Detenuti "sex offenders": con i percorsi di recupero si dimezzano le recidive di Patrizia Caiffa agensir.it, 17 dicembre 2016 In Italia le buone prassi di successo sono solo nelle carceri di Milano Bollate e a Roma Rebibbia: su 250 detenuti che hanno commesso reati sessuali solo 7 sono stati i casi di recidiva, una volta scontata la pena. La media internazionali delle recidive è del 17% ma potrebbe almeno dimezzarsi se tutti gli istituti penali attuassero i programmi di trattamento specifici per "sex offenders". Mancano però i fondi per finanziare i progetti In carcere, a parte l’eccezione di Milano Bollate, vengono reclusi in sezioni separate e protette, quelle destinate, in gergo, agli "infami". Buona parte dell’opinione pubblica chiede per loro pene più dure, tipo la castrazione chimica (possibile in alcuni Paesi europei) o quantomeno di tenerli dietro le sbarre e "buttare la chiave", per evitare che ripetano gli atti gravi di cui si sono macchiati: violenza sessuale, abusi su minori, pedopornografia, esibizionismo. Sono i "sex offenders", che insieme ai collaboratori di giustizia e agli ex appartenenti alle forze dell’ordine, sono i più mal visti dalla popolazione carceraria e non solo. A Bollate sono 400, a Roma Rebibbia 90. In tutta Italia nel 2012 erano circa 2000, una piccola parte di chi commette reati sessuali, perché il 95% delle vittime non denuncia. Il timore che, una volta usciti dal carcere, possano compiere di nuovo quei reati, è parzialmente smentito dalle statistiche internazionali e nazionali: circa il 17% incappa in una recidiva, di solito i casi più gravi che hanno un disturbo pedofilico o una compulsione ad agire in maniera costante. Il dato potrebbe essere abbattuto fino al 9% e anche di più, se questa tipologia di detenuti avesse la possibilità di partecipare ad un percorso di trattamento con équipe specializzate di psicologi-psicoterapeuti, criminologi, musico-terapeuti: sarebbe il modo migliore per costruire sicurezza nei territori, evitare ulteriori violenze su donne e minori e ottemperare al dettato costituzionale che considera il carcere come mezzo per il recupero e il reinserimento sociale della persona. Nel solo carcere di Bollate su 250 sex offenders trattati in dieci anni dall’equipe del Centro italiano per la promozione della mediazione (Cipm), pionieri in quest’ambito, sono state registrate solo 7 recidive. Il nodo critico è che, a parte Bollate e Rebibbia, dove si è appena concluso un progetto biennale con una trentina di "sex offenders", negli altri istituti penali non si fa nulla. Né all’interno né all’esterno del carcere. Eppure l’Italia ha aderito alla Convenzione di Lanzarote, secondo la quale gli Stati dovrebbero mettere in atto programmi per evitare la recidiva. Però nella legge del 2012 il testo recepito è stato un pò cambiato, per cui viene a cadere l’obbligatorietà. Il segreto? "Trattare i detenuti come persone". "Ci sono stati altri tentativi nelle carceri di Vercelli e Torino ma di breve durata", spiega al Sir Carla Maria Xella, psicologa-psicoterapeuta del Cipm e coordinatrice del programma per sex offenders di Rebibbia. Xella è stata tra le prime, con l’equipe del Cipm, a mettere in piedi nel 2005 l’esperimento riuscitissimo nel carcere di Milano Bollate, dove non ci sono reparti protetti e ad ogni detenuto è richiesto di firmare una carta in cui dichiara di non avere pregiudizi e accetta la possibilità di condividere la cella anche con un sex offender. "Nelle sezioni protette ci sono molte restrizioni rispetto al lavoro e alle attività, che non possono frequentare insieme agli altri. Lo trovo assurdo: è una cessione di potere, da parte dello Stato, alla cultura mafiosa", commenta la psicoterapeuta, che si occupa di questo tema delicato da sedici anni: "All’inizio è stato difficile. Ero spaventata, lo sarebbe chiunque. Ora per me sono come gli altri pazienti, non ho una particolare avversione. Importante è la professionalità dell’approccio. Ci sono dei rischi solo se non si è sufficientemente preparati: ad esempio la collusione, perché sono persone molto convincenti e riescono, nella loro negazione del reato (perché tutti negano), a convincere gli operatori. Il segreto è sempre lo stesso, e chi lavora in carcere lo sa: trattare i detenuti come persone". Un metodo di successo. Il metodo sperimentato con successo a Bollate - sull’esperienza è stato realizzato anche il film documentario "Un altro me" di Claudio Casazza, premiato dal pubblico alla recente edizione del Festival dei popoli di Firenze - è di impronta cognitivo-comportamentale e proviene dalla tradizione canadese e statunitense. "Oggi si utilizza molto il modello "Good lives model" - precisa la psicologa. Tende a considerare chi ha commesso il reato come una persona che non ha gli strumenti né la volontà di soddisfare i suoi bisogni in una maniera pro-sociale". Il trattamento è prevalentemente di gruppo, con incontri individuali. Ed è volontario, ossia aderiscono quelli che vogliono mettersi in discussione e cambiare. A Milano il Cipm segue le persone in carcere e con un presidio sul territorio, tramite i cosiddetti "circoli di sostegno alla responsabilità", con volontari che incontrano periodicamente le persone a più alto rischio, già consapevoli della loro pericolosità. Dalla pedofilia si guarisce? "Non si guarisce ma si imparano a gestire le fantasie devianti e le relazioni con gli altri - puntualizza Xella. È importante ricordare che non tutti quelli che agiscono violenza sessuale sui bambini sono pedofili. Però tutti hanno una patologia delle relazioni. Di solito hanno avuto una infanzia non protetta: trascuratezza, episodi di violenza anche solo fisica, poca protezione dal mondo adulto. Hanno imparato che il rapporto con l’altro può essere predatorio, di sopraffazione, con bisogni molto primitivi che non hanno imparato a soddisfare nella maniera giusta". Perché è un reato così difficile da perdonare? "È un reato conosciuto pochissimo nelle sue sfumature - afferma - perché si fa di ogni erba un fascio, si considerano tutti parimenti a rischio di recidiva. Pochissimi sanno che la recidiva più alta è tra gli stupratori, ossia tra gli autori di violenza su adulti, non su bambini. Eppure non esiste proprio l’idea che si possa fare qualcosa, mentre si può fare tantissimo". L’esperienza di Bollate e Rebibbia è quindi una buona prassi ripetibile anche in altre carceri. Molte Asl locali già chiedono una formazione in materia. Nonostante l’ottima collaborazione realizzata finora con gli istituti penali dove è stato attuato il progetto, permangono le difficoltà nel reperire le risorse. "Ora a Rebibbia stiamo cercando nuovi finanziamenti, pubblici o privati". Reato di tortura, questa volta finalmente ci sarà carta bianca? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 dicembre 2016 Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha ribadito la sua intenzione di proporre il testo al governo. Il Disegno di legge è ancora fermo in parlamento anche per la resistenza di una parte della maggioranza, nonostante l’invito del consiglio europeo ad approvare la norma. Il ministro Andrea Orlando proporrà al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni di prevedere la legge sul reato di tortura nella programmazione dell’esecutivo. Lo ha annunciato a "Carta bianca", il programma di Bianca Berlinguer su RaiTre. L’intento, spiega, è quello di "avere un testo equilibrato nel pur breve lasso di tempo di questa legislatura". L’introduzione del reato di tortura è una vicenda spinosa e divisiva anche a causa delle pressioni interne alla stessa maggioranza. Nel frattempo, la Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite ha compiuto 32 anni e l’Italia ha celebrato la Giornata internazionale per i diritti umani senza aver ancora tradotto in legge la Convenzione che è stata ratificata da tempo immemore: l’ultimo disegno di legge si è arenato in Senato a luglio. Proprio l’anno scorso l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per la condotta delle forze dell’ordine alla scuola Diaz nel 2001, al G8 di Genova, con l’invito a "dotarsi di strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura". Intanto al livello europeo si rafforza sempre di più la battaglia alla tortura. Esattamente un mese fa, il Consiglio Europeo ha adottato un regolamento che modifica l’importazione di merci che possono essere utilizzate per pena di morte, tortura o altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti. L’accordo consentirà di modificare il regolamento 1236/ 2005 tenendo conto degli sviluppi intercorsi dalla sua entrata in vigore nel 2006. Prevede modifiche delle attuali norme sui controlli all’esportazione, nuovi controlli su servizi di intermediazione e assistenza tecnica, il divieto di pubblicizzare determinate merci e la modifica della definizione di "altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti". L’obiettivo è quello di impedire che le esportazioni della Ue contribuiscano alle violazioni dei diritti umani in paesi terzi. A livello dell’Unione Europea, la Carta dei diritti fondamentali vieta la pena di morte e dispone che nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti. L’Ue inoltre promuove il rispetto dei diritti fondamentali in tutto il mondo. Il regolamento 1236/ 2005 vieta l’esportazione e l’importazione di attrezzature o merci che possono essere utilizzate unicamente a fini di tortura o pena di morte. Il regolamento prevede autorizzazioni specifiche per le esportazioni di attrezzature o merci che potrebbero essere usate a tali fini, ma che hanno anche usi legittimi. Il nuovo regolamento prevede che le esportazioni verso un paese parte di convenzioni internazionali sulla pena di morte siano soggette a un’autorizzazione generale. Lo Stato deve aver abolito la pena di morte per tutti i reati e le merci non devono essere riesportate verso altri paesi. All’elaborazione di questo documento aveva contribuito anche l’attuale garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. Ritornando sulla questione italiana, la maggiore resistenza all’introduzione del reato di tortura era arrivata, almeno nell’ambito della maggioranza, da Angelino Alfano. Il leader del Nuovo centrodestra e attuale ministro degli Esteri definì la scelta di accantonare la legge "molto saggia". Alfano ha inoltre accolto come una soluzione positiva il mancato via libera alla legge sul numero identificativo per le forze dell’ordine, anche quella ferma al Senato. "Bisognava sospendere la discussione sul ddl tortura, e non perché siamo contrari nel merito all’introduzione di questo reato", fu la precisazione dell’allora capo del Viminale, "ma perché non possono esserci equivoci sull’uso legittimo della forza da parte delle Forze di Polizia". Ora che non è più ministro dell’Interno, forse si potrebbe aprire la possibilità annunciata dal guardasigilli Orlando. Il successore di Alfano al Viminale, Marco Minniti, ancora non si è pronunciato sull’introduzione del reato di tortura. È possibile che abbia una posizione diversa dal suo predecessore, e in tal modo dimostrerebbe tra l’altro di non essere condizionato dal fatto di aver presieduto l’Icsa (Intelligence, Culture and Security Analysis), oggi guidato dal generale Tricarico. Una fondazione che si occupa di intelligence e sicurezza, composta anche da persone legate alle forze armate come l’ex generale dei carabinieri Ganzer. Alcuni segmenti delle forze armate e di polizia hanno avuto un ruolo non indifferente di pressione per fermare la legge sul reato di tortura. Reato di tortura, la promessa di Orlando "c’è poco tempo, ma il governo potrebbe introdurlo" di Angela Gennaro L’Huffington Post, 17 dicembre 2016 "Proporrò al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni di prevedere la legge sul reato di tortura nella programmazione dell’esecutivo". Parola del ministro della Giustizia Andrea Orlando. L’intento, spiega, è quello di "avere un testo equilibrato nel pur breve lasso di tempo di questa legislatura". Mentre promette una legge che l’Italia attende da decenni, Orlando si inserisce così tra gli esponenti che vedono un governo Gentiloni a scadenza. A domanda glissa: "Abbiamo sicuramente meno tempo dei governi che si sono insediati all’inizio della legislatura". Di reato di tortura, in campagna referendaria, non si poteva parlare: faccenda spinosa e divisiva. Nel frattempo, la Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite ha compiuto 32 anni e l’Italia, ancora una volta, ha celebrato la Giornata internazionale per i diritti umani "a metà": quella Convenzione è stata ratificata da tempo immemore, ma il nostro Paese non si è mai dotato di una legge specifica. L’ultimo disegno di legge si è arenato in Senato a luglio. E però l’anno scorso l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per la condotta delle forze dell’ordine alla scuola Diaz nel 2001, al G8 di Genova, con l’invito a "dotarsi di strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura". "Ci vorrebbero pochi giorni, se mai ci fosse la volontà politica", aveva detto Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, pochi giorni fa. Ma in Italia - avverte Donatella Di Cesare, filosofa e autrice del libro "Tortura. Chi tace è complice" - il dibattito sul tema "è molto ridotto". "Se ne parla poco e solo in riferimento all’introduzione del reato". Indispensabile, certo, accanto però a un dibattito crescente nell’opinione pubblica. La tortura "come forma di violenza è molto più diffusa di quanto immaginiamo". Non è appannaggio, oggi, dei regimi dittatoriali e men che mai è retaggio del passato. La filosofa ricorda Guantánamo, Abu Ghraib, Giulio Regeni. Ma anche il G8 di Genova e tutti i controversi casi di cronaca nostrana, nelle carceri e nei centri di identificazione per migranti. È di poco più di un mese fa la denuncia di Amnesty International di casi di "impronte digitali prese con la forza, maltrattamenti, torture e violazioni dei diritti umani" verso migranti e rifugiati appena sbarcati in Italia. Denuncia rispedita al mittente da parte delle istituzioni, ma che getta un’ombra sulla gestione dell’"emergenza". "Già quando si parla di emergenza si parla di eccezione", ragiona ancora Donatella Di Cesare. "E si introduce così la possibilità di superare una legge". Per quanto venga percepita come remota, è una questione che "minaccia ogni cittadino": "Ci inoltriamo nel territorio dell’illegalità, con un uso seppure moderato della violenza per risolvere alla spicciolata le situazioni. Ma lo Stato che tocca il corpo di un suo cittadino o di uno straniero è illegittimo". Una vera e propria "ferita nella nostra democrazia", stretta nella morsa tra sicurezza e diritti: "Se scegliamo la strada reazionaria della sicurezza per la sicurezza finiamo per vivere in una forma politica che non è più democrazia". Mancano gli "anticorpi", non mancano le "ambiguità": "È lo Stato ad avere il monopolio della forza e della violenza: da un lato dovrebbero essere le forze dell’ordine a difendere i cittadini. Ma poi l’abuso è sempre possibile, e sono proprio le forze dell’ordine a indagare. L’introduzione del reato di tortura sarebbe un passo in avanti positivo anche per il loro operato". Perché serve la riforma della Giustizia di Biagio De Giovanni Il Mattino, 17 dicembre 2016 L’Italia ha bisogno oggi più che mai, e prima che sia troppo tardi, di una riforma della giustizia. Senza di essa il rischio è di una gigantesca paralisi dell’attività amministrativa, del continuo e visibile peggioramento della qualità del ceto politico nel senso più largo, e, ancor prima, della degenerazione della sensibilità comune della società sul tema, tutte cose che si mescolano, si influenzano a vicenda, e ne vien fuori un effetto che, lo dico con qualche pena, abbassa il livello della civiltà giuridica italiana e compromette le possibilità stesse di una buona convivenza delle istituzioni. Si tratta di circuiti politico-amministrativi-giudiziari che ormai si mordono la coda, girano su se stessi, ciascuno vedendo nell’altro non un interlocutore, ma un potenziale avversario da tenere a bada. Così le cose non vanno, e il tema, per quanto di estrema delicatezza, va nominato, per quanto possibile, nella sua varia fenomenologia, e in forme leali, non coperte da cattivo spirito diplomatico. La verità è che siamo giunti a un livello di guardia. Una riforma, quella della giustizia, che ritarda, né è sorprendente che ciò avvenga. Il ritardo, la difficoltà, che si è vista anche in governi attivi e dinamici come quello ora andato a casa, sta proprio nei rapporti interni ai diversi corti circuiti appena indicati, e nel fatto, per dirla con la massima chiarezza, che si vanno incrinando i confini tra i diversi poteri e ordini dello Stato, e che non è facile pensare come rimettere un pò d’ordine nell’insieme dei problemi che emergono e confusamente confliggono. Si è incerti se incominciare dall’ alto o dal basso, dal populismo giustizialista o dai sottili temi che toccano la funzione della Corte più alta, e forse, sì, è bene incominciare dal basso. E il "basso" è il populismo giustizialista. Che intendo per esso? Quello che invade il senso comune di una parte rilevante della società e che poi spesso ricade, come sta avvenendo, sugli stessi promotori "morali" del fenomeno: l’avviso di garanzia come condanna, tutti ladri a cominciare, ben s’intende, Ball’ avvisato, spesso con la collaborazione dei titoli di non pochi quotidiani che, seduti sulla tendenza diventata dominante, ne formano e ne facilitano il dilagare. Viva Sala, sindaco di Milano autosospesosi, mi verrebbe da dire. Che c’entra Sala? C’entra e come, giacché io leggo il suo gesto proprio come un atto politico di notevole e non comune forza, non un atto di debolezza o di arroganza, ma, sì, di insofferenza aristocratica, di invito, intanto, a far presto, e di liberazione dal peso di qualcosa che, da atto di garanzia per l’accusato, è diventato atto d’accusa e che, solo per questo, dovrebbe essere utilizzato con la dovuta parsimonia, con la necessaria prudenza. Ma non è così, e non lo è, a me pare, non per colpa dei singoli magistrati, che pure talvolta si sentono investiti di poteri salvifici e spesso si ergono impunemente a giudici della storia, ma per quel principio che pesa come un macigno sull’ordinamento giudiziario italiano, e che è l’obbligatorietà dell’azione penale. Che non è affatto massima garanzia del perseguimento dei reati, quanto piuttosto premessa per dare inizio all’azione giudiziaria al primo stormir di foglie anche lieve, anche privo di effettiva consistenza e non dir rado sfiorante il ridicolo. Non sto parlando, ben s’intende, del caso di Milano di cui nulla sappiamo, anche se il gesto di Sala vuol esser, mi pare, anche una risposta nel merito della questione: fate presto e fatemi tornare a lavorare! Ora nessuno ha avuto finora il coraggio di mettere in discussione quel principio che pure non esiste nella quasi totalità degli ordinamenti europei, come sottolineato ieri su questo giornale da Giovanni Verde. Giacché subito insorgerebbe il populismo giustizialista e i suoi molti rappresentanti, a dire, ecco volete salvare i corrotti, e giù ingiurie varie all’élite politica che ci avesse provato, sommersa, magari, e annientata in apposito referendum che si svolgerebbe al grido: abbasso i complici dei corrotti! E mi domando ancora: quando si avrà il coraggio di proclamare la separazione delle carriere? Per funzioni non solo diverse ma tra loro quasi opposte come accusa e giudizio? Quando giungerà la vittoria della politica e del pensiero istituzionale sugli spiriti resistenti delle corporazioni? Già, la politica, ecco il circolo vizioso, giacché più questo clima descritto cresce più il livello della politica si abbassa. Più il lieve stormir di una foglia fa irrompere l’accusa sulla scena, più la politica diventa qualcosa in cui si preferisce non immischiarsi, sempre più abbandonata dai migliori, sempre meno politica per vocazione, se la confusione e la prevaricazione di un potere sull’altro non lascia intravedere uno spazio di comprensione e collaborazione, ma uno scenario di lotta senza quartiere dove ognuno guarda l’altro come potenziale nemico. Sto disegnando, mi rendo conto, un crinale estremo, sempre memore di quella regola che prevaleva nelle antiche scuole di logica, la regola che invitava a radicalizzare il ragionamento per far venir fuori il problema: se non si era in grado di farlo, si poteva essere esclusi. Ma su quel crinale, comunque, spesso ci si trova realmente, e la questione "giustizia" sta diventando un’altra emergenza dell’Italia, non una questione cui pensare nei momenti in cui non si ha qualcosa di più urgente da fare, come ormai d’abitudine. Ma voglio giungere ai piani più alti, salendo velocemente tutta la scala. È ormai del tutto evidente che si vanno disegnando dappertutto linee di conflitto potenziale tra la sovranità del parlamento e la sovranità della Corte costituzionale. Non è una affermazione irresponsabile né voglio ora entrare in più specifici esempi o casi sui quali argomentare il problema. Mi sento di sollevarlo come una questione che non può non stare nell’orizzonte di una riflessione sugli sviluppi e sulla crisi della democrazia politica, quando tornerà il tempo per riflettere, e dunque di sicuro non ora che è tempo di gran confusione. Tengo solo a dire che, nella dottrina costituzionale, soprattutto tedesca e francese, di questo tema si dibatte, avvertendosi il rischio che la giurisdizione costituzionale diventi, nella sua autoreferenzialità assoluta, "giustizia politica", partecipazione alla condivisione della conduzione suprema dello Stato nella forma, però, di decisioni giudiziarie. Un problema alto, nobile, serio, che nomino per memoria nella veloce chiusura di un articolo. Lo stato della gogna giudiziaria nel 2016 di Maurizio Tortorella Panorama, 17 dicembre 2016 Uno studio dell’Unione delle camere penali: dopo avere esaltato arresti e indagini, soltanto l’11% degli articoli racconta come va a finire un processo. È probabilmente la prima volta che un tribunale penale aggredisce la "gogna giudiziaria" su internet. Il primato spetta a Genova, dove sono state appena depositate le motivazioni di una sentenza del 20 giugno scorso (per i cultori del genere, è la numero 3582). È una condanna per diffamazione: stabilisce che "chi inserisce notizie a mezzo internet relative a indagini penali è tenuto a seguirne lo sviluppo e, una volta appreso l’esito positivo per l’indagato o l’imputato, deve darne conto con le stesse modalità di pubblicità. In caso contrario è configurabile il reato di diffamazione a mezzo stampa". Il processo di primo grado ha chiuso così la vicenda della pubblicazione sul sito di un’associazione di consumatori della notizia relativa al rinvio a giudizio per concussione del presidente e vicepresidente di un’associazione, alla fine di un’inchiesta su presunti appalti irregolari. In seguito, i due indagati erano stati prosciolti, ma la notizia online non era mai stata aggiornata. Per il tribunale di Genova il reato sussiste in quanto non c’è dubbio che "l’omesso aggiornamento mediante inserimento dell’esito del procedimento penale" configuri un comportamento diffamatorio. Per il giudice, infatti, la qualifica di un soggetto quale indagato o imputato "è certamente idonea a qualificare negativamente l’immagine, il decoro e la reputazione di una persona, soprattutto quando si tratta di soggetto noto al pubblico". Quindi la notizia, che pure era vera e corretta al momento della sua pubblicazione online, avrebbe dovuto essere aggiornata perché smentita dall’evolversi del procedimento penale. "La verità della notizia" sostiene testualmente la condanna "deve essere riferita agli sviluppi d’indagine quali risultano al momento della pubblicazione dell’articolo, mentre la verifica di fondatezza della notizia, effettuata all’epoca dell’acquisizione di essa, deve essere aggiornata nel momento diffusivo, in ragione del naturale e non affatto prevedibile percorso processuale della vicenda". La sentenza, ignorata dai siti internet come dalla stragrande maggioranza dei giornali, arriva proprio nel momento in cui l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle camere penali italiane (l’associazione degli avvocati penalisti) dà alle stampe un saggio rivelatore. Per sei mesi, dal giugno al dicembre 2015, gli avvocati hanno raccolto e analizzato la cronaca giudiziaria di 27 quotidiani. È una massa imponente di materiale: 7.373 articoli. Quasi sette su dieci danno notizie sulle indagini preliminari, e in particolare il 27,5% tratta dell’arresto di un indagato. Ma quando poi il processo arriva al dibattimento, l’attenzione si dissolve: solo il 13% degli articoli segue le udienze in tribunale. Va ancora peggio alla sentenza: appena l’11% degli articoli informa i lettori su come è andata a finire la vicenda giudiziaria che nelle fasi iniziali, invece, veniva squadernata su pagine e pagine. Beniamino Migliucci, che dell’Ucpi è presidente, scrive che "le informazioni sulle indagini preliminari vengono sapientemente pubblicate e divulgate per creare consenso preventivo". Il risultato è negativo anche sulla correttezza del processo, perché si viola "la verginità cognitiva del giudice, che viene bombardato da informazioni riguardanti le indagini". Secondo lo studio, gli articoli sono dichiaratamente colpevolisti quasi nel 33% dei casi; un altro 33% riporta le tesi della pubblica accusa senza esprimere giudizi; il 24% ha toni neutri. E soltanto il 3% prende una posizione più garantista, se non direttamente innocentista. Soltanto il 7% degli articoli riporta notizie di natura difensiva, fornite dall’avvocato dell’indagato o dell’imputato. I magistrati in politica disorientano i cittadini. Vanno riviste le regole di Bruno Ferraro (Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione) Il Fatto Quotidiano, 17 dicembre 2016 Fra i problemi irrisolti di ordinamento giudiziario, quelli emersi negli ultimi tempi si impongono con caratteristiche di priorità e meritano una riflessione. Assenza di effettivi controlli sull’operato dei magistrati, in particolare su quelli inquirenti. Il cittadino ha il diritto di chiedere le ragioni della lentezza della giustizia, quando (caso Scazzi) le motivazioni della sentenza vengono depositate a distanza di oltre un anno dalla pronuncia con conseguente paralisi del diritto delle condannate a coltivare il ricorso per Cassazione; ovvero quando in molti casi i tempi si allungano fino a far maturare la prescrizione, che costituisce la peggiore sconfitta per la giurisdizione. Il ministro dispone di poteri ispettivi, il Csm è titolare della potestà disciplinare: perché non li esercitano e perché disfunzioni e ritardi non vengono sanzionati? Assenza di controlli sugli autori di reato quando sono soggetti pericolosi e ad alto tasso di recidiva. Prendiamo il caso dell’immigrato egiziano che insegue e tenta di palpeggiare una ragazza: fermato dalla polizia, viene rimesso in libertà dal giudice con il divieto d’incontro con la ragazza molestata, nonostante che i due abitino sullo stesso pianerottolo. O il caso del dirigente di un ufficio tributario, assolto dal Tribunale di Palermo dall’accusa di molestie sessuali in danno di due colleghe a lui subordinate, sul rilievo che l’imputato "agì per gioco e senza trarne appagamento sessuale", ponendo in essere il proprio comportamento "per immaturità" ( a 65 anni suonati!). Prendiamo il caso di due ladri rom spediti ai domiciliari, da scontare nel camper in cui vivono col solo obbligo di firma, o il caso ultimo di un giovane colpevole di aggressioni in danno di passanti, non trattenuto in carcere ma spedito senza accompagnamento in una comunità da lui ovviamente mai raggiunta. Come può il cittadino il cittadino rimanere impassibile? Secondo problema irrisolto quello dei troppi magistrati fuori ruolo, che si sono dati o si danno alla politica senza che ne vengano influenzati il loro status e la libertà di riprendere le proprie funzioni a distanza di anni o lustri dal loro ingresso in politica. In una inchiesta de Il Tempo dell’agosto 2016, "Giustizia e carriere parallele: il fascino indiscreto della magistratura", si citano 819 magistrati che almeno una volta hanno dismesso la toga, talora senza ricorrere ad un’aspettativa (e quindi con doppi stipendi), la cui assenza dalle aule giudiziarie è costata 4553 anni di lavoro. Nomi noti e non passano dai Tribunali alla politica con comprensibile sconcerto di quanti si trovano ad essere giudicati da magistrati prima conosciuti per le loro diverse idee politiche. Comportamenti, a mio avviso, non in linea con la nostra Costituzione: se fosse vero, che si aspetta ad intervenire? In compenso, il governo Renzi ha ritenuto necessario, a fine agosto, intervenire con un provvedimento d’urgenza, avversato dall’Anm, per trattenere in servizio un altro anno i magistrati che sarebbero dovuti andare a riposo a dicembre 2016. Forse, ad una certa età, i magistrati sarebbero più utili come maestri e formatori delle nuove leve, piuttosto che come "produttori" di provvedimenti. Ma come si fa a non giudicare illegittima, inopportuna e contraria ai principi costituzionali, una proroga che riguarda solo i magistrati della Cassazione e non anche i coetanei che, con la stessa anzianità di carriera operano negli uffici di merito? Legge chiaramente discutibile e in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza: legge che non esito a definire ad personam, visto che interessa i vertici dell’ordinamento giudiziario altrimenti collocabili a riposo per limiti di età. Tra Roma e Milano, l’incrocio pericoloso nel disordine non garantista di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 17 dicembre 2016 Il duplice colpo mediatico-giudiziario che ha colpito le giunte di Roma e di Milano, ha acceso una febbre insana tra forze politiche che hanno una nozione molto approssimativa del garantismo e delle regole dello Stato di diritto. Un ingorgo di richieste, un incrocio pericoloso tra perentorie ingiunzioni alle dimissioni, stentorei proclami a favore del restare, trovate mediane o eccentriche, tra sospensioni e autosospensioni. Il duplice colpo mediatico-giudiziario che ha azzoppato le giunte di Roma e di Milano, pur mettendo insieme storie diversissime tra di loro, ha acceso una febbre insana tra forze politiche che hanno una nozione molto approssimativa del garantismo e delle regole dello Stato di diritto. Molto approssimativa e anche, se si può dire, molto strumentale. Per cui nelle stesse ore si sentono i Cinque Stelle che implorano la permanenza, per carità, di Virginia Raggi, ma chiedono le dimissioni del sindaco Sala, nel frattempo scopritore dell’inedita e spiazzante formula dell’autosospensione. E poi, simultaneamente, quelli del Pd vogliono che Beppe Sala non si debba dimettere, e tuttavia pensano che si debba dimettere Virginia Raggi, e non per l’inchiesta della magistratura, per carità, ma per il senso dell’opportunità. E quindi richiesta a specchio, dimissioni dell’altro contro permanenza del proprio, e viceversa. Poi però, arrivano i colpi a sorpresa, come se le vecchie geometrie della logica fossero saltate tutte per cui Matteo Salvini, contrariamente a ogni previsione, chiede le dimissioni della Raggi ma le non dimissioni di Sala. E quindi la dimissione incrociata si trasforma nella dimissione unidirezionale, ma nella direzione che non ti saresti mai aspettato. E visto che non ci possiamo mai far mancare alcunché, nel giorno delle dimissioni invocate, respinte, avanzate, sul fronte delle giunte di Roma e di Milano, qualcuno vuole le dimissioni della neoministra dell’Istruzione Fedeli per una controversa faccenda di lauree e di diplomi di maturità. Grande è il disordine (non garantista) sotto il cielo. Torna un mostro: la repubblica dei pm di Claudio Cerasa Il Foglio, 17 dicembre 2016 Da Roma a Milano. Perché la retorica vuota dell’onestà ha ridato coraggio al partito della nazione dei giudici. In politica, si sa, il vuoto non esiste e quando la politica si indebolisce (e si intimorisce) succede sempre la stessa cosa. Succede che i magistrati possono tornare a cantare tranquillamente "andiamo a comandare". Nel giro di poche ore si sono verificati alcuni fatti clamorosi che vanno messi in fila e che non riguardano solo le notizie degli ultimi giorni: l’arresto del braccio destro di Virginia Raggi, Raffaele Marra, e l’avviso di garanzia ricevuto dal sindaco di Milano, Giuseppe Sala. Mai come oggi l’inquadratura va allargata e l’immagine che arriverà all’occhio dell’osservatore attento è il riflesso di una fase storica che prevede sempre lo stesso copione: quando la politica arretra c’è sempre un magistrato che arresta. Breve riassunto delle ultime ore. Il sindaco della più importante città italiana (Sala, Milano) apprende dai giornali di essere indagato (sì, dai giornali) e per non finire infilzato dai forconi dell’Italia anti politica sceglie di arrendersi, di autosospendersi dal suo incarico e di non difendere il suo diritto a essere considerato innocente fino a prova contraria. Basta? Non basta. Una delle più grandi procure italiane (Milano) non riesce a contenere uno scontro tra correnti della magistratura (che va avanti dai tempi di Robledo e Bruti Liberati) e decide di bloccare la città più produttiva del paese portando avanti un’indagine (accusa di falso materiale per un lavoro sull’area Expo) per la quale la stessa procura mesi fa aveva già chiesto l’archiviazione. Basta? Non basta. Il sindaco dell’onestà della capitale, Virginia Raggi, dopo aver costruito la propria campagna moralizzatrice sulla scia di un’inchiesta della procura di Roma, la fuffa di Mafia Capitale, si ritrova, dopo un’infinità di altri problemi, con il proprio braccio destro arrestato (Raffaele Marra, subito scaricato, alla faccia della presunzione di innocenza) e si ritrova con una devastante ondata moralizzatrice che colpirà il sindaco di Roma alimentata dallo stesso Movimento di cui il sindaco di Roma fa parte. Basta? Non basta. Il presidente della regione Campania, Vincenzo De Luca, pochi giorni fa ha ricevuto un avviso di garanzia, con l’accusa di "istigazione al voto di scambio", perché nel corso di un incontro pubblico alla presenza di oltre trecento sindaci della Campania, li aveva invitati a svolgere un’intensa campagna per il Sì. Basta? Non basta. La legislatura in corso è bloccata da una politica inerme che ha scelto senza fiatare di far nascere un nuovo governo per assecondare la scelta della Corte costituzionale di rinviare a fine gennaio la sentenza sulla legge elettorale. I tempi della politica li decide la magistratura, non la politica. Basta? Non basta. I magistrati del Consiglio di stato hanno sospeso la riforma sulle banche popolari rinviando alla Consulta il giudizio sulla presenza o meno dei giusti requisiti di straordinarietà e di urgenza in base ai quali il precedente governo ha approvato la legge sulle banche popolari. I tempi della politica li decide la magistratura, non la politica. Basta? Non basta. La più importante corrente della magistratura, Md, dopo aver organizzato comitati per il No al referendum costituzionale è pronta a scendere in campo per sostenere un altro referendum che potrebbe riscrivere la storia d’Italia: quello sul Jobs Act. Le priorità della politica le decide la magistratura, non la politica. Basta? Per ora sì, ma solo per svolgere qualche ragionamento ulteriore. Stiamo per il momento sui casi di Milano e Roma. La storia di Milano, al di là dell’indagine in sé, è il termometro di un’incapacità della politica a saper resistere al potere mostruoso esercitato dalla magistratura, e il sindaco Sala, annunciando la sua sospensione dall’incarico, ha fatto un gesto che sarà apprezzato dall’indignato collettivo ma che è il contrario di quello che dovrebbe fare un manager eletto dal popolo: un sindaco risponde agli elettori, non ai magistrati, e fino a che si è indagati, e non condannati con sentenza definitiva, si ha il dovere di amministrare una città. La storia di Roma, al di là dell’indagine in sé e dei metodi spicci con cui è stato arrestato il braccio destro del sindaco dell’onestà, ci dice invece qualcosa di più interessante. Ci dice che la Raggi, come racconta bene oggi Marianna Rizzini sul Foglio, andrebbe commissariata subito, non per le inchieste su Marra o per le indagini sulle nomine ma semplicemente per incapacità politica. Ci dice che il Movimento 5 stelle ha alimentato un’odiosa macchina della melma fatta di antipolitica, impulsi anti casta, retorica dei forconi, infallibilità delle procure che è destinata a moralizzare anche gli ultimi arrivati della corrente dei moralizzatori. Ci dice che la melma messa in circolo dal Movimento ha contribuito a creare un clima all’interno del quale i partiti si indeboliscono e sono destinati ad avere sempre meno anticorpi per controbilanciare l’interventismo della magistratura. Da Roma a Milano passando per la distruzione per via giudiziaria della rottamazione renziana si è aperta così una nuova fase, la quale vede al centro il partito della nazione dei pm, che non a caso sta maturando all’indomani della partita referendaria. Il 4 dicembre 19 milioni di persone hanno detto No a una riforma che seppure in modo lieve avrebbe aiutato a riaffermare il primato della politica portando a un riequilibrio progressivo dei rapporti tra potere giudiziario e potere esecutivo. La vittoria del No ha allontanato l’epoca del riequilibrio e ha riaffermato l’epoca dello squilibrio. E quando la politica si indebolisce succede sempre la stessa cosa: che i magistrati possono tornare a cantare andiamo a comandare. "L’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie, è quello di una sorta di areopago, composto di onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese". Lo scriveva Benedetto Croce anni fa. Potrebbe essere riscritto oggi per sintetizzare lo stato di salute dei moralizzatori d’Italia. Che come sempre capita nel nostro paese dopo aver alimentato la macchina della moralizzazione non possono che essere a loro volta moralizzati. A volte capita con uno scontrino. A volte capita con un arresto. È l’onestà, bellezza. Assoluzione sulla droga, ma la patente resta sospesa Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2016 La sospensione della patente per guida sotto l’effetto di droga resta anche quando l’interessato viene assolto nel processo penale cui viene sottoposto. Infatti, la sospensione è una misura cautelare decisa dal prefetto, che può prescindere dalle decisioni dei giudici. Lo chiarisce la Corte di cassazione, con la sentenza 25870/2016, depositata l’altro ieri. La Corte ha deciso su una causa civile promossa da una guidatrice trovata positiva alla cocaina in analisi del sangue dopo un incidente con danni a persone. Dalla positività consegue un processo penale, ma - pare di capire dalla sentenza - nel frattempo la patente resta sospesa in via cautelare dalla Prefettura (articolo 223 del Codice della strada). Il processo ha poi portato all’assoluzione e l’interessata ha impugnato in sede civile il provvedimento prefettizio, ottenendo ragione in appello dal Tribunale. Ma la Cassazione boccia quest’ultima decisione, perché la sospensione impugnata aveva natura cautelare. Si esce dunque dallo schema previsto dal primo comma dell’articolo 187 del Codice, che rimette al giudice il compito di sospendere la patente una volta accertato il reato. Basilicata: l’Ugl a Orlando: "adesso si occupi della Polizia penitenziaria" lasiritide.it, 17 dicembre 2016 Il Segretario Nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria Alessandro De Pasquale, ha inviato una lettera al Ministro della Giustizia per "accendere i riflettori sulla necessità di attivare tutte le iniziative politiche per migliorare le disastrose condizioni di lavoro del personale penitenziario, nonché rendere più sicuro e salubre l’ambiente carcerario". Lo fanno sapere il segretario generale dell’Ugl Basilicata, Giovanni Tancredi e il segretario regionale dell’Ugl Pol. Pen., Giovanni Grippo. Secondo De Pasquale, il Ministro Orlando "dalle promesse dovrà passare ai fatti su tutto ed in special modo su quanto si sta verificando nei carceri della Basilicata, impegnandosi anche nell’approvazione del testo legislativo che dovrebbe finalmente cancellare la sperequazione dei Funzionari della Polizia Penitenziaria che dura da moltissimi anni e su cui, in nove mesi, sono state proposte diverse interrogazioni parlamentari, tra cui quella dell’On. Renata Polverini (Fi). Nel 2016 - conclude De Pasquale - non è stata fatta alcuna assunzione nella polizia penitenziaria e questo potrebbe verificarsi anche nel 2017, se non si faranno interventi urgenti che consenta un piano di assunzione efficiente per fronteggiare il sovraffollamento carcerario". Il segretario De Pasquale inoltre, ha fatto personalmente sapere - terminano Tancredi e Grippo - che prossimamente con il Vice Presidente della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati, l’On. Polverini faranno visita al Carcere di Matera, Potenza e Melfi". Monza: un detenuto rumeno di 35 anni si è impiccato ieri mattina nella sua cella Ansa, 17 dicembre 2016 Un detenuto rumeno di 35 anni si è impiccato ieri mattina nella sua cella, nel carcere di Monza. Ne dà notizia Nico Tozzi, vice segretario regionale per la Lombardia del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), spiegando che l’uomo "con posizione giuridica appellante con fine pena dicembre 2019, è stato prontamente soccorso dagli agenti penitenziari in servizio prestando il primo soccorso. I medici di turno intervenuti immediatamente hanno prestato le prime cure ma si è dovuti ricorrere all’intervento dell’automedica del 118, i quali hanno dovuto portare il detenuto in codice rosso presso l’ospedale di Garbagnate in coma farmacologico. Lo scorso mese un detenuto italiano ha perso la vita con la stessa modalità". Il segretario generale del Sappe, Donato Capece, evidenzia come "il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri". Roma: tentato suicidio di un agente penitenziario in servizio all’Ipm di Casal del Marmo romatoday.it, 17 dicembre 2016 Il 42enne ha provato ad impiccarsi con una cinghia in bagno ed ora lotta tra la vita e la morte all’ospedale San Filippo Neri. Il Sappe: "Una tragedia". Lotta tra la vita e la morte all’ospedale Filippo Neri di Roma l’Assistente Capo di Polizia Penitenziaria di 42 anni originario della Campania ed in servizio al Carcere minorile Casal del Marmo di Roma che ha tentato il suicidio impiccandosi con una cinghia in bagno. Lo rende noto il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "L’uomo - il commento del segretario nazionale del Sappe Maurizio Somma - celibe, era assente dal servizio da diversi mesi per una patologia psicologica ma vive in Caserma. Gli era stata ritirata la pistola, ma questo non ha impedito che mettesse in atto il tragico gesto. Si è infatti impiccato con una cinghia in bagno". Sei suicidi nel 2016 - Attonito Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe: "Sono davvero sgomento. Dall’inizio dell’anno sono stati ben 6 i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita. Dal 2000 ad oggi oltre cento sono stati i casi di suicidio nel Corpo di Polizia e dell’Amministrazione penitenziaria. Non sappiamo le ragioni del tragico gesto del collega, che speriamo possa salvarsi". Professioni di aiuto - "Certo è che è luogo comune pensare che lo stress lavorativo sia appannaggio solamente delle persone fragili e indifese: il fenomeno colpisce inevitabilmente anche quelle categorie di lavoratori che almeno nell’immaginario collettivo ne sarebbero esenti, ci riferiamo in modo particolare alle cosiddette "professioni di aiuto", dove gli operatori sono costantemente esposti a situazioni stressogene alle quali ognuno di loro reagisce in base al ruolo ricoperto e alle specificità del gruppo di appartenenza. Il riferimento - prosegue Capece - è, ad esempio, a tutti coloro che nell’ambito dell’Amministrazione di appartenenza spesso si ritrovano soli con i loro vissuti, demotivati e sottoposti ad innumerevoli rischi e ad occuparsi di vari stati di disagio familiare, di problemi sociali di infanzia maltrattata ovvero tutto quel mondo della marginalità che ha bisogno, soprattutto, di un aiuto immediato sulla strada per sopravvivere". Drammatica realtà - "L’Amministrazione Penitenziaria e quella della Giustizia Minorile non possono continuare a tergiversare su questa drammatica realtà - conclude Capece. Non si può pensare di lavarsi la coscienza istituendo un numero di telefono (peraltro di Roma) che può essere contattato da chi, in tutta Italia, si viene a trovare in una situazione personale di particolare disagio. Servono soluzioni concrete per il contrasto del disagio lavorativo del Personale di Polizia Penitenziaria. Come anche hanno evidenziato autorevoli esperti del settore, è necessario strutturare un’apposita direzione medica della Polizia Penitenziaria, composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria e della Giustizia Minorile. Ora ci auguriamo tutti che il collega del carcere minorile di Casal del Marmo a Roma si possa salvare. Ma non mettere in atto immediate strategie di contrasto del disagio che vivono appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria è colpevolmente da irresponsabili". Sassari: iniziativa della Coldiretti nel carcere di Bancali cagliaripad.it, 17 dicembre 2016 "Stiamo coi più deboli, condivideremo i nostri valori con i carcerati", dice il direttore regionale, Luca Saba. A Bancali si esibiranno gli Istentales. "Abbiamo un rapporto epistolare con i detenuti di Sassari e di altre strutture", spiega Sanna. Coldiretti visita il carcere di Bancali. Giovedì prossimo, 22 dicembre, oltre i cancelli dell’istituto carcerario sassarese sarà una giornata speciale, tra musica e degustazioni di prodotti tipici sardi. "Stiamo coi più deboli, condivideremo i nostri valori con i carcerati", dice il direttore regionale, Luca Saba. A Bancali si esibiranno gli Istentales. "Abbiamo un rapporto epistolare con i detenuti di Sassari e di altre strutture", spiega il leader della band, Gigi Sanna. "Così cerchiamo di far sentire meno solo chi vive un’esperienza difficile come la vita detentiva". Protagonisti saranno gli alunni delle scuole medie 5 e 12 di Sassari: leggeranno davanti ai carcerati alcune riflessioni sul tema della detenzione, che diventeranno canzoni per il prossimo album inedito degli Istentales. "Vogliamo sensibilizzare i ragazzi su un mondo lontano dalla loro quotidianità", dice il dirigente scolastico, Salvatore Sabino. "Abbiamo lavorato sul concetto di detenzione e di reinserimento sociale - spiega - sono nate riflessioni straordinarie". Per il presidente di Coldiretti Sardegna, Battista Cualbu, "festeggiare Natale coi detenuti di Bancali significa sperare di poter regalare loro una giornata diversa e manifestargli la nostra vicinanza". Cagliari: Università in campo per ridisegnare gli spazi del carcere minorile cagliaripad.it, 17 dicembre 2016 Si chiama "Fuori luogo" ed è un progetto per ripensare gli spazi dell’Istituto penale per i minorenni di Quartucciu. Coinvolti detenuti, studenti, docenti, esperti, operatori della Giustizia Minorile. La convenzione per la realizzazione di attività didattiche e di ricerca tra il Dipartimento di Ingegneria civile, Ambientale e Architettura dell’Università e il Centro per la Giustizia Minorile per la Sardegna è stata siglata questa mattina. Saranno inoltre proposte nuove relazioni, fisiche e di senso, tra l’istituto e la città metropolitana di Cagliari, nel tentativo di restituire alla struttura una fisionomia sempre più vicina alla comunità. L’accordo tra Ateneo e Dipartimento avrà la durata di tre anni. Prevede un’ampia collaborazione nell’ambito della definizione di iniziative sulla devianza minorile e la sperimentazione di nuove metodologie e approcci a sostegno dei percorsi socio-educativi e di inclusione sociale per i minori e giovani adulti sottoposti a procedimento penale, di prevenzione della recidività, di reinserimento sociale e lavorativo, di mediazione penale e giustizia riparativa e la promozione di azioni di sensibilizzazione sul territorio e di riflessione sugli spazi della pena e sui sistemi di welfare. Firenze: Comitato StopOpg "il 23 dicembre prossimo visita all’Opg di Montelupo" di Stefano Cecconi Ristretti Orizzonti, 17 dicembre 2016 Il 23 dicembre prossimo, antivigilia di Natale, una delegazione di StopOpg tornerà in visita all’OPG di Montelupo Fiorentino. Sarà occasione per incontrare le persone internate e gli operatori, confermando l’impegno del nostro Comitato per la chiusura definitiva dell’OPG, rispondendo ai bisogni di cura dei pazienti e ai diritti dei lavoratori della struttura. Sapete infatti che l’OPG di Montelupo Fiorentino è ancora aperto (come quello di Barcellona Pozzo di Gotto) seppure vi siano ormai solo poche persone internate. La delegazione ad oggi è formata da Denise Amerini, Cesare Bondioli, Stefano Cecconi, Vito D’Anza, Antonio Fortarezza, Maria Grazia Giannichedda, Armando Zappolini e a questi si dovrebbero aggiungere giornalisti e forse il Commissario Franco Corleone. Come sapete, il numero di persone ammesse alla visita è limitato, pertanto chi volesse partecipare è pregato di scriverci subito e sarà nostra cura confermare la possibilità di ingresso. Forlì: Techne ed Hera donano 95 computer a detenuti, rifugiati e persone indigenti di Margherita Barbieri romagnawebtv.it, 17 dicembre 2016 Le due realtà hanno donato 95 PC per l’alfabetizzazione informatica di detenuti, rifugiati e persone indigenti grazie al riutilizzo e recupero dei computer aziendali dismessi dalla multiutility. Recuperare vecchi computer, di tecnologia obsoleta ma ancora funzionanti, dismessi da Hera per metterli a disposizione di fasce della popolazione svantaggiate, coinvolte in progetti di alfabetizzazione informatica e reinserimento lavorativo e sociale, quali disabili, anziani, detenuti, extracomunitari, rifugiati politici e persone senza fissa dimora: questo l’obiettivo di un accordo sottoscritto tra Techne, ente di formazione di proprietà pubblica che lavora da oltre quarant’anni in favore delle fasce svantaggiate, ed Hera, al fine di favorire l’alfabetizzazione informatica di persone in difficoltà e bisognose. L’accordo prevede che Techne prenda in consegna 120 apparecchiature informatiche (70 fissi e 50 portatili), ne verifichi la funzionalità e le possibilità di rigenerazione e predisponga l’eventuale recupero di parti di ricambio fino al completo ricondizionamento. 95 di questi 120 PC sono già stati donati, in poco meno di un anno, a cooperative sociali che gestiscono progetti in favore di detenuti e rifugiati, nonché ad associazioni di volontariato a supporto delle persone più indigenti (Caritas, Assiprov - Centro Servizi per il volontariato, Casa circondariale di Forlì, Coop.va Dialogos, ecc..). Le restanti 25 apparecchiature rigenerate saranno destinate a specifiche iniziative di alfabetizzazione informatica per facilitare l’inclusione socio-lavorativa delle persone. Tra questi il Progetto Rifugiati rivolto a persone richiedenti asilo politico o rifugiati politici e progetti di sostenibilità sociale promossi dalle scuole e/o dalle associazioni locali, con particolare riferimento a persone disabili, tossicodipendenti e svantaggiati in genere. Techne ed Hera, partner da oltre 10 anni in progetti che coniugano le tematiche sociali e la sostenibilità ambientale sono fermamente convinti del valore di iniziative con una duplice valenza, umanitaria ed eco-sostenibile, che mettono in campo interventi per l’inclusione sociale delle fasce più deboli della popolazione. "Giunti a fine anno era doveroso fare un bilancio - afferma soddisfatta Lia Benvenuti, direttore di Techne - e siamo felici di aver raggiunto le 95 apparecchiature consegnate. Il progetto - continua la Benvenuti - ha quindi raggiunto il suo obiettivo di sostenere da un lato una cultura dell’accoglienza per i rifugiati presso le comunità del territorio e dall’altro promuovere l’alfabetizzazione informatica delle categorie più svantaggiate della nostra società, offrendo anche ai meno abbienti l’opportunità di mettersi in gioco ed entrare a far parte dell’era digitale, il tutto in un’ottica di inclusione lavorativa e di pieno inserimento sociale nella comunità". "In aggiunta alle importanti e positive ricadute sociali - conclude Salvatore Molè, Direttore Centrale Innovazione di Hera - questa iniziativa presenta anche un aspetto ecologico-ambientale non trascurabile: consente infatti di riutilizzare apparecchiature informatiche che non hanno più i requisiti necessari per la nostra azienda, ma che risultano invece pienamente adeguate alle esigenze di altre persone, riducendo così la produzione complessiva di rifiuti. Prato: detenuto in cella di isolamento appicca incendio, intossicati anche tre agenti La Nazione, 17 dicembre 2016 I sindacati denunciano ancora la situazione di disagio dei lavoratori del carcere. Un detenuto italiano di 30 anni, con problemi psichiatrici, ieri sera ha appiccato il fuoco nella sua cella di isolamento a Prato e tre agenti di custodia sono rimasti intossicati dal fumo. Il personale di vigilanza ha dovuto allontanare il detenuto, ma è intervenuto anche per mettere in sicurezza il resto della sezione. Ne dà notizia il coordinatore territoriale della Uil-Pa polizia penitenziaria di Prato Massimo Lavermicocca. Solo grazie all’intervento dei colleghi, si legge in una nota, "si è evitato il peggio, scongiurando guai ben più peggiori". Purtroppo durante le operazioni di salvataggio, tre agenti di polizia penitenziaria, sono finiti al pronto soccorso dove hanno trascorso la notte, per le esalazioni del fumo che si espandeva nella sezione. Per la cronaca agli operatori è stata certificata una di prognosi di 7 giorni. Ancora una volta, scrive la Uil, "registriamo gravi situazioni di disagio nei confronti del personale di polizia penitenziaria, che paga le deficienze dell’amministrazione sul piano organizzativo e gestionale della struttura Pratese finanche in termini di risorse umane strumentali e tecniche, che sembrano latitare". Trento: in carcere uno spettacolo teatrale con i detenuti, il clima rimane però teso ildolomiti.it, 17 dicembre 2016 Gli agenti di Polizia penitenziaria: "Siamo metà di quelli che servirebbero e a breve ne andranno in pensione altri senza essere sostituiti". Un saggio di improvvisazione teatrale dove la creatività e la fantasia non sono limitate dalle sbarre ma valorizzate. Una spettacolo unico che ha visto protagonisti i detenuti della Casa circondariale di Trento e l’impegno di circa venti persone in occasione dell’esibizione di Natale. A seguire la preparazione è stata la compagnia "Toni Marci" di Trento con un laboratorio iniziato lo scorso settembre e che ha visto la partecipazione entusiasta di molti. "È stata una cosa davvero unica - ha spiegato il responsabile della preparazione Gabriele Zanon - perché questi ragazzi sono riusciti a prepararsi in appena tre mesi quando ne servirebbero otto. Ci siamo allenati un’ora e mezza alla settimana ed ho visto tanta grinta e voglia di fare". Lo spettacolo messo in scena dai detenuti si è basato sull’improvvisazione e quindi la capacità degli attori di entrare in scena senza alcun copione e di inventarsi le situazioni più disparate. Un’ora e mezza di divertimento per tutti. "È la prima volta - ci ha spiegato Abdilli Adnen - che facevo teatro in vita mia e devo dire che mi piace un sacco e mi diverto. Un grazie agli educatori". Per Adnen, "un’esperienza unica che mi ha fatto sperare in una nuova vita". Stesso entusiasmo anche per Sarhi Said, 30 anni. La speranza per lui è quella di terminare di scontare la pena tra poco più di un mese. "Il teatro è stata una bella esperienza che mi ha permesso anche di scoprire la passione per una cosa che non conoscevo". La sensazione è che tutti siano riusciti proprio grazie al teatro a scordare per un pò di tempo le quattro mura grige che li circonda e riacquistare la fiducia in loro stessi per guardare avanti e riuscire, un domani, a rifarsi una vita. Il teatro rappresenta solamente una delle tante attività che vengono svolte con l’aiuto di diverse cooperative all’interno della Casa Circondariale di Trento. "Ci sono molti lavori che portiamo avanti - ha spiegato Tommaso Amedei, responsabile delle attività educative - che coinvolgono tutti i detenuti, sia uomini che donne". Tra le diverse attività quelle della lavanderia fino ad arrivare alla nuova attività di imbottigliamento di detersivi biologici con alcune cooperative. Un impegno tradotto anche nel campo della formazione con attività di insegnamento dell’italiano, dell’inglese e del tedesco. L’ambito formativo viene seguito dal liceo Rosmini". I problemi però non mancano. Se da un lato le attività lavorative sono molte, dall’altro il clima interno alla Casa circondariale non sembra essere dei migliori. A pesare è soprattutto il numero ridotto degli agenti di polizia penitenziaria. "Sulla carta dovremmo essere almeno 200 - ci dice un agente - ma invece siamo la metà. E tra poco andranno in pensione altre 5 o 6 unità e queste magari non verranno sostituite, come è già successo in passato". Un clima pesante sentito dagli stessi detenuti. "Noi stiamo bene - ci spiegano - quando anche gli agenti stanno bene. Invece il fatto che siano in pochi crea molta tensione e i rapporti diventano difficili". Matera: Uspp "in carcere carenza di organico, ci sono meno di cento agenti" Gazzetta del Mezzogiorno, 17 dicembre 2016 Ha riguardato in prevalenza problematiche relative a un organico sottodimensionato, rispetto al peso di un aumento della popolazione carceraria dopo l’accorpamento alla Puglia degli istituti di pena della Basilicata, la visita che il presidente nazionale dell’Unione italiana sindacati polizia penitenziaria (Uspp), Giuseppe Morelli, ha effettuato presso la casa circondariale di Matera insieme al segretario regionale, Vito Messina, e al direttore del carcere, Michele Ferrandina. Attualmente l’istituto di pena di Matera ha un organico inferiore alle cento unità, 12 delle quali distaccate, rispetto alle 120 previste e a fronte di una popolazione carceraria salita a 160 reclusi. "Questa situazione - ha detto Morelli - comporta un aumento del carico di lavoro oggettivo e dello stress sui luoghi di lavoro. Occorre che il Governo proceda a nuove assunzioni, visto che tra pensionamenti per anzianità e problemi di salute lo scorso anno abbiamo perso mille agenti. e non è stato possibile procedere a scorrimenti di graduatorie, a causa di un emendamento non recepito nella legge di stabilità. Nemmeno con il Giubileo ci è stato consentito di procedere a nuove assunzioni, rispetto ad altri Corpo". Morelli, in relazione a un episodio verificatosi nei giorni scorsi tra personale della casa circondariale, ha detto che tali attriti spesso scaturiscono da incomprensioni e ha invitato a puntare l’attenzione sulle problematiche della struttura. Ha aggiunto che gli sono state segnalate problematiche circa gli organici del Nucleo traduzione e piantonamento e per il settore amministrativo, mentre sul piano logistico ha aggiunto che la struttura di Matera è stata oggetto di interventi di adeguamento funzionale ma che occorre assicurare risorse certe per completare alcuni interventi e per la manutenzione. Morelli, che ha aggiunto di monitorare costantemente la situazione della Basilicata, ha tenuto una assemblea con gli agenti sul rinnovo contrattuale, previdenza e trasferimenti. Avellino: dalle carceri ai murales, la libertà della street art che azzera le distanze di Lara Tomasetta orticalab.it, 17 dicembre 2016 Nelle case circondariali di Ariano Irpino e Sant’Angelo dei Lombardi, il progetto di Antonio Sena, con gli artisti del Collettivo FX e Nemòs, "Non me la racconti giusta". Un lavoro di immaginazione e dialogo in luoghi in cui il tempo si dilata e dove centinaia di vite si consumano lontane dal mondo. Un lavoro spalla a spalla, fianco a fianco, con ragazzi, adulti, giovani che faticano a costruire un vero rapporto di scambio e collaborazione con chi giunge dall’esterno. Antonio Sena è un fotografo e un videomaker: insieme agli artisti del Collettivo FX e Nemòs, sta dando vita ad un progetto ambizioso, complesso ed unico, ovvero utilizzare le forme contemporanee di fare arte per riportare l’attenzione delle persone su temi che sembrano sempre troppo lontani da noi. In carcere si finisce per i motivi più disparati: per degli errori che si commettono, spesso consapevolmente, e altre volte senza immaginare quale sia il mondo al quale si sta rinunciando per un inganno, una leggerezza, un’ambizione sbagliata. La perdita della libertà comporta l’eliminazione del contatto con la realtà, con quella vita che continua ad andare avanti, indifferente rispetto alle tante esistenze che si consumano dentro le migliaia di celle dove si è in troppi eppure sempre soli con i propri pensieri: secondo i dati dell’associazione Antigone sono 3950 le persone senza un posto letto, mentre altre 9mila hanno meno di 4 metri quadri a testa. Il progetto degli street artist, denominato "Non me la racconti giusta", è semplice: entrare nelle carceri e coinvolgere i detenuti nella realizzazione di un murale per il quale l’ideazione e la progettazione dell’opera non vengono imposte dai coordinatori ma sono frutto del confronto. Portare bombolette, teli, colori, fantasia, immaginazione, dialogo all’interno di un luogo dove i giorni si confondono, spesso identici, eterni. Lavorare spalla a spalla, fianco a fianco, con ragazzi, adulti, giovani che faticano a costruire un vero rapporto di scambio, di sincerità e di collaborazione con chi giunge dall’esterno, con chi non sa cosa si prova, cosa spinge a commettere un reato. Forse proprio dalla fatica del lavoro, dalla condivisione che azzera le differenze, dalla confidenza di chi per ore condivide più di un muro bianco da riempire, si può ottenere un piccolo risultato. Il metodo di lavoro consiste nel creare un tavolo di discussione sul quale i coordinatori pongono degli spunti di riflessione per animare un dibattito: da questa fase emergono dei contenuti che i detenuti andranno a tradurre in immagini. Infine, fornite le basi tecniche, si passa alla realizzazione materiale del disegno. Così nasce l’Ulisse dei detenuti della Casa circondariale di Ariano Irpino dove Aleksandr, Antonio, Dymitro, Giuseppe, Jimmy, Roberto e Stanislao hanno rappresentato l’Odissea attraversata per il ritorno a casa come forza motrice che spinge a superare ogni difficoltà. E nasce un Totò alato nel passeggio principale della Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi per opera di Antonio, Carmine, Danilo, Francesco, Gianluca, Giuseppe, Pasquale, Raffaele, Renato e Vincenzo. Dipingere Totò ha significato dare voce alla napoletanità, quella buona, essendo un personaggio riconosciuto universalmente come emblema del teatro e del cinema ma anche un uomo umile e generoso che non ha mai dimenticato le sue origini. Airola (Bn): chiuso il laboratorio di "Dj e Mixing", festa all’Istituto penale minorile ilvaglio.it, 17 dicembre 2016 È stata una giornata diversa, di grande festa, quella registrata giovedì 15 Dicembre, all’interno dell’Istituto Penale Minorile di Airola (Benevento). Un momento di aggregazione al termine del laboratorio di "Dj e Mixing", una delle tante attività fortemente volute dal Direttore della struttura Di Lauro e dalla Dott.ssa Cirigliano, per coinvolgere i detenuti in progetti ricreativi ma soprattutto dal forte impatto educativo. I carcerati - si legge nella nota diffusa alla stampa - hanno avuto così la possibilità di distrarsi, credere ed impegnarsi in un progetto, quello musicale, che li ha visti protagonisti sul palco del teatro del carcere. Un teatro che è divenuto un’arena gremita, grazie ai ragazzi dell’Istituto Aldo Moro di Montesarchio, accompagnati dalla dirigente Fantasia e quelli dell’Istituto Superiore Lombardi di Airola, con la dirigente Cirillo. Un momento di convivialità, ma non solo, ha sottolineato la Dott.ssa Coordinatrice Rosa Vieni: "Le istituzioni devono essere percepite come amiche, come possibilità di ricostruzione anche e soprattutto in un momento drammatico quale quello della detenzione che può e deve divenire un momento di riconversione e rinascita". Un pensiero, sostenuto a gran voce anche dal Sindaco di Airola, Napolitano, che ha voluto rivolgere un incoraggiamento ai detenuti e dal Magistrato di sorveglianza, la Dott.ssa Riccio che, al termine della manifestazione, ha citato Kant come auspicio e speranza per uscire fuori "da uno stato di minorità" ed avere il coraggio di servirsi della propria mente e del proprio intelletto per dare un cambiamento alla propria vita. Perché cambiare è possibile ma bisogna crederci, questo il pensiero condiviso anche da tutti gli artisti coinvolti: da Dj Uncino, al percussionista napoletano Ciccio Merolla, al sannita Shark Mc, al rapper Oulonge e dai break-dancer della Ncd (Nuova Camorra Disorganizzata). Infine, Rocco Hunt, che con il rapper Clementino ha voluto inviare un saluto ai detenuti, ha chiuso l’evento con le note di "Nu juorno buono": una canzone manifesto che, mai come oggi, diventa messaggio e monito di speranza e rivalsa - dopo tante battaglie e disperazione - di giorni, finalmente, buoni. Viterbo: "Pranzo di Natale 2016" organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio Ristretti Orizzonti, 17 dicembre 2016 Quest’anno, per la prima volta, a sedersi ai tavoli imbanditi nella sala teatro del carcere di Mammagialla con lasagne fumanti, pollo e patate al forno, panettoni e musica, ci sarà un gruppo di circa 60 detenuti che festeggeranno il Natale, in compagnia di alcuni assistenti volontari nonché di alcune Autorità del territorio: sarà presente Sua Eccellenza il Prefetto di Viterbo, il Garante Regionale dei detenuti, i rappresentanti delle Istituzioni locali, della Croce Rossa Italiana, della Fondazione Carivit, con i quali - da anni - la Direzione del Carcere intrattiene proficui rapporti di collaborazione. E1 un segnale importante di cittadinanza e di inclusione, a seguito dell’anno santo del Giubileo della Misericordia, ma non solo... il pranzo è stato reso possibile grazie all’impegno e all’entusiasmo degli operatori della Comunità di Sant’Egidio in collaborazione, con la Direzione e tutte le realtà che operano all’interno dell’Istituto. Questo evento, che si terrà domenica 18 dicembre 2016, corona l’impegno di Sant’Egidio che, durante l’anno, ha assicurato una presenza con costanti colloqui con i detenuti ed ha organizzato le distribuzioni di generi di vestiario e di igiene personale alle persone detenute più povere e prive di risorse, nonché incontri di preghiera con i cristiani e i musulmani: questi interventi hanno avuto ed hanno lo scopo di non far sentire "ultimi" i detenuti ristretti presso la Casa Circondariale di Viterbo. Il pranzo sarà un momento di incontro senza precedenti, per i molti detenuti, più poveri, perché privi di risorse economiche e di riferimenti familiari: saranno proprio loro gli ospiti d’onore. Alla realizzazione del primo pranzo di Natale collaborano i volontari del Gavac e della Caritas, con l’auspicio che sia il primo di una lunga serie nei prossimi anni... Si rinnova un doveroso ringraziamento a tutti gli assistenti volontari e tutti gli operatori, penitenziari e non, che renderanno possibile, con il loro impegno e la loro preziosa collaborazione, questo evento. La Spezia: il cantante Gheri suona per i detenuti di Chiara Buratti Il Tirreno, 17 dicembre 2016 È’ tutto pronto per uno degli ultimi spettacoli annuali del noto cantante versiliese Gheri. Oggi l’artista si esibirà in una location davvero speciale ed insolita: il carcere di La Spezia. "La musica è patrimonio universale. E, come tale, deve essere alla portata di tutti. In carcere si mescolano identità, etnie, religioni, problemi e, ahimè, anche crimini. Proprio per questo è il posto ideale per organizzare un concerto", commenta la responsabile dell’area trattamenti della casa circondariale, Licia Vanni. E della stessa opinione è lo stesso Gabriele Cancogni (in arte "Gheri"): "Il tempo può essere un castigo quando si viene privati della libertà. È una dura prova, soprattutto se ad affrontarla si è soli. E la mia musica non conosce barriere, neanche quelle dove i detenuti sono costretti a vivere. Queste persone hanno diritto a momenti di svago, ed io sono sicuro che sarà un successo poter condividere con loro la mia musica". Quello dell’artista pietrasantino non è il primo concerto che si tiene nella prigione. Durante l’anno, sono stati, infatti, organizzati incontri sulle note di musica classica ed hip hop. All’interno si è esibito pure il noto pianista spezino, Paolo Restani, molto apprezzato dai detenuti. Il tempo di un concerto è relativamente breve: un’ora e mezza, due ore. Sono poche, ma sono sufficienti per distrarsi dal peso di un fardello che chi vive in cella è costretto a sopportare. Anche solo il ricordo di quel gioioso lasso di tempo può suscitare emozione e distrarre la mente dei detenuti. Questo, Gheri lo sa bene. Lo sa bene anche la direttrice del carcere, Maria Cristina Bigi, che ha pensato le esibizioni come importanti momenti culturali e di socializzazione. Un passo davvero importante è quello che si è fatto all’interno di questa casa circondariale: per questo la responsabile dell’area trattamenti ci tiene a ringraziare il cantante, che da tempo voleva mettere in pratica l’idea di suonare per i carcerati. L’iniziativa rappresenta un altro importante tassello nell’incredibile percorso del giovane cantautore. Versiliese di nascita, classe ‘81, a soli 18 anni Gabriele ha iniziato a comporre i suoi primi testi e ad avvicinarsi alla chitarra acustica. A Dublino, dopo tanto girovagare, gli viene proposta la sua prima, fortunata, offerta di lavoro. Ad ingaggiarlo è, niente meno che Paul Mooran, insegnante del batterista degli U2, Larry Mullen. Anno nuovo, vita nuova: Gheri approda in Colorado, dove sboccia il suo primo amore per il Southern Rock. Al suo rientro in Italia collabora con Zucchero, Guido Elmi, Fio Zanotti e Saverio Grandi, per arrivare sino a Ligabue. Il suo ultimo cd, "Generazione 0", sta riscuotendo grande successo. Roma: Cittadinanzattiva e Compagnia "Stabile Assai", serata solidale per il reinserimento Ristretti Orizzonti, 17 dicembre 2016 "Parole e catene", il 20 dicembre al Teatro Tirso di Roma le canzoni e le poesie di Pasolini, Raffaele Viviani, Gabriella Ferri, Ignazio Buttitta, Rosa Balestreri, Salvatore Di Giacomo raccontano la tradizione del "Canto carcerario". Cittadinanzattiva e la Compagnia "Stabile Assai" della Casa di reclusione di Roma Rebibbia insieme per una serata solidale per la cultura a favore del reinserimento. La cultura carceraria è fatta di tradizioni consolidate che si tramandano da decenni. Occhi che esprimono consenso o riprovazione, la negatività di certi gesti che la scaramanzia condanna, parole che fanno parte di un gergo che nasce nei quartieri disagiati e viene assimilato dalle mura dei penitenziari. E poi esistono le canzoni che narrano di amori lacerati e di sesso non consumato o di ricordi di momenti intensi mai più vissuti. Ed infine le poesie, quelle dedicate alle proprie donne che ancora aspettano o che, invece, hanno scelto di vivere una esistenza senza più legami. Pasolini, Raffaele Viviani, Ignazio Buttitta, Rosa Balestreri, Gabriella Ferri, Salvatore Di Giacomo sono i cantori della emarginazione popolare. A questi maestri sarà fatto omaggio con monologhi che narreranno di "vite violente", di una Napoli notturna ("pianoforte e notte"), dell’Ucciardone e di una Trinacria in cui l’indifferenza produce morte il prossimo 20 dicembre, alle 21, al Teatro Tirso a Roma (Via Tirso 89), grazie alla iniziativa promossa da Cittadinanzattiva e dalla Compagnia "Stabile assai" della Casa di Reclusione di Roma Rebibbia. Il costo del biglietto è di 20 euro. Lo spettacolo sarà preceduto da un momento di confronto a cui sono stati invitati a partecipare il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, il Vice Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Massimo De Pascalis e il Garante dei Detenuti del Lazio Stefano Anastasia. L’opera teatrale è scritta da Antonio Turco, Cosimo Rega e Paolo Mastrorosato con la sceneggiatura di Mimmo Miceli. Per maggiori informazioni e l’acquisto del biglietto si può visitare il sito cittadinanzattiva.it. Sulmona (Aq): i detenuti del carcere realizzano presepe per i terremotati di Pio Di Leonardo ilmartino.it, 17 dicembre 2016 Iniziativa frutto della collaborazione della Direzione dell’Istituto di Pena di Sulmona e i detenuti in essa ristretti, a favore di una realtà duramente colpita dai recenti eventi sismici. È stato consegnato alla comunità di Amatrice un artistico presepe realizzato per intero da detenuti di Sulmona. Il presepe, per la cui realizzazione ci sono voluti alcuni mesi, è stato consegnato in occasione della visita avvenuta ieri del Presidente della Repubblica, da Suor Benigna, educatrice del carcere Peligno e da tre poliziotti penitenziari. A darne notizia è Mauro Nardella Segretario Generale territoriale Uil PA Polizia Penitenziaria. "Non si può che esprimere un sentito compiacimento per quanto fatto dalla Direzione del penitenziario Peligno, dal personale di Polizia Penitenziaria e dai detenuti", afferma. Migranti. La doppia Odissea dei rifugiati omosessuali di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 17 dicembre 2016 Migliaia di profughi Lgbt in fuga dalla guerra e dalla repressione dei governi. Secondo le stime di Eurostat, Ocse e dell’Agenzia europea Frontex, nel 2015 il numero di persone che sono arrivate in Europa scappando dai propri paesi, ha toccato la quota record di 1 milione e 300 mila, fra questi almeno 600 mila hanno fatto domanda di asilo. Uomini, donne, bambini, una massa enorme ( per il 2016 si prevede un aumento esponenziale) che affronta viaggi rischiosissimi e molte volte mortali. Chi è più debole soccombe. Si fugge dalle guerre, dalla fame, e si fugge anche dalla discriminazione di genere. Una realtà che sperimentano sulla propria pelle le persone omosessuali, lesbiche, bisessuali e trans. L’acronimo che le identifica è Lgbt, ma le parole molte volte non aiutano a capire bene quanto sia drammatica la situazione. È difficile avere numeri precisi chi è soggetto a persecuzione per il proprio orientamento sessuale, esistono dati parziali come ad esempio quello che riguarda il Belgio dove i richiedenti asilo Lgbt sono passati dai 376 nel 2009 a poco più di un migliaio nel 2014. La difficoltà è causata dal fatto che molti rifugiati non sono spesso messi nelle condizioni di dichiarare la propria condizione di omosessuali. Innanzitutto per paura, il ricordo delle violenze subite durante i viaggi da parte di "passeurs" senza scrupoli è psicologicamente devastante, e poi per ottenere asilo bisogna esibire delle prove come una foto, un articolo di giornale che testimonino le persecuzioni. Attualmente sono 76 i paesi nei quali l’omosessualità è considerata fuorilegge e punita in 12 nazioni con la pena di morte. Un rapporto dell’organizzazione Ilga Europe del 2015 ha comunque messo chiaramente in luce che il numero di chi scappa è in costante crescita soprattutto a causa dei conflitti armati. Come nel caso della Siria dove sia l’Isis, con le sue esecuzioni "spettacolari" di persone gay a uso della propaganda terrorifica, sia altre fazioni armate in campo hanno attuato una sistematica opera di caccia a chi viene considerato "diverso". Il 22 settembre il sito The Post Internazionale (tpi.it) ha pubblicato la storia, raccolta da altri quotidiani, del rifugiato siriano ora negli Usa, Subhi Nahas. Una storia emblematica. Subhi infatti ha prima subito le ingiurie e le violenze della famiglia, poi quelle degli uomini di Assad perché l’omosessualità era punita fino a tre anni di prigione, poi allo scoppio del conflitto sono stati i soldati dell’Esercito Libero a continuare l’opera di persecuzione. Quando il suo villaggio, Màaret Al-Nùman nella regione di Idlib, è stato occupato dal Fronte Al-Nusra l’unica decisione da prendere è stata quella di fuggire attraverso un percorso fatto di altre violenze e situazioni a rischio, che lo ha portato dai campi profughi del Libano fino alla Turchia. Ed è proprio la situazione dei campi che desta le maggiori preoccupazioni, è in questi luoghi che la sessualità, come denunciato recentemente da Amnesty International, è divenuta la terza causa di violenze di genere dopo tensioni nazionali o religiose. Nel febbraio di quest’anno il Parlamento Europeo ha previsto l’apertura di strutture esclusive per persone Lgbt anche se l’impegno, al momento, è stato riscontrato solo in Germania e in Olanda in seguito ad episodi che hanno comportato anche l’omicidio. L’accordo sui migranti siglato dai paesi Ue con la Turchia non ha di certo migliorato la situazione, infatti il rischio di rimpatri forzati dei profughi giunti in Europa tramite la Turchia stessa, appare particolarmente preoccupante. Innanzitutto perché il paese governato da Erdogan non aderisce alla Convenzione di Ginevra e riconosce uno status di rifugiato "condizionato" con meno diritti rispetto allo status definito in Europa, poi per una condizione culturale che vede i turchi fortemente ostili all’omosessualità, un sondaggio del Pew Research ad aprile ha confermato come solo il 4% della popolazione considera l’omosessualità "moralmente accettabile". Se l’Europa procede tra luci ed ombre, molto più problematico è ciò che succede in Africa. Sono 37 le nazioni africane che puniscono le relazioni non etero, ben quattro considerano ancora la pena di morte nei confronti delle persone Lgbt. In alcuni casi non si tratta di paesi a maggioranza islamica ma cattolica come l’Uganda, le politiche omofobe ingrossano il flusso di profughi che arriva nei campi del Kenia a Nairobi e Kakuma. Qui, secondo le testimonianze raccolte dall’associazione Oram, si verificano spesso violenze sessuali, inoltre sarebbe stato messo in piedi un vero e proprio mercato di esseri umani favorito anche dalla scarsa protezione da parte delle strutture dell’Unhcr. Guerra. Ad Aleppo la tregua non regge, evacuazione sospesa di Paolo G. Brera La Repubblica, 17 dicembre 2016 La decisione dopo gli spari a un check point. E Putin annuncia: iniziativa congiunta con Erdogan per un tavolo di pace complessiva in Siria da aprire in Kazakhstan tra governo siriano e opposizioni. Non regge, la tregua di Aleppo. L’evacuazione umanitaria ripresa stamattina è già stata sospesa tra i tiri incrociati di artiglieria, con migliaia di persone ancora intrappolate nel conflitto. La decisione di sospendere le operazioni sarebbe stata presa dalla Russia dopo l’attacco a uno dei convogli avvenuto, secondo l’assai poco affidabile televisione siriana, a un check point in cui i ribelli avrebbero cercato di prendere ostaggi tra i soldati di guardia. Già iniziata e sospesa più volte in questi giorni, l’evacuazione riguarda sia i civili che i ribelli: questi ultimi sono autorizzati a lasciare Aleppo Est e a dirigersi verso le aree ancora contese nella regione di Idlib, ma a patto che portino con loro esclusivamente armi leggere. Sebbene il conflitto ad Aleppo non abbia più margini di incertezza, e la conquista dell’intera città da parte dell’esercito siriano appoggiato dall’aviazione russa e dalle milizie sciite sia ormai imminente, la tensione resta altissima e l’emergenza umanitaria gravissima. Gli ospedali, avverte l’Organizzazione mondiale per la sanità, sono affollati all’inverosimile di persone con ferite anche gravissime alla testa; e continuano le accuse di gravi violazioni dei diritti umani per i civili e di crimini e atrocità verso i ribelli catturati. Ma sul piano militare la conquista ormai irreversibile di Aleppo da parte del regime siriano cambia radicalmente la situazione della guerra civile in Siria. Il presidente russo Vladimir Putin, in visita in Giappone, ha annunciato una nuova grande iniziativa di pace a cui sta lavorando insieme al presidente turco Erdogan: un tavolo di trattive per una pace complessiva che sarà aperto in Kazakhstan e che ospiterà il governo di Damasco e "le opposizioni", una definizione generica che può fare grande differenza. I colloqui si svolgeranno ad Astana, dice Putin, ma è tutto da vedere quale sarà la reazione occidentale a una decisione che di fatto esautorerebbe i paesi Nato da qualsiasi voce in capitolo sulla soluzione del conflitto siriano che dura da sei anni, dando alla Russia un ruolo guida nello scacchiere internazionale sia sul piano militare che diplomatico. Dall’alba di oggi sarebbero solo quattro i convogli che hanno lasciato Aleppo Est prima della sospensione dell’evacuazione. Secondo la televisione di stato siriana, ieri più di novemila persone hanno abbandonato la città: 3.475 uomini, 3.137 donne e 2.359 bambini. Tra questi anche 108 feriti. Numeri che la Croce rossa internazionale riduce però di metà, parlando di quattromila civili evacuati. Alcune migliaia - 2.300 secondo la tv siriana - sarebbero invece i ribelli fuggiti con le loro famiglie nella scorsa notte. Presto dovrebbe iniziare anche l’evacuazione dei due villaggi sciiti accerchiati dai ribelli a Foua e Kefraya, concordata come condizione per avviare quella di Aleppo. Sono 15mila le persone da mettere in salvo, e la priorità sarà data ai feriti, agli anziani, alle donne e ai bambini. Centodieci pullman sono stati inviati per gestire l’operazione. Stati Uniti: Manning, Peltier, Snowden, la triplice grazia che Obama deve concedere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 dicembre 2016 Chelsea Manning, Leonard Peltier, Edward Snowden. Tre vicende diverse, unite dalla necessità di un esito che ponga fine a violazioni dei loro diritti fondamentali. Chelsea Manning è l’analista militare condannata nel 2013 a 35 anni di carcere per aver divulgato 700.000 documenti riservati, molti dei quali relativi all’operato dell’esercito statunitense in Iraq e in Afghanistan. Arrestata nel maggio 2010, è stata sottoposta a una durissima detenzione preventiva, tra cui 11 mesi di trattamento equivalente alla tortura, in una base militare in Iraq e poi in quella di Quantico, negli Usa. Manning ha sempre sostenuto di aver agito nell’interesse pubblico, per generare un dibattito pubblico sulla guerra, i suoi costi e le sue conseguenze. Alcuni dei documenti che ha reso noti riguardano possibili violazioni del diritto internazionale umanitario da parte dell’esercito degli Usa. Manning ha tentato due volte il suicidio, a luglio e a ottobre di quest’anno. Dopo il primo tentativo, è stata punita con 14 giorni di isolamento. Di Leonard Peltier abbiamo già scritto in questo blog alcuni mesi fa. È in carcere da oltre 40 anni, alcuni dei quali trascorsi in isolamento, per l’omicidio di due agenti dell’Fbi di cui ha sempre sostenuto di non essere stato l’autore. All’età di 72 anni, ammalato e distante 2000 chilometri dalla sua famiglia, senza la possibilità di beneficiare di un nuovo processo, la grazia per motivi umanitari è l’unica soluzione possibile. Come Manning, anche Edward Snowden ha divulgato informazioni riservate nell’interesse pubblico. L’ex consulente dell’Agenzia per la sicurezza nazionale degli Usa è in un precario esilio in Russia dal 2013, quando rivelò al mondo la dimensione del sistema di sorveglianza arbitrario e illegale messo in piedi dagli Stati Uniti. Per promuovere la grazia in suo favore, Amnesty International ha lanciato un appello, che può essere sottoscritto - insieme agli altri della campagna globale di firme "Write for Rights", fino al 22 dicembre. Le firme raccolte finora sono oltre 100.000. Gran Bretagna: detenuti in rivolta nel carcere di Birmingham Ansa, 17 dicembre 2016 Una guardia è stata aggredita e gli insorti hanno preso il controllo di quattro ali del penitenziario. Rivolta in un carcere britannico, a Birmingham (Inghilterra centrale), dove numerosi detenuti sono insorti dopo aver aggredito una guardia e averle rubato una chiave, prendendo il controllo dapprima di due e poi di quattro ali del penitenziario, come riferiscono i media locali. Il carcere coinvolto, un tempo chiamato Winston Green, è di categoria B e ospita 1.450 reclusi. La protesta riguarda fra l’altro le condizioni di detenzione. Sul posto sono arrivate squadre speciali, mentre proseguono le trattative. Stando alle informazioni diffuse inizialmente dalle autorità, si tratterebbe di un disordine di portata contenuta e destinato a rientrare. Ma altre fonti dicono che la tensione è salita nelle ultime ore e c’è chi descrive l’episodio come il più grave del genere nel regno, in una prigione di categoria B, dal 1990. I detenuti, intanto, hanno diffuso sul web foto che li ritraggono con elmetti e altro equipaggiamento sottratto alle guardie. Almeno un paio di altre proteste, seppure alla fine con conseguenze limitate, sono esplose nelle ultime settimane in altrettante carceri dell’isola, accendendo il faro sulle condizioni di vita in cella, sull’affollamento di talune strutture, sul ruolo in certi istituti di contractor privati. Ed è stata invocata pure un’inchiesta nazionale. Cina: la polizia ha arrestato un noto avvocato per i diritti umani tpi.it, 17 dicembre 2016 Jiang Tianyong, 45 anni, di fede cristiana, è scomparso il 21 novembre 2016. Le autorità sostengono di averlo rilasciato dopo nove giorni di custodia. Jiang Tianyong, 45 anni, di fede cristiana, avrebbe dovuto prendere un treno nella serata del 21 novembre 2016, ma di lui non si erano più avute notizie. Da subito, parenti, colleghi e amici avevano ipotizzato che le autorità di Pechino lo avessero preso in custodia per via del suo lavoro in difesa dei dissidenti tibetani. Jiang era stato fermato altre volte, come altri suoi colleghi. Il problema è che la polizia della città di Changsha, nel centro del paese, sostiene di averlo tenuto in custodia solo nove giorni e di averlo rilasciato, ma Jiang da allora non si è fatto vivo né con la sua famiglia né con il suo avvocato. L’arresto, secondo le autorità, era stato effettuato perché aveva usato il documento d’identità di un’altra persona per acquistare il biglietto del treno, ma l’avvocato di Jiang Qin Chenshou ritiene che questa versione dei fatti sia poco plausibile. Secondo Qin il suo assistito si trova ancora in custodia delle forze di sicurezza. La polizia ha effettuato due perquisizioni a Pechino, di cui una nell’abitazione del fratello minore dell’avvocato, dove sono stati sequestrati alcuni oggetti. Le Nazioni Unite si sono dette preoccupate per la sorte di Jiang e hanno dichiarato che la sua detenzione potrebbe essere legata proprio alla sua attività lavorativa, aggiungendo che probabilmente corre il rischio di subire torture.