Quei "cattivi per sempre" che non potranno mai essere padri Il Mattino di Padova, 19 dicembre 2016 La società più triste è quella che non crede nel cambiamento. Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, raccontando il suo incontro con gli assassini di suo padre, con poche frasi essenziali spiega perfettamente il senso della parola "cambiamento": "Incontrare quelle persone mi ha aiutato moltissimo. Nella mia mente vorticavano solo immagini mostruose, pensavo a qualcosa di onnipotente, di enorme. Invece ho capito che avevano un volto e avevano delle storie. Che erano esseri umani. E che sarei stata più felice se fossero riusciti a cambiare e a fare qualcosa di buono per la società". Ma nel nostro Paese ci sono uomini entrati in carcere giovanissimi per reati legati alla criminalità organizzata, che devono vivere senza speranza, e che non potranno mai essere padri, perché a loro, dopo venti e più anni di galera, non è consentito cambiare, e siamo noi, "cittadini perbene", a non credere in questo cambiamento, e magari lo facciamo anche nascondendoci dietro le ragioni delle vittime. Il nome di mia figlia è… Mia figlia ha l’intelligenza, i lineamenti delicati e lo splendido sorriso della madre; di me sembra abbia preso gli occhi, la statura e forse il carattere. Lei è un piccolo miracolo della natura, è fatta di puro sentimento. È il frutto di un amore che ha dovuto sopportare inenarrabili difficoltà, ostacoli, sofferenze, ma portato avanti con ogni fibra del corpo e ogni parte dell’anima. Lei è la mia ragione di vita, mi riempie di amore e quando con le sue mani mi accarezza il viso porta la pace nel mio cuore e mi regala tutte quelle piccole grandi gioie che solo una figlia riesce a donarti. È così che la immagino nei momenti di maggiore difficoltà, quando nell’isolamento di una cella, il vuoto tenta di risucchiarmi nella sua spirale senza fondo. È così che la immagino quando cerco di dare un senso alla mia vita trascorsa e da trascorrere in carcere per non so quanto tempo ancora. Non lo so perché la condanna all’ergastolo non prevede una fine che sia certa e non soggetta al caso, alla fortuna di capitare davanti ad un Giudice che la pensi in un certo modo anziché in un altro. Come è successo ad alcuni miei compagni, condannati all’ergastolo anch’essi, e che oggi possono varcare la soglia del carcere in entrambi i sensi. Uscendo per qualche giorno all’anno, oppure per qualche ora tutti i giorni, perché la libertà totale un condannato all’ergastolo non potrà averla mai. Eppure anche la piccola possibilità di uscire un poco, un pezzo alla volta, è un ritornare alla vita; rende possibile esercitare il ruolo di padre, perché è genitore chi i figli li cresce; rende possibile avere un figlio e non solo immaginarlo, come sono costretto a fare io. Che sono entrato in carcere pochi mesi dopo aver compiuto diciotto anni, nel lontanissimo freddo novembre del 1988 e dal carcere, salvo una parentesi nel 1989, non sono più uscito, neanche per un’ora. E sono passati ventotto anni. Ventotto anni… Mi hanno chiesto di scrivere sull’essere genitori in carcere, ma io non posso scrivere nulla che non sia immaginato, che non abbia letto o sentito raccontare. Perché come spesso mi fanno notare io non conosco nulla della vita reale. Ho vissuto solo quella finta esistenza che può offrirti l’isolamento di una cella, come quella che ho trascorso in regime di 41-bis dell’ordinamento penitenziario, il cosiddetto "carcere duro". Ero in carcere da qualche anno quando fu introdotto nell’ordinamento tale regime speciale, era il luglio del 1992, avevo ventuno anni, e non feci niente per meritarmelo. Bastava essere imputato di taluni delitti. Mi spedirono nell’isola di Pianosa, tra tutte le carceri mi capitò la peggiore (seppi poi), tanto per non farmi mancare nulla. Un regime che mi fu applicato fino al 2005, quando ne uscii definitivamente dopo l’intervento di ben quattro diversi Tribunali di sorveglianza, che negli anni avevano dichiarato l’illegittimità di tale misura, ma non era bastato. Ne uscii con la barba, trentaquattro anni d’età, tante esperienze carcerarie ma nulla, nulla di vita reale. Poiché anche la vita familiare, l’unico cordone ombelicale col mondo esterno, l’avevo vissuta con un’ora di colloquio al mese, dietro un vetro blindato che impediva non solo di toccarsi ma anche di sentire la voce, che veniva filtrata e distorta dagli apparecchi telefonici. I miei racconti e ricordi non possono essere che di carcere. Il 1992… era sotto il periodo natalizio, come ora, quando scrissi a casa di evitare di fare il colloquio per il mese di dicembre, per non far affrontare un così lungo viaggio ai familiari, al quale si aggiungeva l’incognita dell’impossibilità di attracco del traghetto per il mare mosso, poiché sull’isola di Pianosa c’era di tutto, abusi, violenza, indifferenza per la dignità umana, ma non c’era un porto. Volevo evitare di fare colloquio lì, perché mi dava fastidio sopportare il denudamento per accedere alla sala delle visite nonostante si effettuasse con il vetro divisorio. Cercavo di convincere i miei familiari di spostare l’incontro con l’argomento che ci saremmo visti a febbraio, quando sarei sceso a Lecce per un processo. E pensavo di esserci riuscito, quando, il 31 dicembre mi sentii chiamare a colloquio. E per la prima volta mi preoccupai che fosse successo qualcosa. Arrivai e trovai mio padre che mi disse che non avevano intenzione di rinunciare a quell’ora mensile che ci era concessa. Questa è la genitorialità di cui posso parlare io. Quella che ho vissuto da figlio, dei sacrifici che i genitori sono pronti a fare, delle preoccupazioni che mostrano per un figlio. L’altra genitorialità, è quella sperata, quella che sogno di realizzare con la persona che mi ama e aspetta. Il suo nome, se sarà una bambina, è già deciso, non potrà essere altro che quello di Speranza. Claudio C. Il bene degli affetti Mi chiamo Antonio, non sono un padre, non ho avuto la fortuna di esserlo e sicuramente è il più grande rimpianto della mia vita. Vorrei comunque raccontare la mia esperienza di zio. Ho sempre cercato di evitare l’argomento in passato, ma poi l’esperienza mi ha suggerito che non ci si libera da una responsabilità evitandola, bensì attraversandola. Si impara a farlo col tempo, però. Fra qualche mese affronterò il 22° anno di prigione. In questi anni sono nati tre nipotini. Il loro ingresso nella vita ha capovolto la mia esistenza, riordinando le mie priorità. Il più grande l’incontrai per la prima volta nel 2005, mentre ero in regime di 41 bis, da dietro un vetro divisorio a tutta altezza. Fu un momento unico, arricchito dal suo dolcissimo sorriso. Osservavo semplicemente quell’esserino di pochi mesi che non stava fermo un momento. L’ora passò in un istante come se il tempo fluttuasse nel vuoto. "Avvicinalo al vetro - dissi a mia sorella". Dalla piccola fessura della finestrella ricavata nel vetro annusai la sua manina. Era il mio modo di conservare quel ricordo. Non mi accontentai di lasciare il privilegio della bellezza agli occhi, ma la volli riporre nell’anima. Due anni dopo mi fu revocato il 41 bis. Qualche giorno dopo arrivò il tempo del colloquio, erano trascorsi 10 anni dall’ultima volta che avevo accarezzato il viso di un mio familiare. L’emozione di tenere in braccio il mio nipotino era qualcosa che mi rimescolava la vita. Lo vidi entrare nella sala, mi fermai qualche istante, stordito per l’agitazione, ma mentre mi avvicinavo a lui iniziavo ad avvertire che il mio corpo cominciava a rilassarsi. Adesso lo tenevo tra le mie braccia. Non ci ricordiamo mai perché i figli sono belli. Diamo per scontato che ci sono. Ci sono ma non li apprezziamo fino in fondo, viviamo così, leggeri, ma i figli non sono solo belli per se stessi, ma perché diventeranno presto nuova vita. Qualche anno dopo all’improvviso qualcosa ruppe l’armonia. Quel giorno lo ricordo bene, perdo mia madre. Ma non c’è il tempo per piangere o per stare raggomitolati con la testa tra le ginocchia come per proteggere il dolore. Per questo particolare evento il Magistrato di Sorveglianza mi concede un permesso di necessità. Non faccio in tempo a vedere la mia mamma per l’ultima volta, ma sono a casa. Sono stremato, è stato un viaggio doloroso, ma devo affrontare questi attimi, tra poco scioglierò il dolore nell’intenso abbraccio della mia famiglia. Questo ricordo è la fotografia di quel momento, dei volti, delle emozioni, del mio nipotino che mi viene appoggiato dolcemente tra le braccia. È il mio secondo nipote e lo incontro per la prima volta. Felicità e dolore si mescolano per un istante. In pochi minuti capisco che devo essere parte della vita di quel bambino, devo tramandargli quello che i suoi nonni non hanno potuto trasmettergli. È una grande responsabilità quella che devo assumermi. Riesco solo a pensare chi devo essere per i miei nipotini: uno zio che racconto loro solo favole o una presenza importante. So che sarà impegnativo, ma sarà una grande opportunità comunicare con loro rimanendo me stesso. Incontrerò spesso i loro volti mentre cresceranno. Quel bambino mi ha appena mostrato, inconsapevole, cos’è la bellezza della vita. In quel momento lo tocchiamo tutti, io, i suoi genitori, mia madre da lassù, ognuno a modo suo e insieme riusciamo a viverla per qualche attimo prezioso. Faccio un respiro profondo, ho bisogno di godermi questo istante, sarà breve, ma è una sensazione che avrei voluto vivere come padre e provare ogni straordinario momento che solo un figlio riesce a regalarti. Antonio D. Agevolazioni fiscali e contributive per chi assume detenuti di Cristian Valsiglio Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2016 Le scarse risorse finanziarie a disposizione dello Stato obbligano il legislatore a proporre agevolazioni sempre più selettive volte ad aiutare in alcuni casi specifiche tipologie di contratti (es. L. 208/2015 e L. 190/2014 o il contratto di apprendistato), in altri particolari aree geografiche (si pensi alle aree del mezzogiorno), e in altri ancora particolari soggetti ritenuti in difficoltà (si pensi agli incentivi collegati all’assunzione di personale disoccupato, in mobilità, con disabilità). Rientrano in quest’ultima tipologia di agevolazione gli incentivi previsti a favore del personale detenuto. Per tale tipologia di soggetti il legislatore ha previsto sia benefici fiscali sia benefici contributivi. Relativamente alle agevolazioni di carattere fiscale, l’art. 3 della L. n.193/00 recante le "Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti" prevede la concessione di un credito di imposta a favore delle imprese che assumono, per un periodo di tempo non inferiore a 30 giorni, lavoratori detenuti o internati, anche ammessi al lavoro esterno, ovvero semiliberi provenienti dalla detenzione, o che svolgono nei loro confronti attività formative. Il beneficio è riconosciuto sotto forma di credito d’imposta, per ciascun lavoratore assunto, nella misura di: - 520,00 euro mensili per ciascun lavoratore assunto tra i detenuti o internati, anche quelli ammessi al lavoro all’esterno ai sensi dell’art.21 della L. n.354/75, nei limiti del costo per esso sostenuto; - 300,00 euro mensili per ciascun lavoratore assunto tra i detenuti in semilibertà e internati semiliberi, nei limiti del costo per esso sostenuto. Tali importi sono da riproporzionare in base alle giornate di lavoro prestate e in caso di assunzione con contratto part-time. Il credito di imposta spetta per i medesimi importi per ciascuna tipologia di assunzioni alle imprese che: - svolgono attività di formazione nei confronti di detenuti o internati, anche ammessi al lavoro all’esterno o di detenuti o internati ammessi alla semilibertà, a condizione che detta attività comporti, al termine del periodi di formazione, l’immediata assunzione dei detenuti o internati formati per un periodo minimo corrispondente al triplo del periodo di formazione, per il quale hanno fruito del beneficio; - svolgono attività di formazione mirata a fornire professionalità ai detenuti o agli internati da impiegare in attività lavorative gestite in proprio dall’Amministrazione penitenziaria. L’agevolazione fiscale non spetta alle imprese che hanno stipulato convenzioni con enti locali aventi per oggetto attività formativa. L’agevolazione fiscale spetta a condizione che le aziende beneficiarie: - assumano detenuti o internati, anche ammessi al lavoro esterno, ovvero alla semilibertà, con contratto di lavoro subordinato per un periodo non inferiore a 30 giorni; - corrispondano ai lavoratori oggetto dell’assunzione un trattamento economico non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di lavoro; - stipulino una convenzione con la Direzione dell’Istituto Penitenziario ove sono ristretti i lavoratori assunti. Il credito d’imposta spetta per tutta la durata dello "status" di detenuto e anche per un periodo successivo alla cessazione dello stato detentivo pari a: - 18 mesi, nel caso di lavoratori detenuti ed internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro all’esterno; - 24 mesi, nel caso di detenuti ed internati che non abbiano fruito della semilibertà o del lavoro esterno. Per ottenere il beneficio fiscale è necessario predisporre apposita istanza che dovrà necessariamente autorizzata dagli Enti competenti. L’azienda rientrante nell’elenco dei soggetti beneficiari dell’agevolazione fiscale ex art. 3 della L. n.193/00 ha diritto di utilizzare il credito di imposta maturato secondo le modalità indicate dall’Agenzia delle Entrate con il provvedimento n. 153321/15 e la risoluzione n. 102/15. In sostanza a decorrere dall’1.1.2016 l’utilizzo in compensazione di tale credito di imposta può essere effettuato presentando il modello F24 esclusivamente attraverso i servizi telematici dell’Agenzia delle Entrate (Entratel e Fisconline) mediante il nuovo codice tributo "6858". Sotto l’aspetto contributivo, l’art. 8 del D.M n. 148/14 prevede che le aliquote complessive della contribuzione dell’assicurazione obbligatoria previdenziale ed assistenziale sulla retribuzione corrisposta dal datore di lavoro ai detenuti o internati, agli ex degenti di ospedali psichiatrici giudiziari e ai condannati ed internati ammessi al lavoro esterno sono ridotte nella misura del 95%. Analogamente al credito di imposta, lo sgravio contributivo spetta per tutta la durata dello "status" di detenuto e anche per un periodo successivo alla cessazione dello stato detentivo pari a: - 18 mesi, nel caso di lavoratori detenuti ed internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro all’esterno; - 24 mesi, nel caso di detenuti ed internati che non abbiano fruito della semilibertà o del lavoro esterno. L’agevolazione contributiva, essendo legata alla retribuzione del lavoratore, viene concessa solo per il periodo lavorato e non anche per quello di formazione. Le aziende per aver diritto all’agevolazione contributiva dovranno presentare alla sede INPS competente un’apposita domanda, a cui dovrà essere allegata la convenzione stipulata con la Direzione dell’Istituto Penitenziario. Le aziende ammesse all’agevolazione riceveranno dall’Inps il codice autorizzazione 4V e usufruiscono dello sgravio contributivo indicando sul modello Uniemens alla voce "tipo contribuzione" il codice "79", avente il significato di "lavoratori ammessi ai benefici ex L. n. 193/00. La magistratura indaga tutti. Adesso forse si può riformarla di Renato Farina Libero, 19 dicembre 2016 Virginia Raggi è una sprovveduta, d’accordo. Giuseppe Sala è più pratico di aziende che di politica, ok. Ma che c’entra la magistratura? Tintinnar di manette a un passo dalla sindaca, avviso di garanzia per il sindaco. Ci domandiamo: com’è che brave persone, riconosciute da tutti per tali, appena varcato il portone del municipio si ritrovano ad essere gente sospetta, presunti criminali o complici di mascalzoni? Tra l’altro non sono nemmeno dei partiti di centrodestra, ritenuti dagli intellettuali e dai loro giornali le fogne del Paese. Due ipotesi per spiegare questi casi. 1) Allora è vero. Sono tutti ladri, non si salva nessuno, di quanti si dedicano alla politica. La vocazione a servire il popolo (eufemismo) coincide con la propensione al furto. Hanno ragione allora le bande di cosiddetti Forconi che hanno cercato di arrestare "in nome della legge" fuori da Montecitorio il povero ex deputato Osvaldo Napoli. Non c’è bisogno di esaminare prove per condannare un politico, il fatto stesso che si avventuri nel territorio della cosa pubblica equivale alla confessione di essere un farabutto. Dunque costoro hanno in realtà applicato una specie di protocollo di sicurezza vigente in Italia. Equivale al proverbio cinese per cui bisogna picchiare la moglie tutte le sere. Anche se non sai perché, lei invece lo sa. 2) Allora è vero. Tutti ladri quanti calcano la scena pubblica? I politici sì. No, i magistrati no, sono gli unici perfetti, incontaminati, senza macchia e al di sopra di ogni sospetto. Sono la casta angelica che combatte la casta diabolica. Sala e Raggi sono stati scelti dai cittadini e provenivano dalle fila della società civile, non dalle assemblee di partito. Finché stavano al posto loro, anche la magistratura li riteneva probi cittadini. È bastato si spostassero dalle liste di avvocati e manager a quelle di candidati a cariche pubbliche, con la sventura di essere scelti dal pueblo, ed ecco che sono bastati pochi mesi per scoprire ogni tipo di magagne in loro e intorno a loro. Vuol dire che tutti gli italiani sono criminali nel momento in cui fanno politica? O - ecco la seconda ipotesi - tali sono per la magistratura, che non tollera concorrenza? 2bis) La seconda ipotesi ha un corollario. Perché la magistratura si comporta così? Una volta si accontentava di sistemare per le feste i personaggi in odore di berlusconismo e affini. Oggi toglie ai cosiddetti moderati di centrodestra anche il privilegio di gridare alla persecuzione politica, messa in piedi dalle toghe rosse per favorire i compagni di sinistra. Ora invece tocca anche a loro. Sinistra, Cinque Stelle... Come direbbe Hemingway, per chi suona la campana? Per tutti. E quando suona? Sempre. Il significato di questo rastrellamento universale da parte delle Procure significa forse che vogliono esaminare chi tra i partiti è il più propenso a dichiarare la propria fiducia nella magistratura inducendoli a posizionarsi davanti a loro con benevolenza e manica larga? Può essere, tutto può essere. Noi qui ci permettiamo una sommessa osservazione. Di certo l’unico potere forte esistente oggi in Italia è il terzo, quello giudiziario, essendo dotato di manette, mentre gli altri, legislativo ed esecutivo, non ne dispongono, se non nel senso che piuttosto frequentemente gliele mettono ai polsi. Ma la politica ha avuto da sempre la possibilità di fare le leggi. Di sistemare i contenziosi. Di regolare i confini tra i campi e le relazioni tra i rispettivi affittuari (nessuno in una democrazia è padrone dell’orto: lo zappa su mandato del popolo). E allora perché non lo ha fatto? Da decenni governi di ogni colore hanno rinunciato al proprio diritto-dovere, lasciando mano libera alla magistratura, convinti che in una gara a chi le lisciava meglio il pelo, le toghe si sarebbero fatte molto pignole e severe con gli avversari. Craxi riuscì a far approvare il referendum per la responsabilità civile e personale dei magistrati. Poi fu indotto a ripensarci, e capitolò con una legge che restituiva alla corporazione il salvacondotto universale. Non gli servì molto. Dopo, per ricatti o per viltà, nessuno ha saputo porre freno allo strapotere dei magistrati, i quali si espandono non per cattiveria ma per una legge fisica: se non c’è argine i fiumi esondano. Così nessuna forza politica ha posto mano alla questione della giustizia. In due sensi: 1) non liquidando dalle liste le persone famose per una certa attitudine alla destrezza delle mani; 2) evitando una riforma che mettesse al riparo da azioni spregiudicate di taluni pm, e come minimo che riparasse da conseguenze drammatiche città e governi travolti non da condanne chiare e inoppugnabili ma dal semplice rullare di tamburi delle Procure e della stampa alloro servizio. Di certo votando no il Paese ha bocciato le riforme istituzionali. Ma siamo sicuri che non sia proprio possibile una regolamentazione chiara, che assegni a ciascun potere (legislativo, esecutivo, giudiziario) nell’ambito della vita comune, compiti e limiti così da impedire tentazioni dittatoriali? Oltre a un tavolo per la legge elettorale, ce ne vorrebbe uno per la riforma della giustizia. E - visto che il rischio per chi ci prova è forte - si accumulino per i temerari forti quantitativi di arance: in galera sì, ma almeno con la spremuta. Tante leggi a metà del guado. Il punto sulle riforme in tema di giustizia in cantiere di Claudia Morelli Italia Oggi, 19 dicembre 2016 Pensionamento dei magistrati e assunzioni del personale amministrativo, processo penale e delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, portale unico delle vendite immobiliari e magistratura onoraria, completamento della riforma forense con buone chance di vedere la luce. Riforma del processo civile e riforma delle Adr ancora troppo lontane dal traguardo. La politica è l’arte del possibile. In questo particolare contesto politico parlamentare il brocardo di Bismark torna utile, soprattutto sui temi della giustizia e l’agenda del nuovo governo. La conferma di Andrea Orlando al ministero della giustizia nel governo Gentiloni prelude a una sostanziale conferma degli impegni già assunti. Al netto tuttavia delle incognite parlamentari che in senato, come oramai è noto, rendono a ostacoli il percorso legislativo. Il premier durante il primo consiglio dei ministri lo scorso 14 dicembre ha chiesto a ciascun ministro di stilare la lista delle cose da fare nei prossimi quattro mesi. Facciamo allora il punto tra provvedimenti fermi in parlamento che richiedono nuova spinta (e appoggio politico) o che sono pronti per essere varati, avvalendoci anche delle considerazioni raccolte presso lo stesso ministero di via Arenula. È al sicuro la disciplina delle unioni civili. Pur se in piena crisi di governo, il guardasigilli ha fatto sapere il 7 dicembre scorso di aver mandato a palazzo Chigi i tre decreti delegati di attuazione della legge sulle unioni civili, vero fiore all’occhiello del governo Renzi. Manca solo il visto di Gentiloni e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Almeno una riforma "epocale" è al sicuro. Il processo penale. La riforma, ferma in aula in senato, è stata tra quelle citate dal premier Gentiloni nel suo discorso per la fiducia alla camera che necessitano di un nuovo slancio. Il ministro Orlando ha sempre dichiarato di volerla portare a termine, da ultimo proprio a ridosso del referendum, nonostante il provvedimento sia noto alle cronache per via della norma sulla prescrizione che "congela" i termini per un anno e mezzo in primo grado ed altrettanto in secondo grado. I magistrati dell’Anm avrebbero voluto una sospensione lunga, soprattutto per i reati contro la p.a.; gli avvocati penalisti considerano, al contrario, una "inciviltà giuridica" allungarne i tempi. Confortati in questo dai partiti del centro-destra e da Ala di Verdini. Domani in senato ci sarà la conferenza dei capigruppo che dovrà definire il calendario dei lavori del prossimo mese e la riserva verrà sciolta. Il provvedimento in realtà contiene molte altre novità (per esempio l’inasprimento delle pene per i reati contro il patrimonio; o il concordato sui motivi di appello) e diverse deleghe: quella per la riforma delle intercettazioni e quella di riforma dell’ordinamento penitenziario per valorizzare il fine rieducativo della pena (obiettivo caro al guardasigilli) facendo leva sulle misure alternative, sui benefici penitenziari, sul lavoro, sulla giustizia riparativa; quella di riforma del codice penale. Insomma, anche se Orlando ottenesse l’approvazione dal Parlamento poi dovrebbe correre per attuare tutte le deleghe e non farle decadere insieme con il Governo Gentiloni. Ed allora è probabile che scelga di portare in fondo la riforma del sistema penitenziario. Sempre al senato, in commissione giustizia, è ferma ormai da mesi la riforma del processo civile in funzione di una maggiore efficienza. Anche questo provvedimento contiene deleghe, come quella per la riforma del tribunale delle imprese, la istituzione del tribunale della famiglia, oltre a tante norme per razionalizzare la procedura dal I grado (introducendo di regola il rito semplificato di cognizione nelle cause di competenza del giudice monocratico) a quello di Cassazione. Il guardasigilli la inserirà della propria lista di priorità ma i tempi di "gestazione" potrebbero essere lunghi. Del disegno complessivo di riforma faceva parte il riordino organico del sistema di istituti di risoluzione alternativa delle controversie. La commissione ministeriale presieduta da Guido Alpa concluderà i lavori entro l’anno. Ma anche in questo caso sarà difficile che il ministero riesca a portare in fondo la riforma. In parlamento sono in attesa altri provvedimenti quali il cyberbullismo, la legalizzazione della cannabis, il riconoscimento del cognome della madre e la riforma fallimentare, alla camera. C’è poi da risolvere il "pasticciaccio" del pensionamento dei magistrati, per riportare l’età pensionabile a 72 anni, come l’ex premier aveva promesso all’Anm di Piercamillo Davigo. Questa modifica potrebbe trovare spazio nel decreto mille proroghe di fi ne anno, con una soluzione "a scalare" per i prossimi cinque anni mantenendo il principio della pensione a 70 anni; insieme con il riabbassamento a tre anni del tempo di permanenza nell’ufficio di prima nomina dei magistrati. Questo per mettere riparo alle previsioni del decreto legge 168. Certamente vedrà la luce la nuova pianta organica degli uffici giudiziari, dopo che il Csm ha espresso circa un mese fa il parere formale. E altrettanto certamente il guardasigilli si impegnerà per realizzare quella immissione di nuove risorse amministrative, da una parte stabilite con il dm del 7 dicembre scorso per lo scorrimento di 200 unità da aggiungere alle 800 già bandite e dall’altra prevista dalla legge di bilancio 2017 (altre 1000). Poi ci sarebbero i regolamenti di attuazione di norme già in vigore, soprattutto sul fronte della innovazione informatica. In cantiere c’è la pubblicazione del decreto ministeriale istitutivo del portale unico per le vendite immobiliari, dopo la sperimentazione che però finisce a giugno 2017; poi ci sarebbe il dm relativo alla formazione unificate dei professionisti delegati dal giudice alle vendite. È pronto e alla firma del ministro il decreto delegato di attuazione della riforma della magistratura onoraria. Ancora in attesa è l’attuazione dell’articolo 17 del decreto delegato sulla mediazione 28/2010 che prevede l’agevolazione tramite il credito di imposta per la indennità versata dalla parte in mediazione; agevolazione già funzionante per la negoziazione assistita. Poi vi sono i regolamenti di attuazione delle riforma dell’ordinamento forense: quello sulla istituzione delle camere arbitrali e di conciliazione presso i consigli degli ordini, che deve essere adottato entro il 7 gennaio (la camera ha appena licenziato il parere) e quello elettorale; anche se sulla questione è al lavoro il senato con il disegno di legge Falanga. In arrivo un decreto ministeriale sulla sinteticità degli atti processuali di Marzia Paolucci Italia Oggi, 19 dicembre 2016 Un decreto ministeriale imminente in nome dei criteri capisaldi di "sinteticità e chiarezza" degli atti processuali dalla cassazione all’appello che recepisca le indicazioni emerse dalle conclusioni del gruppo di lavoro sulla sinteticità degli atti processuali. Così il ministro della giustizia Andrea Orlando ha promesso il primo dicembre scorso introducendo il lavoro del team istituito il 9 febbraio scorso e presieduto dal capo dipartimento per gli affari di giustizia Antonio Mura. "Un lavoro", descriveva, "che non si limita a indicare delle possibili norme che lo concretizzino ma anche prassi amministrative e delle scelte di assetto organizzativo, punto sul quale intendo procedere immediatamente con un decreto ministeriale che recepisca le indicazioni del gruppo". Il gruppo di lavoro - Il gruppo oltre a formulare le sue proposte conclusive, ha ribadito l’importanza di una serie di provvedimenti a cascata: dall’inserimento nelle aule universitarie dell’insegnamento dell’argomentazione e del linguaggio giuridico all’assunzione degli elementi di sinteticità e chiarezza come parametri di valutazione nei concorsi in magistratura o per l’accesso alla professione forense e come elementi di valutazione professionale. In tre mesi di lavoro, lavorando prima in sede plenaria e poi in sottogruppi di lavoro per il civile e per il penale, l’organo ha fatto un’approfondita ricognizione del quadro normativo nazionale e sovranazionale allargando successivamente la sua analisi dagli atti giudiziari della cassazione ai provvedimenti di merito formulati in appello. Sono stati così ascoltati anche i presidenti delle corti d’appello di maggiori dimensioni per capire se siano state avviate prassi e sperimentazioni innovative in materia. Le proposte - Ne sono uscite due tipi di proposte, quelle in ambito tecnico-operativo e quelle normative. Le prime prevedono una iniziale raccolta di protocolli processuali condivisi dall’avvocatura con la corte di cassazione e con molti uffici giudiziari di merito sulle prassi virtuose anche in materia di redazione di atti processuali, la realizzazione di una banca-dati delle buone prassi e la condivisione dell’idea con il consiglio nazionale forense e con il consiglio superiore della magistratura, rendendo disponibili gli atti del proprio lavoro. Le proposte dal punto di vista normativo riguardano invece interventi legislativi per l’enunciazione del principio generale di sinteticità che valga tanto per gli atti di parte quanto per i provvedimenti giudiziari, norme che promuovano la chiarezza e l’organicità in ogni atto di parte o del giudice e norme che richiedendo anche sinteticità nell’oralità, assegnino maggiori poteri alla conduzione dell’udienza conformando relazione introduttiva e discussione ai canoni della concentrazione e della specificità. Atti sintetici e quindi chiari - "Nel nostro ordinamento processuale, abbiamo una tendenza alla scrittura enciclopedica di atti e sentenze particolarmente prolissi", ha dichiarato Orlando in apertura di conferenza. Il ministero ha quindi regolamentato i principi di sinteticità e chiarezza in una scheda diffusa in sede di presentazione e sul sito istituzionale del ministero: "devono riguardare tutti gli atti processuali per onorare il principio del giusto processo che diventa lo scopo finale: per le esigenze che impone la tecnologia tradotta in processo civile telematico, per l’archiviazione in banche-dati, per la ricerca mediante registri informatici". Ed ecco ribaditi i principi: "Sinteticità e chiarezza dove il primo è il mezzo per raggiungere la seconda che è il fine perché la sovrabbondanza allunga il processo e i termini ragionevolmente contenuti, auspicati dall’art. 111 costituzione, saltano inesorabilmente, danneggiando nel proprio diritto di difesa, la parte che ha ragione e ugualmente la collettività che ha interesse a vedere realizzarsi una giustizia giusta anche dal punto di vista dei costi che questa richiede. Chiarezza, il fine da raggiungere, non solo per rendere tutto più rapido ma per dare qualità alla risposta stessa, eliminando le argomentazioni ripetitive e rendendo tutto più fruibile, anche in considerazione del fatto che ogni atto della fase precedente riverbera su quella successiva". Reati tributari, denunce giù del 62% in due anni di Cristiano Dell’Oste Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2016 Crollano le denunce per i reati tributari. Dalle dichiarazioni dei redditi fraudolente agli omessi versamenti, quest’anno le notizie di reato ricevute dalle procure della Repubblica sono avviate a scendere a un terzo di quelle del 2014. Segna -62,6% il trend rilevato dal Sole 24 Ore del lunedì su un campione di 28 uffici del pubblico ministero, con dati aggiornati al 30 settembre scorso. La variazione è legata alla riforma entrata in vigore il 22 ottobre 2015, che ha innalzato le soglie di evasione al di sopra delle quali scatta il penale. Una modifica che contribuisce a spiegare il minore afflusso di segnalazioni inviate ai magistrati dall’agenzia delle Entrate e dalla Guardia di finanza. Guardando ai singoli reati, crollano in particolare le denunce per gli omessi versamenti dell’Iva (-83,5% rispetto al 2014) e delle ritenute certificate (-76,8%), ma la variazione è forte anche tra le omesse dichiarazioni (-49,9%) e quelle infedeli (-44,2%). Sul territorio - Pur con qualche differenza, la tendenza pare abbastanza omogenea sul territorio. A Roma le denunce per entrambe le tipologie di omesso versamento appaiono più che decimate (-96%). Forte calo pure a Napoli. Anche a Bari i mancati pagamenti dell’Iva scendono dell’88% rispetto al 2014 e quelli delle ritenute del 72 per cento. "La variazione è dovuta all’innalzamento delle soglie di punibilità previsto dal Dlgs 158/2015. Peraltro, gli effetti delle nuove norme sono stati anticipati rispetto al 22 ottobre, poiché gli uffici dell’agenzia delle Entrate, da cui arriva la maggior parte delle segnalazioni, non hanno inoltrato le denunce di reato per le quali era previsto l’innalzamento delle soglie", spiega il procuratore aggiunto di Bari, Lino Giorgio Bruno. Sensazioni confermate dalla Procura di Napoli. "Quelli sugli omessi versamenti sono accertamenti di carattere formale, nel senso tecnico del termine, che hanno subito un fisiologico calo dovuto all’innalzamento delle soglie", dice Fausto Zuccarelli, procuratore aggiunto a Napoli. Oltre che con un crollo delle segnalazioni, il 2016 è destinato a chiudersi con un netto calo delle richieste di archiviazione da parte del Pm (-38% rispetto al 2014). La tendenza può sembrare in contraddizione con la restrizione del perimetro dell’illecito penale, ma trova due spiegazioni. Da un lato, il calo è comunque meno marcato di quello delle notizie di reato. Dall’altro, se si scompone il totale del 2015, si vede tutto l’effetto della riforma: sulle 5.700 archiviazioni chieste dalle 28 procure esaminate, più di 2.400 si sono concentrate tra il 22 ottobre e la fine dell’anno. Prescrizione e voluntary - Peraltro, già prima dell’aumento delle soglie di punibilità, le denunce per reati tributari avevano un tasso di archiviazioni strutturalmente molto alto, frutto anche del numero elevato di prescrizioni, spesso inevitabili già nella fase della indagini preliminari quando i verificatori intervengono ad anni di distanza dalla violazione. Senza dimenticare fattori specifici come la copertura penale di cui ha beneficiato chi ha aderito alla voluntary disclosure. Come spiega Antonio De Nicolo, procuratore di Udine, gli uffici finanziari hanno trasmesso alle Procure le dichiarazioni dei contribuenti che hanno aderito alla voluntary, ma i magistrati hanno archiviato tutti i fascicoli relativi alle dichiarazioni di emersione (che nel caso specifico di Udine erano stati rubricati come dichiarazioni infedeli). Indagini più accurate - La riduzione dei fascicoli pare aver avuto una ricaduta positiva sull’attività delle procure. È vero che quest’anno le richieste di rinvio a giudizio sono in calo rispetto al 2014, ma se le si confronta con il 2015 si nota un aumento del 5,8 per cento. Come se alcuni Pm avessero potuto meglio concentrare la propria attività. "La riforma ha restituito efficienza e quindi credibilità al sistema", conferma Ciro Santoriello, coordinatore del gruppo diritto penale dell’economia della Procura di Torino. Nel capoluogo piemontese quest’anno, in parziale controtendenza con i dati generali, si sono registrate impennate sia tra i rinvii a giudizio, sia tra le archiviazioni. "Inoltre - prosegue il magistrato - l’innalzamento delle soglie per i reati di versamento ha migliorato la qualità umana del nostro lavoro: è iniquo dover portare alla sbarra chi non è riuscito a pagare al pari di chi attua una frode fiscale. A mio parere, il mancato versamento non dovrebbe essere mai sanzionato penalmente". Rileva Lino Giorgio Bruno, procuratore aggiunto di Bari: "È anche aumentato il livello qualitativo delle denunce. Noi seguiamo con particolare interesse i reati tributari che possono rivelarsi spia di altre fattispecie molto più gravi, come ad esempio il riciclaggio". La giurisprudenza precisa diritti e doveri delle nuove famiglie di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2016 No all’espulsione dello straniero convivente di fatto di una cittadina italiana. Imposta ridotta per la donazione fatta al partner gay con cui è stata stipulata un’unione all’estero. Possibilità per il giudice di intervenire a tutela dei figli minori se la coppia omosessuale si separa. Sono alcuni dei punti fermi messi negli ultimi mesi dai giudici sui diritti e i doveri all’interno delle famiglie non fondate (per forza o per scelta) sul matrimonio. In linea con l’Europa - Si tratta di pronunce emesse sulla scorta della legge 76 del 2016, nota come legge "Cirinnà" (dal cognome della senatrice del Pd prima firmataria del Ddl), in vigore dal 5 giugno 2016. La legge ha introdotto le unioni civili, aperte alle coppie gay, e le convivenze di fatto, che possono legare sia i partner omosessuali che quelli eterosessuali. Con le unioni civili l’Italia - ammonita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso "Oliari e altri" del 2015, per mancata applicazione dell’articolo 8 della Cedu circa il diritto di "ogni persona" al "rispetto della propria vita privata e familiare" - si è allineata agli standard europei. Stipulandole, i partner omosessuali possono conquistare diritti e doveri quasi uguali a quelli riconosciuti a marito e moglie, con alcune importanti eccezioni: non sono previsti l’obbligo di fedeltà né la possibilità di adottare. In realtà, alcune soluzioni codificate dalla legge 76 erano già state anticipate dalla giurisprudenza: ad esempio, con il riconoscimento dell’obbligo di contribuire ai bisogni familiari. Ora, sull’onda della legge 76, la Cassazione (sentenza 44182 del 18 ottobre 2016) ha ritenuto la convivenza certificata con una cittadina italiana condizione ostativa all’espulsione disposta come misura alternativa alla detenzione. E, basandosi sull’equiparazione tra matrimonio e unione civile, la Ctr Liguria (sentenza 575/1/2016) ha esteso alla donazione fra gay uniti civilmente l’applicazione dell’imposta agevolata per i familiari. La stepchild adoption - Si tratta di tematiche che a volte dividono i giudici. È accaduto, ancora di recente, sulla stepchild adoption, l’adozione del figlio del partner, consentita dall’articolo 44 della legge 184/83 all’interno delle coppie sposate, ma non estesa dalla legge 76 alle unioni civili. L’articolo 1, comma 20, della legge 76 precisa che "resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti". La disposizione lascia aperta la strada dell’adozione "in casi particolari", che i giudici hanno a volte battuto per ammettere la stepchild adoption anche all’interno delle coppie gay. Un orientamento confermato dalla Cassazione che, da ultimo con la sentenza 12962 del 22 giugno 2016, ha sancito il diritto di una donna di adottare la bimba partorita e riconosciuta dalla compagna, nata con la fecondazione assistita. La decisione è fondata, spiegano i giudici, sul comma 1, lettera d), dell’articolo 44 della legge 184/83, che consente anche a chi non è sposato di adottare un minore "quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo". Per la Cassazione si tratta di una clausola di chiusura, che permette l’adozione non legittimante - a prescindere dallo stato di abbandono del minore - per tutelare il legame del minore con la persona che, in concreto, se ne prenda cura. Al contrario, il Tribunale per i minorenni di Milano ha dettato - con le sentenze 261 e 268, rese il 17 e il 20 ottobre 2016, in relazione a domande promosse, rispettivamente, dalla compagna gay e dal convivente etero delle madri di due minori - linee restrittive sull’adozione del figlio del partner. In entrambi i casi, i giudici, prendendo le distanze dalla Cassazione, hanno escluso che, in mancanza di uno stato di abbandono materiale o morale dei minori, si possa disporre l’adozione in favore del compagno, omo o etero, del genitore. Questo perché le ipotesi elencate nell’articolo 44 della legge 184/83 in tema di adozione in casi particolari sono tassative e, perciò, insuscettibili di interpretazione estensiva o analogica. Lazio: dalla Regione 24 milioni in 3 anni per progetti di inclusione sociale omniroma.it, 19 dicembre 2016 Un investimento triennale di 24 milioni di euro per percorsi individuali di inclusione sociale attiva di giovani senza lavoro, giovani con disabilità, donne vittime di violenza e detenuti a fine pena. È lo stanziamento messo a bando dalla Regione Lazio nell’ambito del Por Fse 2014-2020 e destinato a soggetti del Terzo settore per la realizzazione di progetti di presa in carico, orientamento e accompagnamento. Si stima che a beneficiarne saranno tra le 2000 e le 2500 persone in particolari condizioni di vulnerabilità e fragilità sociale. Nel dettaglio:- 10 milioni saranno destinati a giovani adulti tra i 18 e i 35 anni con disabilità e/o disagio psichico medio-grave; - 8 milioni andranno a giovani tra i 18 e i 29 anni in condizioni di disagio economico e sociale (inoccupazione persistente, famiglie multiproblematiche, condizioni a rischio per uso stupefacenti e micro criminalità); - 2 milioni finanzieranno i progetti rivolti a donne vittime di violenza prese in carico dalla rete antiviolenza e avviate verso percorsi di autonomia; - 2 milioni andranno a detenuti in via definitiva tra i 16 e i 24 anni senza aggravanti di pericolosità sociale a 6/9 mesi dal fine pena, mentre altri 2 milioni sosterranno il recupero sociale di detenuti con gli stessi requisiti ma un’età compresa tra i 25 e i 54 anni. I percorsi individuali dureranno 12 mesi, impegneranno le persone beneficiarie per 600 ore e dovranno prevedere una presa in carico personalizzata, un percorso di orientamento e couseling, progetti individualizzati di accompagnamento formativo e lavorativo, sostegno psicologico e familiare e laboratori di sviluppo delle competenze personali". Lo comunica, in una nota, la Regione Lazio. "Con questo bando la Regione dà un’opportunità importantissima di riscatto a chi vive ai margini delle nostre comunità e fa fatica più degli altri a costruirsi un futuro - dichiara l’assessore regionale alle Politiche sociali, sport e sicurezza Rita Visini - Penso soprattutto - continua l’assessore - ai giovani che la crisi ha tagliato fuori dal mondo del lavoro, e in particolare a quelli che hanno una disabilità, una condizione ancora più limitante nella difficile ricerca di un occupazione. È soprattutto per loro che mettiamo in campo risorse importanti per progetti che puntano all’autonomia personale e all’occupabilità". "Con questo bando - conclude Visini - facciamo un altro grande passo avanti verso un welfare incentrato non più sull’assistenzialismo ma sull’inclusione attiva, sulla formazione delle competenze e sull’empowerment". L’avviso pubblico è suddiviso in tre annualità: i primi 9,6 milioni sono messi a bando subito (il termine per la presentazione delle proposte è il 15 febbraio 2017), altri 9,6 milioni verranno messi a disposizione nel 2018 (la finestra di presentazione dei progetti andrà dal 19 febbraio al 9 marzo 2018) mentre i rimanenti 4,8 milioni andranno a bando tra il 18 febbraio e l’11 marzo 2019. Ciascun progetto presentato da soggetti del Terzo settore potrà avere un importo massimo di 250mila euro. La documentazione è integralmente disponibile sui siti socialelazio.it e lazioeuropa.it. Trento: "idoneo ad essere rinchiuso", ma dopo 4 giorni in carcere si è suicidato di Donatello Baldo ildolomiti.it, 19 dicembre 2016 L’avvocata: "Era alienato, non diceva una parola". La decisione del giudice sulla base di una valutazione psicologica. L’esperto: "Arretratezza del sistema giudiziario e carcerario". Forse non doveva finire dietro le sbarre L. S., ma qualcuno ha deciso così: in carcere, in attesa di giudizio. Un’attesa che il ragazzo non poteva sopportare: si è impiccato nell’infermeria della casa circondariale di Spini tre giorni fa. Trentacinque anni, aveva incendiato un distributore di benzina a Rovereto e i carabinieri l’hanno acciuffato subito. Da quel momento non ha detto una parola, forse non ha nemmeno parlato con lo psichiatra che l’ha visitato e assicurato sulla sua idoneità ad essere rinchiuso in una cella. Idoneo ad essere rinchiuso, il giudice ha deciso per il carcere sulla base del parere di una psichiatra. L’avvocata del ragazzo ha cercato di fare del suo meglio: "Era un processo per direttissima - afferma - l’ho visto solo un’ora prima e con me non ha detto una sola parola, era alienato, nel suo mondo". Gli ho chiesto in mille lingue il consenso per proporre al giudice il ricovero in una struttura psichiatrica, in un luogo protetto". Un consenso che non arrivava mai, mentre il processo celebrava il suo rito e il giudice si avviava alla decisione. "Mi sono rimessa al giudice", racconta l’avvocata, avrebbe deciso lui. Poi d’improvviso una parola: "Sì, una casa di cura". L’avvocata l’ha fatto presente al magistrato, la volontà del suo assistito si era espressa. Per un attimo era uscito dal torpore, da quel mondo tutto suo: era forse una richiesta d’aiuto, l’istinto alla sopravvivenza. Ma la decisione del giudice non ne ha tenuto conto: l’ha detto lo psichiatra, è idoneo al carcere. Talmente idoneo che si è impiccato con un lenzuolo attorno al collo. "Avevo già l’appuntamento in agenda per andarlo a trovare in carcere lunedì - ci spiega l’avvocata - per verificare il suo stato di salute, per cercare ancora una volta di parlare con lui, di capire cosa fosse successo, perché avesse deciso di incendiare un distributore". "Avrei richiesto una perizia psichiatrica, un rito abbreviato subordinato ad una consulenza di parte per approfondire il suo stato psicologico", afferma la legale. "Agli atti, nella relazione della psichiatra si parlava di pericolo per azioni di autolesionismo". Perché non ci voleva molto per capire che il gesto di quel ragazzo non era frutto di chissà quale intento criminale, l’analisi della mens rea la poteva fare una qualunque persona di buon senso: non stava bene, la sua mente era da tempo disturbata, nei suoi occhi chissà quale film colorava la realtà. La storia di L. è segnata dal disagio sociale che nel tempo ha intaccato la sua capacità psichica. Cosa nota ai servizi e alle strutture pubbliche di assistenza sociale e psichiatrica. "Nel 1996 L. aveva soltanto 15 anni ed era ospite in una cooperativa sociale", ricorda un esponente del Terzo settore. "Fin dall’adolescenza era seguito dai servizi - afferma con certezza - e la sua storia psicologica era nota e seguita dal reparto di psichiatria dell’Azienda sanitaria". Una persona malata dev’essere curata, tutelata, assistita, difesa, aiutata. Non dev’essere rinchiusa. "Dovrebbe essere così - afferma Marco Rigamo, profondo conoscitore del sistema carcerario italiano, conduttore per lungo tempo della trasmissione su Radio Sherwood "Liberi Tutti" - ma questa è la dimostrazione dell’arretratezza del sistema giudiziario e carcerario del nostro Paese". "In carcere, prima della sentenza, ci vai per tre motivi: il pericolo di reiterazione del reato, il per pericolo di fuga o l’inquinamento delle prove". Ma per L. poteva forse sussistere la prima ipotesi, "ma nel caso di un soggetto con disturbi psichici ci sono altre strade, ad esempio il Trattamento sanitario obbligatorio". Che non è stato fatto, che poteva assicurare il ricovero in una struttura psichiatrica, che poteva addirittura consentire ai sanitari di sbarrare la porta al paziente per impedirgli di essere pericoloso per gli altri. O pericoloso con se stesso, come affermato nella relazione agli atti del processo per direttissima: "Poteva essere isolato in una stanza in cui fosse impossibile suicidarsi, stanze che nelle strutture psichiatriche ci sono, dove non c’è nessuno strumento che possa essere utilizzato per procurarsi la morte, nemmeno un filo, nemmeno un gancio a cui attaccare un lenzuolo come ha fatto Luca", ci assicura uno psicologo che le strutture psichiatriche le frequenta per lavoro. "Poteva essere sedato, messo nella situazione di non soffrire e reagire in modo sconsiderato". "L’averlo assegnato al carcere è la semplificazione estrema - torna a spiegare Rigamo - la scorciatoia che dimostra che spesso non si approfondisce la situazione". La macchina burocratica che si mette in moto è questa: "Intanto ti metto in carcere e poi si vedrà - spiega Rigamo - se ne discuterà all’udienza successiva su quale sia la capacità psichica dell’imputato". Ma se ne sarà accorto anche il giudice che non stava bene. "Ma la strada classica è ormai questa, la galera come unica soluzione. I soggetti deboli, che hanno bisogno di cure, dovrebbero essere tutelati dallo Stato. Ma spesso sono quelli che soccombono, senza capacità di difendersi, con situazioni di disagio, sole e abbandonate a se stesse". Ma ci sono psicologi e psichiatri chiamati a dare un parere. "Ci sono professionisti preparati e non voglio entrare nel fatto specifico che non conosco, ma spesso ci sono anche dei burocrati, perché la struttura carceraria è un’istituzione burocratica che necessita di queste figure per scaricare responsabilità". Forse non ha senso cercare il colpevole, o forse sì. Sarà comunque la magistratura a indagare su se stessa. Sarà lo psichiatra a fare i conti con se stesso. Un ragazzo di 35 anni si è impiccato nel carcere di Trento. Non era idoneo al carcere, perché nel carcere si è ucciso. Brescia: spazi angusti e sovraffollamento. "Chiuderò il carcere di Canton Mombello" di Lilina Golia Corriere della Sera, 19 dicembre 2016 Francesca Gioieni, direttrice del carcere: "Potrebbe chiudere a breve". Canton Mombello è sotto organico per i educatori e agenti penitenziari (attivi 180 su 220). "Canton Mombello potrebbe chiudere a breve". La provocazione della direttrice della casa circondariale di Brescia, Francesca Gioieni, è stata raccolta dalle delegazioni del Partito Radicale e delle Camera Penali di Brescia, in visita al carcere cittadino. "Lo sfogo ha origine dalla mancanza assoluta di contabili", ha spiegato Emiliano Silvestri, arrivato a Brescia con Marco del Ciello. Una difficoltà non da poco per la gestione delle struttura, nella quale risultano sotto organico figure fondamentali come gli educatori (in servizio se ne contano 3 su una pianta organica di 6)e gli agenti penitenziari (attivi 180 su 220). Scarsità di personale e sovraffollamento - Sotto esame la vivibilità di Canton Mombello. "È una struttura da 189 posti, si contano invece 303 presenze, con indici di sovraffollamento pari a 160,33",ha spiegato ancora Silvestri. E conseguente è la riduzione degli spazi. Tutto sta nella differenza tra lordo e netto e nell’interpretazione delle direttive della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo cui si è appellata la Cassazione nella recente sentenza a proposito dello spazio minimo vitale stabilito in 3 metri quadrati calpestabili a persona, al netto degli arredi (letti, armadi, tavoli, sedie). "A Canton Mombello nelle 150 celle, 172 detenuti hanno a disposizione, secondo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, tra i tre e i quattro metri quadrati (lordi), 130 detenuti ne hanno a disposizione oltre quattro (sempre lordi)". Area colloqui (con anche uno spazio per le visite dei figli dei detenuti e una postazione Skype), infermeria, cucine e biblioteca non hanno particolari problemi. Ma si tratta sempre di una struttura vetusta (del 1914), ma "siccome da tempo si ventila la chiusura del carcere, non si investe per la manutenzione". Secondo la portavoce delle Camere Penali, Stefania Amato "il lavoro (tra i primi strumenti di riabilitazione)rappresenta una delle note più dolenti. Non ci sono progetti per i quali, come accadeva fino a febbraio, all’interno del carcere siano attivate linee produttive da aziende esterne". Bari: "Rompere il silenzio", un progetto sperimentale contro pedofilia e violenza sessuale wereporter.it, 19 dicembre 2016 Combattere la pedofilia e la violenza sessuale sulle donne non solo attraverso la prevenzione ma anche cercando di intervenire sugli autori di reato con un metodo scientifico che contribuisca ad abbattere i tassi di recidiva. In particolare: individuando i profili psicologici e prevenendo recidive con il potenziamento della capacità di interazione interpersonale e l’integrazione socio-lavorativa dei detenuti autori di violenza. Si chiama "Rompere il silenzio" ed è il progetto sperimentale attuato nella Casa circondariale di Bari e nella sezione di reclusione di Altamura, con piani di intervento locali della Città Metropolitana per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della violenza contro le donne e i minori. Presentato questa mattina all’Università degli studi Aldo Moro, nel corso del convegno coordinato da Tommaso Minervini, responsabile dell’area educativa dell’istituto di pena pugliese, il progetto è stato finanziato dall’ex provincia di Bari (Città Metropolitana) con l’obiettivo "di attuare un servizio nelle carceri e nel territorio di una presa in carico specialistica del maltrattante". Dodici mesi di informazioni, valutazioni psicodiagnostiche, colloqui individuali, gruppi psico-educazionali e attivazione delle competenze lavorative sono serviti per arrivare a individuare i profili dei detenuti sex offender (autori di reati legati alla sfera sessuale), conoscerli meglio durante la loro detenzione, cercando di assicurare un approccio integrato e globale. "Siamo partiti - spiega la direttrice del carcere di Bari, Lidia De Leonardis - dal concetto che per impostare un trattamento rieducativo è necessario attivare un intervento specialistico e individualizzato, con un approccio multidisciplinare. La ricerca sperimentale è stata effettuata per i detenuti sex offender giudicabili (a Bari) e per i condannati ristretti nelle sezioni a custodia attenuata di Altamura. Il lavoro, su un campione di 70 persone, è durato più di un anno e mezzo ed ha coinvolto equipe composte da professionisti specializzati in questo tipo di reati: psicologo-psicoterapeuta, psicodiagnosta, assistente sociale, educatore, esperto della comunicazione". "La riflessione da cui parte il progetto - si legge nel report conclusivo - è che esistono misure che sostengono le vittime di violenza, ma non c’è, ad oggi, una presa in carico globale del maltrattante. Che individuo si restituisce al territorio dopo il carcere? Quali comportamenti saranno messi in atto da parte di un maltrattante che rientra nel contesto di provenienza? "Rompere il silenzio" intende fornire una risposta a queste domande, sperimentando un modello possibile di trattamento in carcere di tipo psicoterapeutico e psicosociale, individuale e in gruppo, utile a favorire l’acquisizione di consapevolezza del reato, promuovere processi di cambiamento e che ambisca a essere efficace nella prevenzione della recidiva". L’attività sperimentale, inserita nel progetto d’Istituto della Casa circondariale di Bari, aveva preso il via con la convenzione sottoscritta a gennaio 2015 con la cooperativa Comunità S. Francesco e la cooperativa Crisi e aveva tra gli obiettivi principali quello di definire i profili psicologici e prevenire eventuali recidive attraverso il potenziamento della capacità di interazione interpersonale e l’integrazione socio-lavorativa dei detenuti autori di violenza. "Si tratta - sottolinea Lidia De Leonardis - di una delle prime sperimentazioni attuate in Italia in ambito penitenziario. L’approccio poggia le fondamenta nella collaborazione con enti e istituzione del territorio affinché si arrivi a un trattamento specializzato: è necessario distinguere i detenuti non solo per tipologia di reato ma come persone e garantire loro un trattamento scientifico. Occorre intercettare il disagio, il bisogno e la patologia attraverso figure altamente competenti". I risultati del progetto. "Per i condannati - racconta la direttrice del carcere di Bari - sembrano esserci in equipe di osservazione buone risposte di rivisitazione in chiave critica del reato. È necessario lavorare sulla differenza tra aspetto clinico e trattamento, distinguendo le situazioni compulsive o di natura clinica. In ogni caso dobbiamo intercettare, dove c’è, un problema non solo psichico ma anche psichiatrico. Lo studio offre un ampio spettro di profili criminali: da chi presenta un disturbo psichiatrico, alla persone che hanno un disordine di condotta, a chi è antisociale: tutta una serie di sfaccettature che vanno analizzate. L’approccio è molto importante: prima c’è la conoscenza dell’individuo, del disturbo, della patologia, fatta con misuratori sia psichiatrici che psicologici e con strumenti di indagine tra i più innovativi. Poi l’intervento dello psicologo e dello psicoterapeuta che sono molto importanti per indurre il soggetto al riconoscimento del proprio reato, ma anche per una presa di consapevolezza del dolore e della sofferenza che si è inferta alla vittima. La risposta è stata vincente ed ha registrato una forma di accrescimento e di empatia nei confronti della vittima". "Gli attuali trattamenti - conclude la direttrice - non sono sufficienti, sono superati. Molte volte ciò che manca nelle carceri per quanto riguarda parte del trattamento penitenziario è la figura di esperti di determinati settori: professionisti che dovrebbero affiancare l’operatore penitenziario. Oggi siamo arrivati a questi risultati proprio perché sono state convogliate associazioni specializzate. Non bisogna aprire solo a esperienze occasionali ma trovare il modo di far partecipare al trattamento l’esterno qualificato". Un auspicio? "Valorizzare le buone prassi che devono trasformarsi in collaborazioni costanti: parte del trattamento deve essere assunta dagli enti locali attraverso i Piani di zona. La programmazione deve coinvolgere tutta la società che non solo si deve occupare della prevenzione ma anche della cura e del trattamento di queste persone, insieme a noi". Sondrio: pasta "a mani libere", i prodotti senza glutine dal carcere alla tavola di Giuseppe Maiorana La Provincia di Sondrio, 19 dicembre 2016 I detenuti a Sondrio avranno la possibilità di apprendere una professione spendibile all’esterno. Mussio: "Persone che hanno bisogno di un’opportunità". Un’iniziativa dalla doppia valenza sociale: da un lato, infatti, offre ai detenuti della casa circondariale di Sondrio l’opportunità di apprendere un lavoro e avere, così, delle competenze, una volta tornati uomini liberi; dall’altro metterà a disposizione delle persone celiache e non solo un prodotto di qualità da consumare e gustare sulla propria tavola. Sono questi i significati della realizzazione, all’interno della casa circondariale di Sondrio, di un laboratorio artigianale per la produzione di pasta, fresca e secca senza glutine: i macchinari sono già stati installati e nelle prossime settimane si procederà a tenere alcuni corsi di formazione per i detenuti (ma anche per alcuni operatori della cooperativa Ippogrifo) e a gennaio, al più tardi a febbraio, si comincerà con la produzione vera e propria di pasta senza glutine con l’obiettivo di commercializzarla e, perché no, farla finire sulla tavola della casa circondariale di Sondrio e magari anche di altri istituti penitenziari in tutta Italia. L’iniziativa è stata voluta dalla cooperativa Ippogrifo, nell’ambito del progetto "A mani libere" presentato alla fondazione Pro Valtellina, e dalla direzione della casa circondariale di Sondrio con il contributo economico del Bim. della stessa fondazione Pro Valtellina e di Confartigianato Sondrio e l’apporto di Marcello Ferrarini, chef e massimo esperto di cucina senza glutine, di Aic (Associazione italiana celiachia) e de "La Veronese", azienda che fornirà la materia prima per la produzione della pasta senza glutine. "Questo progetto - ha evidenziato Paolo Pomi, presidente della cooperativa sociale Ippogrifo - si pone in linea con il cambiamento di questi ultimi anni per la nostra cooperativa, quello di fare impresa sociale: fare con qualcuno e farlo per qualcun altro.È positivo il fatto di partire insieme alla comunità e alle istituzioni e mettere insieme varie competenze. L’iniziativa costituisce un’ulteriore possibilità di formazione e lavoro, un’occasione di riscatto in cui le persone faranno la differenza con la loro creatività" "Molti dei nostri detenuti - ha aggiunto la direttrice della casa circondariale di Sondrio Stefania Mussio - sono qui anche a causa di enormi carenze culturali e formative, ma vogliamo insegnare e far capire loro che in realtà hanno grandi risorse in ognuno di loro, risorse che devono scoprire. Hanno solo bisogno almeno di un’opportunità e, se ce l’hanno, sono più motivati e contenti. Noi, nel proporre questo laboratorio siamo spinti dalla serietà, dalla competenza e anche dalla passione e per questo ringrazio tutti e spero che continui questa unione virtuosa e questo vivo sostegno nel creare iniziative con le quali c’è un ritorno umano quasi filiale". Il referente del progetto che interesserà i detenuti della casa circondariale è Alberto Fabani, mosso in prima persona anche perché alcuni componenti della sua famiglia sono celiaci. All’impasto sotto la guida di uno chef A guidare i detenuti del carcere di Sondrio nella produzione e preparazione della pasta senza glutine ci sarà Marcello Ferrarini, celiaco e chef affermato e che, proprio per queste sue due "caratteristiche" conosce bene e promuove ancora meglio la necessità di mangiare alimenti sicuri, ma che siano anche e soprattutto di qualità. "Quello che potrebbe essere considerato un disagio, cioè la celiachia - ha sottolineato Ferrarini - con autostima e lungimiranza si può trasformare in opportunità così come è stato per me. Io cerco di creare un piatto buono e condivisibile anche da chi mangia insieme a una persona celiaca La tavola è un aspetto centrale della nostra cultura e quando ci sediamo a tavola lo facciamo per condividere. Questo progetto, poi, per i detenuti è un’opportunità di crescere e ci permette di lavorare in un aspetto sociale, cioè l’apprendimento di competenze che poi potranno servire in futuro, per un altro aspetto sociale, cioè dare alimenti di qualità e sicuri alle persone celiache". E proprio per valorizzare l’esperienza dei detenuti e la loro creatività l’intenzione di Marcello Ferrarini è quella di accompagnare la produzione della pasta senza glutine allo studio di alcune ricette, ispirate magari alle esigenze religiose e culturali dei detenuti stessi. "L’alimentazione è inclusione - ha fatto eco Isidoro Pierulli, presidente di Aic Lombardia - e fa piacere si stia diffondendo questa sensibilità del senza glutine, visto che il celiaco, invece, spesso a tavola si sente escluso. Bisogna capire che la celiachia non è una moda, ma una necessità e mangiare bene è l’unica medicina. Per questo come associazione ci impegneremo affinché ci sia la garanzia che l’alimento prodotto nel laboratorio sia buono, idoneo per il celiaco, e realizzato con tanta fantasia. Cercheremo inoltre di dare una mano per far sì che venga anche rispettata la norma per la quale, su richiesta, anche in carcere si deve garantire un pasto senza glutine". Infine, Massimiliano Carraro, uno dei titolari de "La Veronese", azienda che fornirà la materia prima peraltro realizzata senza addensanti chimici, ha ricordato la duplice valenza dell’iniziativa che sta "nell’offrire una possibilità di riscatto a chi ha vissuto una situazione non favorevole, ma anche nel trasmettere, attraverso la produzione della pasta, il valore umano della fatica". Padova: i detenuti-pasticcieri della Giotto sfornano 85 mila panettoni di Felice Paduano Il Mattino di Padova, 19 dicembre 2016 I 50 detenuti-pasticcieri dei Due Palazzi, che stanno lavorando dalle 4 di mattina sino a tarda sera, coordinati dal maestro artigiano Matteo Florean, hanno messo in produzione 85.000 panettoni. Il classico dolce di Natale è in vendita in negozi e locali pubblici a 25 euro. Innanzitutto in via Eremitani, dove si trovano i due principali punti di riferimento del Consorzio Sociale Giotto, guidato da Nicola Boscoletto. Come succede dal 2005, ossia dall’anno in cui il laboratorio dolciario è stato trasferito all’interno del carcere, il primo panettone, da cinque chilogrammi, è stata inviato al Papa. Altri sono stati inviati a Matteo Renzi, in ricordo della visita ai detenuti-pasticcieri effettuata il 28 settembre, a Sergio Mattarella e ad altri rappresentanti delle istituzioni. Migliaia quelli inviati all’estero, Svizzera, Malta, Germania, Giappone, Madagascar, Usa e Taiwan ad italiani che vivono e lavorano lontano dall’Italia. Varie le tipologie: alla pesca, all’albicocca, alla lavanda. O quelli alla birra dedicati alla fondazione Margherita Coletta, che raccoglie fondi per costruire un asilo nido in Burkina Faso; alla Famiglia per l’Accoglienza e per l’Affido; all’Irea Morini di Este che aiuta i disabili. In questo caso gli assistiti atestini hanno realizzato le confezioni. "Il lavoro dei 50 pasticcieri dietro le sbarre procede a ritmo sostenuto" spiega Nicola Boscoletto "D’altronde non produciamo solo panettoni a Natale e colombe a Pasqua. Il laboratorio sforna qualsiasi tipo di dolce. A cominciare dai 2.000 croissant che vengono prodotti ogni giorno per i bar. I pasticcieri lavorano sempre con grandi passione e professionalità. Per i detenuti non è un semplice lavoro ma un’occasione per riscattare il passato e prepararsi ad un’occupazione quando usciranno dal carcere". Milano: shopping solidale con i regali realizzati dal Consorzio delle carceri di Paola Perfetti milanoincontemporanea.com, 19 dicembre 2016 Il "Consorzio Viadeimille" si trova Viale dei Mille 1 (piazzale Dateo). Orari: aperto sino al 24 dicembre tutti i giorni dalle 10 alle 12,30 e dalle 14 alle 19.30. Dopo i panettoni e i dolci in libertà di PausaMi, la città do Milano propone altre idee regalo realizzati dalle case circondariali della città. Ci sono biciclette in bambù con ruote hi-tech. Ci sono accessori decorati con i gatti di San Vittore. E poi tessuti tagliati al laser, giocattoli in legno. Li hanno prodotti gli ospiti del Carcere di Bollate. Sono alcune delle idee regalo presentate dal Consorzio Viadeimille, nato da un’idea del Comune di Milano e del Provveditorato alle Carceri per commercializzare quanto di meglio viene realizzato dai detenuti di Bollate, Opera, San Vittore e Beccaria. Per la prima volta in Italia prende vita un consorzio unico, che coinvolge circa 60 persone detenute o in misura alternativa. "Chi si rivolge al Consorzio acquista beni e servizi di qualità e di valore sociale, e permette a persone detenute di ricominciare a progettare la propria vita a partire dal lavoro", spiegano dal Consorzio. Le cooperative del Consorzio hanno produzioni diverse: tessile, distribuzione caffè bio, tipografia, produzioni teatrali, servizi audio e video, floricoltura e manutenzione del verde, servizi di call center e controllo qualità. Nel negozio si possono trovare prodotti tecnologici, ma anche sacche, pochette, sporte per la spesa e borse create da "Borseggi", pigiami e abbigliamento per bambini di "Gatti Galeotti", abiti, giocattoli di legno, piante e fiori per la casa e il terrazzo, calendari, block notes, quaderni. Palermo: bambole e borse delle detenute del Pagliarelli, in attesa dell’atelier Redattore Sociale, 19 dicembre 2016 Sono 15 donne, italiane e straniere, che realizzano prodotti nella sartoria interna al carcere e poi li mettono in vendita all’esterno, Prossimo passo: creare un vero e proprio atelier con abiti e stoffe tutte realizzate da loro. Antonella Macaluso (Un nuovo giorno): "Il problema di queste donne è un problema di tutta la società". Realizzano bambole, collane, angioletti, palline di natale, borse, portabottiglie e perfino piccoli presepi, tutto rigorosamente in stoffa o lana lavorati ai ferri o ad uncinetto. È il frutto del lavoro del gruppo di 15 detenute del carcere Pagliarelli, impegnate nel laboratorio artigianale curato dall’associazione di volontariato "Un nuovo giorno". Le donne, coinvolte per due volte alla settimana, sono sia italiane che straniere di età da 19 ai 60 anni. L’intenzione è quella di aiutarle anche dopo la conclusione della loro pena in un percorso di reinserimento lavorativo. Uno dei due presepi di stoffa è stato donato anche a Papa Francesco. L’esigenza di far nascere un’associazione è nata lo scorso gennaio del 2016 dopo 7 anni di esperienza di volontariato carcerario da parte di Antonella Macaluso, presidente dell’associazione "Un nuovo giorno", e di altre donne. I proventi delle vendite vengono utilizzati per rispondere alle necessità più urgenti di cui hanno bisogno i detenuti, come abbigliamento e generi di prima necessità. I loro lavori vengono proposti in questo periodo in alcuni mercati natalizi come quello della settimana prossima presso la chiesa dei francescani di Terrasanta e in altri luoghi di ristoro come ristoranti e pub. "L’idea di far nascere l’associazione è stata anche per consolidare ulteriormente tutto il nostro impegno a favore delle detenute all’interno del carcere - spiega Antonella Macaluso -, anche con il laboratorio che è nato nell’ottobre del 2015. Lavorare con chi ha una forte fragilità sociale non è semplice ma è sicuramente un’esperienza umana meravigliosa. Attraverso il laboratorio le donne si aprono e spesso ci raccontano tante cose. In loro percepiamo che lentamente c’è il desiderio di migliorare e rendersi utili. In questi anni attraverso il nostro supporto abbiamo anche contribuito a migliorare le relazioni tra loro e il personale carcerario". E continua: "Attraverso il lavoro si sentono molto aiutate e cresce uno spirito di gruppo e di scambio di competenze. Stare insieme in maniera diversa le aiuta molto. Loro ci aspettano con grande affetto, perché nel tempo si è creato un rapporto di amicizia, alimentato da fiducia e collaborazione molto forte in cui riusciamo a percepire il loro stato d’animo ed i loro eventuali disagi. Attraverso il laboratorio cresce anche il senso forte di responsabilità. In tutto questo tempo ho imparato tantissimo anche da loro. Il problema di queste donne è un problema di tutta la società perché se non vengono favoriti percorsi di rieducazione adeguati le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti". "Dopo alcuni anni di volontariato carcerario ho scelto di lasciare il lavoro che facevo per dedicarmi a tempo pieno ai detenuti - continua. Abbiamo bisogno oggi di aprirci e di attivarci in tutti i modi per sensibilizzare la società al mondo carcerario. Occorre fare capire che ai detenuti, uomini e donne, la società deve riconoscere la possibilità e l’opportunità una volta che saranno fuori di cambiare strada e di potere pensare al loro futuro". Tra i progetti dell’associazione, a partire proprio dal mese di gennaio, ci sarà quello di aprire il laboratorio artigianale all’esterno sostenendo anche alcune donne nel delicato reinserimento sociale del dopo carcere. "La prospettiva su cui intendiamo puntare - aggiunge Antonella Macaluso - è proprio quella di favorire un accompagnamento della persona che, iniziando dentro il carcere, possa proseguire dopo la conclusione della pena, anche nel dopo carcere. Se fosse possibile, vorremmo, oltre alla sartoria sociale, riuscire a creare un vero e proprio atelier con abiti e stoffe tutte realizzate da loro. Tutto questo per noi è un percorso sociale che stiamo intraprendendo insieme a loro. Se in futuro dovessero crearsi i presupporsi addirittura per creare una cooperativa sociale la faremmo volentieri. Ci teniamo a sottolineare che non stiamo parlando di progetti ma di iniziative a cui daremo piena continuità". L’associazione che oltre al laboratorio sartoriale promuove anche attività teatrali, per giorno 29 dicembre ha organizzato anche all’interno del carcere, nell’atrio della sezione femminile, un pranzo di natale in collaborazione con i frati francescani di padre Gabriele Allegra onlus. "È un modo importante e significativo di trasmettere a queste persone la nostra vicinanza affettiva di cui soprattutto in un periodo di feste hanno fortemente bisogno. Cercheremo di fare vivere a loro un momento di gioia e di serenità rendendoli protagonisti della festa". Siracusa: sopralluogo della Cisl al carcere di Brucoli "servono interventi strutturali" nuovosud.it, 19 dicembre 2016 Una visita ispettiva è stata fatta dai sindacalisti della Cisl nel carcere di Brucoli. Fabio Giovanni D’Amico, con il segretario nazionale Fns Cisl, Mattia D’Ambrosio, quello regionale Domenico Ballotta, accompagnati dal direttore del carcere Antonio Gelardi, dal Comandante del Reparto Commissario di Polizia Penitenziaria Guido Maiorana, allo scopo di constatare lo stato dei luoghi e le condizioni di lavoro del personale, nel rispetto del dettato normativo in materia. Nello specifico sono state riscontrate delle inefficienze evidenti, delle quali alcune appaiono di facile ripristino, mentre altre, quelle più urgenti necessitano di mirati e significativi interventi per l’adeguamento dell’istituto di Augusta ad altri di recente concezione, altre urgentissime per la sicurezza del personale che opera all’interno dell’istituto. Si è evidenziato che presso i locali della Centrale Idrica, i sostegni di ferro che sorreggono le due cisterne (n° 1 cisterne contiene 50 m³ di acqua) sono letteralmente arrugginiti, e che occorre un intervento immediato di ripristino e messa in sicurezza, si è anche riscontrato che gli impianti elettrici non solo non sono a norma, ma sono anche mal funzionanti, in particolare I quadri elettrici di alcune rotonde ed altri reparti. Questa federazione, inoltre ha sottolineato che importante ed immediata deve essere la sostituzione di tutte le sedie inerenti tutti i posti di servizio dell’Istituto uffici compresi, con sedie ergonomiche come previste dalla normativa del Dlgs 81/2008. Urge anche l’adeguamento dell’impianto di riscaldamento, dell’acqua sanitaria calda e la sostituzione della caldaia con caldaia pressurizzata. Un adeguamento dei Locali sala regia e centralino con un centralino di nuova generazione, la copertura delle terrazze con ripristino della guaina, dove infiltrazioni di acqua piovana dal tetto hanno causato la caduta di parti di intonaco con problemi igienico sanitari. La Cisl ha chiesto a Gelardi di separare il passaggio pedonale della portineria da quello adibito al transito automezzi per evitare di esporre il personale ai continui rumori e inalazioni degli scarichi degli automezzi in transito. La percezione dei lavoratori della Polizia Penitenziaria di Augusta è quella di non aver ricevuto da parte dell’Amministrazione Centrale la giusta attenzione, nonostante le molteplici e ripetitive segnalazioni debitamente fatte dai RLS locali nelle riunioni degli ultimi cinque anni. Questa Organizzazione Sindacale vuole anche segnalare e fare un plauso al direttore del carcere che ha cercato nel tempo di migliorare tutti i luoghi di lavoro e renderli più sicuri e salubri nel rispetto del dettato normativo vigente in materia. La Casa di Reclusione di Augusta è un Istituto più sicuro rispetto agli anni passati grazie agli importanti interventi mirati soprattutto per la sicurezza del personale che opera all’interno dell’istituto. Per quanto sopra segnalato, la Cisl ha chiesto a Gelardi un significativo intervento per ripristinare la salubrità in tutti i succitati locali, l’immediata sostituzione di tutte le sedie, in particolar modo nelle postazioni 24 h e dei quadri elettrici, e di mettere in sicurezza le due cisterne all’interno della centrale idrica con idonea copertura delle terrazze, e l’adeguamento della sala regia e del centralino. Da un’attuale accurata lettura dei Mod 14/A rilasciati dalla Direzione, questa Segreteria ha riscontrato delle anomalie che riguardano l’organizzazione del lavoro anche in forza di accordi sottoscritti tra le parti. Argomenti quest’ultimi rappresentati dal Responsabili S.A.S. Angelo Scarso, dopo la visita sui luoghi del lavoro al Direttore e al Comandante del Reparto che ne riscontreranno i contenuti. Infine il Segretario Regionale F.N.S. Cisl Sicilia ha sottolineato che al prossimo incontro, che avverrà in settimana con il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria Sicilia, Gianfranco De Gesu, attenzionerà le diverse problematiche riscontrate nei luoghi di lavoro della casa Reclusione di Augusta chiedendo dei fondi utili al miglioramento dei locali, rendendoli più salubri e sicuri. Vibo Valentia: Sappe "sventata evasione dal carcere di un giovane detenuto libico" Agi, 19 dicembre 2016 Sabato pomeriggio il personale di Polizia Penitenziaria del carcere di Vibo Valentia ha sventato l’evasione di un detenuto straniero, un libico 19enne arrestato lo scorso 24 novembre a Vibo Marina durante uno dei tanti sbarchi di migranti. Ne dà notizia il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Sappe. Saverio Ditto, segretario provinciale Sappe, ricostruisce i fatti: "Il detenuto ha tentato di evadere scavalcando il cortile passeggi nascondendosi nei pressi della chiesa, ma è stato catturato immediatamente dal personale di polizia penitenziaria. Un grazie va al personale in servizio, che ha dimostrato alto zelo e grande professionalità pur lavorando in grave carenza organica. La pianta organica prevista dal Ministero nel 2013 prevede infatti 142 unita rispetto a quella del 2001, che ne prevedeva ben 201 unità: un taglio di 60 unità". "La tentata evasione di un detenuto dal carcere di Vibo Valentia - aggiunge da Roma il segretario generale del Sappe Donato Capece - è l’ennesimo grave evento critico che si verifica in un carcere italiano ed è sintomatico che negli ultimi dieci anni ci sia stata un’impennata dei detenuti stranieri nelle carceri italiane, che da una percentuale media del 15% negli anni ‘90 sono passati oggi ad essere 19mila. Fare scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d’origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia". "Il dato oggettivo è però un altro - conclude Capece: le espulsioni di detenuti stranieri dall’Italia sono state fino ad oggi assai contenute, oserei dire impercettibili: 896 nel 2011, 920 nel 2012, 955 nel 2013, 811 nel 2014, 725 nel 2015 e, nei primi sei mesi del 2016, solamente 413, prevalentemente in Albania, Marocco, Tunisia e Nigeria. Auspico che il governo ed il ministero della Giustizia pongano la questione delle espulsioni dei detenuti stranieri tra le priorità di intervento". Cassino (Fr): l’università in campo con i detenuti per i tutelare i diritti dei bambini di Elena Pittiglio Il Messaggero, 19 dicembre 2016 È stato il rettore Giovanni Betta a capitanare la squadra del Cus. Sull’altra metà campo i detenuti genitori del carcere di Cassino. Che poi hanno lasciato il posto alla compagine non genitori. Alla fine del triangolare a trionfare è stata la squadra dell’ateneo, grazie al gol messo in rete dal presidente del Cus Carmine Calce e da due rappresentanti degli studenti. Ma alla fine, al di là delle reti segnate dagli universitari per 3-1, in campo ha vinto la solidarietà quella con la S maiuscola. Si è svolta in un clima di festa la manifestazione nazionale a cui ha aderito anche la Casa circondariale San Domenico di Cassino dal titolo: "Non è un crimine ma una mia condanna. I diritti dei grandi cominciano dai diritti dei bambini", organizzata in collaborazione con l’associazione "Bambini senza sbarre". La partita, che si è svolta in contemporanea in tutte le carceri d’Italia, ha visto in qualità di pubblico le famiglie. A Cassino, la direttrice Irma Civitareale ha voluto aprire la manifestazione al territorio estendendo l’invito all’ateneo di Cassino e del Lazio Meridionale, che ha fatto scendere in campo, oltre a Betta e Calce, anche il rettore vicario Trequattrini. "Abbiamo voluto arricchire l’evento - riferisce la direttrice - con un richiamo al territorio. Da qui la partecipazione del Cus, che ha dato vita ad un triangolare. È stata una festa che ha visto protagonisti anche i figli dei detenuti. L’iniziativa - aggiunge la direttrice Irma Civitareale - vuole rafforzare il legame genitoriale". La manifestazione, patrocinata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, focalizza l’attenzione sul tema cruciale del diritto al mantenimento del legame affettivo tra figli e genitori detenuti, del diritto di questi ultimi alla genitorialità all’accoglienza in carcere dei bambini che ogni anno, ogni giorno incontrano il genitore, secondo quanto previsto dalla "Carte dei diritti dei figli di genitori detenuti". In quest’ottica si inserisce la futura iniziativa che il prossimo 8 gennaio verrà inaugurata all’interno della Casa circondariale di Cassino: l’area verde realizzata da tre detenuti. "Un nuovo luogo all’aperto, attrezzato con giochi - sottolinea la direttrice - dove le famiglie potranno svolgere i colloqui". Il comune di Cassino per l’occasione sponsorizzerà lo spettacolo di burattini dei Fratelli Ferraiolo, che entreranno in carcere con Pulcinella. Ritornando alla cronaca della partita. Dopo il primo gol del presidente Calce, la compagine dei detenuti genitori ha segnato il gol del pareggio. Il primo tempo si è chiuso in parità ( 1-1). Nel secondo tempo sono entrati in campo i detenuti non genitori. Al termine, il triangolare è stato vinto dall’università per 3-2. Nel secondo tempo la fascia di capitano il rettore Betta l’ha ceduta al numero due, il prof. Raffaele Trequattrini. Catanzaro: "il Natale, fraternità senza barriere", progetto alla Casa circondariale di Rosanna Paravati catanzaroinforma.it, 19 dicembre 2016 L’Amministrazione Penitenziaria della Casa Circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro ha organizzato "Il Natale, fraternità senza barriere", con il concorso "Il messaggio dei Presepi". L’ iniziativa, rappresenta la seconda edizione di un evento, svoltosi in via sperimentale lo scorso anno, che ha riscosso un enorme successo, dove i protagonisti sono i meravigliosi presepi realizzati, completamente a mano, dai detenuti ospiti del carcere di Siano. La cerimonia di premiazione della gara dei presepi realizzati dai detenuti, si svolgerà anche quest’anno, presso il Carcere di Catanzaro, martedì 20 dicembre alle ore 15,30,e avrà come filo conduttore il messaggio "Natale senza barriere". Verranno premiati i tre presepi ritenuti più meritevoli dalla giuria composta da Nicola Siciliani de Cumis, Pedagogista, Isolina Mantelli, Presidente del Centro Calebrese di Solidarietà, Antonio Montuoro, Presidente Associazione Teuria, Vincenzo Ursini, Presidente Accademia Bronzi, Romano Pitaro, giornalista, Michele Affidato, orafo. Il concorso si svolgerà grazie al sostegno ed alla collaborazione della Consolidal di Catanzaro il cui presidente Teresa Gualtieri, ha rinnovato anche per l’anno in corso, con entusiasmo e passione la disponibilità di tutti i soci. Il rapporto con il penitenziario di Catanzaro nelle intenzioni del Presidente Gualtieri non deve essere occasionale ma continuo e assiduo. Per il Direttore del Penitenziario, Angela Paravati, le sinergie con la Consolidal ha arricchito la struttura e ha permesso l’attuazione di importanti iniziative. L’idea di impegnare i detenuti nella realizzazione dei presepi, che rappresentano una radicata tradizione, è stata molto apprezzata dall’osservatorio Falcone-Borsellino-Scopelliti di Soverato, il cui Presidente Carlo Mellea, da anni impegnato della diffusione della cultura della legalità, ha voluto patrocinare l’iniziativa. "Prisons de France", di Farhad Khosrokhavar. Il fallimento del carcere recensione di Giuliano Milani Internazionale, 19 dicembre 2016 La prigione è sempre più presente nelle nostre società. Negli ultimi decenni in Francia, negli Stati Uniti e altrove, il numero di detenuti è nettamente aumentato e con esso la durata delle detenzioni. E i crimini violenti come gli omicidi volontari e gli stupri non sono diminuiti. È il segno che il ruolo sempre più importante che viene dato al carcere per risolvere questioni sociali come la droga o l’immigrazione è un problema politico. Secondo alcuni, addirittura, la crisi dello stato sociale ha prodotto uno stato penale che cerca di eliminare la miseria criminalizzandola. Certamente c’è bisogno di capire cosa sta succedendo nelle prigioni. Quest’inchiesta condotta in quattro carceri francesi ci permette di farlo. Basata su un grande numero di interviste, Prisons de France cerca di fare il punto sulle relazioni tra carcerati e carcerieri, sul modo in cui la prigione ridefinisce al suo interno i gruppi sociali (in primo luogo rovesciando i rapporti di forza tra maggioranze e minoranze rispetto al mondo di fuori), sugli effetti della prigionia sulla mente degli individui. Si tratta di effetti devastanti, la cui gravità è proporzionale alla durata della pena, che raramente erano stati descritti in modo così chiaro e che oggi, non c’è da sorprendersi, catalizzano anche i processi di radicalizzazione politica o religiosa. "Prisons de France", di Farhad Khosrokhavar. Robert Laffont Editore, 676 pagine, 23,50 euro. Quella infinita misericordia che attraversa i muri del carcere di Maria Teresa Pontara Pederiva La Stampa, 19 dicembre 2016 Nel Dossier di Natale del Messaggero di Sant’Antonio un reportage fotografico di Alessandra D’Urso sul restauro dei presepi all’interno di Regina Coeli. La Misericordia di Dio vale per tutti, anche per chi ha commesso reati? E vale per qualsiasi tipo di reato? Nel corso dell’Anno giubilare papa Francesco ha ricordato a più riprese che non c’è peccato così grande da non poter essere perdonato. Compresi i peccati compiuti da quanti stanno scontando all’interno di un carcere una pena comminata loro dalla giustizia umana. La misericordia raggiunge tutti, come accaduto al buon ladrone cui Gesù, dalla croce, aveva promesso il Paradiso. Convinto che "anche ladri e briganti sono in qualche modo portatori di una loro qual spiritualità" padre Fabio Scarsato, francescano conventuale direttore editoriale del Messaggero di Sant’Antonio e delle Edizioni Messaggero di Padova, aveva pubblicato lo scorso anno "Wanted", un testo di esercizi spirituali per carcerati sulla scia delle ammonizioni di Francesco d’Assisi ai suoi frati: "Chiunque verrà da loro [dai frati], amico o avversario, ladro o brigante, sia ricevuto con bontà". È vero, "la galera è il luogo in cui difficilmente recuperi la tua umanità, messa a rischio ogni giorno dalle scelte sbagliate che hai compiuto e dal fatto che la vita detentiva ti infantilizza e ti inchioda al reato, ti trasforma da uomo in un "reato che cammina" era la voce di alcuni carcerati della Casa di reclusione a Padova, ma, se crediamo al dettato costituzionale del ruolo rieducativo della pena, la detenzione forzata non equivale a morte sociale. Perché ogni esperienza, anche la più negativa, ha in sé la forza di dischiudere un percorso positivo, fornire una briciola di vita, o quella che siamo soliti chiamare "conversione". Perché la misericordia di Dio, un amore senza misura, è in grado di trasformare in santo anche il peggiore dei briganti mostrando speranza là dove nessuno sarebbe capace neppure di sognarla. E spesso scontare una pena giusta per il reato commesso fornisce anche l’opportunità di rivedere la propria vita attraverso esempi positivi, favorisce il reinserimento sociale e diminuisce il rischio di recidive. E, quasi seguendo un invisibile filo di progetto, ancora al carcere, o meglio alla vita all’interno di quei muri invalicabili, è dedicato questa volta il Dossier del numero di dicembre del mensile "Il Messaggero di Sant’Antonio". Un suggestivo reportage, opera della fotografa Alessandra D’Urso, ha fissato sulla carta il lavoro dei detenuti del carcere romano di Regina Coeli impegnati nel restauro di alcuni presepi. Da qui il titolo "Natale in carcere. In che mani!". "Sì, perché la nostra vita cade o sta su, svolta da una parte o dall’altra, a seconda delle mani in cui ci siamo andati a mettere. E molti nostri fratelli e sorelle si sono cacciati nei guai: facendo del male, a volte molto, ad altri, e facendosene a se stessi - scrive Scarsato nella presentazione del Dossier - Ma le mani, quelle stesse mani colpevoli, potranno mai afferrare altro? Se sono saliti sul versante in ombra della vita, potranno scendere in quello assolato o no? Se il caso e le scelte personali li hanno una e più volte smazzati come carte, chi potrà ricomporli?". "Le mani sono quelle improbabili e per niente innocenti dei detenuti, ma chissà perché - conclude il francescano - che Gesù bambino si accoccoli tra le loro mani, sento che fa molto bene anche a me". Nell’intervista del Dossier alla fotografa di origini milanesi Alessandra D’Urso (studi alla New York Film Academy e un’autentica passione per il bianco e nero) si scopre che l’idea è partita da padre Vittorio Trani, cappellano del carcere, con la richiesta di fotografare i presepi realizzati dai detenuti. "Queste fotografie alla fine sono state fatte proprio per loro, e le abbiamo esposte all’interno del carcere" rivela D’Urso aggiungendo che si tratta del suo primo reportage fotografico all’interno di una struttura carceraria, un’esperienza che ha lasciato il segno. "Mi riesce difficile spiegare le sensazioni provate, visto che sono tante e molto diverse tra loro. Ho provato tanta commozione durante la messa del primo dell’anno cantando insieme ai detenuti e guardandoli fare la comunione. Mi ha fatto molto riflettere vedere alcuni detenuti di volta in volta, io tra una visita e l’altra viaggiavo, lavoravo, vedevo amici e parenti mentre loro erano sempre lì". La vena artistica della fotografa ferma istanti di rara poesia - le due pecorelle tra le mani, o quella minuscola adagiata, quasi con tenerezza, da una mano tatuata - che testimoniano la partecipazione di quanti, vuoi visitatori, vuoi operatori carcerari, spesso anche volontari, si prodigano per alleviare la solitudine di un’esperienza che in ogni modo lascia il segno, ma può anche condurre alla redenzione. Perché non c’è peccato (leggi reato) così grande da non poter essere perdonato e la Misericordia di Dio raggiunge tutti, attraversando persino i muri del carcere, che per i più equivale a dire reietti della società ed esclusi. Perché "non si incontrano il peccato e il giudizio in astratto", ma sempre un peccatore e il Salvatore, scrive Papa Francesco nella "Misericordia et misera" a conclusione del Giubileo. Farsi prossimo ai fratelli, continua Bergoglio, significa manifestare un segno dell’amore di Dio per loro. L’accostarsi con compassione ed empatia da parte di tanti volontari a quanti sono reclusi è rendere concreto e tangibile quella misericordia che attraversa anche i muri del carcere. E il Bambino nasce ancora, nasce anche per loro. "Piccolo Atlante della Corruzione", così i ragazzi la raccontano nei loro quartieri di Manuel Massimo La Repubblica, 19 dicembre 2016 Mappe, favole, fumetti. Ma soprattutto il risultato dei questionari anonimi diffusi nelle zone delle loro scuole. Ne è nato anche per questo 2016 un libro-racconto finale dai risultati sorprendenti. E forse più reali delle statistiche ufficiali. Il progetto di Libertà e Giustizia in collaborazione con il Miur, l’A.N.AC (Autorità Nazionale Anticorruzione), l’Anm (Associazione Nazionale Magistrati), l’Università di Pisa e il sito d’informazione Repubblica.it. I ragazzi sono cresciuti, stanno diventando grandi e quando prendono in mano il microfono e parlano davanti a una platea di 500 persone la loro voce risuona nell’aula "Ezio Tarantelli" dell’Università Sapienza di Roma, Facoltà di Economia: sono i ragazzi del progetto didattico per la legalità "Piccolo Atlante della Corruzione", giunto all’incontro finale proprio nel giorno in cui la notizia che monopolizza l’attenzione è l’arresto - per corruzione - del capo del personale del Campidoglio Raffaele Marra e del costruttore/immobiliarista Sergio Scarpellini. La cronaca giudiziaria irrompe nel corso dell’incontro-dibattito in cui gli studenti di nove scuole superiori di Roma e del Lazio stanno illustrando il frutto del loro lavoro, portato avanti nel corso dell’anno nell’ambito del progetto ideato e coordinato da Beatrice Ravaglioli dell’Associazione Libertà e Giustizia in collaborazione con il Miur, l’A.N.AC (Autorità Nazionale Anticorruzione), l’Anm (Associazione Nazionale Magistrati), l’Università di Pisa e il sito d’informazione Repubblica.it. Ciascuna scuola coinvolta nel progetto ha prodotto un proprio "piccolo atlante" raccogliendo ed elaborando i questionari sulla percezione della corruzione, somministrati nelle vicinanze dell’istituto scolastico, con la supervisione degli insegnanti e degli esperti. E all’incontro finale ad ascoltare i ragazzi che esponevano i risultati del loro lavoro sul campo c’erano Federica Angeli, cronista di nera e giudiziaria di Repubblica sotto scorta, assieme al sostituto procuratore presso il Tribunale di Roma Mario Palazzi: l’occasione per confrontarsi con due addetti ai lavori che quotidianamente s’imbattono in casi di corruzione e li combattono. Le voci dei ragazzi si susseguono in aula: le cose da dire sono tante, la voglia di trasmettere il senso del proprio impegno anche ma il tempo trascorre veloce tra una citazione di Victor Hugo - "Chi apre la porta di una scuola chiude quella di una prigione" - e la confessione di una ragazza: "Prima di partecipare a questo progetto avevo intenzione di fare l’avvocato: ma adesso il mio obiettivo è quello di diventare magistrato per combattere la corruzione in prima linea". Parole che il sostituto procuratore Palazzi accoglie con favore, ma i risultati dei questionari elaborati dai ragazzi lo invitano a una riflessione: "C’è ancora una grossa distanza tra quello che viene dichiarato in forma anonima per un questionario didattico e la denuncia depositata con nome e cognome: mi occupo di corruzione da tanti anni ma di denunce per questo reato se ne trovano sempre molto poche". La corruzione fa ancora paura, soprattutto in alcune zone problematiche della Capitale e non solo: a Minturno, come raccontano i ragazzi, il questionario lasciato in una chiesa non è stato restituito e il prete ha detto di non averlo mai ricevuto. Un dato un po’ inquietante soprattutto alla luce del pontificato di Papa Francesco e alle sue parole contro la corruzione che "spuzza" e rovina la società. I ragazzi hanno interpretato la realizzazione del Piccolo Atlante come lavoro trasversale: una sorta di saggio collettivo dove, oltre ai questionari elaborati con dati e tabelle, hanno trovato spazio anche altre forme di narrazione del problema: mappe geografiche e concettuali, per contestualizzarlo; disegni per rappresentare i concetti espressi nel testo; ma anche un fumetto e una favola con due finali per illustrare plasticamente il peso della corruzione e l’importanza di saper dire di no, avendo il coraggio di denunciare. E sul coraggio di denunciare quando una ragazza nel corso del dibattito afferma che "siamo italiani, c’è rassegnazione sul fenomeno corruzione" la platea rumoreggia: c’è malcontento, perché con questo lavoro in prima persona i ragazzi si sentono investiti di un ruolo di "portatori sani di legalità" e non vogliono abbassare la testa. E se c’è un messaggio che il "Piccolo Atlante della Corruzione" può mandare è quello che la corruzione si combatte con la cultura e con l’educazione alla legalità. E che i casi di corruzione quotidiana, a tutti i livelli, sono molto più diffusi e capillari rispetto a quelli più eclatanti trattati dai mass media. Federica Angeli è contenta del lavoro realizzato con questo progetto: "Ragazzi siete stati straordinari: siete entrati dentro a questo lavoro con tutti voi stessi. Quando uno ha un problema la prima cosa da fare per risolverlo è averne la consapevolezza: vi vedo pronti a ribaltare delle ‘regolè che non vi stanno più bene. Bravi". Ma forse la frase più bella dedicata al lavoro di questi ragazzi è quella che - in forma anonima - ha scritto un intervistato over 65 con una nota a margine sul bordo del foglio del questionario: "Il futuro siete voi". Un ideale passaggio di testimone nella lotta alla corruzione e per la promozione della legalità nelle nuove generazioni. Piccoli "geografi" della corruzione crescono: per raccontare la società che non va e per disegnare un futuro migliore, all’insegna della legalità. No al carcere per i giornalisti, nuovo appello della Fnsi a Governo e Parlamento di Luigi Aiello primapaginanews.it, 19 dicembre 2016 La Fnsi chiede con fermezza a governo e Parlamento di approvare le norme, ferme da mesi in Senato, sull’abrogazione del carcere per i cronisti, e contro le richieste di danni spropositate. Aperture in tal senso sono arrivate nel corso del seminario "Una legge per fermare le querele temerarie", dai senatori Nico D’Ascola e Giuseppe Lumia. Per la Fnsi è dunque una giornata importante, perché riapre la speranza che l’iter legislativo possa produrre risultati importanti e per certi versi fino a questo momento anche insperati. Il tutto è avvenuto a Roma, nei saloni della Federazione nazionale della stampa italiana, protagonista il suo segretario generale Raffaele Lorusso e il presidente della stessa Fnsi Giuseppe Giulietti, in occasione questa mattina del seminario dal tema "Una legge per fermare le querele temerarie". L’assise fortemente voluta e organizzata dall’associazione Articolo21, ha confermato la decisione di chiedere formalmente e con grande fermezza al governo e al Parlamento di "procedere, nei modi e nelle forme che riterranno, non solo all’approvazione di quella parte del ddl sulla diffamazione relativa all’abrogazione del carcere, ma anche di definire una norma specifica che scoraggi l’uso e l’abuso delle cosiddette "querele temerarie", divenute ormai vero strumento di intimidazione preventiva contro quei cronisti che indagano su mafia, malaffare e corruzione". A questo proposito è stato accolto con favore l’annuncio del presidente della commissione Giustizia del Senato, Nico D’Ascola, e rilanciato dal capogruppo Pd della stessa Commissione, Giuseppe Lumia, di rimettere in calendario il provvedimento giunto alla sua quarta lettura e fermo da mesi al Senato. Nel corso dell’iniziativa di oggi, la Fnsi ha anche annunciato l’intenzione di avanzare la richiesta di costituzione di parte civile e di essere presente in tribunale al fianco della giornalista Federica Angeli, come già fatto nel caso del processo di Ragusa ai presunti aggressori del collega Paolo Borrometi. Il sindacato dei giornalisti italiani ha infine deciso di avviare un rapporto di collaborazione con il gruppo di lavoro costituito dalla professoressa Marina Castellaneta, e composto da giuristi e avvocati, che si è messo a disposizione in primo luogo dei colleghi turchi ma anche di tutti i cronisti che abbiano bisogno di tutela nella sede della Corte europea dei diritti dell’uomo e nei tribunali nazionali, proposta che il segretario Lorusso porterà all’attenzione dell’esecutivo della Federazione internazionale dei giornalisti durante la prossima riunione del board, in modo da avviare anche a livello europeo la costituzione di uno sportello a sostegno dei colleghi vittime di minacce o querele. "La riapertura del percorso parlamentare del ddl sulla diffamazione, annunciata oggi dal presidente della commissione Giustizia del Senato, Nico D’Ascola, è un’occasione imperdibile per rimediare ai tanti errori dell’intervento legislativo da troppi anni giacente in Parlamento". Lo ha dichiarato il presidente dell’Unione nazionale cronisti, Alessandro Galimberti, a margine del convegno sulle querele temerarie organizzato dalla Federazione nazionale della stampa italiana e da Articolo 21. Secondo Galimberti, in particolare, è assolutamente da rivedere il meccanismo sanzionatorio che dovrebbe sostituire il carcere per la diffamazione: "Porre una pena pecuniaria a carico del giornalista in una forchetta da 5 a 50mila euro significa ottenere una censura certa, anzi, una autocensura - ha detto il presidente dell’Unci - nessun giornalista in Italia oggi è in grado di assumersi questa obbligazione che va a colpire errori spesso neppure imputabili ai cronisti, ma alle fonti. Piuttosto pensiamo di mantenere il carcere per le campagne di diffamazione dolore, seriali e organizzate, ma abbassiamo le multe a livelli sensati e proporzionali, come del resto ci insegna la Cedu". L’Unci si è impegnata a elaborare, di concerto con la Fnsi, proposte di legge anche in materia di querele temerarie e di diritto all’oblio "la vera minaccia giudiziaria per i cronisti nei prossimi anni", ha aggiunto Galimberti. Reporters Sans Frontières (Rsf): 74 operatori dell’informazione uccisi nel 2016 La Repubblica, 19 dicembre 2016 Cinquantasette i giornalisti, 17 i blogger e i collaboratori di mezzi di informazione che hanno trovato la morte. Il maggior numero di vittime in Paesi in cui sono in corso conflitti. Nel corso del 2016 in tutto il mondo sono stati uccisi 57 giornalisti. Il bilancio stilato da Reporters sans frontières (Rsf) è quest’anno meno pesante rispetto al 2015, quando gli operatori dell’informazione che persero la vita svolgendo il proprio lavoro furono 67. Ma ci rimanda sempre a una situazione drammatica, soprattutto nei Paesi teatro di conflitti. Il triste primato spetta alla Siria, con 19 giornalisti uccisi contro i nove dell’anno scorso. Seguono l’Afghanistan con dieci, il Messico con nove, l’Iraq con sette e lo Yemen con cinque. Nell’anno che sta per concludersi sono stati assassinati anche nove blogger e otto collaboratori di mezzi di informazione, il che porta a 74 il totale delle persone morte "per aver esercitato la loro missione di informare", sottolinea Rsf nel suo rapporto. "La diminuzione rispetto al 2015 - rileva l’organizzazione - si spiega con il fatto che sono sempre di più i giornalisti che fuggono dagli Stati troppo pericolosi: la Siria, l’Iraq, la Libia e poi lo Yemen, l’Afghanistan, il Bangladesh o il Burundi sono diventati buchi neri dell’informazione in cui regna l’impunità". Quasi tutte le vittime - 53 su 57 - hanno trovato la morte nei loro Paesi. Tra quelle uccise in Siria c’è Osama Jumaa, fotoreporter diciannovenne dell’agenzia britannica Images Live colpito il 5 giugno mentre documentava un’operazione di soccorso dopo i bombardamenti di un quartiere di Aleppo. Un altro primato non invidiabile è quello del Messico, il Paese non in guerra in cui si registra il maggior numero di giornalisti uccisi. Nel suo rapporto Rsf fornisce anche il dato degli ultimi dieci anni: almeno 780 vittime. In aumento rispetto al 2015 il numero dei giornalisti incarcerati o detenuti, un dato da attribuire in particolare alla situazione in Turchia dove al 13 dicembre risultavano in prigione più di 100 reporter o collaboratori di mezzi di informazione. Siria. Io mi vergogno per Aleppo che muore sola di Bernard-Henri Lévy Corriere della Sera, 19 dicembre 2016 Mi vergogno. Sì mi vergogno per Aleppo che muore sola. Mi vergogno di chi giudica che il presidente siriano Assad, il Pol Pot del jet-set, sia il male minore davanti alla minaccia dell’Isis. Noi siamo diventati testimoni muti. Ci siamo forse assuefatti alla sofferenza degli altri? "La piramide dei martiri affligge la terra". Il verso del poeta René Char è uno schiaffo in pieno viso mentre leggo le notizie provenienti da Aleppo. E mi vergogno. Non mi vergogno di Vladimir Putin, questo piccolo zar volgare, capo di Stato canaglia, che tra un servizio fotografico e un’ostentazione di testosterone spedisce i suoi aerei a bombardare le rovine della città. Aleppo, per lui, altro non è che uno fra i tanti palcoscenici del suo narcisismo esasperato e, in fondo, egli resta fedele al suo ruolo. Non mi vergogno di Assad, una grande sagoma incolore in cui si annida l’anima più abietta, nera e vigliacca tra quelle dei peggiori criminali della nostra epoca. Un personaggio come lui da molto tempo ormai ha cessato di far parte del genere umano, e al momento opportuno verrà chiamato a rispondere davanti alla giustizia degli uomini dei suoi reati contro l’umanità. No, mi vergogno piuttosto di me stesso, perché dopo aver supplicato, urlato nel deserto e scritto innumerevoli appelli oggi mi ritrovo a contemplare. Mi vergogno di chi giudica che Assad, il Pol Pot del jet-set, sia il male minore davanti alla minaccia dell’Isis la mia impotenza e a inghiottire la mia rabbia fredda, dopo tanti moniti lanciati invano. Mi vergogno, però, anche di voi, di noi tutti, perché oggi, in questo mondo del 2016, ci sono uomini inseguiti e cacciati come prede, degli esseri che devono pagare perché hanno ancora due gambe, due braccia e una testa al posto di un ammasso di carne, di brandelli di corpi e grovigli di budella in cui li si vuole ridurre, e davanti a tutto questo noi non abbiamo trovato niente da fare, nè da dire, e nemmeno da ridire. Mi vergogno perché ci sono, su questa terra, uomini che non possono più pensare, né amare, né sperare, ma soltanto tremare, tremare incessantemente; soltanto fuggire, e continuare a fuggire; fare da scudo con i loro corpi ai propri figli, per ripararli dal fuoco o dal gas che non darà loro scampo. Davanti a un simile spettacolo, noi siamo come dei testimoni che non sanno più se tacere o se non ascoltare. Effetto della "de-realtà"? Alla fine ci siamo assuefatti alla sofferenza degli altri? O ci troviamo forse ai giochi circensi? L’inconfessabile compiacimento nel veder agonizzare degli omuncoli laggiù, mentre noi, dalle tribune, ci dimentichiamo di alzare il pollice? O che non sia forse quella specie di sollievo che si prova quando ci si sente al caldo, a casa propria, mentre fuori piove a dirotto - tranne che, laggiù, piovono bombe? Mi vergogno delle notizie trasmesse alla radio e alla televisione; mi vergogno dei commenti narcotizzati, delle analisi sempre uguali; mi vergogno dei loro esperti annoiati, falsi conoscitori dei fatti, che si guardano bene dal cedere alla rabbia e al panico. Mi vergogno perché a un certo punto la banalità superflua dei notiziari (morte, morte e ancora morte) finisce col trasformare tutti noi che parliamo e tutti noi che ascoltiamo in complici. Mi vergogno dell’Onu, la cui risoluzione arriva nel preciso istante in cui tutto è finito e tutti sanno che non resta più niente da fare se non la conta dei morti, e subito dopo quella dei "profughi". Mi vergogno di questa nuova Società delle Nazioni e della sua perenne codardia alla Chamberlain, mentre vengono mitragliati, massacrati e dissanguati i nostri fratelli di umanità, oggi ad Aleppo, domani a Idlib. Mi vergogno di quei mostri gelidi, cinesi e russi, membri del Consiglio cosiddetto di Sicurezza, che hanno avuto il coraggio di mettere il veto, mentre gli aerei, in tutta calma, bombardano a tappeto un quartiere dopo l’altro, isolato dopo isolato, mentre i bersagli cadono, esplodono, si sbriciolano, mentre uomini, donne e bambini si aggrovigliano in un abbraccio mortale e i superstiti, quando ce ne sono, ripescati da quel mare di sangue, vengono spediti nelle camere di tortura o eliminati. Provo vergogna, e dolore, per gli altri, per tutti coloro che hanno tentato di salvare l’onore pronunciando l’ennesimo discorso di indignazione e di condanna; provo vergogna per gli ambasciatori che hanno fatto di tutto, in quella cittadella infame che è diventata oggi la sede newyorkese dell’Onu, per scuotere gli uomini di ghiaccio e impedir loro, stavolta, di alzare la mano grassoccia che dice che no, in fin dei conti non c’è niente di male a trasformare in brandelli decine di migliaia di corpi. Che cosa succede nelle loro teste in quel momento? Chi si sente peggio, il funzionario della morte che vota senza emozione il proseguimento della carneficina, oppure l’uomo di buona volontà che si è dato da fare per mettervi fine, ma è stato costretto a rassegnarsi? E come si vive, dopo una notte trascorsa a osservare coloro che hanno messo il veto, ovvero messo le bombe, mentre bocciano per l’ennesima volta, in un rituale ordinato come una sessione di tortura, il vostro appello all’ultima possibilità, per poi scoprire all’alba, rientrando a casa, di avere il passo pesante: la pesantezza della poltiglia umana che vi è rimasta incollata alle suole delle scarpe e non vi abbandona più? Mi vergogno di Barack Obama e della sua politica della linea rossa, rinnegata il 30 agosto del 2013, in una palinodia che ha lasciato di stucco i suoi alleati. Non poteva indovinare un termine migliore: era rossa la sua linea, ma come un filo di sangue. Mi vergogno di Donald Trump, che ha scoperto le carte e dichiarato che tutti quei giovani sospesi tra la vita e la morte che continuano, tremando, a diffondere su You Tube le loro povere testimonianze, trovando ancora la forza di rivolgerci il loro piccolo "grazie", sarebbero stati oggetto di contrattazione - così si è espresso - con il suo amico Putin. Mi vergogno della scarsa maggioranza di coloro che devo ancora, a quanto pare, chiamare miei concittadini, i quali secondo gli ultimi sondaggi giudicano che Assad, questo assassino ancora descritto, agli inizi del suo regno, come uomo gentile, timido e debole, un uomo che non voleva essere re, e a maggior ragione, si suppone, tiranno, questa versione moderna di un Giorgio VI che avrebbe potuto salire al trono per consegnare il suo Paese a Hitler, questo mostro radical chic, questo Pol Pot del jet-set, che costui resta comunque il male minore davanti alla minaccia dell’Isis... Mi vergogno del candidato alla presidenza francese François Fillon, che ci tiene a spiegare che la mattanza di Aleppo rientra nel prezzo da pagare per sconfiggere il terrorismo. Mi vergogno di tutto ciò, perché indubbiamente abbiamo le televisioni, le voci, i parlamentari e i candidati che ci meritiamo. Siamo dei disfattisti, mentre ci crediamo uomini di pace. Siamo degli europei sazi, che rinnegano i loro valori, mentre viene perpetrato il primo immenso crimine contro l’umanità del XXI secolo - un crimine contro ognuno di noi. Noi siamo i contemporanei di questa ecatombe, e come accadde davanti alle grida uscite ieri dai campi di sterminio, pochissimi di noi hanno il coraggio di invocare che si faccia guerra alla guerra e che si distruggano i bombardieri portatori di distruzione. La piramide dei martiri affligge la terra, sì. E la terra geme e soffre. A questo siamo arrivati. La risoluzione dell’Onu arriva quando non resta più niente da fare se non la conta dei morti, e dei "profughi".