluso che l’associazione potesse essere ritenuta di natura "minore". Per la Cassazione "la sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti, così come la qualificazione del fatto, costituiscono altrettanti punti della decisione, distinti ed autonomi rispetto a quello relativo al trattamento sanzionatorio". Secondo consolidato insegnamento infatti "il principio tantum devolutum quantum appellatum, pur non precludendo in modo assoluto al giudice dell’impugnazione di esaminare anche i punti non espressamente indicati nel motivi, impone tuttavia, perché l’esame possa eccezionalmente estendersi anche a detti punti, che questi siano connessi con vincolo di carattere essenziale a quelli specificamente impugnati". Ma tale connessione, prosegue, "non ricorre tra la determinazione della misura della pena e la decisione sull’esistenza di una qualsiasi circostanza aggravante o attenuante". "L’aver perciò insistito - prosegue - per l’esame dei soli motivi relativi alla riduzione della pena, alla concessione delle circostanze attenuanti generiche e al bilanciamento delle circostanze, ha irrevocabilmente escluso dalla cognizione del giudice del gravame ogni questione relativa alla sussistenza stessa delle circostanze aggravanti". Né, conclude la Corte, in senso contrario, "possono essere valorizzati comportamenti processuali estranei alla dichiarazione di rinuncia che, in quanto negozio processuale unilaterale, irrevocabile e recettizio dal quale deve risultare in modo chiaro ed inequivoco la volontà di rinunciare all’impugnazione, non può essere interpretata alla stregua di un contratto". Motivo respinto dunque perché "non sussiste affatto l’eccepito vizio di omessa motivazione". Clandestini, l’affitto equo "salva" dal favoreggiamento di Paolo Accoti Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2016 Corte di Cassazione - Sentenza 29 novembre 2016, n. 50665. Affittare a immigrati clandestini, il "favoreggiamento" scatta solo con il "profitto ingiusto". Lo afferma la Corte di Cassazione, V sezione penale, con la sentenza n. 50665, pubblicata il 29 novembre 2016. Il Testo unico immigrazione (Dlgs 286/98), all’articolo 12, prevede come "(...) chiunque, al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero o nell’ambito delle attività punite a norma del presente articolo, favorisce la permanenza di questi nel territorio dello Stato in violazione delle norme del presente testo unico, è punito con la reclusione fino a quattro anni e con la multa fino a lire trenta milioni. (...)". Tuttavia, ai fini del reato di favoreggiamento, occorre la presenza del "dolo specifico" costituito appunto dall’"ingiusto profitto" dalla locazione dell’immobile. Cioè che l’importo dei canoni risulti esorbitante rispetto ai prezzi medi del mercato degli affitti di analoghe tipologie di appartamenti. Nel caso specifico, un proprietario che aveva affittato l’appartamento a dei clandestini era finito così alla sbarra e condannato in primo e secondo grado. Ma la Suprema Corte ha dato ragione all’imputato e annullato senza rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Milano, perché "il fatto non costituisce reato". Infatti, perché sussista il dolo specifico del reato in contestazione, occorre "dimostrare il carattere ingiusto del profitto ritratto nel caso di specie dall’imputato dalla locazione dell’immobile a cittadini extracomunitari. Obiettivo che la sentenza impugnata non ha raggiunto". Mentre "il margine di profitto della sublocazione non appariva così ampio da esimere i giudici del merito dall’ancorare la valutazione in questo senso operata ad un serio accertamento sul valore effettivamente attribuito dal mercato all’affitto dell’appartamento di cui si trattava". Rileva, peraltro, la Cassazione come, il giudice di merito non abbia tenuto conto del fatto che l’imputato. in precedenza - in due diverse occasioni - aveva sublocato il medesimo appartamento a cittadini extracomunitari regolari e che, solo successivamente, alla terza sublocazione, i locatari sono risultati extracomunitari "irregolari" ma che, tuttavia, in tale ultimo caso, il canone di locazione è stato determinato addirittura in misura inferiore rispetto ai precedenti, venendo conseguentemente meno l’ipotesi dell’ingiusto profitto. Tanto è vero, osserva la Suprema Corte, che la Corte territoriale ha "ingiustificatamente svalutato il fatto che i primi due contratti di sublocazione vennero stipulati dal (…) con cittadini extracomunitari regolarmente presenti nel territorio nazionale. Anche volendo ritenere effettivamente spropositato il margine di profitto della sublocazione (o anche solo il canone nel suo complesso), è infatti ovvio che nelle menzionate occasioni difettasse il presupposto dello sfruttamento della condizione di irregolarità del locatario. Presupposto che certamente ricorre, invece, nel terzo episodio, dove, però, il profitto mensile ricavato dall’imputato si è ridotto di due terzi rispetto alle operazioni precedenti (invece di aumentare come sarebbe stato logico aspettarsi), mettendo seriamente in dubbio la stessa astratta possibilità di prospettare il suo carattere ingiusto". Pertanto, anche se si affitta a soggetti irregolarmente presenti sul territorio italiano, l’assenza di un canone sproporzionato rispetto ai prezzi di mercato (e quindi di ingiusto profitto) fa venire meno il reato di favoreggiamento. Niente arresti domiciliari al funzionario delle Entrate licenziato per induzione indebita di Daniela Casciola Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2016 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 30 novembre 2016 n. 50809. Il funzionario dell’Agenzia delle entrate che si è macchiato di induzione indebita può vedersi revocare la misura cautelare degli arresti domiciliari. Non c’è, infatti, rischio di inquinamento delle prove né di reiterazione della condotta essendo egli stato licenziato. Decide così la sesta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 50809, depositata ieri. I fatti - L’uomo, in qualità di funzionario delle Entrate, aveva chiesto denaro a un terzo per evitargli accertamenti fiscali sulla sua società. La condanna ai sensi dell’articolo 319-quater del codice penale metteva in moto la revoca degli arresti cautelari dato anche il licenziamento senza preavviso comminato quale provvedimento disciplinare all’uomo. La decisione - La Cassazione resta in linea con il Tribunale nel non ravvedere particolari esigenze cautelari da salvaguardare. Non di certo relative a un eventuale inquinamento di prove ben consolidate essendo fondate su fonoregistrazioni di colloqui e sull’accertamento del reato in flagranza. Nemmeno si può temere la reiterazione della condotta dato che il funzionario è stato sospeso dal servizio. Se non bastasse, i giudici tengono in considerazione anche l’occasionalità del comportamento e il clamore che la vicenda ha suscitato all’epoca dei fatti: tutti elementi che ridimensionano il rischio di reiterazione. Parma: la città apre un dialogo importante con il carcere di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 1 dicembre 2016 È un lunedì di fine novembre e il teatro del carcere di Parma è molto affollato: tante persone detenute innanzitutto. Da sezioni di media e alta sicurezza. E poi le autorità: il sottosegretario Cosimo Ferri, il Direttore dell’Ufficio Detenuti Alta Sicurezza del Dap Carlo Villani, il Direttore dell’Istituto Carlo Berdini, i Magistrati di Sorveglianza, il Presidente della Fondazione Cariparma Paolo Andrei, il Garante Comunale Roberto Cavalieri. Il personale del Trattamento e della Sorveglianza. I rappresentanti della cooperazione, delle aziende, delle associazioni di volontariato, della comunicazione, il Direttore del Centro di Servizi di Parma Arnaldo Conforti. L’occasione è una conferenza stampa di presentazione del progetto "Sprigioniamo il lavoro" che occuperà inizialmente otto persone detenute nelle sezioni di "media sicurezza" per poi arrivare a un auspicato raddoppio. La città di Parma si è impegnata con la sua Fondazione, innanzitutto, e poi con alcune aziende produttive e cooperative. La Cassa Ammende finanza i lavori di ristrutturazione nei locali interni all’istituto. Sarà una lavanderia industriale che raccoglierà commesse sul mercato esterno. Una sfida imprenditoriale, innanzitutto, in tempi non particolarmente floridi. Come fa notare più di un relatore. Oltre alla notizia "di apertura" - buona e ottima, direi - colpiscono le implicazioni a nostro avviso molto importanti che la notizia sottende. La città scopre o riscopre il carcere come luogo di vita e di cittadinanza. Apre un dialogo che parte con il lavoro e poi potrà crescere a seconda di come questa opportunità verrà curata e arricchita di contenuti culturali e umani. Il cambiamento che si profila non è facile né indolore. Normalmente un’organizzazione che si appresta a una trasformazione importante accompagna i suoi manager e i dipendenti con un percorso di formazione e di crescita. L’istituzione pubblica nel nostro Paese si affida al coraggio e alla buona volontà dei singoli: una scelta impegnativa e faticosa. Questo per dire che l’Istituto di Parma questa settimana ha preso un impegno non semplice, non facile, non indolore. Il cui carico grava - in diverse proporzioni - su tutti. Dal Direttore che ha avuto il coraggio del primo passo significativo, al Comandante, all’Area Trattamentale, alla Sorveglianza fino alle persone detenute. Senza tralasciare la Magistratura, gli uffici Epe, la scuola, il volontariato, la città. L’amministrazione di Parma, il Sindaco e il Garante. E - soprattutto - da Roma il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria e il Ministero. Da qualche mese, lavorando all’interno del carcere di Parma con la redazione di Ristretti Orizzonti, osservo da vicino questo sforzo, le resistenze ma anche le aperture; vedo l’impegno e le fatiche. Ma, ogni volta che esco dagli Istituti di Opera o di Padova, mi convinco che una pena più umana, un carcere più aperto alla comunità esterna fanno non solo crescere le persone detenute ma - senza alcun dubbio - creano un ambiente lavorativo più vivibile anche per il personale impegnato all’interno. A Parma si è aperta una porta; la città ha risposto a una chiamata. Ora occorre avanzare. Roma: detenuto cileno di 33 anni si è impiccato Rebibbia Terza Casa Circondariale di Riccardo Arena Ristretti Orizzonti, 1 dicembre 2016 Si chiamava Alonso Guzman, nato nel 1983. Si è impiccato utilizzando un lenzuolo il 22 ottobre scorso, alle ore 18, nel bagno della sua cella della II sezione, II piano. Da quanto dicono pare che, entrato in bagno, abbia bloccato la porta con una scopa tanto che gli altri detenuti, capito che si stava impiccando, non sono riusciti ad entrare. Verona: 55enne suicida nella "struttura protetta" per malati psichiatrici giudiziari e ex detenuti di Zeno Martini L’Arena, 1 dicembre 2016 Ha scelto la soluzione più radicale, pur di non tornare in carcere, Paul Johann Oberkofler, un 55enne altoatesino originario della Valle Aurina, condannato per il tentato omicidio della moglie, da quasi due anni ospite della "Casa don Girelli" di Ronco, una struttura protetta per malati psichiatrici giudiziari e per ex detenuti. Qui, l’uomo era seguito da psicologi, medici ed operatori, si era ben inserito, al punto che gli era stato assegnato da alcuni mesi il compito di occuparsi del gruppo ospiti che lavora nell’appezzamento e nella serra del centro. Tutto sembrava filare liscio fino a lunedì scorso, quando la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di secondo grado a carico di Oberkofler, che aveva ridotto la pena di primo grado da 18 a 10 anni di reclusione. Gli atti, a questo punto, sarebbero dovuti tornare all’esame della Corte d’Appello di Trento mentre per lui si sarebbero spalancate le porte del carcere in attesa della nuova sentenza. Un cambiamento che, a quanto pare, il 55enne non è stato in grado nemmeno di fronteggiare sulla carta. Da qui la scelta di compiere un gesto estremo nel campo della struttura. Oberkofler, ex dirigente d’azienda, era accusato del tentato omicidio della moglie Brigitte Steger, avvenuto esattamente quattro anni fa a Lutago. Il 55enne colpì la donna, madre dei suoi tre figli, con un martello e un punteruolo. La moglie si trova tuttora in coma. "Nessuno di noi pensava che nonostante la decisione della Cassazione, Paul prendesse una decisione del genere", confidava ieri sconvolto Giuseppe Ferro, direttore della Casa don Girelli. "Gli avevo parlato un’ora prima", ricorda, "e niente lasciava presagire un gesto estremo. Lo avevo rassicurato sul fatto che avrebbe potuto continuare a rimanere qui a Ronco. Paul, ogni mattina arrivava per organizzare i lavori nel campo e nella serra. E così è successo anche lunedì, quando gli avevo firmato gli ordini per il materiale da comperare. Purtroppo, qualche ora più tardi la tragica scoperta". Tuttavia, nella sua testa qualcosa era già scattato perché ha lasciato un biglietto per sua madre ed un pacchetto per il figlio maschio. I carabinieri della stazione di Ronco, intervenuti sul posto dopo il decesso improvviso dell’uomo che era agli arresti domiciliari, hanno trasmesso il fascicolo alla Procura di Verona. Napoli: "cambiare è possibile", il messaggio del Presidente Mattarella ai detenuti di Dario Del Porto Il Mattino, 1 dicembre 2016 Il carcere "rappresenta per lo Stato una necessità", ma diventa "anche una sconfitta quando ne varca le porte un giovane proveniente da un contesto sociale difficile, segnato da una forte presenza di criminalità. È una sconfitta perché segnala la mancanza del sistema educativo e della vicinanza dello Stato", sottolinea il Capo dello Stato Sergio Mattarella. In silenzio, i 120 detenuti dei padiglioni Firenze e Livorno ascoltano il videomessaggio dell’inquilino del Quirinale. Molti però annuiscono, quando il presidente avverte: il carcere non è e non deve mai essere il luogo dove viene negata la speranza. A nessuno, tantomeno ai giovani, deve essere tolta la possibilità di riabilitarsi". Seduto in prima fila, i capelli molto più corti rispetto a quando sono state girate le riprese, c’è anche Michele, 22 anni e altri 16 da scontare in cella, uno dei protagonisti di Robinù, il docu-film scritto e diretto da Michele Santoro con Maddalena Oliva e Micaela Farrocco che racconta il mondo della delinquenza giovanile a Napoli ed è stato presentato ieri in anteprima "non in una sala cinematografica - come rimarca il presidente Mattarella ma all’interno di un carcere": a Poggioreale, dove anche Michele è detenuto. "Lo Stato ci doveva dare prima la possibilità di cambiare, non dopo questo film", dice al microfono il ventiduenne quando, alla fine della proiezione, sarà il primo a rivolgere una domanda al ministro della Giustizia Andrea Orlando. "Lo Stato deve fare di più, ma esiste sempre una possibilità di scelta", replica il Guardasigilli ricordando che un fratello di Michele, come raccontato nel documentario, ha optato per una strada diversa e ora fa il pizzaiolo all’estero: "Un eroe", lo definisce il ministro, accompagnato dal capo di gabinetto Giovanni Melillo. Alla proiezione assistono il sottosegretario Gennaro Migliore, i capi degli uffici giudiziari, i pm Henry John Woodcock e Francesco De Falco, che hanno istruito il processo sulla "paranza dei bambini" e il giudice Nicola Quatrano, che ha emesso la prima sentenza di condanna. Robinù descrive senza mediazioni questa tragica realtà di una generazione perduta nella spirale del crimine. Santoro cita, fra gli applausi. Marco Pannella e non risparmia, rispondendo ai cronisti, una stoccata al sindaco Luigi de Magistris: "Non può andare a dormire la sera con il vestito da rivoluzionario e svegliarsi la mattina con il doppiopetto che aveva Andreotti, quando diceva di non far vedere nei film le vergogne del Paese. Se vuole dire che a Napoli ci sono tante cose belle ha tante possibilità di farlo, ma non può pretendere che Saviano non faccia lo scrittore. Ho trovato orribile, non degno del de Magistris che conosco, il riferimento al fatto che Saviano lavora negli Usa", afferma Santoro. "Troppo spesso il carcere rappresenta la risposta più semplice a problemi più complessi", argomenta Antonio Fullone, il direttore di Poggioreale che, insieme all’istituto penale minorile di Airóla ha ospitato a lungo la troupe di Robinù. "In campo - argomenta il ministro Orlando - ci sono gli strumenti della repressione, ma poi emerge l’esigenza che si vada oltre, si intervenga sul fronte della scuola, dello sviluppo economico, della battaglia culturale. Questa battaglia non può essere delegata solo alle agenzie e ai soggetti istituzionali ma deve diventare una battaglia in cui ci sia un protagonismo di carattere collettivo". Concetti sui quali aveva insistito anche il presidente Mattarella nel suo messaggio, sollecitando non solo "le occasioni per la formazione, quelle per il reinserimento sociale" e lo sviluppo "di un sistema di pene alternative", ma anche "l’attenzione e la partecipazione della società civile, degli intellettuali, degli artisti, dei mezzi di comunicazione, perché chi esce dal carcere non sia un isolato ma torni a sentirsi a pieno titolo cittadino e membro della nostra comunità nazionale. Cambiar vita è possibile ed è l’unica strada positiva. Io - promette il presidente - starò attento alla vostra condizione". Mentre scorrono i titoli di coda, qualcuno ripete le parole di una madre intervistata nel documentario: "Ragazzi, se potete cambiate vita. Perché questa non è vita". Napoli: il film "Robinù" a Poggioreale, quei tormenti dalle immagini alla vita reale di Antonio Mattone Il Mattino, 1 dicembre 2016 È stato un dialogo inedito quello tra il Ministro della Giustizia Andrea Orlando e i detenuti della Casa Circondariale "Giuseppe Salvia Poggioreale", al termine della prima del film "Robinù" di Michele Santoro e Maddalena Oliva, proiettato nel carcere napoletano. Erano presenti in 120, provenienti dal padiglione Firenze, quello dove sono inseriti quelli che finiscono per la prima volta in carcere. Tra di loro si notano molte facce di giovanissimi, che dimostrano molto meno di 18 anni. Ciro ha la faccia liscia, sta in carcere da pochissimi mesi e sembra spaesato. "Che dobbiamo fare qui?", chiede con ingenuità. Molte le autorità presenti, ma alcuni detenuti stanno comunque in prima fila e tra questi uno degli interpreti del film. Colpiscono le parole del presidente Mattarella in video: "A nessuno, tantomeno ai giovani, deve essere tolta la possibilità di riabilitarsi, lasciando i sentieri dell’odio e della violenza che non portano felicità, ma producono e moltiplicano solo paura e sofferenza". Quindi la proiezione comincia. I carcerati stanno in religioso silenzio. Non commentano e non applaudono neanche nei momenti in cui i giovani protagonisti di Robinù prendono la scena e si esaltano parlando della sicurezza che dà un kalashnikov o quando affermano che nella vita "comanda chi fa più reati". Nel momento in cui il cantante neomelodico Anthony attacca un brano, invece, alcuni cominciano a cantare sottovoce e sul volto di un ragazzo si vedono gli occhi lucidi. Michele Santoro ringrazia e introduce il dibattito. Il ministro della Giustizia ricorda le parole di papa Francesco al Giubileo dei carcerati. "Ogni volta che entro in un carcere mi domando: perché loro e non io? Tutti abbiamo la possibilità di sbagliare". Un interrogativo che la società oggi non si pone, conclude. Si inizia con una domanda banale. "Come posso non fare più reati se quando esco non c’è lavoro?". Il Guardasigilli non si scompone: "c’è una scelta personale da fare indipendentemente dalla situazione in cui ci si trova". E cita come esempio il fratello di Michele, il ragazzo-attore presente in sala, che è andato a Parigi a fare il pizzaiolo dopo aver perso il lavoro perché in qualche modo venne associato alle vicende del congiunto, pur essendo totalmente estraneo al mondo delinquenziale. Un altro detenuto incalza. "Moltissimi ragazzi che vivono in contesti sociali disagiati non capiscono la differenza tra il bene e il male. Perché Giovanni Falcone non appare come un eroe e il "boss" viene esaltato?". E ancora: "I bambini non vanno a scuola, manca il lavoro e a Napoli non cambiano i modelli sbagliati". È nello stesso tempo un atto di accusa verso la città e i suoi abitanti che vivono sempre gli stessi problemi con una mentalità vittimista e delinquenziale, ma anche una richiesta di aiuto per venirne fuori. Orlando elenca le azioni del governo, ma poi in modo confidenziale svela tutto il disinteresse dell’opinione pubblica al tema del carcere. Si torna a parlare del ruolo dello Stato e del lavoro. "I detenuti occupati sono sempre pochi - afferma il ministro, ma stiamo pensando nuove forme di sconto della pena per chi è impiegato in attività lavorative rispetto a chi non vuole lavorare in carcere". Poi elogia il ruolo dei volontari: "senza di loro molte cose non si potrebbero fare". L’ultima domanda riguarda i processi spettacolo e le condanne esemplari. Il ministro mette in guardia dai politici che speculano sulle paure della gente e dice che "il carcere così com’è non garantisce sicurezza alla società perché chi esce senza aver avuto opportunità concrete e un cambio vero di mentalità uscirà peggiore di come è entrato". L’incontro finisce, un detenuto chiede sottovoce se può partecipare anche lui a qualche film, un altro chiede di andarlo a trovare. Il dibattito dovrà continuare negli incontri e nelle occasioni che il carcere offre. C’è un film che è il più importante da interpretare, è quello della vita reale e del proprio futuro. Milano: dalla seconda vita delle macchine per il caffè una nuova chance per i detenuti di Giulia Polito Corriere della Sera, 1 dicembre 2016 "Chi vuole riposare vada da quella parte, chi vuole lavorare invece venga da questa parte". All’ingresso il secondino accoglie così i visitatori. Nel primo caso indica l’uscita che dà sul parcheggio, nel secondo le porte da cui si accede all’interno del carcere di Bollate. Un luogo di lavoro appunto, a tutti gli effetti. Perché qui, dove sembra che l’umanità resti fuori dalle porte schiacciata dal peso delle pene inflitte, si coltivano passioni, attitudini, germogli di nuove imprese. A Bollate si costruisce una cultura nuova, dove il carcere diventa parte integrante e identificativa del territorio, dove i detenuti diventano risorse per la società. Sembra un’utopia e invece è un modello di business in cui ha creduto Paolo Dalla Corte, Ceo dell’omonima azienda produttrice di macchine da caffè espresso. All’interno del Teatro del carcere una di queste è esposta sotto un riflettore. "Ognuna richiede processi di revisione, di ricambio dei componenti, del collaudo" spiega dettagliatamente l’imprenditore. Attività che adesso saranno affidate anche ad un gruppo selezionato di detenuti all’interno del carcere. Dalla seconda vita delle macchine del caffè nasce così una seconda chance per alcuni di loro, un’opportunità concreta di lavoro da cui poter ripartire. Second Chance Project rappresenta un ulteriore tassello nel panorama delle sperimentazione all’interno delle carceri che incentivano il lavoro "inteso come responsabilità, diritti e doveri". "È così che cambia il sistema - afferma il provveditore regionale Luigi Pagano - ovvero ripartendo dai territori. E provando poi ad immaginare misure nuove da adottare, pene diverse che puntino davvero al reinserimento sociale. Tra queste l’idea di sostituire all’assistenzialismo il fare impresa interagendo con il territorio e il privato sociale. Così si genera anche un valore economico e si evitano ulteriori costi". E da questo punto di vista "Bollate non è un carcere modello, ma può essere un modello di carcere". Al centro del progetto ci sono le persone. Ecco perché Della Corte ha scelto di curare personalmente la selezione dei detenuti che hanno da poco iniziato un cammino di formazione per diventare tecnici e intervenire sulle macchine. Ad affiancare l’azienda nel progetto c’è la cooperativa Bee.4 altre menti, già presente nell’istituto penitenziario. "Ognuna delle persone selezionate ha una propria peculiarità - spiega Francesco Bernasconi, di Bee.4. Insieme rappresentano un gruppo coeso in cui si incontrano anche tante nazionalità differenti". Gli obiettivi finali sono quelli di affinare l’ingegno e far eccellere la manodopera, "storicamente i tratti distintivi della piccola-media impresa italiana". "Ma soprattutto - specifica Dalla Corte - vogliamo far emergere il potenziale delle persone e minimizzare i loro difetti. È quanto ho imparato in azienda da mio padre, un insegnamento che non ho mai dimenticato". Dal palco del piccolo Teatro i detenuti si raccontano al pubblico. Fernando, dalla Toscana, è stato trasferito a Bollate dove è rientrato nell’area riservata al trattamento avanzato. È qui che ha iniziato a pensare e progettare una propria macchina per il caffè. Ha realizzato un prototipo e ottenuto un brevetto. "Avevo voglia di capire come sono fatte le cose". Poi è stato selezionato per Second Chance "grazie al quale ho ritrovato tutta la mia curiosità. È stato un grande insegnamento di vita". Francesco invece ha già trascorso buona parte della sua vita tra le mura delle carceri. Sono al momento 37 anni, di cui la metà circa in regime di massima sicurezza. Di trasferimento in trasferimento, come unica prospettiva quelle offerte dalle mura degli istituti penitenziari in cui è stato recluso. "In tutti questi anni non avevo mai provato una cosa del genere - confessa - né pensavo potesse esistere. È una grande opportunità per imparare un lavoro, ma soprattutto per tornare ad appassionarmi alle cose, per ritrovare la voglia di apprendere. Anche Luigi la pensa come lui. Da 18 anni in carcere di cui solo gli ultimi 3 a Bollate. Del gruppo è uno dei più anziani: "Non pensavo di poter provare una cosa così, soprattutto alla mia età". Quando accenna la sua storia Luigi non nasconde alcuni istanti di serena rassegnazione: "Non è mai una bella vita, ma è una vita ed è un occasione importante per tutti noi". In un sistema così concepito alla fine ciò che conta davvero è riuscire a infondere nuova fiducia e autostima nelle persone. Qualcun altro di loro racconta che "ci è stata trasmessa tanta passione ed io sono tornato a credere in qualcosa, ad un progetto. Anche questo è un modo per "evadere". Adesso sento di voler davvero contribuire a rendere più bella questa società". "In Second Chance convergono e collaborano anime diverse: le istituzioni, l’impresa, la cooperativa. Per questo ne siamo orgogliosi". A dichiaralo è il direttore Massimo Parisi che non ha dubbi sulla qualità e l’efficacia della strada intrapresa. "Due aspetti sono evidenti - specifica, il primo è che il lavoro così aiuta davvero le persone. Il secondo è che sul carcere si può investire, anzi si deve. Solo così potremmo creare una società più sicura, in cui i detenuti non siano più dei costi ma delle risorse". Il binomio su cui continuare ad insistere è quello di carcere-impresa: "In questi anni sono stati fatti notevoli passi in avanti. In ambito regionale ci stiamo assistendo a numerosi fermenti. È questo è stato possibile perché siamo riusciti a far sentire gli imprenditori a loro agio all’interno di un contesto problematico come quello delle carceri". Trapani: nove detenuti conseguono l’attestato di Operatore addetto alla ristorazione lagazzettatrapanese.it, 1 dicembre 2016 Con la consegna di 9 attestati di qualifica di "Operatore addetto alla ristorazione" ad altrettanti detenuti, si è concluso presso le Carceri di San Giuliano l’esame previsto al 3° anno per i detenuti - studenti dell’Ipssar Ignazio e Vincenzo Florio di Erice. L’esame è avvenuto alla presenza del dott. Salvatore Altamore, Commissario Regione Sicilia Dipartimento Istruzione e Formazione, nonché Presidente della Commissione. Della Commissione faceva parte anche il signor Matteo Giurlanda Presidente Provinciale dei trapanesi. I detenuti studenti hanno preparato il seguente menù: Capesante in crema di carciofi, risotto ai frutti di mare, pesce spada al gratin con patate al forno e torta siciliana, riscuotendo i complimenti della commissione. I 9 detenuti che hanno conseguito l’attestato che potrà essere loro utile per un futuro reinserimento nella Società, sono: Cunsolo Vito, Dado Francesco, Errante Ascenzio, Garofalo Alberto, Gattuso Antonino, Mascioli Thomas, Saitta Gaetano, Scalia Giuseppe. Questo importante traguardo è soprattutto merito dei docenti dell’Istituto Alberghiero di Erice e della sua Dirigente Scolastica Prof. Pina Mandina, ma anche della Direttore dell’Istituto di Pena dott. Renato Persico che ha creduto fin dal primo momento alle potenzialità della scuola in carcere e alla possibilità per i detenuti studenti di spendere nel mondo del lavoro, una volta espiata la pena, un attestato che non sia solo il classico pezzo di carta. Olbia-Tempio: il Sinappe "carcere senza acqua calda, intervenga la Procura" La Nuova Sardegna, 1 dicembre 2016 Il Sinappe chiede la verifica sull’impianto: "Costruito di recente, è già logoro" In due sezioni detentive non si può fare la doccia, in tilt anche il riscaldamento. Nuova protesta per la carenza d’acqua nella casa di reclusione di Nuchis. Stavolta interviene il Sindacato Nazionale Autonomo della Polizia Penitenziaria che chiede alla Procura della Repubblica di Tempio di procedere agli opportuni accertamenti per capire "come mai un impianto di recentissima costruzione sia ridotto, in così poco tempo, in condizioni di inagibilità. Corre obbligo a questa organizzazione sindacale - scrive il Sinappe, segnalare le proteste provenienti da parte del personale operante, per la sospensione della fornitura dell’acqua calda nella caserma e in due delle quattro sezioni detentive. Tale anomalia, sembra sia dovuta all’improvvisa rottura della tubatura di alimentazione, la quale, ormai logora nella maggior parte dell’impianto idrico, continua a esplodere in diversi punti con i conseguenti immaginabili disagi dovuti anche all’attuale fredda stagione. Inutile dire - prosegue il documento, che non funziona di conseguenza neanche l’impianto di riscaldamento. Giova anche evidenziare che da anni è noto a tutti che l’impianto idrico dell’intera struttura, (inaugurata 4 anni fa, esattamente il 27 novembre del 2012 e che ospita attualmente circa 200 detenuti ndc), va logorandosi rapidamente e che tale situazione è già stata puntualmente comunicata, inutilmente, dalla direzione tempiese e agli uffici interessati. Sembrerebbe - va avanti il comunicato, entrando anche in preoccupanti analisi tecniche, che per inadeguatezza del tipo di materiale impiegato nella realizzazione dell’opera, l’alta concentrazione di metalli presente nella rete idrica stia corrodendo e intasando di ruggine le tubature al punto che le stesse scoppiano improvvisamente in vari punti. Tale situazione, (già denunciata circa due settimane fa anche dall’Uspp, l’Unione sindacale polizia penitenziaria della Sardegna), non è più procrastinabile se si pensa che da diversi mesi ormai anche due, delle quattro sezioni detentive, sono senza acqua calda e i detenuti non possono fruire neanche della doccia. Come ben si potrà comprendere - continua il Sinappe - la criticità riveste carattere di estrema delicatezza e importanza e necessita di decisioni ormai non più rinviabili. Infatti, non ci stupirebbe se tra qualche giorno, visto lo stato disastroso in cui versa, l’intero impianto venisse a collassare". La segnalazione è stata inviata, oltre che al provveditore regionale, al Servizio vigilanza su igiene e sicurezza dell’amministrazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma e al procuratore della Repubblica del Tribunale di Tempio a cui è stato appunta richiesta una verifica dell’impianto. Firenze: Città per la Vita, l’hashtag #penadimortemai insieme ai detenuti gonews.it, 1 dicembre 2016 Alla Festa della Toscana attribuito un riconoscimento alla Comunità di Sant’Egidio e a "Nessuno tocchi Caino". Città per la vita contro la pena di morte. Oltre duemila in tutto il mondo, che hanno accolto l’invito a illuminare un monumento, a promuovere iniziative, oggi con l’hashtag #penadimortemai, perché l’abolizione della pena capitale venga accolta da tutti i Paesi del mondo. In occasione della Festa della Toscana, che ritorna il 30 novembre di ogni anno, si è tenuta nel Teatro della Compagnia di Firenze la seduta solenne del Consiglio regionale, durante la quale sono stati attribuiti riconoscimenti alla Comunità di Sant’Egidio, con l’intervento di Adriano Roccucci, e a Nessuno tocchi Caino, per l’attività svolta contro la pena capitale. Il Consiglio regionale è stato caratterizzato da numerosi interventi (del presidente del Consiglio regionale Eugenio Giani e del presidente della Giunta regionale Enrico Rossi), un cortometraggio in anteprima nazionale), momenti di riflessioni e manifestazioni artistiche (un monologo di Simone Cristicchi), per celebrare l’abolizione della pena di morte e della tortura sancita in Toscana il 30 novembre del 1786 dal granduca Pietro Leopoldo. In apertura di seduta il presidente Giani ha letto il messaggio di saluto inviato per l’occasione dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Subito dopo, in anteprima nazionale, la proiezione del cortometraggio "Eye for an eye" di Steve Bache, Mahyar Goudarzi, Louise Peter: storia in animazione di Frederick Baer, da più di dieci anni nel braccio della morte in Indiana in attesa dell’esecuzione. Nel pomeriggio la Comunità di Sant’Egidio ha promosso a Firenze un incontro con i detenuti nel carcere di Sollicciano, con la proiezione di alcuni video per spiegare la campagna per l’abolizione della pena di morte e la diffusione del relativo appello. All’incontro sono intervenuti anche don Roberto Falorsi e il ministro di culto islamico Hamdan El-Zeqri. Torino: Franco Mussida presenta la nuova audio-teca CO2 alla Casa circondariale torinoggi.it, 1 dicembre 2016 Dopo tre anni di sperimentazione e successive valutazioni scientifiche dei dati raccolti presso 4 istituti di pena italiani, arriva per CO2 il momento di inaugurare ufficialmente nuovi spazi di libertà interiore offerti a tutti i detenuti di 8 nuove carceri italiane. Un momento importante che offre una chiave di lettura che consente alla musica contenuta in queste particolari audio-teche di essere stimolo per il mondo emotivo personale e al contempo strumento educativo - trattamentale. Dopo i momenti di formazione destinati a educatori, agenti di polizia penitenziaria e operatori culturali di ciascun istituto, CO2 verrà presentato attraverso una serie di eventi-spettacolo all’interno dei 12 istituti di pena coinvolti. Lunedì 5 dicembre, CO2 verrà presentato presso la Casa di Reclusione Lorusso Cutugno di Torino. Le funzioni dell’audio-teca e il suo scopo in carcere verranno presentate attraverso uno spettacolo con momenti musicali dal vivo che vedranno protagonista Franco Mussida, ascolti e qualche proiezione video. Un modo facile e diretto per incentivare la fruizione dell’audio-teca attraverso l’individuazione dello stato emotivo evocato dalla Musica ascoltata. I detenuti verranno quindi coinvolti in un gioco interattivo fatto di ascolto di brani live e dell’audio-teca. Dopo l’ascolto i detenuti manifesteranno il loro stato d’animo attraverso l’esposizione di speciali emoticon che li rappresentano. Sono gli stessi presenti nei tablet che danno accesso al database dei brani dell’audio-teca. Sul palco, insieme a Franco Mussida, suoneranno Luca Nobis, docente di chitarra presso il Cpm Music Institute (che durante i tre anni di sperimentazione in carcere ha tenuto anche lezioni ai detenuti nel carcere di Monza), Barbara Giacchino, diplomata bachelor Canto al Cpm Music Institute, Giancarlo Vaccalluzzo, diplomato in Writing & Production al Cpm Music Institute, Daniele Tarasconi - funzionario Giuridico Pedagogico - alla chitarra, Salvatore Curia alla tromba e Savino Gagliardi alle tasterie. Roma: consegnato al Papa "Il cuore ha sete di perdono", libro con racconti dei detenuti agensir.it, 1 dicembre 2016 "Il cuore ha sete di perdono". È il titolo di un’antologia di racconti scritti dai detenuti delle carceri italiane che hanno partecipato alla nona edizione del Premio Carlo Castelli, promosso dalla Società di San Vincenzo De Paoli in collaborazione con il ministero della Giustizia e il patrocinio di Camera e Senato. Il libro è stato consegnato a Papa Francesco da Antonio Gianfico, presidente nazionale della Società di San Vincenzo De Paoli, che è stato ricevuto con la delegazione degli organizzatori del Giubileo, lunedì 28 novembre. Il piccolo volume, donato al Pontefice, raccoglie le opere finaliste. Alla giuria del premio Castelli sono pervenuti 166 elaborati, provenienti da 80 diversi istituti penitenziari. Tre i vincitori: al primo posto il racconto di Diego Zuin "E allora ti chiedi"; al secondo Simone Benenati con "Perdonare: una grazia infinita da dare e ricevere"; al terzo "Notti tra Morfeo e morfina" di Domenico Auteritano. Ai tre vincitori sono andati premi in denaro (1000 euro al primo classificato, 800 euro al secondo e 600 euro al terzo). A nome di ciascuno dei tre vincitori sono stati anche devoluti 1.000 euro per finanziare l’acquisto di attrezzature e materiale didattico di un’aula scolastica in India; 1.000 euro per un progetto formativo e di reinserimento sociale di un giovane adulto dell’IPM "Malaspina" di Palermo; 800 euro per l’adozione a distanza di una bambina del Kazakistan per 5 anni. Bergamo: dal carcere al palco, a Dalmine in scena detenuti di Modena e Castelfranco Emilia bergamonews.it, 1 dicembre 2016 Venerdì 2 dicembre, con ben tre repliche all’oratorio di Sforzatica a Dalmine andrà in scena lo spettacolo teatrale "Ubu Re". È il risultato del laboratorio tenutosi in questi giorni con Teatro dei Venti, i detenuti ed ex detenuti delle case circondariali di Modena e Castelfranco Emilia e gli studenti dell’Istituto Einaudi di Dalmine. Il programma prevede alle 10 e alle 11.30 le repliche riservate agli studenti, alle 22 quella aperta al pubblico. "Ubu Re" è un testo cruciale per il teatro moderno. Surrealista e grottesco, quasi una dichiarazione di insufficienza della realtà ordinaria. Ma soprattutto Ubu Re in carcere, progetto del Teatro dei Venti di Modena insieme a detenuti, internati, ex detenuti e studenti degli istituti superiori. Perché anche il carcere è uno dei luoghi del Festival. Perfettamente coerente nell’ospitare le forme più diverse di perdita dell’innocenza. E come tale quindi, altrettanto coerente come luogo nel quale provare a portare la libertà miracolosa di un nuovo inizio, che dia fine alla pena della desolazione. Alle 17 al teatro Civico di Dalmine si terrà un incontro pubblico dedicato alle esperienze teatrali nelle carceri italiane. Interverranno Stefano Tè del Teatro dei Venti, Horacio Czertok del Teatro Nucleo, un rappresentante della Rete Carceraria Teatrale Italiana e altri ospiti. Tutto il progetto teatrale è sostenuto dal Comune di Dalmine. L’iniziativa rientra tra le proposte del festival "In necessità virtù", organizzato da Sguazzi Onlus, Centro Servizi del Volontariato e Compagnia Brincadera, tutti gli appuntamenti del festival sono ad ingresso con offerta libera. Si può contribuire al sostegno economico del festival con una donazione attraverso la sottoscrizione delle card oppure con il crowdfunding online. Maggiori informazioni sugli spettacoli, gli eventi e i laboratori su invfestival.it. Bologna: Giallo Dozza, la squadra di rugby del carcere che vince e non va mai in trasferta di Franco Giubilei La Stampa, 1 dicembre 2016 Milita in C2, la storia viene raccontata nel film "La Prima Meta", di Enza Negroni. Nel campionato italiano C2 di rugby c’è una squadra che si allena fra le mura di un carcere e che gioca tutte le partite in casa, nel campo della casa circondariale della Dozza, anche quando dovrebbe andare in trasferta: è formata da detenuti dai 20 ai 35 anni che scontano pene da 4 anni all’ergastolo, 40 persone di diverse nazionalità che hanno imparato a far meta sotto la guida del coach Max Zancuoghi. La loro storia viene raccontata in un film da Enza Negroni, autrice di molti altri documentari e di "Jack Frusciante È Uscito dal Gruppo", che sarà presentato il primo dicembre al Festival dei Popoli di Firenze di Firenze sotto il titolo La Prima Meta, presenti la regista, l’allenatore e alcuni giocatori di Giallo Dozza, com’è stata chiamata la squadra. La regista ha filmato i ragazzi durante il primo campionato ufficiale disputato dalla squadra dei detenuti, alle prese con la prima esperienza rugbistica della loro vita, seguendoli fra i duri allenamenti e la monotona quotidianità della cella. Il giallo richiama il colore del cartellino dell’espulsione temporanea di dieci minuti, tipica della palla ovale, una regola che si rispecchia nella condizione di chi (ergastolani a parte), è stato temporaneamente allontanato dalla società e vi farà ritorno al termine della pena. L’idea nasce dal progetto educativo "Tornare in Campo", coordinato da tecnici e allenatori del Rugby Bologna 1928, finalizzato all’insegnamento di questo sport all’interno del carcere, ma soprattutto al recupero fisico, sociale ed educativo dei reclusi. La regista Enzo Negroni si è avvicinata all’esperienza di Giallo Dozza da un lato per approfondire il processo di inclusione attraverso il rugby di detenuti di provenienza molto diversa per etnia e, spesso, fede religiosa. L’altro motivo è l’uso della forma-documentario per raccontare la vita in carcere senza mediazione che non sia la telecamera, facendo emergere il tentativo dei reclusi-giocatori di emergere dal forte disagio della loro condizione. Nell’attesa che scada la sospensione da cartellino giallo, sul campo e fra le sbarre. L’intelligenza artificiale che riconosce i criminali guardandoli in faccia di Andrea Signorelli La Stampa, 1 dicembre 2016 Il software distinguerebbe chi ha compiuto reati con il 90% di precisione, ma non mancano le critiche. Un’intelligenza artificiale avrebbe riabilitato Cesare Lombroso e la frenologia imparando a distinguere i criminali dalle persone comuni solo osservandone il volto. Lo studio, pubblicato su Arxiv e non ancora sottoposto alla "peer review" accademica, è stato effettuato da due ricercatori dell’Università Jiao Tong di Shanghai, Xiaolin Wu e Xi Zhang. I ricercatori hanno raccolto 1.856 fotografie di maschi cinesi di età compresa tra i 18 e i 55 anni: poco più di metà sono state prese da curriculum vitae presenti sul web; la parte restante arriva invece dai database del ministero per la Sicurezza cinese e appartengono a criminali condannati. Una larga parte di queste immagini (circa il 90%) è stata utilizzata per addestrare l’algoritmo a distinguere i criminali; quando si è passati al test vero e proprio, utilizzando le restanti 200 foto, l’intelligenza artificiale è stata in grado di riconoscere il volto dei criminali con una precisione pari all’89% dei casi. A questo punto, i ricercatori hanno analizzato le caratteristiche del volto comuni ai maschi cinesi condannati: gli occhi ravvicinati, l’angolo che si forma tra il naso e l’estremità della bocca e la particolare curvatura del labbro superiore. Questo studio solleva importanti questioni etiche, come la possibilità che il comportamento criminale sia scritto nel nostro Dna. Alcuni esperti di intelligenza artificiale hanno però sottolineato come l’affidabilità dell’algoritmo dipenda solo dalla bontà dei dati con cui viene addestrato, e che quindi i possibili pregiudizi che portano i giudici a condannare con maggiore probabilità persone con un determinato aspetto fisico siano stati trasmessi all’algoritmo. L’intelligenza artificiale, lungi dall’essere obiettiva, non farebbe altro che riprodurre le distorsioni del giudizio umano. Droghe. Obama: "sulla marijuana troppa confusione, va trattata come le sigarette e l’alcol" La Stampa, 1 dicembre 2016 Il presidente uscente in un’intervista a Rolling Stone: è una questione di salute pubblica, come per il tabacco e gli alcolici. L’uso della marijuana dovrebbe essere trattato come quello delle sigarette o dell’alcol: parola di Barack Obama, che nell’ultima intervista rilasciata a Rolling Stone definisce l’attuale situazione a macchia di leopardo in Usa "insostenibile". Con alcuni stati che l’hanno legalizzata solo per fini terapeutici, altri che l’hanno totalmente depenalizzata anche per un uso ricreativo e altri ancora che continuano a vietarla. "Sono stato sempre molto chiaro sul fatto che la mia convinzione è che bisogna scoraggiare l’abuso di ogni sostanza", afferma Obama, "e non sono uno che crede che la legalizzazione sia una panacea. Ma credo anche che trattare l’uso della marijuana come una questione di salute pubblica, così come facciamo per il tabacco o per gli alcolici, è il modo più intelligente per affrontarla". Il presidente americano uscente non è nuovo ad affermazioni del genere. Già nel 2014, sempre in un’intervista a Rolling Stone, aveva affermato come la marijuana sia meno pericolosa dell’alcol "in termini di impatto sul singolo consumatore". Più di recente in una intervista in Tv aveva quindi auspicato l’apertura di un serio dibattito su come rivedere le leggi sugli stupefacenti a proposito della marijuana. Obama in questa ultima intervista a Rolling Stone ha però ricordato come cambiare le leggi federali sulla marijuana non è un atto che un presidente può fare da solo, unilateralmente: "Normalmente la classificazione di queste sostanze viene fatta legislativamente o attraverso la Drug Enforcement Administration", l’agenzia federale che si occupa dei regolamenti sugli stupefacenti. Siria. "Aleppo, un enorme cimitero", colpita la popolazione in fuga di Marta Serafini Corriere della Sera, 1 dicembre 2016 L’allerta dell’inviato Onu. Oltre 50 mila sfollati e 45 morti nelle ultime ore. Cinquantamila sfollati. E "un gigantesco cimitero". L’inviato Onu Stephen ÒBrien descrive così Aleppo Est mentre le truppe di Assad, sostenute da Mosca, stringono la morsa sulla città. L’ennesimo disperato appello del Palazzo di Vetro viene pronunciato poco dopo che un ristretto gruppo di civili è riuscito a raggiungere il quartiere di Jabal Badro. Arrivano sui pullman scassati, a piedi, aggrappati agli ultimi camion rimasti. È un esodo - raccontano i testimoni ancora in grado di comunicare con l’esterno dietro anonimato - fatto di donne e bambini che si trascinano dietro le poche coperte che sono riusciti a recuperare, o di anziani trasportati sulle sedie a rotelle. I bombardamenti e il fuoco dell’artiglieria governativa non danno tregua nemmeno per un istante. Secondo l’Aleppo Media Center, piattaforma di reporter della città, i colpi sono arrivati anche sui civili in fuga. Il risultato è che sono ventuno i morti solo nella mattinata di ieri, tra cui due bambini nel sobborgo di Jubb al-Qubbeh tuttora tenuto dai ribelli. Ma c’è chi parla di più vittime, almeno 45. "La situazione di chi scappa è disperata", ha sintetizzato Pawel Krzysiek, portavoce del Comitato Internazionale della Croce Rossa. "Posso a malapena immaginare quanto difficili debbano essere le condizioni di chi arriva in quartieri dove non ci sono operatori umanitari, e dove i rifornimenti scarseggiano o sono addirittura inesistenti". Gli addetti della Mezzaluna Rossa confermano di non essere in grado di operare a Est, perché malgrado le reiterate richieste, non hanno tuttora il benché minimo accesso. "Tutti gli ospedali e gli ambulatori medici sono fuori uso", spiega via WhatsApp al Corriere Khaled dei White Helmets, la protezione civile siriana candidata al premio Nobel per la pace. Nessun corridoio umanitario, per chi fugge, dunque. Solo la speranza di non essere in strada nel momento sbagliato. E resta chiusa la Castello Road, via determinante per l’approvvigionamento dei ribelli. In una lettera firmata dal presidente della Coalizione Nazionale siriana, che raccoglie le forze dell’opposizione, e inviata al Consiglio di Sicurezza, che in serata si è riunito in seduta straordinaria al Palazzo di Vetro su iniziativa della Francia appoggiata dal Regno Unito, il moderato Anas al-Abdeh ha sollecitato "l’adozione di passi immediati e definitivi per proteggere i civili". Nel frattempo un centinaio di miliziani di Jabhat Fatah al Sham (ex Al Nusra) sarebbero arrivati nella periferia ovest di Aleppo, provenienti da Idlib, enclave jihadista colpita duramente dai raid. Poche forze, dunque, che difficilmente riusciranno a contrastare l’avanzata di Assad. "Fanno combattere anche i bambini di 12 anni", denuncia Mosca mentre conferma l’invio di 200 artificieri per sminare i quartieri riconquistati. La tensione sale anche più a sud. Due missili israeliani hanno colpito all’alba Damasco, senza causare vittime. Se Gerusalemme si è mantenuta fin qui lontana dalla guerra civile in Siria, è chiaro come preoccupi l’azione degli Hezbollah libanesi, che stanno operando a sostegno del regime di Assad. "Risolveremo la situazione di Aleppo entro l’anno", ha dichiarato viceministro degli Esteri russo, Mikhail Bogdanov auspicando ulteriori contatti con Donald Trump e dicendosi soddisfatto di quanto detto fin qui dal presidente eletto. Da Ankara, invece, il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, dopo una telefonata con il presidente russo Vladimir Putin, ha ribadito la necessità di un cessate il fuoco. Ma, oltre le parole, nulla di più. Per la pace Aleppo deve ancora aspettare. Egitto. Approvata le legge che consegna le Ong ad al-Sisi di Chiara Cruciati il manifesto, 1 dicembre 2016 Egitto. Martedì sera il parlamento ha votato a favore della nuova normativa che crea un’autorità speciale per monitorare le organizzazioni non governative. Dentro ci sono Ministero degli Interni e servizi segreti. Martedì al Cairo si è tenuta la conferenza di presentazione dell’esibizione Tuttofood, prevista a Milano a maggio. Durante l’incontro, rivolto alle compagnie egiziane interessate a fare business in Italia nel campo agricolo e alimentare, il responsabile del Dipartimento economico dell’ambasciata di Roma Tombaccini - riporta il quotidiano finanziario egiziano Amwal Al Ghad - ha detto che il volume delle importazioni italiane nel paese nordafricano è aumentato del 3% nei primi otto mesi dall’anno, raggiungendo i due miliardi di dollari. Un aumento che potrebbe apparire minimo, ma che è il segno che i rapporti tra Il Cairo e Roma non sono stati realmente intaccati dalla scomparsa di Giulio Regeni. Le misure che l’opinione pubblica italiana si aspettava non sono state adottate e l’Egitto continua sereno a fare quanto ha fatto nei tre anni di governo golpista. La campagna di repressione che permea l’intera società civile è tanto ampia da venir legalizzata: dopo la legge anti-terrorismo che ha permesso l’incarcerazione di migliaia di oppositori e presunti tali, martedì è stata la volta della controversa normativa sulle Ong. È stata approvata in via definitiva dal parlamento un giorno dopo il via libera del Consiglio di Stato che l’ha definita in linea con la costituzione. Immediata la reazione delle organizzazioni per i diritti umani che temono ora un pugno di ferro ancora più pesante sull’attività delle associazioni locali, "dirottata" dal governo che la pone sotto il proprio controllo. Viene infatti introdotto con un decreto presidenziale un nuovo ente, l’Autorità per la regolamentazione delle organizzazioni non governative, che monitorerà associazioni straniere e nazionali che ricevono fondi dall’estero (ovvia forma di sopravvivenza per le Ong locali in tutto il mondo). L’Autorità darà il via libera all’apertura di nuove Ong e alla registrazione delle quasi 50mila già esistenti, tutte obbligate a "lavorare secondo i piani statali". Per limitare la creazione di nuove organizzazioni, la nuova legge prevede un capitale minimo di partenza di 50mila sterline, 2.600 euro, un’imposizione che - dicono i critici - taglia le gambe alle iniziative dei giovani e indipendenti. Prima era di 10mila sterline, 530 euro. Tra i membri dell’Autorità ci saranno rappresentanti dei ministeri di Esteri, Difesa, Giustizia e Interni, ma anche dei servizi segreti e della Banca Centrale. Tutti insieme a controllare nel dettaglio cosa fanno e cosa dicono le voci critiche del paese. Nel caso non piaccia, sono previste per i responsabili dell’Ong pene carcerarie da uno a 5 anni e multe da 50mila sterline a un milione (da 2.600 a 53mila euro). Tra le attività bandite ci sono anche le ricerche sul campo e i sondaggi non autorizzati dal governo, un lavoro che è sempre stato svolto dalle organizzazioni più note, quelle che si occupano da anni di monitorare gli abusi dello Stato, le torture, le scomparse. I loro preziosi report potrebbero trasformarsi in uno sbiadito ricordo. Gambia. Alla vigilia del voto le carceri si riempiono di oppositori globalist.it, 1 dicembre 2016 890.000 i gambiani chiamati domani alle urne. Il presidente Yahya Jammeh corre per un quinto mandato. A sfidarlo Adama Barrow scelto dalle forze d’opposizione. Una volta il presidente del Gambia, Yahya Jammeh, disse che avrebbe governato il Paese per un miliardo di anni, a Dio piacendo. Ma domani gli elettori potrebbero riservargli un’amara sorpresa, dopo anni di difficoltà economiche e di dura repressione che hanno spinto migliaia di giovani a tentare la pericolosa traversata del Mediterraneo per raggiungere l’Europa. Dall’inizio dell’anno sono oltre 10.000 i gambiani giunti sulle coste italiane, il primo gruppo per numero di migranti rispetto alla popolazione del Paese, pari a poco meno di due milioni. Per la prima volta in 22 anni di governo, il Capo dello Stato si troverà infatti ad affrontare un’opposizione compatta. Nessuna manifestazione o corteo sarà autorizzato dopo la proclamazione dei risultati delle elezioni presidenziali in programma in Gambia domani: lo ha detto alla vigilia del voto Yahya Jammeh, salito al potere a Banjul con un golpe nel 1994. "In questo Paese non accetteremo manifestazioni" ha sottolineato il capo di Stato, in carica da 22 anni, rieletto già tre volte a dispetto delle accuse di arresti arbitrari e violazioni dei diritti umani. Per la prima volta a sfidarlo sarà un candidato scelto eccezionalmente e di comune accordo dalle principali forze di opposizione. Adama Barrow, questo il suo nome, si è detto "sicuro di vincere con ampio margine". Adama Barrow è del Partito democratico unito (Pdu), e intravede dopo molti anni la possibilità di successo, nonostante le organizzazioni per la difesa dei diritti umani denuncino un clima d’intimidazione. Il presidente del Gambia Yahya Jammeh si presenterà per un quinto mandato e all’inizio della campagna elettorale ha fatto appello perché il voto sia libero. Come spiega l’Internazionale riprendendo l’Afp: "Dal 1994 Jammeh governa con il pugno di ferro questo piccolo stato anglofono dell’Africa occidentale, incuneato nel territorio del Senegal, tranne che per l’affaccio sull’oceano Atlantico". "Gambiani, questa è l’unica possibilità che abbiamo per cacciarlo, se falliamo dovremo morderci le mani. Questa è l’unica possibilità che abbiamo, dobbiamo sfruttarla al massimo", ha detto Barrow in un comizio tenuto venerdì scorso. Terzo candidato alla massima carica dello Stato è un ex deputato del partito di governo, Mama Kandeh, che si è presentato alla guida di una nuova formazione politica. Ma la situazione in Gambia è complicata. Spiega l’Afp che "Jainaba Bah, la moglie dell’ex viceministro degli esteri Mamadou Sajo Jallow, che è in carcere da settembre e non ha ancora potuto incontrare un avvocato, racconta di non aver mai ricevuto spiegazioni per l’arresto del marito. "Secondo me è stato arrestato solo perché ho sostenuto pubblicamente il Pdu", spiega Bah che ora si è rifugiata in Svezia. "Non dormo più", aggiunge ricordando le storie di torture e di abusi nelle prigioni gambiane, in particolare in quella di Mile Two, dov’è rinchiuso suo marito". Non solo. Anche secondo l’attivista per i diritti delle donne Isatou Touray, all’opposizione, la storia di Jallow è solo una delle tante in Gambia. "È la regola sotto il regime di Jammeh: non si può prevedere se un ministro continuerà a essere in carica fra tre mesi, o perfino fra tre giorni", ha detto Touray a un comizio, denunciando i metodi dittatoriali del potere. Interrogate dall’Afp, le autorità non hanno risposto a queste accuse. Nessun margine di manovra per i politici. Chi prende le distanze dal governo sa che è rischioso. Afp posta l’esempio di Tina Faal, che ha espresso il suo sostegno al Gdc, il Partito del congresso democratico del Gambia (Gdc), creato da Mama Kandeh, anche lui candidato alle presidenziali. Tina Faal "era stata nominata come deputata in parlamento dallo stesso presidente Jammeh" spiega l’Afp. "Dopo essere stata rinchiusa in carcere lo scorso luglio con l’accusa di corruzione, ad agosto è stata riarrestata per tre settimane senza spiegazioni, anche se aveva ottenuto la libertà condizionale". Ma anche i mezzi d’informazione vicini al governo non sono al sicuro. Il direttore generale della radiotelevisione di stato Grts, Momodou Sabally, e il corrispondente specializzato in agricoltura, Bakary Fatty, sono stati arrestati. L’accusa è di aver mandato in onda immagini di militanti dell’opposizione nel momento in cui era prevista una trasmissione su un progetto agricolo lanciato dalla moglie di Jammeh. Sabally è stato accusato di crimini economici, abuso d’ufficio e diffusione di false notizie. Continua l’Afp: "Nonostante la minaccia costante degli arresti, da aprile molte persone osano esprimersi più liberamente per chiedere riforme politiche, in particolare dopo le manifestazioni scatenate dalla morte in carcere di un oppositore, Solo Sandeng. A luglio il capo del Pdu, Ousainou Darboe, è stato condannato insieme ad altre trenta persone per riunione illegale. "Il nostro leader Ousainou Darboe è stato arrestato a pochi metri da qui", racconta un giovane che indossa una maglietta con i colori dell’opposizione. "Molti temono che anch’io sarò arrestato, ma non me ne importa niente".