Spazio minimo in carcere: il letto incide sulla libertà di movimento del detenuto di Rosanna Guarnaccia masterlex.it, 18 dicembre 2016 Secondo la Cassazione anche il letto è un ingombro suscettibile di togliere spazio a chi si trova ad occupare la stanza detentiva. Ancora una volta la Cassazione, con la sentenza n. 52819 del 2016, si trova ad affrontare la delicata questione del sovraffollamento carcerario, questa volta con riferimento allo spazio minimo vitale da assicurare ad ogni detenuto affinché la pena non si trasformi in un trattamento inumano e degradante. La novità riguarda la considerazione del letto a castello come un mobile idoneo, per il suo peso consistente, a limitare la libertà di movimento del detenuto all’interno della cella collettiva, al pari del bagno e dei manufatti fissi poggiati sul pavimento. L’insufficienza dell’edilizia carceraria è ormai un dato di comune conoscenza e le condizioni di vita dei detenuti sono sempre più intollerabili. Alla sofferenza derivante dallo stato di reclusione e dalla lontananza dagli affetti, dalle amicizie nonché dalla privazione della possibilità di movimento e di organizzazione della vita quotidiana si aggiungono i disagi provocati dalla ristrettezza degli spazi a disposizione. Questi i motivi posti alla base del ricorso presentato da un detenuto italiano, Alessandro S. di 53 anni, contro la decisione del magistrato di sorveglianza del Tribunale di Perugia che ha considerato il letto quale superficie d’appoggio inidonea a limitare lo spazio vitale del detenuto, essendo le ore trascorse all’interno della stanza per lo più dedicate ad attività sedentarie. La sentenza della Cassazione, nell’accogliere il ricorso, incide positivamente nell’ambito dei diritti fondamentali dei detenuti, i quali dovranno avere a disposizione, in cella collettiva, la quota di tre metri quadrati di spazio minimo individuale calcolato detraendo dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi ma anche quello occupato dal letto. C’è un mondo che non vogliamo vedere: il carcere di Monica Marchi (Avvocato) Corriere della Sera, 18 dicembre 2016 C’è un mondo (quello del carcere) che non vogliamo vedere, è scomodo, è fastidioso, e diciamocelo pure, se la sono cercata! Non ne parlano neppure i giornalisti; il carcere è il purgatorio delle colpe che scarichiamo su altri, e così per come è, si trasforma in una fucina di nuovi e vecchi adepti al crimine più vario. Il ministro Orlando, per fortuna riconfermato, ha voluto e costruito gli Stati Generali della Pena, unendo attorno ad un tavolo, tutte, ma proprio tutte, le diverse anime che si occupano di sanzione. Il lavoro dei 18 tavoli è raccolto nel documento “Giostra” (lo può leggere dal sito del ministero), ma quel lavoro non ha trovato alcuno spazio nei giornali, o in televisione o altrove, rimanendo un argomento di nicchia, insomma “roba da avvocati, magistrati e volontari”. Eppure, nel carcere, che è una comunità e non qualcosa di esterno alla nostra società, lo Stato rinnova il suo patto con le persone che hanno sbagliato, è una comunità dove lavorano moltissime persone, è un luogo dove la comunità carceraria e la comunità libera cercano un punto d’incontro, perché un giorno, quelle persone usciranno e non devono ricadere nell’errore di scegliere la via più semplice per vivere bene. È ovvio, questo vale solo per chi vuole prendere coscienza di come e perché è arrivato alla reclusione, ma ne vale la pena, e poi questo è il primo dovere dello Stato, quindi… Quindi, proviamo a non nascondere la polvere sotto al tappeto, nei giorni scorsi abbiamo tanto discusso della Costituzione, proviamo a soffermarci sulla portata dei suoi principi, diamo spazio e divulgazione a quel lavoro poderoso ed importante che ho segnalato, riprendiamoci lo Stato comunità, lo Stato bene pubblico. Calamandrei in una lontanissima lezione, raccontava l’aneddoto di due persone che trovano nella stiva di una barca rimasta senza governo durante una furiosa tempesta, l’uno dice all’altro: “dai, esci con me e salviamo la nave”, “perché dice l’altro mica è mia”. Il carcere ti ha fatto bene? di Carmelo Musumeci carmelomusumeci.com, 18 dicembre 2016 “Molte volte il prigioniero è ciò che gli viene permesso di essere”. (Diario di un ergastolano). Spesso chi conosce la mia storia e viene a sapere che sono entrato in carcere solo con la quinta elementare, ma che ho preso tre laure, che pubblico libri, che ho ricevuto vari encomi, che svolgo attività di consulenza ai detenuti e agli studenti universitari nella stesura delle loro tesi di laurea sul carcere e sulla pena dell’ergastolo, mi chiedono: “Quindi, il carcere ti ha fatto bene?”. Quanto odio questa domanda! Prima di rispondere penso ai pestaggi che ho subito all’inizio della mia carcerazione. Ricordo i compagni che si sono tolti la vita impiccandosi alle sbarre della finestra della loro cella perché il carcere induce i più deboli alla disperazione. Rammento i lunghi periodi d’isolamento nelle celle di punizione dove sono stato rinchiuso con le pareti imbrattate di sangue ed escrementi. Mi vengono in mente le botte che una volta avevo preso per essere rimasto più di qualche secondo fra le braccia della mia compagna nella sala colloqui. E di quando avevo dato di matto perché avevo trovato le foto dei miei figli per terra calpestate dagli anfibi delle guardie. Penso ai numerosi trasferimenti che ho subito da un carcere all’altro sempre più lontano da casa. Ricordo tutte le volte che venivo sbattuto nelle “celle lisce” perché tentavo di difendere la mia umanità. In quelle tombe non c’era niente. Nessuno oggetto. Neppure un libro. Nessuna speranza. Non vedevo gli altri detenuti. Li riconoscevo solo dalle grida e dal ritmo dei colpi che battevano sul blindato. Mi ricordo che avevano degli sbalzi di umore: da un’ora all’altra, improvvisamente, piangevano e ridevano. Rammento i lunghi anni trascorsi nel regime di tortura del 41 bis nell’isola degli ergastolani dell’Asinara. Spesso le guardie arrivavano ubriache davanti alla mia cella ad insultarmi. Mi minacciavano e mi gridavano: “Figlio di puttana.” “Mafioso di merda.” “Alla prossima conta entriamo in cella e t’impicchiamo”. Dopo di che, mi lasciavano la luce accesa (che io non potevo spegnere) e andavano via dando un paio di calci nel blindato. Mi trattavano come una bestia. Avevo disimparato a parlare e a pensare. Mi sentivo l’uomo più solo di tutta l’umanità. Per alcuni anni mi ero distaccato dalla vita, lentamente, quasi senza dolore. Non desideravo e non volevo più niente. Cercavo solo di sopravvivere ancora un poco. Mi sentivo già morto. E pensavo che non mi poteva capitare nulla di peggio. Ma mi sbagliavo perché non c’è mai fine al male. I giorni, le settimane, i mesi e gli anni passavano e io continuavo a maledire il mio cuore perché, nonostante tutto, lui insisteva ad amare l’umanità. M’inventai cento modi per sopravvivere. Adesso posso dire: “Ce l’ho fatta!”. Ma a che prezzo! Scrivevo per vivere e vivevo se scrivevo. A distanza di venticinque anni, mi domando a volte come ho fatto a resistere e non riesco ancora a darmi una risposta. Mi vengano in mente le ore d’aria trascorse nei stretti cortili dei passeggi con le mura alte e il cielo reticolato, ghiacciati d’inverno e roventi d’estate. Ricordo gli eterni andirivieni, da un muro all’altro nei cortili, o dalla finestra al blindato nella cella, sempre pensando che solo la morte avrebbe potuto liberarmi. Ricordo i topi che mi giravano intorno, gli indumenti, i libri e le carte saccheggiate. Stringevo i denti per non diventare una cosa fra le cose. È difficile pensare al male che hai fatto fuori se ricevi male tutti i giorni. Ti consola poco capire che te lo sei meritato. È vero! Bisogna pagare il male fatto, ma perché farlo ricevendo altro male? Dopo aver ricordato tutte queste cose, alla domanda se il carcere mi ha fatto bene rispondo che il carcere non mi ha assolutamente fatto bene. Se mi limitassi a guardare solo carcere, posso dire che non solo mi ha peggiorato, ma mi ha anche fatto tanto male. Ciò che mi ha migliorato e cambiato non è stato certo il carcere, ma l’amore della mia compagna, dei miei due figli, le relazioni sociali e umane che in tutti questi anni mi sono creato, insieme alla lettura di migliaia di libri di cui mi sono sempre circondato, anche nei momenti di privazione assoluta. Ed è proprio questo programma di auto-rieducazione che mi ha aperto una finestra per comprendere il male che avevo fatto e avere così una possibilità di riscatto. Molti non lo sanno, ma forse la cosa più terribile del carcere è accorgersi che si soffre per nulla. Ed è terribile comprendere che il nostro dolore non fa bene a nessuno, neppure alle vittime dei nostri reati. Spesso ho persino pensato che il carcere faccia più male alla società che agli stessi prigionieri perché, nella maggioranza dei casi, la prigione produce e modella nuovi criminali. Se a me questo non è accaduto è solo grazie all’amore della mia famiglia e di una parte della società. Appello dal carcere “Lasciate il figlio a mamma Martina” di Franco Vanni La Repubblica, 18 dicembre 2016 La lettera, una delle tante, comincia così: “Se solo conosceste Martina, non le avreste tolto il bambino”. Il riferimento è a Martina Levato, condannata in appello a un totale di 28 anni di carcere per le aggressioni con acido compiute a Milano due anni fa. A scrivere è una detenuta del carcere di San Vittore, dove la ragazza si trova dal 28 dicembre 2014. Oltre a scrivere messaggi rivolti ai giudici minorili, le donne rinchiuse nel carcere milanese hanno cominciato una raccolta di firme, poi estesa alle sezioni maschili, arrivando a metterne insieme duecento. Le carcerate chiedono ai magistrati di “ripensare a quello che hanno fatto” e restituire a Martina il bambino che ha partorito da detenuta il 15 agosto 2015, poi dichiarato adottabile dal tribunale per i minorenni lo scorso 7 ottobre. Levato è stata dichiarata sospesa dalla responsabilità genitoriale, come anche Alexander Boettcher, padre del bambino, ex amante della Levato e suo complice, arrestato con lei e condannato in appello in due distinti processi a 23 e 14 anni di carcere. La mobilitazione a favore della Levato, grazie al tam tam fra le detenute, ha superato i confini di San Vittore. Un centinaio di firme “per fare riavere a Martina il suo piccolo” sono state raccolte nel carcere di Opera. E la polizia penitenziaria milanese riferisce di “almeno un’altra struttura” in cui sarebbe in corso un’iniziativa simile. La solidarietà nei confronti della ragazza - che sfregiò con acido lo studente Pietro Barbini e il giovane Stefano Savi - è arrivata anche a Bollate, suo paese natale. In questo caso a raccogliere firme (oltre 900) sono amici della ragazza ed ex studenti dei suoi genitori, entrambi insegnanti. La conta complessiva delle firme sale così a oltre 1.200. Le lettere con le liste di nomi sono in parte state consegnate ai legali che assistono Levato: la penalista Alessandra Guarini e Laura Cossar, che segue il procedimento minorile. “Chi ha vissuto con Martina in questi mesi ha conosciuto una persona diversa da quella raccontata nei processi - dice Cossar. Questo non cambia ovviamente la sua posizione dal punto di vista penale. Ma di certo depositeremo le firme alla Corte d’appello sezione Minori e famiglia, come allegato all’istanza con cui chiediamo al giudice di annullare la decisione del tribunale minorile”. L’udienza che dovrà giudicare il ricorso contro l’adottabilità è prevista per il prossimo 2 febbraio. Per la difesa di Levato si annuncia una sfida molto difficile. Intanto, il bambino è affidato al Comune di Milano e vive in una casa-famiglia. La decisione del giudice del tribunale per i minorenni Emanuela Gorra di dichiarare adottabile il bambino accoglie la richiesta del sostituto procuratore Annamaria Fiorillo. I medici e gli psicologi nominati come consulenti dai giudici evidenziarono infatti “l’inadeguatezza di entrambe le figure genitoriali nel rapporto con il bambino, la grave patologia degli assetti personologici, la perversione che sottende il loro legame”. Secondo i consulenti del tribunale, Levato in particolare sarebbe “poco matura”. Addirittura, “quasi una bambina lei stessa”. E conclusero che la personalità “patologica” della ragazza potrebbe costituire “grave pregiudizio” alla corretta crescita del bambino. Abruzzo: tribunali minori, il Ministero annuncia un vertice per fare chiarezza notiziedabruzzo.it, 18 dicembre 2016 “Diversi articoli di stampa hanno ripetutamente sostenuto che il Ministero di Giustizia avrebbe archiviato definitivamente la vicenda dei tribunali di Avezzano, Sulmona, Vasto e Lanciano. Recentemente, il ministro Orlando, in occasione della campagna referendaria, a Teramo e all’Aquila ha ribadito che si deve tener conto di quello che è successo in questi anni e valutare gli aggiustamenti da fare”. A comunicarlo in una nota è l’ufficio stampa del Ministero di Giustizia. “E nello stesso tempo che sarebbe sbagliato fare dell’Abruzzo un’eccezione a livello nazionale - si prosegue nella nota - con infinite proroghe di una condizione indefinita. Tra le disfunzioni che derivano da questa condizione ci sono, ad esempio, proprio quelle delle piante organiche: non si può procedere alla normale assegnazione di personale e magistrati a sedi che sulla carta sono chiuse anche se in regime di proroga. Il ministro Orlando convocherà a breve i vertici giudiziari dei distretti interessati per avviare la necessaria riflessione per contemperare al meglio tutte le necessità”. Sulla questione dei tribunali minori era in programma proprio oggi un incontro a Pescara in Regione - promosso dal presidente della Regione, Luciano D’Alfonso, e dal presidente del Consiglio Regionale, Giuseppe Di Pangrazio - con i parlamentari abruzzesi, con i sindaci delle città capoluogo e con i sindaci delle città sedi delle circoscrizioni giudiziarie interessate, Avezzano, Lanciano, Sulmona, e Vasto. “Tutti i presenti hanno convenuto sull’esigenza di trovare un modello per tutelare i presidi della legalità sul territorio regionale”. È quanto sostengono il presidente della Giunta regionale Luciano D’Alfonso e il presidente del Consiglio regionale Giuseppe Di Pangrazio in una nota congiunta diffusa al termine di un incontro organizzato a Pescara per la condivisione di iniziative volte a salvaguardare le circoscrizioni giudiziarie di Avezzano, Lanciano, Sulmona e Vasto che, secondo quanto disposto da una legge varata nel 2011 dal governo Monti, dovrebbero essere soppresse nel settembre del 2018. Alla riunione hanno preso parte deputati e senatori abruzzesi di tutte le forze politiche - compresa la senatrice Federica Chiavaroli, già sottosegretario alla giustizia - e i sindaci e i rappresentanti dell’avvocatura delle città interessate. “Vi è la necessità di analizzare il fabbisogno del settore - proseguono nella nota D’Alfonso e Di Pangrazio - ridisegnare la rete giudiziaria e far sì che l’Abruzzo si possa dotare di altre strutture. A tale scopo ciascuno al proprio livello lavorerà per ottenere una proroga del termine stabilito; successivamente sarà costruito un gruppo di lavoro per valorizzare i presidi di legalità nella regione”. “Io ritengo molto difficile che si possano salvare tutti i quattro tribunali soppressi perchè come ha detto il Ministro della Giustizia Orlando nella sua visita nella nostra regione, abbiamo chiuso uffici in tutta Italia e la riforma ha funzionato”. È quanto sostiene il sottosegretario uscente alla Giustizia, la senatrice Federica Chiavaroli, a margine dell’incontro a PESCARA, alla presenza di alcuni parlamentari abruzzesi e amministratori locali, oltre che al presidente della Regione Luciano D’Alfonso e al presidente del Consiglio regionale, Giuseppe Di Pangrazio, per affrontare la problematica relativa al salvataggio dei cosiddetti tribunali minori di Vasto, Lanciano, Sulmona e Avezzano. “L’obiettivo di questo incontro - spiega - è quello di trovare la strada che possa servire a ripensare la riforma della geografia giudiziaria che ha interessato l’Abruzzo. Ricordo per chiarezza che nel 2012 il Parlamento aveva deciso di chiudere i quattro Tribunali abruzzesi: Avezzano, Sulmona, Lanciano e Vasto. Decisione sospesa per il terremoto e sospensione che cessa nel settembre del 2018. Ora perchè il Parlamento possa tornare indietro rispetto ad una decisione già assunta, è necessario che la comunità abruzzese politica si metta d’accordo”. “Se noi abbiamo a cuore il nostro Abruzzo e i nostri territori, dobbiamo metterci d’accordo - aggiunge - fare una proposta che magari proponga di salvarne uno, due, e sono certa che in questo modo questa proposta possa essere valutata dal Ministero della Giustizia, ma soprattutto dal ministro dell’Economia e delle Finanze che è il vero osso duro in questo momento. Per questo ritengo questa una riunione utile per riuscire a trovare una convergenza rispetto ad una soluzione di questo tipo”. Fra i parlamentari presenti c’erano Antonio Castricone (Pd), Maria Amato (Pd), Paola Pelino (Fi), Andrea Colletti (M5S), Gianni Melilla (Si), Gianluca Fusilli (Pd), Stefania Pezzopane (Pd). “Quello di Vasto è un tribunale di frontiera e ha dovuto affrontare l’ultimo processo che ha colpito un rete di criminalità organizzata e camorra in particolare. Vasto si trova a ridosso della Puglia, e poi per altri fronti interni anche non lontano dalla Campania e dunque facilmente aggredibile al suo interno”. Lo ha detto il deputato Maria Amato (Pd) al termine dell’incontro con parlamentari e amministratori abruzzesi. “Il tribunale per questo territorio è sicuramente importante - ha sostenuto - e per questo urge il buon senso per ragionare nell’ottica di una spending review che viene da lontano, per riuscire ad ottenere il massimo possibile per la Regione Abruzzo in modo da non lasciare scoperta questa fascia di territorio impoverito distante chilometricamente in alcuni vasi dai grossi centri, e di una fascia che ha bisogno di presidi di legalità” Trento: si suicida in carcere un 35enne della Vallagarina arrestato martedì scorso L’Adige, 18 dicembre 2016 Si è suicidato in carcere Luca Soricelli, il 35enne della Vallagarina, arrestato martedì scorso con l’accusa di aver dato fuoco al distributore di benzina Eni Agip di via Cavour a Rovereto, distrutto dal rogo attorno alle 2.30 di notte. Soricelli si è suicidato nel cuore della notte mentre il suo compagno di cella, un giovane italiano, dormiva. Tutto è accaduto rapidamente, secondo quanto si è appreso, senza che né l’altro detenuto né il sorvegliante di turno, che ha molte celle da tenere sotto controllo, si rendessero conto di nulla. “È stato fatto di tutto per soccorrere il detenuto - spiega il comandante della polizia penitenziaria del carcere di Trento, Daniele Cutugno - in attesa dell’arrivo dei sanitari del 118 il nostro personale ha praticato la respirazione artificiale e il massaggio cardiaco. Purtroppo non è bastato per salvargli la vita”. La procura di Trento, come di prassi in questi casi, ha aperto un fascicolo, è stata disposta l’ispezione cadaverica esterna che non ha rilevato segni che possano far pensare a dinamiche diverse dal suicidio escludendo il coinvolgimento di terzi. L’impressione è che si tratti di una tragedia che affonda le sue radici nella psiche del detenuto, non nuovo a problemi di natura mentale. Si tratta del quarto suicidio avvenuto nel carcere di Spini dall’apertura, sei anni fa. Il nuovo, tragico episodio, ripropone fra l’altro la questione della pesante carenza di personale di polizia nel penitenziario di Trento. “Un detenuto che si toglie la vita in carcere - commenta Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe - è sempre una sconfitta per lo Stato. Questo nuovo drammatico suicidio di un altro detenuto evidenzia come i problemi sociali e umani permangono, eccome!, nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati. È proprio in questo contesto che viene affrontato il problema della prevenzione del suicidio nel nostro Paese. Ma ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione. Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della polizia penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 20mila tentati suicidi - 20.263 - ed impedito che quasi 142 mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Il dato oggettivo è che la situazione nelle carceri resta allarmante, nonostante la Polizia Penitenziaria vi operi quotidianamente con professionalità ed umanità e le polemiche sterili e strumentali di taluni”, conclude Capece. Trento: detenuto trovato impiccato in cella. Gli agenti: “Niente medici di notte” di Dafne Roat Corriere del Trentino, 18 dicembre 2016 “Un detenuto che si toglie la vita in carcere è sempre una sconfitta per lo Stato”. Le parole di Donato Capece, segretario generale del Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria) danno il senso di quello che sta vivendo il personale del carcere di Trento, dell’amarezza e dell’impotenza degli agenti della polizia penitenziaria in servizio a Spini, un edificio modernissimo, aperto solo sette anni fa, ma che paga la cronica carenza di personale. La scorsa notte c’era un solo agente per coprire quattro posti di servizio. Non c’era alcun medico o infermiere. La cella dell’infermeria dove era detenuto il trentacinquenne Luca Soricelli, della Bassa Vallagarina era stata controllata da poco. Il tempo di finire il giro di verifiche, ma quando l’agente è tornato ha trovato l’uomo impiccato al cancello della cella. La chiamata disperata ai sanitari del 118 e i tentativi da parte del personale in servizio di rianimare il trentenne non sono bastati a salvarlo. Per lui non c’era purtroppo nulla da fare. L’uomo (di cui omettiamo il nome per rispetto della famiglia ndr) era stato arrestato lunedì notte dai carabinieri per l’incendio appiccato al distributore di benzina di via Cavour a Rovereto. Un gesto di follia. Quando i carabinieri lo avevano fermato l’uomo era stato trovato in stato confusionale e poco lucido. Il trentacinquenne pochi minuti prima aveva pagato di tasca propria 150 euro di benzina, poi aveva cosparso il carburante le pompe di benzina del distributore Eni-Agip e aveva appiccato il fuoco. Le fiamme in una manciata di secondi avevano giù lambito le due pompe ed erano arrivati fino al tetto della pensilina. Era stato uno dei gestori, che abita poco distante, il primo ad accorrere, nel cuore della notte, per tentare di spegnere con l’estintore l’incendio. Ha scaricato sei estintori sulle fiamme, poi l’intervento dei vigili del fuoco aveva scongiurato il peggio, ma i danni sono comunque ingenti. Nella prima stima si era parlato di circa 80.000 euro. L’uomo, che pare abbia alle spalle da anni problemi di natura psicologica, non aveva saputo giustificare il suo gesto neppure davanti al giudice Carlo Ancona durante l’udienza per direttissima. Non aveva proferito parola. Per lui si erano aperte le porte del carcere. Il medico che l’aveva visitato aveva infatti ritenuto le condizioni del trentacinquenne compatibili con il regime carcerario. Era stato portato a Spini di Gardolo e messo nella cella dell’infermeria insieme ad un altro detenuto, ma l’uomo non ce l’ha fatta. Tre giorni dopo il suo ingresso nella casa circondariale, colto dalla disperazione, ha deciso di farla finita. Una tragedia immensa che ha colpito tutti ieri. “Un dramma che deve far riflettere” commentano i sindacati di polizia che in una nota unitaria dell’Uilpa, Sinappe, Fns Cisl, Uspp, Cgil, al Provveditorato regionale un intervento urgente e il distacco di 20 agenti da destinare al carcere di Trento, da tempo sotto organico. I detenuti a Trento attualmente sono 337 a fronte di un organico di 214 agenti, ma gli effettivi sono di fatto sono solo 108 e di questi molti vengono impiegati per i piantonamenti all’ospedale. Il Sappe parla di una vera e propria “emergenza”. La scorsa notte doveva esserci qualcuno a sorvegliare il trentacinquenne, ma l’agente incaricato doveva coprire quattro posti contemporaneamente. Pochi minuti di assenza e la tragedia. È il terzo suicidio in sette anni che accade nel carcere di Trento. “Quanto accaduto ci deve far riflettere” commenta il consigliere provinciale del Pd Mattia Civico che ha presentato un disegno di legge per istituire la figura del garante del detenuto a Trento, una proposta che dovrebbe andare in commissione consiliare nei prossimi mesi. “È una battaglia che porto avanti da sette anni - spiega - al di là del caso specifico bisogna rendere il carcere un luogo aperto, va reso una parte della comunità, ci vogliono strumenti, risorse e sguardi positivi, altrimenti diventa un luogo di disperazione e invece deve essere un luogo di rinascita”. Intanto sul caso scoppiato nei giorni scorsi e sulle accuse del garante nazionale dei diritti dei detenuti contenuti in un rapporto nel quale viene denunciata la presenza di una “stanza delle percosse”, la Procura, che dopo l’esposto aveva aperto un’indagine, ha chiesto l’archiviazione del fascicolo, ritenendo le accuse infondate. Ma il garante ha presentato opposizione al decreto. Ora si attende l’udienza davanti al gip. Roma: morto l’assistente capo della Polizia penitenziaria che si era impiccato all’Ipm ottopagine.it, 18 dicembre 2016 L’ennesima vittima del male oscuro. Un suicidio. Tentato. E tragicamente riuscito. La disperata corsa dei soccorsi. Inutile. Non ce l’ha fatta Alfredo Pagani, assistente capo di polizia penitenziaria di 42 anni, in servizio al Carcere minorile Casal del Marmo di Roma. L’uomo ha deciso di farla finita due giorni fa. Ha messo in atto il suo proposito disperato all’interno della struttura penitenziaria. Vani tutti i tentativi di rianimarlo e vana anche la corsa dell’ambulanza verso l’ospedale San Filippo Neri. Ignote le cause del gesto. Ieri mattina Alfredo ha cessato di vivere. Maurizio Somma, segretario nazionale per il Lazio del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe lo ricorda così: “Alfredo, celibe, era assente dal servizio da diversi mesi per una patologia psicologica ma viveva in Caserma. Gli era stata ritirata la pistola, ma questo non ha impedito che mettesse in atto il tragico gesto. Si è infatti impiccato con una cinghia in bagno”. Attonito Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe: “Sono davvero sgomento. Dall’inizio dell’anno sono stati ben 6 i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita. Dal 2000 ad oggi oltre cento sono stati i casi di suicidio nel Corpo di Polizia e dell’Amministrazione penitenziaria. Non sappiamo le ragioni del tragico gesto del collega. Certo è che è luogo comune pensare che lo stress lavorativo sia appannaggio solamente delle persone fragili e indifese: il fenomeno colpisce inevitabilmente anche quelle categorie di lavoratori che almeno nell’immaginario collettivo ne sarebbero esenti, ci riferiamo in modo particolare alle cosiddette “professioni di aiuto”, dove gli operatori sono costantemente esposti a situazioni stressogene alle quali ognuno di loro reagisce in base al ruolo ricoperto e alle specificità del gruppo di appartenenza. Il riferimento è, ad esempio, a tutti coloro che nell’ambito dell’Amministrazione di appartenenza spesso si ritrovano soli con i loro vissuti, demotivati e sottoposti ad innumerevoli rischi e ad occuparsi di vari stati di disagio familiare, di problemi sociali di infanzia maltrattata ovvero tutto quel mondo della marginalità che ha bisogno, soprattutto, di un aiuto immediato sulla strada per sopravvivere”. “L’Amministrazione Penitenziaria e quella della Giustizia Minorile non possono continuare a tergiversare su questa drammatica realtà”, conclude Capece”. Bolzano: la Caritas difende il carcere “è ben gestito” Alto Adige, 18 dicembre 2016 “Dobbiamo difendere l’idea di un carcere umano come quello di Bolzano”. Alessandro Pedrotti è il responsabile del servizio Odòs di Caritas che nella sua casa ospita anche i detenuti in permesso speciale oltre a strutturare percorsi di reinserimento. Nella sua veste di vice presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ha preso carta e penna difendendo la politica adottata all’interno della casa circondariale diretta da Anna Rita Nuzzaci molto criticata, recentemente, dai sindacati di polizia penitenziaria. “In un momento in cui il nostro Paese è sotto stretta osservazione proprio per le condizioni delle sue carceri è impensabile criticare chi cerca di operare rispettando le norme”. Le accuse mosse a Nuzzaci si riferiscono principalmente alla politica dei permessi speciali, alle celle aperte con la sorveglianza dinamica ed i corsi serali. “Partiamo dai permessi - continua Pedrotti - perché sono uno strumento che non va sminuito. Si tratta, infatti, di un’ottima carta per un reinserimento graduale nella società, che poi è il fine della pena detentiva. Non solo: abbattono l’autolesionismo e permettono di mantenere i contatti con le famiglie. I numeri dicono che solo nel 4% dei casi si è andati incontro a qualche difficoltà. È un dato molto basso rispetto alla media”. Spazio, poi, a quello che accade dentro il carcere. “È noto che lasciare le celle aperte il più possibile abbassa la conflittualità. Impensabile, infine, sospendere i corsi alle 14. Bene ci siano anche la sera”. Messina: prosegue la ristrutturazione del carcere di Gazzi. Ugl soddisfatta normanno.com, 18 dicembre 2016 Ieri mattina una delegazione dell’Ugl Polizia Penitenziaria, costituita dal segretario nazionale Alessandro De Pasquale e dai dirigenti sindacali Carmine Olanda e Antonio Solano ha fatto visita al carcere di Messina. Ad attenderli. il direttore del carcere Calogero Tessitore e il comandate della polizia penitenziaria Antonella Machì. “Anche grazie alla nostra manifestazione del 18 giugno scorso - dichiara il sindacalista Alessandro De Pasquale - abbiamo riscontrato alcuni miglioramenti strutturali del penitenziario nonostante le scarse risorse disponibili”. De Pasquale ha invece avuto rassicurazioni circa il progetto di ristrutturazione della casa circondariale attualmente in corso con l’obiettivo di rendere i luoghi di lavoro più sicuri e vivibili. “Sono soddisfatto del risultato ottenuto - ha dichiarato Antonio Solano - in quanto, dopo tanti anni e grazie al nostro contributo sindacale, è stato possibile ottenere “l’acqua calda” nella caserma agenti, i servizi igienici per il personale di polizia penitenziaria operante nel reparto femminile, nonché - come dichiarato dallo stesso direttore - la messa in sicurezza dell’eternit. La Ugl - continua Solano - rimarrà comunque sempre attenta e vigile alle problematiche esistenti e alla loro definitiva risoluzione. Intanto, lunedì prossimo è organizzato un incontro con il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria per la Sicilia Gianfranco De Gesu, al quale l’Ugl chiederà maggior attenzione per il carcere di Messina e la possibilità di stanziare i fondi utili per il continuo miglioramento delle condizioni del suddetto penitenziario. Sondrio: “Gluten free”, dal carcere alle tavole la pasta speciale prodotta dai detenuti di Camilla Martina Il Giorno, 18 dicembre 2016 Il progetto “A mani libere” promosso dalla cooperativa Ippogrifo. Dal carcere alla tavola con un laboratorio artigianale di produzione di pasta gluten free, che trasforma due limiti, la detenzione e la celiachia, in opportunità di rivalsa e inclusione. “A mani libere”, questo il nome provvisorio del progetto, è promosso dalla cooperativa Ippogrifo, insieme al carcere di Sondrio e ha partner quali Bim, Pro Valtellina, Confartigianato. Nasce dall’esigenza concreta “di impiegare il nuovo spazio ristrutturato all’interno del carcere con un’attività appropriata”, spiega Alberto Fabani, referente del progetto per Ippogrifo, affiancato da Paolo Pomi, presidente della cooperativa. Si è pensato a un laboratorio manuale che trattasse un tema caldo, la celiachia. Il 27 settembre c’è stata la posa dei macchinari per la produzione della pasta (se ne possono “sfornare” 100 kg l’ora), poi sono partiti contatti e condivisioni, estesi ben oltre i confini provinciali, fino all’Aic, Associazione italiana celiachia, all’azienda La Veronese e allo chef Marcello Ferrarmi. “Da oggi - aggiunge Fabani - avremo momenti di formazione per imparare a produrre la pasta senza glutine”. A gennaio-febbraio si pensa di avviare la commercializzazione del prodotto della startup imprenditoriale-sociale. All’inizio saranno coinvolti 4-5 detenuti per la formazione, uno sarà assunto, poi si valuterà. “Quando sono arrivata qui - commenta la direttrice del carcere Stefania Mussio - sono rimasta colpita dall’importante investimento fatto per recuperare questo locale, anche se la destinazione pensata originariamente non mi convinceva”. Decisamente più stimolante, per la direttrice, l’idea di impostare un laboratorio creativo legato alla cucina, che potesse davvero rispondere alle esigenze di una realtà complessa come il carcere. I soggetti del territorio hanno risposto immediatamente, “dimostrando molta serietà”, aggiunge Mussio. “Non ho dubbi che la detenzione debba avere un ruolo rieducativo e mi piace l’idea del lavoro manuale”, commenta la presidente del Bim Carla Cioccarelli. Le fa eco la rappresentante di Pro Valtellina Lucia Foppoli, “tra i progetti da noi finanziati è uno dei più interessanti” e “dalla duplice valenza”, spiega Massimiliano Carraro, titolare de La Veronese che fornirà la materia prima. “Da un aspetto sociale, il carcere, a un altro aspetto sociale, la celiachia”, aggiunge Ferrarmi che ha trasformato un problema (anche lui è celiaco) in una mission, prima dietro i fornelli, ora in ambito divulgativo. “Realizzare pasta fresca priva di glutine senza addensanti chimici, come fa La Veronese, non è scontato, ma veicola un forte messaggio, soprattutto ai ragazzi che apprenderanno competenze molto specifiche, da sfruttare anche fuori”. Work in progress per un percorso che fa dell’alimentazione “elemento di inclusione”, come sottolinea il presidente lombardo di Aic Lombardia Isidoro Piarulli. All’impasto sotto la guida di uno chef (La Provincia di Sondrio) A guidare i detenuti del carcere di Sondrio nella produzione e preparazione della pasta senza glutine ci sarà Marcello Ferrarini, celiaco e chef affermato e che, proprio per queste sue due “caratteristiche” conosce bene e promuove ancora meglio la necessita di mangiare alimenti sicuri, ma che siano anche e soprattutto di qualità. “Quello che potrebbe essere considerato un disagio, cioè la celiachia - ha sottolineato Ferrarini - con autostima e lungimiranza si può trasformare in opportunità così come è stato per me. Io cerco di creare un piatto buono e condivisibile anche da chi mangia insieme a una persona celiaca. La tavola è un aspetto centrale della nostra cultura e quando ci sediamo a tavola lo facciamo per condividere. Questo progetto, poi, per i detenuti è un’opportunità di crescere e ci permette di lavorare in un aspetto sociale, cioè l’apprendimento di competenze che poi potranno servire in futuro, per un altro aspetto sociale, cioè dare alimenti di qualità e sicuri alle persone celiache”. E proprio per valorizzare l’esperienza dei detenuti e la loro creatività l’intenzione di Marcello Ferrarini è quella di accompagnare la produzione della pasta senza glutine allo studio di alcune ricette, ispirate magari alle esigenze religiose e culturali dei detenuti stessi. “L’alimentazione è inclusione - ha fatto eco Isidoro Pierulli, presidente di Aic Lombardia - e fa piacere si stia diffondendo questa sensibilità del senza glutine, visto che il celiaco, invece, spesso a tavola si sente escluso. Bisogna capire che la celiachia non è una moda, ma una necessità e mangiare bene è l’unica medicina. Per questo come associazione ci impegneremo affinché ci sia la garanzia che l’alimento prodotto nel laboratorio sia buono, idoneo per il celiaco, e realizzato con tanta fantasia. Cercheremo inoltre di dare una mano per far sì che venga anche rispettata la norma per la quale, su richiesta, anche in carcere si deve garantire un pasto senza glutine”. Infine, Massimiliano Carraro, uno dei titolari de “La Veronese”, azienda che fornirà la materia prima peraltro realizzata senza addensanti chimici, ha ricordato la duplice valenza dell’iniziativa che sta “nell’offrire una possibilità di riscatto a chi ha vissuto una situazione non favorevole, ma anche nel trasmettere, attraverso la produzione della pasta, il valore umano della fatica”. Brindisi: sovraffollamento delle carceri, ci sono 70 detenuti in più di Angela Balenzano Corriere della Sera, 18 dicembre 2016 Sovraffollamento delle carceri, celle strette e sporche, malattie infettive, condizioni di vivibilità allo stremo. È la situazione attuale nelle carceri in Puglia (ma anche nel resto d’Italia) di cui si parla da tempo. Da anni. Ma cambiamenti concreti per la verità ce ne sono stati pochi o, forse, non ce ne sono stati affatto. Il presidente della Regione, Nichi Vendola, durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario ha detto che “la situazione nelle carceri è medievale. Che è una vergogna assoluta. Ci troviamo galere piene di persone che non hanno bisogno tanto della privazione della libertà personale ma dell’accompagnamento, avrebbero bisogno di servizi sociali, di una possibilità di vita, di lavoro”. Per avere un’idea del sovraffollamento degli istituti di pena in Puglia questi sono i numeri aggiornati al 25 gennaio: a Bari sono presenti 510 detenuti a fronte di una capienza di 292: da considerare che ci sono 80 posti in meno perché la seconda sezione al momento è chiusa. Nel penitenziario di Brindisi i detenuti sono 216 e la capienza è di 147 persone. Esplosiva la situazione a Lecce: 1300 detenuti pur se la capacità della struttura è di 659; non va meglio a Taranto dove i carcerati sono 660 e la capienza è di 315; a Foggia 732 detenuti su una capienza di 371. Nel carcere di Altamura sono presenti 91 detenuti (su 52 posti); a Lucera ci sono 240 persone (su 175); a San Severo sono in 94 (su 64); a Trani le presenze sono 334 (su 233): a Turi infine 180 (su 112). Complessivamente in Puglia ci sono 4.357 detenuti su una capienza complessiva di 2.340. L’esubero è di 2017 persone. “Se le galere - ha concluso Vendola - diventano una discarica sociale in cui far precipitare tutto ciò che è brutto, sporco e cattivo, vuol dire che stiamo regredendo verso un moderno medioevo”. Spiega Federico Pilagatti, segretario nazionale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe): “Il grave problema del sovraffollamento in Puglia tocca la punta dell’iceberg perché si predica bene ma si razzola male. Il presidente Vendola dice quello che noi sindacati diciamo da anni, ma nel concreto cosa fa la Regione per le carceri e i detenuti? È riuscita a peggiorare l’assistenza sanitaria facendo nascere il turismo carcerario che vede moltissimi detenuti, anche pericolosi uscire dal carcere anche per patologie che prima venivano curate all’interno della struttura. Con il passaggio della sanità penitenziaria a quella pubblica, per esempio, le uscite dalla carceri per le strutture sanitarie in alcuni casi sono aumentate del 100%. E poi ci sono le colpe del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria) - conclude - che non distribuisce in maniera adeguata i detenuti in ambito nazionale”. Santa Maria Capua Vetere (Ce): carenza idrica in carcere, parte il piano per i lavori edizionecaserta.it, 18 dicembre 2016 Il 24 gennaio prossimo avranno inizio presso il comune le operazioni di gara per l’aggiudicazione per la progettazione definitiva per la costruzione della rete idrica a servizio della casa circondariale e delle due aule bunker. L’importo a base d’asta per la progettazione è stato fissato a 96 mila e 600 euro, mentre l’importo dei lavori da realizzare è di circa un milione e mezzo di euro. Un altro piccolo tassello, quindi, è stato aggiunto per la definitiva soluzione del problema relativo alla carenza dell’approvvigionamento idrico presso il carcere di massima sicurezza sito in località “Spartimento” che tanti problemi causa alla intera popolazione carceraria ed a tutti gli operatori penitenziari. L’intervento è stato finanziato dalla Regione per due milioni e 190 mila euro a valere sui fondi Por Campania 2014/2020. La vicenda della carenza idrica alla Casa circondariale “Francesco Uccella” di santa Maria Capua Vetere parte da lontano e numerose sono state le difficoltà per il reperimento dei fondi per la realizzazione di circa quattro chilometri di rete idrica che dovrà allacciarsi alla casa circondariale che attualmente è servita da pozzi artesiani e da autobotti. Nell’ottobre del 2010 fu stipulato un accordo di programma per la realizzazione dell’opera fra il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Napoli e il comune di santa Maria. Ma la Corte dei Conti si pronunciò circa la non ammissibilità del finanziamento per una rete idrica a carico dei fondi del Ministero di Grazia e Giustizia e, quindi, l’accordo non ebbe alcun effetto. Padova: il Papa festeggia gli 80 anni (via Skype) con i detenuti del Due Palazzi di Andrea Tornielli La Stampa, 18 dicembre 2016 Nel pomeriggio un collegamento con i carcerati che gli dicono: “Tanti di noi pregano per te”. Francesco: “La speranza è capace di far cadere tutti i muri”. Nel giorno del suo ottantesimo compleanno, iniziato con la prima colazione consumata insieme a un gruppo di senzatetto che dormivano all’addiaccio attorno a San Pietro, Papa Francesco è stato festeggiato dai detenuti del carcere di Padova. Alle cinque del pomeriggio di sabato 17 dicembre Bergoglio si è collegato via Skype con il carcere Due Palazzi della città veneta, su invito del cappellano don Marco Pozza. Erano presenti - insieme al direttore, agli agenti della polizia penitenziaria e ai volontari - oltre sessantina di detenuti, che hanno dialogato con Francesco attraverso uno smartphone. Il collegamento video ha avuto qualche minuto di blackout, ma l’audio non si è mai interrotto. Marzio, un detenuto, ha letto una lettera per fare gli auguri al Pontefice. “Oggi qui ci sono dei tuoi amici”. I carcerati hanno ringraziato per il dono del nuovo vescovo di Padova, Claudio Cipolla, che vive con loro un rapporto di particolare vicinanza, e anche per il dono dell’Anno Santo Straordinario della misericordia. “Tanti di noi pregano per te spesso - ha continuato Marzio - Grazie dal profondo del cuore per la tua quotidiana testimonianza che alimenta la nostra speranza e i nostri sogni”. I detenuti hanno detto di considerare il Papa “un dono dello Spirito Santo”, che li aiuta “a vincere la rassegnazione e la stanchezza dei nostri giorni”. “Dio - ha detto ancora il rappresentante dei carcerati - desidera abitare tra gli uomini, ma può farlo solo attraverso uomini e donne che siano toccati da Lui e vivano il Vangelo senza cercare altro”. La lettera si è conclusa con questo impegno: “L’unica promessa, da umili peccatori, che siamo certi che riusciremo a mantenere è quella che pregheremo per te”. Francesco ha commentato alcuni passaggi dicendo “Che bello, che bello questo!”. Quindi ha ringraziato per i canti natalizi e per il canto degli auguri di compleanno. Ha benedetto “ognuno di voi e le vostre famiglie, prego per voi e vi sono vicino”. Infine li ha incoraggiati con queste parole: “La speranza non delude. Quando tu sei nel buio e vedi soltanto il muro, aggrappati alla speranza che è capace di far cadere tutti i muri”. Si conferma ancora una volta il legame speciale del Pontefice per i detenuti. Quasi ogni viaggio prevede una visita a un carcere, anche il prossimo 25 marzo, a Milano, Francesco pranzerà a San Vittore dedicando molto tempo a incontrare i detenuti. Nel libro “Il nome di Dio è misericordia” (che ha avuto un carcerato di Padova, il cinese Agostino Zhang, tra gli intervenuti alla presentazione) a questo proposito Bergoglio afferma: “Ho un rapporto speciale con coloro che vivono in prigione, privati della loro libertà. Sono stato sempre molto attaccato a loro, proprio per questa coscienza del mio essere peccatore. Ogni volta che varco la porta di un carcere per una celebrazione o per una visita, mi viene sempre questo pensiero: perché loro e non io? Io dovrei essere qui, meriterei di essere qui. Le loro cadute avrebbero potuto essere le mie, non mi sento migliore di chi ho di fronte. Così mi ritrovo a ripetere e a pregare: perché lui e non io? Può scandalizzare questo, ma mi consolo con Pietro: aveva rinnegato Gesù e nonostante questo è stato scelto”. Frosinone: partita di calcio tra detenuti e artisti, in carcere per abbattere i pregiudizi ciociariaoggi.it, 18 dicembre 2016 Dare “un calcio al pregiudizio”. Questo lo scopo della partita di calcio amichevole di giovedì scorso nella Casa Circondariale di via Cerreto a Frosinone. Un’occasione per i detenuti per vivere una giornata “normale”, dei momenti di spensieratezza come se avessero già scontato la loro pena e stessero giocando nel campo del quartiere con gli amici. Contrapposte in campo la squadra del carcere composta da detenuti comuni Leoni di Frosinone, e una delegazione della Love Cup, compagine formata da artisti, cabarettisti e organizzatori di eventi, per l’occasione in versione ridotta e integrata con i detenuti. Marcello Cuicchi, Alessandro Bucci, presidente della squadra, in veste di allenatore, Fabrizio Pacifici, Niccolò Senni, Marco Pastiglia, Cristiano Cutarelli, Alessandro Moglioni, Barbara e Moreno, arbitri ESC ce l’hanno messa tutta in campo, ma contro i Leoni hanno potuto segnare solo il gol della bandiera, firmato da Cutarelli su assist di Cuicchi. La gara è terminata 6 a 1: “Per il blocco del traffico a Roma molti di noi purtroppo non sono riusciti a venire - spiega il presidente Alessandro Bucci - Ci siamo integrati con i detenuti, cosa che alla fine non ci è dispiaciuta affatto. Anzi, era proprio questo lo spirito della giornata”. Per Cosetta Turco, madrina dell’evento organizzato da Gruppo Idee assieme all’associazione Freep Eventi di Roma, era la prima visita in un istituto penitenziario, e i suoi occhi impauriti la dicevano lunga. Appena entrata in carcere si guardava intorno senza riuscire a posare gli occhi su nessuno dei ragazzi: “Non sapevo come affrontare il loro sguardo - ha raccontato. Avevo paura. In fin dei conti sono dei detenuti e non avevo idea del perché fossero in carcere”. Nonostante queste parole, Cosetta ha cambiato subito idea, le sono bastati dieci minuti a contatto con i ragazzi, le è bastata la battuta di Andrea, detenuto comune: “Sono otto anni che non vedo una macchinetta fotografica”. “Queste parole mi hanno fatto riflettere sulla condizione di quelle persone. Su come per loro anche le cose più semplici siano straordinarie. Allora ho cominciato a sorridere. E non sono riuscita più a smettere di farlo. Per tutto il giorno ho ascoltato le loro storie e ho pensato a quanto ero stata sciocca ad aver paura di loro. Non dimenticherò mai quest’esperienza, per me è stata sicuramente molto istruttiva”. A Cosetta sono bastati dieci minuti. E la cosa più interessante di tutte è proprio ascoltare le loro storie. Storie di vita di persone che hanno sbagliato tanto e che hanno perso tutto per i loro errori, ma che stanno provando a rimediare, a rialzarsi. Per questo tali eventi sono importanti, per far aprire e aprirci con questi ragazzi, per conoscerli davvero, per smettere di avere paura e abbattere quella barriera di pregiudizio con il mondo esterno. Al termine l’ospite comico Marco Passiglia si esibisce nel suo spettacolo di cabaret. Sono ancora momenti di gioia per loro, che sorridono finalmente, anche se sanno che dopo pochi minuti dovranno tornare in cella. Alcuni per anni. Altri stanno per uscire e pensano alla famiglia che li aspetta fuori. Altri non li aspetta nessuno e pensano solo alla prossima occasione come questa per godere di qualche ora di “normalità”. Quando stiamo per andar via ci ringraziano emozionati: “Grazie per i vostri sorrisi, grazie per questa giornata, non la dimenticheremo”. A nome di Chiara Guerra e dell’Associazione Gruppo Idee, di Marcello Cuicchi, della Freep Roma, di Eventi Sportivi e Culturali, di tutti i volontari, degli ospiti e soprattutto della direzione della casa circondariale: “Grazie a voi ragazzi”. Altamura (Ba): Progetto Arbitri, consegna degli attestati ai detenuti altamuralife.it, 18 dicembre 2016 Volge al termine l’iniziativa socio-educativa dell’Associazione Arbitri “Silvium” di Gravina. Si terrà lunedì 19 dicembre 2016 l’incontro conclusivo del Progetto Arbitri “Il calcio: le regole del gioco” promosso dall’Associazione Arbitri “Silvium” di Gravina che ha visto coinvolti i detenuti del carcere penitenziario di Altamura. Quindici in media i presenti ai cinque incontri programmati - della durata di due ore l’uno circa - i quali hanno partecipato attivamente all’iniziativa, finalizzata principalmente al reinserimento sociale mediante le buone pratiche del calcio. A testimonianza di un percorso affrontato in maniera eccelsa dai detenuti partecipanti, alle ore 10.30 di lunedì, presso l’Istituto penitenziario di Altamura, si disputerà prima il match tra le squadre dei “detenuti con figli” contro “detenuti senza figli” e, al termine, seguirà la cerimonia di consegna degli attestati e delle tessere rilasciati dal Centro Sportivo Italiano (Csi). Foggia: Natale in carcere, volontari e cappellano al lavoro per solidarietà statoquotidiano.it, 18 dicembre 2016 Solidarietà e sport annunciano le festività natalizie nella Casa Circondariale di Foggia. Venerdì scorso, presso il campo di calcio dell’Istituto, è stata disputata una quadrangolare che ha visto scendere in campo rappresentanti dell’Ordine degli Avvocati di Foggia, del Cara di Borgo Mezzanone (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) e alcuni studenti dell’Istituto “Pacinotti”, che hanno affrontato la squadra dei detenuti del Vecchio Complesso. L’iniziativa è stata organizzata dall’assistente volontario Luigi Talienti, docente dell’Istituto Penitenziario, che ha curato anche l’evento del 19 dicembre, in collaborazione con l’Ass. Bambini senza sbarre. “La partita in programma lunedì 19 dicembre vedrà confrontarsi una squadra di detenuti padri e una di detenuti non padri. La cosa particolare - spiega Talienti - è che per la prima volta potranno assistere al torneo anche i parenti delle persone recluse: siamo già tutti emozionati per l’evento. Per questo voglio ringraziare l’Ass. Arbitri Acsi, la Direzione, il Corpo di Polizia Penitenziaria e l’Area Educativa della Casa Circondariale di Foggia per la fondamentale collaborazione, tutti i partecipanti al torneo quadrangolare per la sensibilità e il Csv Foggia, per essere sempre presente con il suo sostegno in queste iniziative di promozione del volontariato in ambito penitenziario”. “Lo sport è un elemento importante nell’associazionismo - spiega il Presidente del Csv Foggia, Pasquale Marchese - spesso diventa strumento utile a superare le barriere sociali e offre l’opportunità di sviluppare lo spirito di squadra. Il calcio mette in campo la legalità, che si costruisce con la conoscenza delle regole e con il rispetto dell’altro e dei beni comuni. Il lavoro di promozione del volontariato nel mondo penitenziario è uno dei settori su cui il Csv Foggia sta lavorando particolarmente nell’ultimo periodo. Un ambito su cui le associazioni ci chiedono di progettare e nel quale desiderano cimentarsi, con iniziative e idee innovative”. “Speriamo che tali iniziative, che dimostrano una grande apertura del carcere alla società esterna - sottolinea Luigi Talienti - possano aumentare la sensibilità della cittadinanza a determinate tematiche. Per noi volontari, che ci mettiamo il cuore, è importante che possa realizzarsi appieno il principio riabilitativo della pena. La carcerazione deve essere alleviata, nel rispetto del percorso trattamentale e del principio della solidarietà umana di cui tutti siamo partecipi. Tanto si può fare e tanto ancora si deve fare con l’aiuto di tutti”. Intanto, gli assistenti volontari del Carcere, con la collaborazione del cappellano, Fra Eduardo Giglia, stanno preparando una sorpresa per il giorno della vigilia di Natale, per la quale è già partita una raccolta fondi, cui hanno partecipato l’Ass. Legali di Capitanata, il Cpia 1 e il personale del Csv Foggia. “Siamo ancora in attesa delle autorizzazioni - spiegano - ma speriamo di poter far trascorrere qualche ora serena a chi si trova ristretto, lontano dagli affetti, in un giorno particolare”. Il Csv Foggia parteciperà all’iniziativa con Annalisa Graziano, responsabile della Comunicazione del Centro e assistente volontario della Casa Circondariale di Foggia. Foggia: i detenuti sfidano a calcio squadre di avvocati e studenti Gazzetta del Mezzogiorno, 18 dicembre 2016 Solidarietà e sport annunciano le festività natalizie nella Casa Circondariale di Foggia. Sul campo di calcio dell’Istituto è stato disputato un quadrangolare che ha visto scendere in campo rappresentanti dell’Ordine degli Avvocati di Foggia, del Cara di Borgo Mezzanone (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) e alcuni studenti dell’Istituto Pacinotti, che hanno affrontato la squadra dei detenuti del Vecchio Complesso. L’iniziativa è stata organizzata dall’assistente volontario Luigi Talienti, docente dell’Istituto Penitenziario, che ha curato anche l’evento che si terrà il 19 dicembre, in collaborazione con l’Associazione Bambini senza sbarre. “La partita in programma lunedì - annuncia - vedrà confrontarsi una squadra di detenuti padri e una di detenuti non padri. La cosa particolare è che per la prima volta potranno assistere al torneo anche i parenti delle persone recluse”. “Speriamo che tali iniziative, che dimostrano una grande apertura del carcere alla società esterna - sottolinea Luigi Talienti - possano aumentare la sensibilità della cittadinanza a determinate tematiche. Per noi volontari, che ci mettiamo il cuore, è importante che possa realizzarsi appieno il principio riabilitativo della pena. La carcerazione deve essere alleviata, nel rispetto del percorso trattamentale e del principio della solidarietà umana di cui tutti siamo partecipi. Tanto si può fare e tanto ancora si deve fare con l’aiuto di tutti”. Ferrara: Babbo Natale in carcere, consegna regali preparati dai detenuti per i loro bambini estense.com, 18 dicembre 2016 Babbo Natale in visita al carcere di via Arginone. Ha le sembianze di don Bedin e porta regali ai figli dei detenuti, consegnando a tutti i bambini doni offerti dalla Pastorale Diocesana e prodotti dallo stesso laboratorio dei detenuti. Questa è la festa di Natale che si è svolta sabato presso il carcere circondariale di Ferrara, organizzata con la collaborazione delle associazioni Agesci, Viale Krasnodar e Pastorale Diocesana, che hanno offerto un buffet. L’iniziativa ha fatto seguito all’incontro fra detenuti e famiglie che ha luogo una volta al mese ed è gestito dal Centro Bambini e Genitori Comunale “Isola del Tesoro” e da Agesci. All’iniziativa ha collaborato fattivamente il personale del carcere e vi hanno preso parte, oltre ai rappresentanti delle tre associazioni citate, il direttore del carcere Paolo Malato, il sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, il garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Marcello Marighelli, l’assessora alla Pubblica Istruzione Annalisa Felletti, i dirigenti della Istituzione Scolastica Mauro Vecchi e Donatella Mauro, le educatrici Mariangela Siconolfi, Bianca Orsoni e Monica Viaro. La vita dei migranti sotto le stelle, in cerca dell’Europa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 dicembre 2016 Le stelle, quando sono visibili, sono la compagnia notturna dei migranti che percorrono vie marittime o terrestri verso la salvezza, verso l’Europa. Guardando le stelle, a volte si sentono liberi, molto più spesso soli e impauriti. Ma non hanno scelta se non andare avanti. Dietro c’è la guerra, la tortura, la persecuzione etnica politica e religiosa. Dietro, quando alzi gli occhi al cielo, vedi le bombe. Molti documentari, in questi ultimi anni, hanno raccontato il “benvenuto” dato dall’Europa: filo spinato, fango, detenzione, respingimenti. “Chasing the stars”, un documentario web realizzato da Cro.M.A. - Cross Media Action insieme a Young Reearchers of Serbia e con la media-partnership di FrontiereNews, narra in tre episodi le rete di relazioni che si creano e si sviluppano nei luoghi di frontiera e di transito. I tre episodi rappresentano le diverse condizioni nelle quali i migranti si ritrovano: “L’attesa” in Turchia, “Di nuovo in trappola” in Grecia e “Un nuovo inizio” in Germania. “L’attesa” parte appena al di là della frontiera orientale europea, da Izmir (nella foto di Valerio Muscella), da quel tempo sospeso e precario in cui curdi e siriani, afgani e iracheni (e con loro tanti volontari turchi ed europei) si trovano bloccati in attesa di partire dalla Turchia. Impresa sempre più difficile, dopo la firma dell’accordo di marzo con l’Unione europea. Foto, video, disegni, ambienti sonori, ma anche tweet, messaggi vocali e chat contribuiscono a raccontare le storie in maniera partecipata. Sul sito del progetto, l’utente incontrerà Hasan, Asna, Ali, Yalcin e Khamis nella loro quotidianità, tra silenzi e sorrisi; vedrà come resistono alle burocrazie e alle frontiere chiuse, come si organizzano per sopravvivere, come pianificano la loro nuova vita. Il primo episodio sarà rilasciato tra poco più di un mese, il 30 gennaio. Il secondo e il terzo saranno girati nel corso dei primi mesi del 2017. Per proseguire la lavorazione di Chasing the stars, Cro.M.A. e Young Researchers of Serbia hanno lanciato una campagna di crowdfunding sulla piattaforma Indiegogo che sarà attiva fino al 15 gennaio 2017. Io ho aderito e invito tutti a farlo. Se i giovani lasciano alcol e droghe di Paolo Mastrolilli La Stampa, 18 dicembre 2016 Mark Twain notava che più lui invecchiava, più suo padre diventava saggio. In America però sta capitando il contrario, almeno per quanto riguarda l’uso di droghe, alcol e tabacco. Sono gli adolescenti che stanno alzando la bandiera della responsabilità e della saggezza, mentre gli adulti cedono alla tentazione. Secondo i dati dello studio “Monitoring the Future”, infatti, l’uso di queste sostanze è sceso al livello più basso degli ultimi 40 anni tra i teenager degli Stati Uniti. “Monitoring the Future” è un sondaggio che la University of Michigan conduce dal 1975, per controllare la diffusione di droghe, alcol e tabacco fra gli adolescenti. Quest’anno gli autori hanno sentito 45.473 studenti che frequentano gli ultimi anni di liceo in 372 scuole pubbliche e private, e hanno registrato risultati molto incoraggianti. Nel 1991, l’11% dei maturandi fumava almeno mezzo pacchetto di sigarette al giorno, mentre ora sono scesi all’1,8%. Nel 2001, il 53,2% si era ubriacato almeno una volta nella vita, contro il 37,3% di oggi. Durante gli ultimi 12 mesi l’uso della marijuana è diminuito dal 6,5% al 5,4% tra gli studenti dell’8th grade, cioè quelli più giovani, rimanendo invece stabile al 22,5% tra i maturandi. L’abuso dei farmaci a base di oppiacei poi si è dimezzato, dal 9,5% del 2004 al 4,8% di oggi, mentre l’eroina è scesa allo 0,3%. L’ecstasy, che stava diventando un’epidemia, è calata tra l’1 e il 3%. Tendenze positive che diventano ancora più importanti, se uno le paragona a quelle in corso invece tra gli adulti, dove negli ultimi 5 anni i “Centers For Disease Control and Prevention” hanno registrato un aumento del 33% nelle morti per overdose. L’anno scorso oltre 52.000 persone hanno perso la vita così, con casi particolarmente gravi in Stati come il New Hampshire, dove c’è stato un incremento del 191%. Lo stesso Donald Trump aveva usato questi numeri durante la campagna presidenziale, per giustificare la costruzione del muro lungo il Messico allo scopo di bloccare il narcotraffico. Per qualche ragione che ancora sfugge agli studiosi, però, gli adolescenti americani stanno voltando le spalle a queste pratiche distruttive. Ora, secondo il direttore di “Monitoring the Future” Lloyd Johnston, “la vera domanda da porsi è soprattutto una: perché tutto ciò sta accadendo? Nonostante abbiamo alcune ipotesi, non sappiamo se sono necessariamente quelle giuste”. Capirlo sarebbe fondamentale per individuare il messaggio che sta funzionando, e quindi ripeterlo e moltiplicarlo, in modo da continuare in maniera sistematica la riduzione dell’uso. Una delle ipotesi riguarda la diffusione dei videogiochi e dei social media, che tengono i giovani impegnati e li allontano dalla tentazione di fumare, bere e drogarsi. Anche perché si incontrano meno in situazioni di gruppo, dove la noia e la pressione dei coetanei spingono spesso alla trasgressione. Un altro elemento positivo sta nel rapporto migliore che gli adolescenti di oggi hanno con i loro genitori, e quindi la disponibilità ad ascoltarli quando offrono consigli. Il salutismo poi si sarà pure imposto come una moda ridicola, a volte eccessiva come la correttezza politica, ma tra i giovani ha preso e molti ragazzi ora lo abbracciano come una scelta di vita moderna e positiva, al pari del rispetto per l’ambiente. Queste sono solo alcune ipotesi di studio, che i sociologi intendono approfondire, perché il problema sta in cosa succede dopo. Passati i 18 anni, infatti, l’uso di alcol, tabacco e droghe torna a salire, portando verso abusi pericolosi. Riuscire a capire cosa spinge gli adolescenti ad evitarli servirebbe a prolungare la loro tendenza virtuosa, prevenendo la ricaduta nelle tentazioni che rovinano le vite dei più grandi, senza dover aspettare di diventare vecchi per riconoscere quanto avevano ragione i nostri genitori a romperci le scatole. Arriverà nelle farmacie del Piemonte la cannabis per uso medico di Federica Cravero La Repubblica, 18 dicembre 2016 L’annuncio dell’assessore regionale Antonio Saitta durante un convegno organizzato dall’ordine dei farmacisti torinesi. La cannabis per uso medico sarà presto disponibile nelle farmacie di tutto il Piemonte, dopo una fase di sperimentazione in cui la sostanza era limitata ad alcune farmacie ospedaliere. I tempi di questa diffusione capillare non sono ancora stati affrontati, ma si promettono brevi. “Le nostre scelte sono state sempre guidate da molta prudenza su un argomento così delicato - ha affermato l’assessore regionale alla Sanità, Antonio Saitta - ma siamo assolutamente favorevoli a potenziare gli studi sugli effetti terapeutici della cannabis e contemporaneamente ad allargare presto la rete di distribuzione a tutte le farmacie del territorio”. L’uso medico della cannabis è stato argomento di un convegno organizzato dall’ordine dei farmacisti della provincia di Torino e rivolto a coloro che nella pratica si troveranno a consegnare nelle mani dei pazienti preparazioni galeniche a base di cannabis, con tutti i dubbi e le perplessità per la difficoltà di stabilire con certezza (come accade d’altra parte in moltissimi rimedi fitoterapici) concentrazioni di principio attivo, stabilità nel tempo, ma anche efficacia sulle patologie da curare. “Quanto emerso dal convegno - ha precisato Saitta - conferma la bontà della scelta che abbiamo adottato, quella di limitare a sei aree di patologie l’utilizzo della cannabis terapeutica, senza fughe in avanti: gli studi scientifici infatti non sono sempre coincidenti. Anche per questo come Regione daremo un contributo per rafforzare la ricerca scientifica a livello nazionale, con l’obiettivo di migliorare la conoscenza degli effetti delle terapie. Ma soprattutto occorre che lo Stato rafforzi il proprio ruolo per coordinare le diverse politiche regionali: non possiamo assistere a un’Italia a due velocità, con alcune regioni che fanno una legge e altre no. Serve una legislazione nazionale chiara, il federalismo sulla cannabis non ha senso”. Il convegno è stato organizzato proprio nei giorni in cui dallo stabilimento farmaceutico militare di Firenze sono usciti i primi lotti di granuli, ottenuti dalla macinazione delle infiorescenze delle piante, che contengono una pari quantità di Thc e Cbd, i principali due principi attivi della cannabis. Il prodotto, che si chiama Fm2 e proviene da piante selezionate e coltivate sotto lo stretto controllo statale, è l’unico realizzato in Italia e sarà venduto a tutte le farmacie che ne faranno richiesta. Rimarranno comunque in vendita per continuità terapeutica dei pazienti che ne fanno uso, le preparazioni importate finora dall’Olanda attraverso l’intermediazione del ministero della Salute. Polonia. No alla censura di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 18 dicembre 2016 “Stop alla legge bavaglio”, una protesta spontanea scende in piazza contro gli attacchi del governo, in difesa della costituzione. Varsavia scende in piazza con ritrovata forza dopo l’ondata di proteste di ottobre scorso. Allora gli ombrelli neri dei manifestanti avevano convinto il governo della destra populista del partito Diritto e giustizia (PiS) a fare marcia indietro sull’irrigidimento dell’attuale legislazione sull’aborto. Questa volta a suscitare indignazione è una legge che mira a limitare l’accesso dei media ai locali del Sejm, la camera bassa del parlamento polacco. Nel pomeriggio di venerdì centinaia di manifestanti hanno formato un cordone di fronte all’ingresso del Sejm durante la discussione in aula sull’approvazione del budget per il 2017. Il numero uno del PiS Jaroslaw Kaczynski anch’egli bloccato diverse ore all’interno dell’edificio si è affrettato a bollare le proteste come “atti di vandalismo”. Kaczynski e la premier e collega di partito Beata Szydlo sono stati poi evacuati in auto soltanto nella notte di ieri. Ieri le manifestazioni sono continuate. Ancora una volta a fare la parte del leone nelle proteste varsoviane è il Comitato per la Difesa della Democrazia (Kod). Il movimento civico guidato dal blogger ed ex-informatico Mateusz Kijowski che raccoglie principalmente gli indignati delle élite e delle classi medie dei maggiori centri del paese. Il cordone organizzato davanti al Sejm ha convinto numerosi cittadini a scendere in piazza contro la legge bavaglio anche a Cracovia, Stettino, e, questa volta, anche in città più periferiche come Bialystok, nel profondo nord-est della Polonia. Una vicenda del tutto paradossale che ha visto l’insorgere di una “protesta nella protesta”. Gli attivisti del Kod hanno costretto all’interno dell’edificio anche i parlamentari dell’opposizione, a loro volta protagonisti di una manifestazione in aula contro il nuovo provvedimento. Un gioco di scatole cinesi che ha poi spinto la polizia a utilizzare la forza per sgomberare l’ingresso del Sejm nella giornata di ieri. Il ministro dell’Interno Mariusz Blaszczak ha negato di aver utilizzato gas lacrimogeni per disperdere l’opposizione. Il nuovo provvedimento prevede di concedere l’accesso al Sejm soltanto alle principali reti televisive del paese inclusa l’emittente statale Telewizja Polska (Tvp). A farne le spese saranno i colleghi della carta stampata e della radio che non potranno fare nessuna domanda di corridoio, nemmeno in buvette, ai politici eletti dai cittadini. Tutti gli esclusi saranno costretti a lavorare in un centro media situato in un altro edificio. “A volte i giornalisti esagerano braccando i deputati anche all’ingresso dei bagni. Ma in questo modo possiamo dire addio a ogni domanda scomoda”, ha commentato Monika Olejnik della rete televisiva privata Tvn. Ormai sembra una triste tradizione. Il mese di dicembre sta diventando il mese nero della libertà di espressione in Polonia da quando il PiS è in sella al paese. L’anno scorso infatti a San Silvestro, il Sejm aveva approvato un provvedimento che permette al ministro del Tesoro di decidere direttamente le nomine dei responsabili dei media pubblici senza che siano passate al vaglio di un’Autorità delle telecomunicazioni. E così le purghe dei dirigenti Tvp “ostili”, ordinate dalla dirigenza del PiS, sono diventate ancora più facili. Si tratta dell’ennesimo colpo inflitto quest’anno alla libertà di stampa e di espressione nei paesi del gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia). Il principale quotidiano di opposizione ungherese Napszabadsag non è più in stampa, mentre il mese scorso a Praga una sessantina di deputati hanno presentato un disegno di legge per introdurre il reato di diffamazione presidenziale. Intanto l’orbanizacja dei mezzi di informazione a Varsavia procede a gonfie vele. Siria. Aleppo tra nuova tregua e vecchie ipocrisie di Chiara Cruciati Il Manifesto, 18 dicembre 2016 Altro accordo per l’evacuazione dei miliziani e di 4mila civili feriti da Fua, Kefraya, Madaya e Zabadani. Al-Nusra e Turchia accolgono i jihadisti a Idlib, dubbi su un eventuale intervento russo nell’enclave qaedista. Obama accusa Mosca ma non cita il sostegno garantito per anni agli islamisti nel paese. Terzo accordo in meno di una settimana: dopo la rottura di venerdì mattina, ieri una nuova tregua è entrata in vigore ad Aleppo. Si rilancia il trasferimento a Idlib dei miliziani islamisti, sebbene ieri sera autobus e ambulanze non avessero ancora ripreso a muoversi. Fuori dai quartieri orientali sarebbero stati già condotti anche 8mila civili, ma restano decine di migliaia quelli intrappolati in una zona priva di cibo, acqua e servizi medici, costretti nel freddo dicembrino. Secondo Hezbollah, del patto fanno parte anche i villaggi sciiti di Fua e Kefraya, nella provincia di Idlib, e le città di Zabadani e Madaya, al confine con il Libano. Tutte comunità che subiscono da anni un duro assedio interno (controllate dai qaedisti dell’ex al-Nusra) e esterno, con il governo che preme dalle periferie. Confermano anche i gruppi anti-Assad: l’accordo prevede l’evacuazione di 4mila civili feriti dalle quattro comunità. Chi invece sembra restare dentro Aleppo è l’ex al-Nusra, ribattezzatasi Jabhat Fatah al-Sham nella speranza di togliersi di dosso il marchio di al Qaeda: secondo fonti locali sarebbero 6mila i jihadisti ancora presenti. È lo stesso gruppo che ha guidato la mista galassia di liberali, salafiti e islamisti nelle controffensive dei mesi scorsi e usato i civili come scudo con un obiettivo diverso da quello della democrazia. Mai le milizie islamiste e jihadiste hanno nascosto lo scopo che le muove: la creazione di un regime sunnita, un califfato fondato sulla Sharìa. Ed è lo stesso gruppo che accoglie i miliziani fuoriusciti da Aleppo nella provincia nord-occidentale di Idlib, che controlla quasi del tutto da oltre un anno. E se alcuni media occidentali sono arrivati a definire Idlib una novella Gaza, assediata e prigioniera, paragonando nella fiera dell’assurdo civili palestinesi a miliziani islamisti, la realtà che si sta generando è quella di un’enclave jihadista circondata da territori in mano al governo. Resta da capire se Mosca e Damasco si lanceranno su Idlib aprendo un nuovo fronte nell’obiettivo di finire definitivamente la questione al-Nusra. Una possibilità che potrebbe essere rinviata al futuro per evitare rotture con la Turchia che sostiene molti dei gruppi presenti ad Idlib e che è allo stesso tempo parte del nuovo negoziato che i russi vogliono lanciare entro dicembre. Secondo l’analista russo Naumkin, consigliere dell’inviato Onu de Mistura, Putin potrebbe optare - come lui stesso ha paventato - per una riduzione dell’impegno militare per aprire al dialogo con alcuni membri delle opposizioni. Le contraddizioni strutturali del conflitto non vengono meno. Basta guardare al fuoco aperto ieri dai soldati turchi alla frontiera contro un gruppo di rifugiati da Aleppo. Ne hanno uccisi tre, perché quelli che vogliono accogliere sono i miliziani, non i civili. Per questo ipocrite appaiono le parole che il presidente Usa Obama ha dedicato alla Siria nel suo ultimo discorso alla Casa Bianca, venerdì sera: “La responsabilità di questa brutalità sta in un posto solo, nel regime di Assad e nei suoi alleati russo e iraniano. Il sangue e le atrocità sono sulle loro mani”. Il sangue, in realtà, è sulle mani di tutti. Gli Stati Uniti hanno volontariamente acceso la guerra civile, rifornendo di armi e denaro i primi gruppi di opposizione presto scomparsi dal campo di battaglia per fare spazio alle più potenti milizie jihadiste sponsorizzate da Ankara e Riyadh. Washington ha continuato ad addestrare i cosiddetti “ribelli” tramite Cia e Pentagono, con programmi da miliardi di dollari e un rifornimento continuo di armi che ha allontanato la soluzione politica della crisi. Ha creato gruppi (come il New Syrian Army) che poi hanno aderito ad al Qaeda o all’Isis e dato legittimità ufficiale e ufficiosa a gruppi salafiti e ai qaedisti di al-Nusra, che facevano incetta degli armamenti destinati ai gruppi considerati legittimi. Ha creato le opposizioni politiche riunite dentro la Coalizione Nazionale, completamente separata dal popolo siriano ma che ha bloccato il negoziato con boicottaggi continui prima di sparire dalla scena. E infine ha indebolito alla radice gli Stati-nazione, artificialmente creati un secolo fa dal colonialismo europeo, aprendo la strada all’avanzata della macchina da guerra dell’Isis. Il sangue di Aleppo è sulle mani di tutti. Weeda Ahmad, la memoria delle vite stroncate in Afghanistan di Rosalba Castelletti La Repubblica, 18 dicembre 2016 Lotta da quasi dieci anni per ottenere memoria e giustizia per le vittime e i dispersi in quarant’anni di soprusi. “Senza giustizia in Afghanistan non ci sarà mai pace”. Weeda Ahmad lotta da quasi dieci anni per ottenere memoria e giustizia per le vittime e i dispersi in quarant’anni di soprusi in Afghanistan. Nata a Kabul 33 anni fa, la seconda di tre sorelle, dopo aver trascorso gli anni del regime afgano filosovietico in un campo profughi pachistano perché il padre era stato incarcerato due volte per il suo impegno per diritti umani e la democrazia, è tornata in Afghanistan con l’avvento dei Taliban al potere. È stato nel 2007, quando alla periferia della capitale è stata scoperta una fossa comune, che ha fondato la Social Association of Afghan Justice Seekers (Saajs, Associazione sociale degli afgani che cercano giustizia). Da allora ha raccolto in un archivio oltre 8mila storie con foto delle vittime di crimini dagli anni Settanta a oggi. “La gente chiede che fine abbiano fatto suo padre, figlio o fratello. I morti e gli scomparsi sono migliaia. I responsabili si avvicendano: il governo filorusso, i mujaheddin, i Taliban, gli invasori statunitensi, in tempi recenti l’Isis. Ma il copione degli abusi è sempre lo stesso”, ci ha raccontato durante la sua recente visita in Italia al fianco della Onlus Cospe (cospe.org) che a Kabul ha aperto due case protette per le donne vittime di violenza (e che fino a oggi è possibile sostenere partecipando alla campagna “Vite preziose” con un sms al numero solidale 45526). Ha documentato migliaia di storie. Ce n’è qualcuna che le è rimasta particolarmente impressa? “Gli abusi hanno portato a una grande diffusione di disordini mentali in Afghanistan. Ricordo una donna in particolare. Nella provincia di Bamiyan, i Taliban hanno ucciso 365 uomini in un solo giorno. Un ragazzo quindicenne li sfidò dicendo: “Non uccidete mio padre, ma me”. La madre è quasi impazzita. Non parla quasi più e nega che il figlio sia stato ucciso. Inventa storie di viaggi pur di negarne l’uccisione. E poi mi viene in mente un ragazzo. La madre e la sorella sono state uccise nel raid statunitense su Shah Shaheed, alla periferia di Kabul. Da allora non è più tornato a casa sua perché, seppur sia stato rimosso, sulle pareti e sul pavimento vede ancora il sangue della madre e della sorella”. Cosa spera di ottenere documentando queste storie? “Pace e giustizia. Non è facile in Afghanistan dove al governo siedono i criminali. Quando la Commissione indipendente sui diritti umani ha documentato le atrocità commesse dai Taliban sui civili, il governo ha votato un’amnistia. Tutti i criminali nominati nel rapporto sedevano nel governo e quindi di fatto si sono auto-graziati. Io lavoro perché i criminali vadano in prigione e perché ci sia un governo democratico. L’80% della gente vuole pace, giustizia, democrazia. Lotto per loro”. Che cosa pensa della recente decisione della Corte penale internazionale dell’Aja di indagare i crimini commessi da forze sicurezza, militari statunitensi e Taliban dal 2003? “I Paesi Bassi stanno cercando in tutti i modi di non diventare un rifugio per criminali di guerra. Nel 2005 una corte olandese condannò due ex ufficiali dei servizi afgani KhAd accusati di tortura che si erano rifugiati lì. Indagando su di loro nel 2013 la procura olandese ha pubblicato una lista di 5mila persone uccise che erano scomparse alla fine degli Anni Settanta. È grazie a questa lista che molti afgani hanno potuto finalmente celebrare il funerale per i loro cari. L’apertura di un’inchiesta internazionale è ovviamente una buona notizia, ma finché i responsabili dei crimini saranno al governo in Afghanistan c’è poca speranza che vengano processati”. Tra gli obiettivi dell’associazione Saajs c’è anche la richiesta di rinominare i palazzi e le strade intitolati ai criminali. Mi può fare qualche esempio?” Al ministro degli Esteri Salahuddin Rabani, ex Taliban e figlio del signore della guerra che fu anche presidente dell’Afghanistan, è intitolata l’area dove vennero uccisi centinaia di studenti sotto il regime di suo padre. Siamo riusciti a ottenere che una piazza nei pressi della prigione di Kabul dove sono state torturate e uccise migliaia di persone fosse intitolata alle vittime, ma nei pressi campeggia una targa in nome dell’ex presidente filosovietico Mohammad Najibullah, uno dei responsabili di quelle torture. Ogni strada principale o piazza viene intitolata a un criminale. Di più, quando uno di loro muore, il giorno della loro morte diventa festa nazionale. In questo modo si continuano a torturare familiari e vittime”. Ha mai subito minacce? “Ricevo telefonate minatorie o insulti per strada. Mi dicono: ‘Sei una donna musulmana, dovresti stare a casa invece di parlare di criminì. Il governo spesso nega il permesso alle nostre richieste di manifestazioni. Mi hanno pure chiesto che dal nome dell’associazione venga rimossa la parola ‘giustizià. Una volta sono intervenuta in tv al fianco di un mullah. A telecamere spente, il mullah ha iniziato a insultarmi e ha provato a colpirmi con una bottiglia piena d’acqua. Io, per tutta risposta, ho imbracciato la mia scarpa (ride)”. Che cosa pensa dei colloqui di pace tra governo e Taliban? “I fondamentalisti non vogliono la pace, vogliono amnistia, soldi, posti di lavoro, ruoli di governo. Ma se in un Paese non c’è giustizia, non ci sarà mai pace. Perché se nessuno paga, ci saranno sempre criminali al governo. I prossimi colloqui di pace li faremo con l’Isis”. Filippine. Il presidente Duterte “ho giustiziato tre uomini per dare l’esempio alla polizia” La Repubblica, 18 dicembre 2016 Il presidente delle Filippine come un giustiziere, quando era sindaco di Davao: uccise alcuni sospettati di rapimento e stupro e oggi rivendica le sue azioni. Nonostante il suo portavoce cerchi di minimizzare. “Ne ho ammazzati tre”, sospettati di rapimento e stupro, per dare l’esempio e far vedere alla polizia come si facesse. Il giustiziere di criminali e spacciatori non è il protagonista di una fiction di quart’ordine ma il presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, che ammette di aver fatto fuori tre persone quando era sindaco della città meridionale di Davao e lo ribadisce alla Bbc anche dopo che il suo portavoce ha cercato di minimizzare. “Andavo in giro a Davao con una grande moto, per pattugliare le strade, in cerca di problemi. Cercavo lo scontro, così avrei potuto uccidere” si era vantato Duterte qualche giorno fa, parlando a un gruppo di imprenditori nel palazzo presidenziale, e tenendo a precisare che nel 2015 “a Davao l’ho fatto (uccidere) personalmente, proprio per mostrare agli agenti, ai ragazzi, che se potevo farlo io potevano farlo anche loro”. Dopo che la notizia ha fatto il giro del mondo, il portavoce della presidenza Martin Andanar, ha tentato di salvare la faccia a Duterte, che si è guadagnato la fama di repressore brutale della criminalità ed è stato accusato di sponsorizzare gli squadroni della morte nei vent’anni in cui è stato sindaco di Davao. “È lo stile del presidente - ha detto alla Bbc il portavoce - non dobbiamo prendere queste affermazioni alla lettera. Le dobbiamo prendere seriamente, ma non alla lettera”. Tentativo inutile, perché qualche ora dopo Duterte ha ribadito quello che aveva già detto, liquidando invece come “falsità” le notizie secondo le quali avrebbe ucciso persone inginocchiate e con le mani legate dietro la schiena. La lotta ai narcotrafficanti, ha aggiunto, andrà avanti “fino all’ultimo giorno del mio mandato”. Con i suoi metodi, naturalmente, e forte dell’endorsement di Donald Trump, che pochi giorni fa gli ha augurato che la sua campagna antidroga abbia “successo” e lo ha invitato alla Casa Bianca l’anno prossimo. Sono quasi 6.000 le persone uccise dalla polizia, vigilantes e mercenari vari dall’elezione di Duterte alla presidenza delle Filippine nel maggio scorso.Il presidente ha poi respinto le accuse di essere egli stesso drogato, pur ammettendo di aver usato occasionalmente un potente antidolorifico, il Fentanyl, contro l’emicrania e dolori di schiena. Anche questa volta è arrivato in soccorso il fedele portavoce, negando che il presidente sia stato colpito da effetti collaterali del Fentanyl, che possono creare confusione e stati di allucinazione. Intanto si comincia a parlare di impeachment contro il presunto presidente-assassino. In prima fila, la senatrice Leila de Lima, convinta oppositrice di Duterte.