Con questi dati e questi fatti, un suicidio in carcere ogni settimana è quasi poco di Maurizio Tortorella Tempi, 16 dicembre 2016 È evidente la coincidenza tra gli anni in cui si è concentrata la più alta frequenza di morti autoinflitte e quelli che hanno visto i più alti tassi di affollamento. In Italia c’è un posto dove un uomo muore suicida ogni settimana. Faticate a immaginare quale sia questo "posto della disperazione"? Sono le nostre carceri. Sono state teatro di 1.046 suicidi dal 1992 a oggi, secondo il centro studi Openpolis. Ma quasi sicuramente la cifra è più elevata: la statistica di Openpolis si basa sui numeri del ministero della Giustizia, mentre l’associazione per i diritti dei detenuti Ristretti Orizzonti, nel suo dossier Morire di carcere, fornisce dati di molto superiori. Oltre ai suicidi accertati, infatti, Ristretti Orizzonti inserisce nella sua somma anche le morti "poco chiare", ma comunque legate al disagio della detenzione. Per Ristretti Orizzonti i suicidi in cella soltanto dal 2009 al 31 agosto 2016 sarebbero stati 423: in particolare, 326 detenuti si sono procurati la morte con l’impiccagione, altri 64 con il gas, 20 con l’avvelenamento e sei con il soffocamento. E il carcere uccide non soltanto in cella, ma anche nei corridoi, negli uffici e perfino a casa: secondo fonti sindacali della polizia penitenziaria, sono almeno cento gli agenti di custodia morti suicidi dal 2000. Tra i penitenziari, la statistica dei detenuti suicidi stilata da Openpolis vede al primo posto Poggioreale a Napoli, con 19 casi, seguito da Sollicciano a Firenze (17), e da Rebibbia a Roma (14). Tra gli ultimi anni, il peggiore è stato il 2010, con 69 morti in cella; il migliore (o meglio il meno disastroso) è stato il 2013, con 42 casi. È evidente la coincidenza tra gli anni in cui si è concentrata la più alta frequenza di suicidi tra i detenuti e quelli che hanno visto i più alti tassi di affollamento carcerario. Nel 2010 i quasi 200 istituti di pena italiani ospitavano quasi 68 mila detenuti, cioè 151 ogni 100 posti letto disponibili, e contemporaneamente si registravano 55 casi di morti auto-procurate. La situazione era nettamente migliorata due o tre anni fa, ma purtroppo adesso sta tornando a peggiorare. Alla fine dello scorso novembre i reclusi erano 55.251, tra i quali 2.335 donne e 18.714 stranieri. La capienza regolamentare dichiarata dal ministero della Giustizia, in realtà, sarebbe di 50.254 posti, quindi il sovraffollamento è di circa 5 mila unità. Il 36 per cento in attesa di giudizio - Il problema è che tra i detenuti i condannati definitivamente al 31 novembre erano 35.456 in totale: questo significa che altri 19.795 reclusi sono in attesa di giudizio, quasi il 36 per cento, più di uno su tre. Per l’esattezza, 9.846 sono quanti aspettano in cella il giudizio di primo grado. Nessun paese europeo arriva a questi livelli. Se poi si valuta quanto elevato è il costo delle carceri, tra 2,5 e 3 miliardi di euro l’anno, appare ancora più evidente che la situazione richiederebbe un vigoroso riassetto. Pochissimi anni fa i Radicali, forti del loro impegno per i reclusi, calcolavano arrivasse a 3.511 euro al mese la spesa per mantenere ogni detenuto. In realtà, secondo i Radicali, la maggior parte della cifra servirebbe a tenere in vita l’amministrazione, mentre in sé il detenuto non influenza molto i costi. Dei 3.511 euro spesi al mese, 3.104 euro servono al pagamento del personale di polizia e per quello civile, e altri 150,24 vengono impiegati per mantenere la struttura penitenziaria, mentre 110,28 euro servono per le utenze. Per la gestione concreta di ogni detenuto, quindi, la spesa media scende a 255,14 euro mensili. Oltre la metà, 137,84 euro, va a pagare vitto e materiale igienico; altri 67,71 euro retribuiscono il raro lavoro compiuto dietro le sbarre; il servizio sanitario assorbe 22,81 euro a testa. Alla luce di questi dati, i suicidi sono fin troppo pochi. Dagli Opg alle Rems, il percorso a ostacoli della "rivoluzione gentile" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 dicembre 2016 Lunedì 19 convegno al Senato, a partire dalle 15, sull’attuazione della legge. Entro gennaio gli Opg saranno definitivamente chiusi e le Rems saranno tutte aperte e funzionanti. È questa la scadenza fissata per gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari in Italia da Franco Corleone, commissario unico per il superamento degli Opg. Una "rivoluzione gentile" - cosi la definisce nella sua ultima relazione trimestrale presentata agli inizi di dicembre - che potrebbe finalmente concludersi. Il superamento degli Opg e la loro sostituzione con le Rems potrebbe però creare la percezione che la salute mentale in carcere non sia più un problema. Invece esiste. Sparsi nelle patrie galere ci sono centinaia di detenuti con problemi psichiatrici. Solamente nella regione Calabria risultano ristrette 600 persone con problemi psichiatrici, senza un trattamento adeguato alle loro condizioni. E a farne le spese - oltre ai detenuti stessi che non vengono seguiti dai medici e operatori sanitari - sono i poliziotti penitenziari che fanno servizio nei reparti detentivi. L’emergenza psichiatrica nelle carceri potrebbe esplodere da un momento all’altro se non si predispongono misure adeguate. Nelle carceri "normali" permangono molti ristretti con patologie mentali per i quali non sarà prevista alcuna struttura alternativa. Non solo. La legge per la chiusura degli Opg contiene una norma che prevede che alcuni detenuti finiscano la pena detentiva in carcere. Quindi ne sono stati aggiunti altri a partire dell’entrata in vigore della legge approvata l’anno scorso. Grazie a uno studio recente condotto dall’agenzia regionale di Sanità della Toscana, si è scoperto un dato che desta preoccupazione: sui circa 16mila reclusi delle carceri di Toscana Veneto, Lazio, Liguria, Umbria, ben oltre il 40% è risultato affetto da almeno una patologia psichiatrica. Questi detenuti costituiscono una miscela esplosiva in un contesto di detenzione degradante. Esiste un forte disagio perché si realizza una tortura ambientale: il carcere continua ad essere la frontiera ultima della disperazione e dei drammi umani. La senatrice Maria Mussini, vicepresidente del Gruppo Misto e membro della commissione giustizia del Senato, ha presentato due emendamenti proprio per affrontare il problema e al Il Dubbio spiega la finalità dei provvedimenti: "Dopo quasi cinque anni dall’entrata in vigore della Legge 17 febbraio 2012, n. 9, che ha sancito la chiusura formale degli Opg e la loro sostituzione con le Rems, il percorso attuativo non può dirsi ancora compiuto e appare decisamente più complesso di quanto molti prevedevano e auspicavano. La riforma Marino nasce dal principio, più che legittimo, di considerare gli infermi di mente colpevoli di reato come malati da curare e non come detenuti, oltre che dalla presa di coscienza delle condizioni, gravemente lesive dei diritti della persona, in cui sono stati costretti fino a qualche tempo fa gli internati". La senatrice Mussini manifesta, inoltre, perplessità rispetto ad alcuni aspetti che rimangono senza soluzione: "Quello che la riforma non aveva previsto è che, a fronte di un’ampia platea di malati psichiatrici, differenziata sia dal punto di vista medico che da quello giuridico, non solo il numero dei posti nelle Rems si è ben presto rivelato del tutto insufficiente, ma che, parallelamente, le articolazioni sanitarie carcerarie alle quali sono destinati i malati che non hanno titolo per accedere al sistema degli istituti di cura del nuovo corso, laddove esistenti, non possono considerarsi adeguate a garantire le cure necessarie. Stante la ratio della legge, intervenuta senza prevedere alcuna gradualità e in assenza di modifiche del sistema sanzionatorio penale, è evidente che il percorso attuativo non può in nessun caso sacrificare il diritto alla cura dei malati". Per questi motivi la senatrice Mussino spiega che "ha ritenuto di dover presentare un emendamento che chiedeva di destinare alle Rems, in via prioritaria, le persone a cui è stata accertata l’infermità al momento della commissione del fatto e già prosciolte, e di estendere l’accesso ad altre "categorie giuridiche psichiatriche", laddove, e sottolineo "laddove", le sezioni degli istituti penitenziari non siano in grado di garantire loro i trattamenti terapeutici necessari". Parallelamente, proprio per sottolineare lo spirito delle modifiche proposte, la senatrice ha presentato un ulteriore emendamento in cui si chiede "un impegno al potenziamento della cura della salute mentale in tutti gli istituti penitenziari". Intanto la senatrice Maria Mussini ha organizzato per lunedì 19 dicembre presso la Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani del Senato, a partire dalle ore 15, il convegno "Dagli Opg alle Rems. Il trattamento del malato psichiatrico autore di reato e la complessa attuazione della Legge 17 febbraio 2012 n. 9". Fra i relatori, insieme alla senatrice Mussini, ci saranno Stefano Ferracuti, professore associato di psicologia clinica a La Sapienza, Giuseppina Guglielmi, giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma, Marcello Bortolato, magistrato presso il tribunale di sorveglianza di Padova, Riccardo Polidoro, responsabile Carcere Ucpi, Mauro Palma, garante nazionale dei diritti dei detenuti. Porteranno i loro saluti il presidente del Gruppo Misto al Senato, Loredana De Petris, e il consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Roma, Aldo Minghelli. Nel corso del convegno ci saranno anche contributi di rappresentanti degli Istituti penitenziari, delle strutture sanitarie locali e delle Rems. Ogni braccialetto elettronico per detenuti ci costa 86.500 euro. E non funziona di Maurizio Tortorella La Verità, 16 dicembre 2016 Nato per liberare le carceri, è diventato un pozzo senza fondo. In 15 anni solo 2.000 esemplari funzionanti, arrivati da Telecom e costati 173 milioni. Ne servono altri 10.000, ma il bando per la fornitura è un mistero. Doveva essere la panacea per i mali del sistema carcerario, grazie al rilascio "controllato" di molti condannati. E invece il braccialetto elettronico si è rivelato un pozzo senza fondo. Ne servono almeno altri 10.000 ma il bando è sparito, mentre il costo complessivo dei 2.000 in circolazione è di 173 milioni di euro. Una catena di assurdità, fino alla gestione della lista dei detenuti affidata alla Telecom, che fornisce le apparecchiature. È il monile più caro del globo. Dal 2001 a oggi il "braccialetto elettronico" per i detenuti (che in realtà è una cavigliera) è costato almeno 173 milioni di euro. Soldi pubblici buttati dalla finestra: prima in un estenuante decennio sperimentale che ha visto appena14 apparecchi impiegati per una spesa di no milioni di euro; e poi, dal 2011, in una scombiccherata "gestione ordinaria" che per la modica cifra di lo-11 milioni l’anno ne ha gradualmente introdotti altri 2 mila circa. Così, il mitico braccialetto, che da decenni viene presentato come lo strumento che dovrebbe risolvere l’emergenza carceraria e garantire il pieno controllo a distanza di chi è recluso ai domiciliari, è uno dei più opachi capitoli della giustizia italiana. Ma oggi è diventato un vero scandalo che grida vendetta. Lo è per la spesa pubblica impiegata complessivamente, visto che il risultato finale è che ognuno dei 2 mila braccialetti forniti dalla Telecom, finora unica interlocutrice dei contratti sottoscritti con il ministero della Giustizia e con quello dell’Interno, ci è costato almeno 86.500 euro. Ma lo è anche per come la burocrazia ministeriale ha gestito e continua a gestire la faccenda. Da tempo, infatti, è evidente che i duemila braccialetti sono largamente insufficienti. Alla fine di novembre, ultimo dato disponibile, i reclusi in una cella erano 55.251 (5mila in più rispetto ai 50.254 posti regolamentari disponibili), cui si aggiungevano altri 781 in semilibertà. Tra i detenuti, quelli in attesa di un primo giudizio sono tantissimi: 9.846, quasi il 18%. Parrà assurdo, ma in Italia nessuno sa quanti sarebbero quelli che potrebbero legittimamente passare da una prigione a una casa, e decongestionare l’emergenza, in virtù di un decreto di tribunale già operativo. Rita Bernardini, l’esponente radicale che sulla nostra vergogna carceraria ha imbastito una meritoria campagna ultradecennale, dice alla Verità di avere personalmente incontrato "tantissimi detenuti che avrebbero ottenuto provvedimenti di scarcerazione con il braccialetto, e invece da mesi aspettano in cella perché gli apparecchi mancano". Da oltre un anno si favoleggia di un bando europeo per un numero imprecisato di nuovi apparecchi: l’iniziativa di quell’appalto spettava all’ex ministro dell’Interno Angelino Alfano, che però è appena trasvolato alla Farnesina. Un mese fa, il 14 novembre 2016, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha annunciato in tv, a Porta a porta, che il Viminale aveva già da tempo provveduto a lanciare il bando: "Abbiamo utilizzato tutti i braccialetti che c’erano", ha detto il Guardasigilli, "ma ora aspettiamo i risultati della gara europea che è stata fatta a giugno". "Giugno? Non è affatto vero" lo smentisce Bernardini. E Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali (Ucp), l’organizzazione degli avvocati penalisti italiani, conferma: "Il bando non è mai stato fatto. Anzi, a fine novembre lo abbiamo sollecitato al ministero della Giustizia e a quello dell’Interno. Gli uffici del Guardasigilli hanno detto che avrebbero a loro volta sollecitato Alfano. E il Viminale non ci ha nemmeno risposto". L’Ucp calcola che oggi servano almeno lo mila braccialetti in più. È una stima a spanne, però, e decisamente prudenziale, perché malgrado una ricognizione compiuta presso tutti i tribunali italiani, un lavoro durato ben otto mesi, un numero certo non esiste. Non lo conosce nessuno: "Diciamo che nei tribunali abbiamo incontrato una certa difficoltà a reperire dati", ironizza l’avvocato Polidoro. In compenso, l’Ucp ha fatto altre scoperte sorprendenti: "Abbiamo appurato che la lista d’attesa dei detenuti cui dare il braccialetto viene gestita non dal ministero della Giustizia, bensì dalla Telecom". A questo punto, uno potrebbe domandarsi perché mai la burocrazia ministeriale arrivi a tali aberrazioni. Ma Polidoro aggiunge sconforto allo sconforto: "Speriamo che, quando il bando verrà finalmente fatto, individui almeno caratteristiche tecniche migliori delle attuali". I braccialetti esistenti, a sentire gli avvocati penalisti, non offrono proprio il massimo della funzionalità: per installarne uso prima serve che un tecnico della Telecom misuri il perimetro della casa dove alloggerà il recluso, e a quel punto nell’abitazione viene installata una centralina. Ma se il detenuto ai domiciliari su ordine del giudice deve allontanarsi da casa per andare a lavorare, ogni volta bisogna che la centralina sia disattivata e riaccesa. Con nuove procedure burocratiche e ovvie spese aggiuntive. Eppure basterebbe un semplice gps, in grado di valutare se gli spostamenti in certi orari sono ammessi o no. Come avviene già nei nostri cellulari. E in tutti i Paesi civili che adottano braccialetti elettronici per i loro detenuti. Tortura. Il Ministro Orlando: proporrò che l’approvazione del reato entri in agenda Ansa, 16 dicembre 2016 Sull’introduzione in Italia del reato di tortura "sono arrivati dei richiami anche da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. È doveroso legiferare e il Parlamento è in grado di farlo. La prossima settimana definiremo l’agenda con il presidente del Consiglio ed è mia intenzione proporre che l’approvazione del reato sia tra gli obiettivi realizzabili". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che ha partecipato a un convegno per la presentazione del libro "Tortura" di Donatella Di Cesare. Edito da Bollati Boringhieri, il volume tratta il problema soprattutto sotto il profilo filosofico, oltre che giuridico. Orlando ha sottolineato che l’obiettivo dell’introduzione del reato è "rafforzare le tutele, in particolari per i detenuti, ma anche per le forze di polizia e gli agenti penitenziari". "Sicurezza e diritti devono viaggiare insieme" ha detto Orlando, sottolineando il pericolo che di fronte al fenomeno terrorismo il piano dei diritti possa affievolirsi, perché’ già a partire dall’11 settembre l’atto terroristico viene "interpretato come un atto di guerra", con tutte le sue conseguenze. "Non credo - ha aggiunto - che sia un caso se torniamo a preoccuparci di come le nostre democrazie possono affrontare le nuove, difficili sfide internazionali garantendo un equilibrio alto tra sicurezza e diritti umani". Il rischio è altrimenti quello di una "regressione". Giustizia malata, innocenti alla gogna di Giovanni Verde Il Mattino, 16 dicembre 2016 Il caso Lignola e lo "scudo" dell’obbligatorietà dell’azione penale. I rappresentanti del M5S (e con essi i giustizialisti - per le vicende altrui - che affollano il nostro Paese) rimproverano aspramente al Ministero Renzi di non avere varato leggi adeguate per combattere la corruzione. Un terzo (o più) degli italiani applaude. Qui sta il nocciolo del problema giustizia che affligge il nostro Paese e che impedisce di ripensare dalle fondamenta la disciplina della giurisdizione quale si ritrova nella nostra Costituzione. Infatti, si ritiene che per combattere l’illegalità sempre più diffusa non ci sia altra strada che quella di allargare le ipotesi di reato. I contorni di queste ipotesi, sempre più indefiniti, consentono: di attrarre nell’area dell’illecito una serie innumerevole di comportamenti il cui disvalore sembra avere come riferimento più l’etica e, talora, il buon gusto o l’educazione che il codice; di inasprire le pene e di allungare in misura intollerabile i tempi della prescrizione. Con un’aggravante. Poiché siamo fermi all’idea che per rispettare il principio dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge si debba tenere fermo il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, si addossa agli organi della pubblica accusa l’ obbligo di indagare sempre che venga sconoscenza di comportamenti che fanno dubitare dell’esistenza di violazioni della legge penale. Dicono i pubblici ministeri: non è nostro compito quello di stabilire se il reato è stato commesso; il nostro compito è quello di proporre l’azione penale nel momento in cui abbiamo notizia della commissione di un reato: e non abbiamo libertà di scelta in quanto la nostra è attività doverosa. Anzi, aggiungono, nel momento in cui indaghiamo per acquisire elementi che confermino la notizia di reato che ci è pervenuta, dobbiamo avvertire l’indagato; e lo dobbiamo fare a sua tutela, perché egli sappia che non si indaga a sua insaputa e perché possa apprestare la sua difesa, chiarire la sua posizione ed offrire a chi indaga gli elementi per i quali possa chiedere l’ archiviazione. Si guardi alla vicenda di Pietro Lignola, ex magistrato per 50 anni in Corte d’Assise, accusato di collusioni con la camorra e assolto dal Tribunale di Roma a fronte di una richiesta di condanna a quattro anni che era stata avanzata dai pm di piazzale Clodio. Conosco Lignola da una vita e sulla sua onestà sarei stato da sempre disposto a giurare. Mi è sembrato di cogliere in lui una sorta di dolorosa rassegnazione. Egli, che è stato per mezzo secolo giudice, sa che il sistema è questo. Ringrazia il Padreterno per avergli dato la forza e il coraggio per non farsi abbattere a differenza di altri, non solo colleghi, che non sono sopravvissuti alla prova. Sorvola sul peso delle indagini che ha dovuto subire e con orgoglio sottolinea che i suoi rapporti patrimoniali sono stati setacciati minuziosamente senza che sia emerso nulla che potesse comprometterlo. Quasi accetta un sistema per il quale ha dovuto subire una pesante e dolorosa intrusione nella sua vita privata, entrando a far parte della sempre più numerosa schiera dei "perseguitati a causa di giustizia" (che i Vangeli iscrivono tra i beati). E pone le distanze fra chi, come lui, fa o ha fatto il giudice, tenendosi lontano da qualsiasi compromesso (quante volte per opportunismo si cede alla tentazione di non scontentare la pubblica opinione!), e decide in base alla propria coscienza dopo avere accuratamente valutato le prove acquisite al processo, e chi, al contrario, non sa resistere alla lusinga di un facile ed effimero consenso. Paghiamo, lo ripeto da tempo, prezzi pesanti. Ci lamentiamo perché la politica è debole e perché troppo spesso i nostri rappresentanti non sono all’altezza. Ma, di grazia, quale persona che abbia una posizione professionale di prestigio, che goda di un patrimonio che lo renda totalmente indipendente da qualsiasi pressione oggi si avventura in una competizione politica, nella quale, fra l’altro, i consensi sono sempre più fondati su rapporti clientelari e sempre meno sulla fiducia, sulle capacità e sulla stima? Chi accetta il rischio (che è quasi sicurezza) che, una volta chiamato ad un incarico di qualche importanza, perderà la sua sfera di riservatezza e sarà inondato da avvisi di garanzia? Chi è a tal punto vaccinato da potere - con il coraggio che ostenta il presidente della nostra Regione, al quale non farebbero male un approccio diverso all’esercizio del potere e qualche lezione di prudenza e di galateo - accogliere con noncuranza gli avvisi di garanzia e continuare serenamente per la sua strada? Cerchiamo di dare una risposta ragionevole a queste domande e chiediamoci se non stiamo pagando prezzi troppo alti, che mettono a rischio la nostra democrazia. Cominciamo a discutere del mito dell’obbligatorietà dell’azione penale. È proprio vero che essa costituisce l’ineliminabile correlato dall’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Se così fosse, posto che buona parte dei Paesi democratici non conoscono tale principio, dobbiamo ritenere che essi accettino che vi siano trattamenti diseguali? O non è vero, piuttosto, che questi Paesi realisticamente sanno che l’esercizio di un’azione in giudizio comporta scelte che non possono non essere discrezionali, così che affidano il corretto esercizio dell’azione penale non all’imperativo categorico della legge (che non può essere nei fatti rispettato), ma al controllo sociale su chi ha il compito di esercitare l’azione? È ovvio che tutto ciò ha conseguenze, che riguardano in primo luogo il ruolo e lo statuto del pubblico ministero, il quale diviene responsabile delle scelte e non può trincerarsi dietro lo scudo di un esercizio doveroso dell’azione, scevro da valutazioni e basato su meri accertamenti fattuali. Porre queste domande non è un atteggiamento debole di fronte alla lotta al crimine e alla delinquenza. Significa soltanto porre le premesse perché chi ha il compito di esercitare l’azione penale, prima di dare inizio al procedimento, che produce danni spesso incalcolabili alle persone e ne compromette una vita normale, abbia la possibilità e l’obbligo di valutare se ve ne siano le condizioni e, di conseguenza, lo faccia assumendosene le responsabilità. Forse, avremmo da parte dei pubblici ministeri una maggiore prudenza nelle loro iniziative ed eviteremmo di leggere di casi come quelli che hanno, purtroppo, riguardato Pietro Lignola o di sentire recriminazioni quali ha ieri fatte il presidente De Luca. Ne guadagnerebbe la nostra democrazia. Ma per fare ciò bisognerebbe che gli italiani cominciassero ad avere un pizzico di maggiore fiducia in sé stessi e in coloro che svolgono una qualsiasi pubblica funzione. E bisognerebbe ripristinare un circolo che allo stato appare inesorabilmente spezzato. Non dimentichiamolo, quando le istituzioni democratiche entrano in affanno, dietro l’angolo si annida il pericolo di involuzioni autoritarie. Chi gioca con la cultura del linciaggio di Salvatore Merlo Il Foglio, 16 dicembre 2016 C’è una grammatica dell’aggressione dietro il caso Osvaldo Napoli. E la cosa più spiazzante, all’inizio, sono i carabinieri, che restano lì, di fronte alla Camera dei deputati, fermi a guardare la scena: quattro balordi che afferrano un signore piccoletto, in cappotto e capelli bianchi, che urlano "lei è un parlamentare" (in realtà è un consigliere comunale di Torino, e di minoranza per giunta), che blaterano di "codice penale", poi afferrano il malcapitato, lo strattonano, tentano di portarselo via, e allora lui si divincola, scappa spaventato, mentre quelli lo inseguono: "Acchiappalo!". A un certo punto uno degli uomini in divisa si rivolge a uno dei balordi: "Ma lei chi è?". E la domanda aggiunge surrealtà alla pagliacciata violenta, cui per qualche minuto, persino Osvaldo Napoli, la vittima, il politico da linciare, s’era prestato, e con lo stesso sorriso sacrificale e instupidito con il quale mediamente i parlamentari italiani sono abituati a farsi insultare dagli inviati di "Striscia la notizia", da quelli delle "Iene" o dell’Arena di Giletti, da quelli che consegnano gli agnolotti a Massimo D’Alema, ultima frontiera del giornalismo: "Sei una figa strepitosa, ma perché t’hanno messo proprio a te ai rapporti con i membri del Parlamento?", grugniva Enrico Lucci inseguendo Maria Elena Boschi. Ed è tutto normale. Tutti sanno che intorno a Montecitorio girano dei mattoidi, d’ogni età, che si avvicinano ai parlamentari, e li insultano, perché l’hanno visto alla televisione, perché è così che va e si fa, perché credono di essere tutti Gabibbi o postini del popolo, dunque scambiano segnali d’imbarbarimento per veraci manifestazioni di libertà: "Tu le palle non ce le hai", urlò qualche tempo fa una donna con cappellino rosso al povero Pippo Civati, "te ne devi annà". E d’altra parte è così che parlano i comici, i tribuni della satira, e anche i giornalisti, quelli che scrivono sui giornali ma poi vanno a urlare in televisione, che festeggiano la vittoria del No al referendum ballando e facendo il noto gesto del "suca", quelli che sudaticci sotto i riflettori difendono sempre e comunque "la gente", quelli che cacciano il microfono tra i denti del disgraziato: "Non volete andare a votare perché sennò perdete il vitalizio, eh?", "mi risponde sì o no?", che è sempre un incitamento a molestare". Se vai al governo me dai ‘na mano con la Rai?", "ma te lo sai quanto costa un chilo de pasta?", che ovviamente non sono mai vere domande, ma inviti allo stalking, che più che un reato è una patologia contagiosa: "Mi dica esattamente quanti parlamentari ci sono alla Camera?", "ma lei lo sa cos’è la Bce?", "nun te vergogni de guadagnà a sbafo?". Un’ossessione che risveglia i demoni incongrui del plebeismo, dell’esasperazione per un mondo, quello della politica, che tra incuria e sentimenti inariditi forse porta in faccia i segni della morte. E chi non si ricorda della signora Annarella, la donna del popolo divenuta eroina di Striscia, e poi della Zanzara, perché al vecchio e infermo Umberto Bossi, che stava seduto al bar Giolitti, urlò: "Tutti a Roma venite a magnà e beve, te possino ammazzatte"? E c’è evidentemente una grammatica fuori controllo che ha liberalizzato il turpiloquio, il ricorso a parole violente, eccessive, per forzare nella direzione dello sdegno emotivo e del rifiuto morale situazioni, luoghi, comportamenti e persone, che non è più lo sberleffo spiritoso di Totò: "A proposito di politica, non è che ci sarebbe qualcosina da mangiare?", ma è forcone, invettiva personale, compiacimento nell’eccesso, tumulto da curva sud. Il linguaggio è importante perché alle parole, è inevitabile, poi corrispondono fatti concreti. E se il presidente della Repubblica, persino su certi giornali, diventa "la mummia", se Bersani è "zombie", Berlusconi "psiconano", Fassino "salma", Pisapia "pisapippa", Renzi "ebetino", allora forse tutto quadra, e tutto torna in questo massacro della civiltà dei rapporti. Ecco dunque spiegato perché i carabinieri tentennavano di fronte alla scena incredibile che gli si parava davanti agli occhi - "ma lei chi è?" - mentre Osvaldo Napoli veniva circondato e sollevato di peso. Era tutto normale. Già visto. Ed ecco perché persino lui, Napoli, mercoledì mattina, si è fermato sorridente di fronte a quei ceffi che volevano arrestarlo e fargli violenza in piazza, disposto a subire qualche insulto: era tutto parte di un codice condiviso, per quanto rancido. Normale l’invasato che declama articoli del codice penale a capocchia in mezzo alla strada, normale lo stato di sovraeccitazione scomposta, normale l’implicazione eversiva che il parlamentare sia un abusivo, normale l’aggressività di una folla contro il singolo, normali quella volgarità e quella prossemica minacciosa che evidentemente riflettono l’incattivirsi della mentalità comune, che è già metodo politico e giornalistico, cartaceo, internettiano e televisivo, febbre cosmica che si dilata, si distende, si espande, e ci appesta. Antiriciclaggio, pronto il manuale operativo per le segnalazioni telematiche di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 16 dicembre 2016 L’Unità di informazione finanziaria ha appena diffuso il nuovo manuale operativo destinato a guidare i soggetti obbligati ex Dlgs n.231/2007nella procedura di segnalazione di operazione sospetta di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. La novità più significativa rispetto al recente passato consiste nella possibilità di inviare la segnalazione mediante upload di file predisposti tramite applicativi proprietari sviluppati in autonomia dal segnalante ovvero mediante il data entry disponibile sul portale della Banca d’Italia. Allo scopo di agevolare le operazioni di caricamento e di invio delle segnalazioni è ora prevista la facoltà in capo al Delegato SOS (ex articolo 42 del Dlgs n.231/2007) di abilitare altri soggetti con il ruolo di "operatore" o di "gestore" ( fino ad un massimo di cento, salvo richiesta del segnalante di ampliamento di tale soglia motivata da particolari esigenze ) ad accedere ai servizi del portale con possibilità di revocarne l’abilitazione allo scadere dell’incarico. Per intuibili esigenze di tutela della riservatezza delle informazioni inserite, ciascun operatore/gestore potrà accedere esclusivamente ai dati personalmente caricati nell’applicativo. La nuova procedura presenta il vantaggio di consentire al Delegato SOS di accedere a tutti i messaggi inviati personalmente o tramite l’operatore / gestore abilitato alla Uif nonché a quelli che costituiscono il cosiddetto flusso di ritorno. A ciascuna SOS inviata si continuerà ad assegnare un numero di protocollo ufficiale che dovrà essere tenuto presente in ogni eventuale futura comunicazione attinente la medesima segnalazione. Allo scopo di agevolare il caricamento dei dati, il nuovo data entry conterrà tutti gli elementi di dominio previsti per ciascun campo della segnalazione in modo da guidare passo passo il segnalante nell’adempimento del proprio obbligo. Di particolare rilievo, è la previsione di un programma diagnostico inserito nel data entry che una volta effettuata la segnalazione, consentirà di individuarne eventuali errori o incongruenze che verranno automaticamente trasmesse al gestore/operatore, il quale dovrà correggere la segnalazione prima di inoltrarla alla Uif. Tale sistema consentirà probabilmente una migliore gestione dei tempi connessi alla procedura di segnalazione a tutto vantaggio della certezza e rapidità dei rapporti economici. Le principali criticità sembrano invece essere legate all’introduzione di un file proprietario con estensione xbrl di non semplice gestione soprattutto da parte delle strutture professionali di minori dimensioni. Da questo punto di vista, sarebbe auspicabile l’attribuzione agli ordini professionali di un ruolo di supporto più incisivo a favore dei propri iscritti chiamati ad adempiere agli obblighi di segnalazione. Fuori da considerazioni strettamente tecniche, viene reiterata la scelta di utilizzare una categoria di segnalazione denominata riciclaggio-voluntary disclosure che rischia di riprodurre una molteplicità di segnalazioni anche se la procedura di collaborazione volontaria esclude ex lege la punibilità del reato di riciclaggio con presupposto fiscale e di contro proibisce la presentazione di istanze con reati presupposti non coperti dalla procedura. In ultimo, non si può non prendere atto che la strada imboccata è quella giusta in quanto un proficuo espletamento degli obblighi di collaborazione attiva passa necessariamente per la semplificazione delle procedure le quali tuttavia risultano ancora troppo complesse per soggetti diversi dagli intermediari finanziari che non hanno una struttura dedicata come i professionisti singoli in particolare coloro che non hanno grande dimestichezza con gli strumenti informatici ed i portali Uif. Processo tributario e telematico di Valerio Stroppa Italia Oggi, 16 dicembre 2016 Processo tributario telematico in tutta Italia nel 2017. Entro il 15 luglio del prossimo anno il Ptt sarà esteso alle 12 regioni mancanti, dopo la sperimentazione avviata nelle commissioni tributarie di Umbria e Toscana alla fine del 2015 e in altre sei regioni nel corso del 2016 (Abruzzo, Molise, Liguria, Piemonte, Emilia-Romagna e Veneto). È quanto prevede un decreto del ministero dell’economia firmato ieri dal direttore generale delle Finanze, Fabrizia Lapecorella, a completamento di un percorso, quello del processo telematico, avviato con il dl n. 98/2011. Il calendario. Le prime tre regioni che saranno coinvolte dal nuovo step di ampliamento del Ptt saranno Campania, Puglia e Basilicata, a partire dal 15 febbraio 2017. Due mesi dopo, il 15 aprile, toccherà alle "big", vale a dire Lazio e Lombardia (le due regioni con il maggior numero di cause tributarie gestite) oltre che al Friuli-Venezia Giulia. Il 15 giugno 2017 sarà poi la volta di Calabria, Sicilia e Sardegna, mentre completeranno il quadro a far data dal 15 luglio prossimo le Marche, la Valle d’Aosta e le province autonome di Bolzano e Trento. Carta addio. Con il processo tributario telematico viene da un lato consentito alle parti di utilizzare la Posta elettronica certificata (Pec) per la notifica dei ricorsi e degli appelli e dall’altro di poter effettuare il successivo deposito in via telematica nella commissione tributaria competente tramite l’apposito applicativo Ptt. Senza più la necessità, quindi, di doversi recare fisicamente presso le segreterie oppure di ricorrere alle notifiche convenzionali, con un risparmio di tempo e di costi per contribuenti e uffici. Ciò a patto che la parte in causa si sia registrata preventivamente al Sigit, il sistema informativo della giustizia tributaria. Quando la facoltà diventa obbligo. La strada telematica è una facoltà a disposizione del contribuente, che può legittimamente continuare a utilizzare le modalità tradizionali (ufficiale giudiziario, posta o deposito a sportello). Tuttavia, come chiarito dalla circolare n. 2/2016 della Direzione giustizia tributaria del Dipartimento finanze, la parte resistente può sempre optare per le modalità telematiche, anche laddove la controparte abbia deciso di adottare la forma cartacea. Tuttavia, una volta effettuata l’opzione in primo grado per una delle due modalità, questa dovrà essere mantenuta anche nel giudizio di appello (salva l’ipotesi in cui venga sostituito il difensore, che contempla invece la possibilità di una nuova opzione). L’esito dei depositi. Oltre ad abbattere le spese, il processo telematico consente anche una maggiore tempestività nelle notifiche, riducendo al minimo il rischio del mancato perfezionamento delle stesse. Una volta effettuata la validazione e inviato il ricorso e gli allegati, infatti, il sistema rilascia una ricevuta sincrona nella duplice modalità a video e tramite Pec. Dopodiché il "cervellone" del Mef procede a una serie di controlli automatici (presenza di virus, integrità dei file ecc.) al fine di accertare che non vi siano errori bloccanti. Da qui l’iscrizione della causa a ruolo, comunicando l’esito al ricorrente o al suo difensore. Qualora siano presenti anomalie meno gravi, secondo quanto precisato dalla circolare n. 2/Df del 2016, i documenti vengono accettati comunque e la problematica viene comunicata alla parte depositante. "Saranno significativi i vantaggi per tutti gli operatori del settore in termini di riduzione di costi, semplificazione e celerità degli adempimenti processuali, con effetti indiretti anche sulla durata del processo tributario", recita una nota del Mef, "il Dipartimento delle finanze prosegue nella diffusione dei servizi telematici a beneficio dei cittadini e degli operatori del settore". Stupefacenti: la Cassazione rettifica i criteri per l’ingente quantità di Simone Marani altalex.com, 16 dicembre 2016 Cassazione penale, sez. III, sentenza 14/11/2016 n° 47978. Il quantitativo minimo di principio attivo di hashish necessario per poter configurare l’aggravante dell’ingente quantità deve essere pari a 4 mila volte il valore che può essere detenuto in un giorno. È quanto emerge dalla sentenza della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione del 14 novembre 2016, n. 47978. Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, in tema di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti, l’aggravante della ingente quantità, di cui al D.P.R. n. 309/1990, art. 80, comma 2, non era ravvisabile qualora la quantità fosse stata inferiore a 2 mila volte il valore massimo, ovvero 1.000 milligrammi, determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al D.M. 11 aprile 2006, fermo restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità fosse stata superata (Cass. pen., Sez. Un., 24 maggio 2012, n. 36258). L’intervento del legislatore con il D.M. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 16 maggio 2014, n. 79, ha reintrodotto il concetto di quantitativo massimo detenibile e ha rivitalizzato il D.M. 11 aprile 2006 che prevedeva tali limiti, sancendo definitivamente la validità dell’opzione ermeneutica della sentenza delle Sezioni Unite sopra richiamata. La Corte, con la sentenza n. 36258/2012, con riferimento alle c.d. "droghe leggere", aveva, però, fissato il quantitativo massimo giornaliero di principio attivo detenibile indicandolo espressamente nella misura di 1.000 mg., ipotizzando una percentuale media di principio attivo del 5% e un quantitativo lordo di sostanza di circa 50 Kg. Il punto è che il D.M. 4 agosto 2006 è stato annullato dalla Sezione Terza quater del Tar Lazio, con la sentenza n. 2487 del 21 marzo 2007, riportando il quantitativo di principio giornaliero massimo della misura degli originari 500 mg. Conseguentemente, secondo gli ermellini, per rispettare le proporzioni e rendere omogeneo il principio dell’annullamento del D.M. 4 agosto 2006, il quantitativo minimo di principio attivo di sostanza stupefacente di tipo hashish al dì sotto del quale non è ravvisabile la circostanza aggravante in oggetto deve essere necessariamente pari a 4 mila e non 2 mila volte il quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno (ovvero corrispondente a 2 Kg. Di principio attivo). Provvisionale possibile anche in appello di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 dicembre 2016 Non c’è una violazione del principio di reformatio in peius (il divieto cioè per il giudice di appello di infliggere una sanzione di gravità maggiore rispetto a quella di primo grado) se la sentenza di secondo grado accoglie la richiesta di provvisionale proposta per la prima volta in quel giudizio dalla parte civile non appellante. È questa la conclusione cui approdano le Sezioni unite penali con la sentenza n. 53153 depositata ieri. La sentenza ricorda che esiste un indirizzo giurisprudenziale in base al quale l’elemento di novità della domanda esclude di per sè la violazione del divieto peggiorativo, visto che questo ha come presupposto che la domanda di provvisionale sia stata proposta e respinta nel primo giudizio e che, in corso di appello proposto dal solo imputato, la parte civile ripeta la richiesta. Una posizione sulla quale le Sezioni unite, tuttavia, precisano che in caso di richiesta di provvisionale respinta in primo grado, la relativa sentenza già contiene una deliberazione sul punto e, in assenza di un’impugnazione della parte civile, ciò impedisce al giudice di secondo grado di pronunciarsi sul punto in assenza di impugnazione della parte civile. Inoltre, secondo l’indirizzo prevalente nella giurisprudenza, deve essere escluso che il divieto di peggioramento possa estendersi dalle misure squisitamente penali alle deliberazioni civili, visto che di una orma, che, mettendo un limite alla pretesa sanzionatoria dello Stato, non si applica alla richiesta di risarcimento oggetto dell’azione civile. Le Sezioni unite, aderendo a questo orientamento, bocciano così l’altra linea che vedeva invece il divieto di peggioramento estendersi totalmente anche alle deliberazioni civili adottate nel precedente grado di giudizio. La sentenza osserva invece, facendo riferimento alle diverse misure inserite nelle versioni del Codice di procedura penale nel corso del tempo, che il divieto peggiorativo, imposto al giudice di appello per il caso di impugnazione del solo imputato, riguarda solo le deliberazioni di natura penale. "Pertanto, il divieto di reformatio in peius, come recepito nel vigente codice di rito penale, costituisce un limite legale esterno, imposto al potere cognitivo del giudice di appello, che involge le statuizioni penali della sentenza, sulla base di specifiche scelte compiute dal legislatore, la cui portata non può essere estesa, in via interpretativa, ad ipotesi diverse da quelle disciplinate". Di conseguenza, il limite non si applica per il giudice di secondo grado al perimetro delle decisioni prese sul piano civile. La preclusione pertanto non scatta nell’ambito delle valutazioni che hanno condotto alla modifica della somma liquidata a titolo di provvisionale dal primo giudice e neppure rispetto alla richiesta di provvisionale, formulata per la prima volta dalla parte civile non appellante, nel giudizio di secondo grado. La lottizzazione abusiva se sanata elimina la confisca ma non cancella il reato di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 16 dicembre 2016 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 15 dicembre 2016 n. 53352. Niente confisca delle aree oggetto di lottizzazione abusiva in presenza di autorizzazione in sanatoria a lottizzare, atteso che questa, pur non estinguendo il reato di lottizzazione abusiva, dimostra ex post la conformità agli strumenti urbanistici e alla volontà dell’amministrazione di rinunciare all’acquisizione delle aree al patrimonio indisponibile comunale. È quanto precisa la Cassazione con la sentenza n. 53352/16. I fatti - Alla base una vicenda in cui a un privato erano stati confiscati degli immobili perché autore di una lottizzazione abusiva e che, quindi, i successivi permessi a costruire in sanatoria erano da considerarsi illegittimi, in quanto collegati a due precedenti concessioni edilizie a loro volta illegittime in quanto rilasciate da funzionario condannato per concorso nel reato di lottizzazione abusiva. Sul punto però è mancata la verifica della correttezza dei nuovi atti amministrativi. La Cassazione in particolare ha chiarito come fosse da considerare illegittima la pretesa nei confronti dell’imputato di dover dar conto delle ragioni del rilascio pur in pendenza di procedimento penale sulle precedenti concessioni. Altra anomalia che i Supremi giudici hanno sottolineato è legata alla circostanza che l’imputato si fosse impegnato a versare pro quota gli oneri di urbanizzazione senza provvedere così come invece eccepivano (in maniera sbagliata) i giudici di merito alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, postulando così l’obbligo del privato di realizzare le opere di urbanizzazione necessarie prima e a prescindere dalla verifica delle determinazioni adottate dall’ente al riguardo. A tal proposito la Corte ricorda che in tema di lottizzazione abusiva il rilascio della concessione in sanatoria per le opere abusivamente realizzate non è incompatibile con il provvedimento di confisca delle aree lottizzate. Infatti da un canto l’articolo 44, comma 2, del Dpr 380/2001 dispone che "La sentenza definitiva dal giudice penale che accerta che vi sia stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite"; dall’altro il titolo abilitante sopravvenuto legittima soltanto l’opera edilizia che ne costituisce l’oggetto, ma non comporta alcuna valutazione di conformità di tutta la lottizzazione alle scelte generali di pianificazione urbanistica con la conseguenza che anche il rilascio di una pluralità di concessioni edilizie nell’area interessata da una lottizzazione abusiva non rende lecita un’attività che tale non è. La concessione non ha infatti, una funzione strumentale urbanistica di pianificazione dell’uso del territorio. Conclusioni - In conclusione quindi a seguito dei permessi a costruire l’immobile non diventa più confiscabile fermo restando però il comportamento iniziale penalmente rilevante relativo alla lottizzazione abusiva. Stereo troppo alto, condanna per i decibel del figlio di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 16 dicembre 2016 Corte di Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 15 dicembre 2016 n. 53102. Disturbo alle occupazioni e al riposo dei vicini. La Cassazione ha confermato la responsabilità penale per il giornalista Clemente Mimun, colpevole di non aver vigilato sulla condotta del figlio minorenne, abituato ad ascoltare lo stereo a volume alto. Un bombardamento di decibel che, a detta di due testimoni, si sarebbe percepito fino a ottanta metri di distanza dal condominio, per un arco temporale di circa tre anni. L’assunto su cui si basa la sentenza 53102 depositata ieri (15 dicembre) deriva dal combinato disposto dell’articolo 40 del Codice penale e dell’articolo 2048 del Codice civile. "Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire - scrivono i giudici - equivale a cagionarlo": questo principio, coniugato con l’obbligo giuridico della responsabilità genitoriale sui figli minori, ha prodotto il reato. E così la voracità di decibel del giovane si è trasformata in una condanna per il padre al pagamento di una ammenda e alla rifusione delle spese processuali. Pur essendo il giovane capace di intendere e di volere, infatti, l’obbligo di sorveglianza da parte dei genitori è sempre valido, salvo i casi in cui si riesca a provare di non aver potuto impedire il fatto (e non è questo il caso). Tale sorveglianza - stigmatizzano i giudici - si esplica attraverso una costante opera educativa, finalizzata a correggere comportamenti non corretti e a realizzare una personalità equilibrata, consapevole della relazionalità della propria esistenza e della protezione della propria ed altrui persona. Toscana: Corleone (Garante detenuti) "pronte azioni per migliorare qualità vita in carcere" luccaindiretta.it, 16 dicembre 2016 Il patto per la riforma del carcere in Toscana è stato firmato questa mattina dal Garante regionale per i diritti dei detenuti Franco Corleone e il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Giuseppe Martone. Si tratta di un protocollo d’intesa su azioni comuni da intraprendere da ora in avanti per affrontare alcuni degli aspetti più critici della situazione detentiva, quelli che possono essere cambiati senza modificare la legge dello Stato. Garantire i principi costituzionali e i diritti dei detenuti, che sono anche oggetto della proposta di legge delega in discussione in Parlamento, tra cui spiccano il lavoro, l’affettività, le misure alternative alla detenzione, la salute e in particolare quella mentale, le condizioni materiali di detenzione. Un impegno per una mutua collaborazione, anche con il coinvolgimento del volontariato e della Regione, per migliorare la qualità della vita all’interno degli istituti penitenziari. Una road map che presuppone scadenze definite mese per mese, spiegano il garante e il provveditore regionale. "Ci ritroveremo qui per verificare i primi risultati, saremmo contenti se nel giro di un anno vedessimo realizzato il 50 per cento delle proposte qui contenute". Quella firmata oggi a Firenze "vuole essere un’esperienza pilota - dice Corleone, che anticipi, attraverso lo sviluppo di buone pratiche, gli esiti della riforma delineata dagli Stati generali dell’esecuzione penitenziaria, conclusi nella primavera di quest’anno, e della proposta di legge delega attualmente in Parlamento. L’idea è emersa nell’ambito del seminario di preparazione del Convegno in onore di Alessandro Margara, seminario realizzato il 12 ottobre scorso presso la Fondazione Michelucci, e i cui contenuti sono stati presentati il 13 nell’Auditorium del Consiglio Regionale. Domani, saremo a Roma per una riunione dei garanti italiani. Mi auguro che il patto venga fatto proprio da altre Regioni e diventi una sorta di Carta nazionale". Il patto sarà firmato nel prossimo mese anche dai Garanti comunali attivi in Toscana, che formano una rete che opera congiuntamente per la garanzia dei diritti dei detenuti. Gli impegni presi riguardano innanzitutto la parte strutturale, prevedendo la conclusione nel 2017 degli interventi di ristrutturazione più urgenti delle carceri toscane: lavori per la riapertura del carcere di Arezzo, ristrutturazione di due sezioni a Livorno e riapertura del femminile, sempre a Livorno lavori per assicurare l’apertura della cucina dell’alta sicurezza, a Pisa la decisione sull’utilizzo del manufatto G1 e rifacimento dei bagni nella sezione femminile, lavori per la riapertura di Pistoia, interventi a Sollicciano a cominciare dalla seconda cucina al maschile, lavori al Gozzini per trasformarlo in istituto femminile, costruzione del Teatro a Volterra e adeguamento dell’infermeria a Lucca. "Dovranno essere ridefiniti i ruoli delle isole e delle custodie attenuate, nonché dovrà essere aperta una riflessione sulla detenzione femminile, che dovrebbe trovare una sua specifica sistemazione, teorica e materiale, non come appendice del maschile ma come luogo che tenga conto della diversità di genere", spiega Corleone. Impegni congiunti per iniziative condivise dovranno riguardare anche la sostituzione degli sgabelli che si trovano nelle celle con sedie, la realizzazione di piccole aree di vendita interne agli istituti. Il Garante chiederà al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria l’avvio di sperimentazioni in alcuni istituti per consentire un numero maggiore di telefonate a carico del detenuto, e la possibilità di modulare i tempi delle telefonate, se necessario con modifiche di legge. "È una mia iniziativa, così come intendo sostenere una progressiva e tendenziale eliminazione delle terze e più brande, per arrivare all’obiettivo di celle singole o doppie". Il provveditore e il garante intendono chiedere alla Regione Toscana di predisporre un piano straordinario per il diritto alla salute, che comprenda: accesso alle cure odontoiatriche, progetti individualizzati per i sex offenders, partecipazione attiva all’istituzione delle articolazioni psichiatriche penitenziarie nelle maggiori carceri toscane, con gestione sanitaria, sperimentazioni di riduzione del danno in relazione alle malattie trasmissibili sessualmente e in relazione all’assunzione di droghe, criteri uniformi di definizione dello stato di tossicodipendenza per migliorare l’accesso ai trattamenti. Alla Regione e ai Comuni insieme, il garante e il provveditore chiedono di rafforzare l’impegno per la realizzazione di attività rieducative interne alle strutture carcerarie e di progetti finalizzati al reinserimento sociale, di promuovere azioni, in accordo con l’amministrazione penitenziaria, per il rafforzamento del personale educativo e psicologico all’interno delle carceri, immaginando anche di avviare percorsi di mobilità inter-istituzionale, di attivare risorse particolarmente rivolte alla realizzazione di corsi di formazione professionale nelle strutture penitenziarie, di incentivare, in tutte le forme possibili, gli inserimenti lavorativi delle persone detenute, in misura alternativa o a fine pena. Lombardia: diritto alla salute per detenuti, i Radicali contro la Regione milanotoday.it, 16 dicembre 2016 I Radicali contro il Pirellone sulla prescrizione, mai applicata, che impone una visita medica ogni sei mesi ad ogni detenuto: "Ci rivolgeremo alla magistratura". Polemiche sull’assistenza sanitaria nelle carceri della Lombardia. I Radicali, con Lucio Bertè, il 14 dicembre, hanno incontrato l’assessore regionale alla salute Giulio Gallera (Forza Italia), che si è impegnato a chiedere alle Ast (ex Asl) in che modo venga garantito il diritto alla salute negli istituti penitenziari della regione. Diritto che è richiamato dalla legislazione nazionale, nell’articolo 11 della legge 354/1975 sull’ordinamento carcerario. Ma il 15 dicembre, all’audizione presso la commissione carceri del consiglio regionale lombardo, i Radicali e la maggioranza di centrodestra si sono divisi proprio sull’articolo 11. "È emersa l’indisponibilità a far compiere semestralmente un accertamento sanitario sul singolo detenuto da parte delle aziende ospedaliere, che dipendono dalla regione", dichiara Michele Capano, tesoriere di Radicali Italiani. L’articolo 11, al penultimo comma, recita in effetti: "Il medico provinciale visita almeno due volte l’anno gli istituti di prevenzione e di pena allo scopo di accertare (...) le condizioni igieniche e sanitarie dei ristretti negli istituti". Secondo Capano, non compiere questo accertamento si traduce in "una gigantesca omissione d’atti d’ufficio". I Radicali promettono che sottoporranno alla magistratura la questione. Gallera: massima attenzione per assistenza sanitaria ai detenuti Lo ha detto l’assessore al Welfare di Regione Lombardia Giulio Gallera che ha incontrato Lucio Bertè, militante delle associazioni radicali "Il Detenuto Ignoto" e "Nessuno tocchi Caino". "Per Regione Lombardia è molto importante garantire l’assistenza sanitaria ai detenuti all’interno delle carceri. Mi impegno, nell’ambito del ruolo che mi compete, ad approfondire con le figure e le autorità competenti le modalità con cui viene prestata assistenza sanitaria ai detenuti". Lo ha detto l’assessore al Welfare di Regione Lombardia Giulio Gallera che ha incontrato Lucio Bertè, militante delle associazioni radicali "Il Detenuto Ignoto" e "Nessuno tocchi Caino". "Nelle prossime settimane - ha proseguito l’assessore - incontrerò i dirigenti delle Ats e delle Asst che operano nelle carceri, il Provveditore regionale per la Lombardia del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per approfondire e verificare le modalità con cui viene garantita e attuata l’assistenza sanitaria all’interno degli istituti penitenziari". Campania: continua il tour del coro giovanile del teatro S. Carlo nelle carceri regionali Ristretti Orizzonti, 16 dicembre 2016 Continua negli Istituti penitenziari della Campania, per iniziativa del Garante regionale Adriana Tocco, il tour del coro giovanile del teatro S. Carlo, diretto dal Maestro Morelli. Il coro, che sta per concludere il tour, ha ottenuto ovunque grande successo, coinvolgendo le persone ristrette anche nella partecipazione diretta al canto. I commenti in diretta sono stati commoventi, chi ha dichiarato di essere evaso da quelle mura ristrette per un’ora, chi ha ritenuto di aver ricevuto un riconoscimento alla dignità di persona, per la quale valeva la pena di spendere il proprio talento, tutti hanno dichiarato di aver trascorso un’ora di spensieratezza e di emozioni. Il repertorio è vario, alle classiche canzoni napoletane sempre molto partecipate, si alternano pezzi di complessi stranieri, ugualmente gradite e sorprendentemente noti. Inoltre alcuni coristi stanno formando giovani ristretti a Poggioreale nella costruzione di un coro. Questo oltre ad essere un’attività trattamentale molto gradita, abitua alla disciplina di gruppo, al rispetto dell’altro, alla bellezza della musica. Genova: la libertà è una borsa In carcere le "stiliste" reinventano un futuro di Donatella Alfonso La Repubblica, 16 dicembre 2016 No, proprio l’idea di cucire non era mai venuta a Juliet, che sorride e di fronte agli obiettivi stringe la "sua" borsa, quella che ha disegnato e realizzato. "Mi piace proprio farlo, non avrei pensato di essere capace... e poi è lavoro" dice Jsenia, con i suoi 24 anni e l’idea che il carcere, nonostante tutto "è un’occasione per imparare, anche per andare a scuola, ora faccio la seconda media ma seguo anche economia aziendale". E Bruna ("son la più vecchia dai, io ho 57 anni, e ci tengo a dire che sono genovese") sospira: "Cucire, mah! Chi ci aveva mai pensato. Io sono la più folle, quelle bustine, quei quadretti sono i miei. belli vero?". Sì, sono belli i lavori delle ragazze del laboratorio "Il Girasole - Creazioni al Fresco", dentro al carcere di Pontedecimo: uno dei due punti di produzione dell’associazione di promozione sociale Sc’Art! (l’altro è all’Arci di Barabini di Trasta), che presenta così i suoi tre anni di attività con le donne detenute o ex, mentre da domani, venerdì, quello che esce dai laboratori sarà in mostra (e in vendita) allo spazio di Vico Angeli 21 rosso messo a disposizione dall’Amiu: a dimostrare che riciclando materiali ormai usati, si può ricreare bellezza.. Così com’è bella e importante l’idea che gli striscioni che hanno segnato i momenti importanti della città, le mostre a Palazzo Ducale e al Museo di Storia Naturale come gli eventi, dal festival della Scienza in avanti, tornino alla città trasformati in borse, shopper, portafogli, tovagliette. Un’idea che si è fatta rete, quella di Etta Rapallo, instancabile promotrice dell’Associazione Sc’Art!, e delle altre donne che seguono il progetto: in tre anni 45 detenute impegnate, ma soprattutto tre assunzioni; e adesso cinque borse lavoro nel laboratorio di Pontedecimo (più un’altra e una ragazza assunta part-time a Barabini) che permettono, come sottolinea Maria Isabella De Gennaro, direttore del carcere, di affiancare anche un piccolo introito economico a quello fondamentale di un recupero di dignità e di immagine di sé. Perché; come sottolinea Elena Fiorini, assessore comunale alla legalità e ai Diritti, vale sempre il principio di Gregory Bateson: che un errore si può sempre fare, fondamentale è utilizzarlo per volgere la situazione a proprio favore. Se ci fossero più fondi, invece che le cinque macchine da cucire utilizzate tre giorni alla settimana per cinque ore tra mattina e pomeriggio da Bruna, Clara, Juliet, Jsenia e Sanela, la più giovane con i suoi 19 anni, se ne potrebbero avere anche il doppio e magari, come si augura Etta Rapallo, rispondere alle tante richieste: perché Creazioni al Fresco ha già confezionato nella sua storia 5000 shopper con la tela di ombrelli rotti, 2000 complementi di arredo (dai portabottiglie ai porta-torte) e ore le borse e gli altri accessori. Coop Liguria, ad esempio, ha già regalato 900 borse ai soci partecipanti all’assemblea annuale; e altre saranno pronte per il 2017. Con più persone - e più lavoro - chissà, oltre che portare pezzi unici (non potrebbero essere altro) ai mercatini, al negozio Freed Home a Torino che distribuisce i lavori nati nelle carceri e ad alcuni punti vendita, potrebbe esserci anche una produzione da diffondere attraverso il Ducale o il bookshop dei Musei di Strada Nuova: "Ci piacerebbe proprio" confessa Elena Fiorini. E la presentazione dei lavori è anche un ringraziamento ad alcuni partner storici, dal museo di Storia Naturale, appunto, al Festival della Scienza, ad Amiu e il negozio Lo Spaventapasseri. Le ragazze sorridono, spiegano. "Chissà, sono due anni che attendo la semilibertà, magari potrei farcela con questo lavoro" confida Clara. E guarda la collina, oltre le sbarre della finestra. Lecce: l’Osapp "per il reparto psichiatrico ci mandano 5 persone, invece di 50" corrieresalentino.it, 16 dicembre 2016 Stanno arrivando i rinforzi, sì, ma cinque soli poliziotti. Apre il reparto psichiatrico: ci vorrebbero 50 nuovi poliziotti su 20 posti letto, invece vengono raccattate 5 unità prese in giro dalla Puglia. Quanti rinforzi arriveranno per il nuovo padiglione in cui ci vorrebbero 70 nuovi agenti? Poi, c’è il guaio delle traduzioni (trasporto di detenuti): 5 poliziotti che trasportano 8 detenuti, attraversando quartieri pericolosissimi con mezzi obsoleti. "C’è una classe dirigente che non è in grado di gestire i problemi dell’ordinamento penitenziario" - tuonano dall’Osapp. In Puglia aprono tre reparti psichiatrici (a Trani, Taranto e Lecce), senza trovare prima gli agenti che possano lavorarci dentro. "A Lecce, con i pensionamenti, il personale è diminuito del 60 per cento" - spiegano i sindacalisti in una conferenza nel carcere di Borgo San Nicola. "Non c’è personale e non si possono mettere in piedi strutture con un organico carente del 15 per cento in Puglia: mancano 250 unità - spiegano. In questa situazione che senso ha aprire nuove strutture? Un reparto psichiatrico è contrario alla legge e invece aprono un polo di osservazione psichiatrica che in carcere non potrebbe esserci. Uno di questi pazienti viene mandato avanti a dolcetti. Anche se il governo facesse lo svuota carceri torneremo nell’arco di un anno ai numero di oggi. Il problema si risolve solo con nuove assunzioni e tecnologie per il controllo". I detenuti vengono lasciati liberi di muoversi nelle sezioni (quando c’è la sorveglianza dinamica), che diventano piazzali di spaccio. "Narcotrafficanti, boss, spacciatori e violenti hanno via libera: i poliziotti, per come è gestito il lavoro, non possono intervenire all’interno delle sezioni". Pasquale Montesano, segretario nazionale aggiunto, Leo Beneduci, segretario nazionale, Pantaleo candido segretario regionale, Ruggiero Damato, segretario provinciale continuano a lanciare l’allarme da anni, ma la situazione peggiora. "I telefonini permettono di perpetrare reati anche dal carcere. Il sistema penitenziario è gestito da gente che non conosce i problemi. Mancano i sistemi anti-scavalcamento e antintrusione. I carceri sono sempre più piazza di spaccio. Alla società dovrebbe interessare intervenire per evitare che il problema esploda all’esterno. Qui non si recuperano i criminali: qui si peggiora. Mancano anche gli psicologi che possano affiancare i soggetti problematici. La malavita domina in carcere. La sorveglianza dinamica permette di affiliarsi e di poter fare i propri comodi". Cosenza: il Sappe "la situazione nel carcere è diventata ormai ingestibile" Giornale di Calabria, 16 dicembre 2016 La denuncia è del Sappe, il Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria, che ha diffuso una nota del segretario generale, Giovanni Battista Durante. "Ieri, nel corso della giornata, - si legge - un gruppo di detenuti ne ha aggredito un altro e, successivamente, nel primo pomeriggio, in un altro episodio, avvenuto all’interno del cortile destinato alla permanenza dei detenuti all’aperto, altri due ristretti sono stati oggetto di aggressione da parte dei compagni di detenzione. Per fortuna l’immediato intervento del personale della Polizia Penitenziaria in servizio ha permesso di evitare ulteriori conseguenze ed ha portato anche al rinvenimento e sequestro di un coltello". Il Sappe riferisce anche che stamane si sono verificate altre due aggressioni tra detenuti che hanno richiesto nuovamente l’intervento del personale in servizio per ripristinare l’ordine all’interno della struttura. "Al personale intervenuto - dice Durante - va la vicinanza del Sappe per il delicato momento vissuto nel corso del quale ha dimostrato grande professionalità nella gestione dell’emergenza; comportamento che deve sicuramente essere esaminato, al fine di conferire agli interessati i riconoscimenti e le ricompense previste dalla vigente normativa. Nel corso della notte - riferisce ancora - le auto di due appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria in servizio nella struttura cosentina e parcheggiate nello stesso cortile hanno preso fuoco per cause in via di accertamento. Tutto ciò dimostra - secondo il Sappe - come siano necessari urgenti interventi da parte dell’amministrazione centrale e di quella regionale, a partire dall’invio di un’apposita ispezione che permetta di far luce su quanto si è verificato e sui problemi esistenti nella struttura penitenziaria cosentina che, allo stato, ospita circa 300 detenuti di media e alta sicurezza di cui una trentina stranieri". Velletri (Rm): i detenuti diventano vignaioli, prodotto un buon vino rosso al carcere di Luciano Sciurba Il Messaggero, 16 dicembre 2016 A Velletri i detenuti diventano vignaioli. Il "Rosso di Lazzaria", è un vino rosso prodotto con le uve della grande tenuta agricola con vigna che si trova all’interno della struttura penitenziaria e infatti prende il nome dalla zona dove si trova la Casa Circondariale. Il vino è stato presentato nella cantina interna al carcere alla presenza del vescovo di Velletri, monsignor Vincenzo Apicella, del vice garante dei detenuti Sandro Compagnoni, dell’enologo che ha curato la produzione Sergio De Angelis e di numerosi altri ospiti ed esperti del settore. "È stata una battaglia vinta, ha detto al direttrice del penitenziario Donata Iannantuono, abbiamo rimesso in piedi la cantina, impegnato l’agronomo della struttura Marco De Biase, alcuni agenti di polizia penitenziaria e diversi detenuti che si sono offerti volontari. Alla fine è venuto fuori un prodotto eccellente, che va ad aggiungersi al pane di Lariano, prodotto nella Casa Circondariale di Re Bibbia,, con cui abbiamo stretto un’ottima collaborazione nel produrre i prodotti tipici locali, come anche l’olio d’oliva, che viene sempre prodotto qui da noi grazie ai nostri uliveti e alla collaborazione dei detenuti". Milano: liberi di cantare, il coro dei detenuti nella casa del Manzoni di Paolo Foschini Corriere della Sera, 16 dicembre 2016 Uscita natalizia senza precedenti per 25 carcerati di San Vittore, quasi tutti con processi in corso. Quelli che per il codice possono uscire solo per "gravi motivi". Un coro non è un insieme di solisti. Un coro è un coro. È ascoltarsi, provare, sbagliare, riprovare. Ma alla fine, quando ti viene un bell’accordo, con tutte le voci impastate che sembrano una, è una cosa bella da non credere. Ieri pomeriggio l’ha fatta un gruppo di detenuti di San Vittore. Nella casa di Alessandro Manzoni. "Natale - si chiamava - a Casa Manzoni". Che poi era il nipote di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, ricordate? Quello che la miglior prevenzione contro il crimine è la cultura. Ecco, giovedì cultura e soprattutto musica hanno consentito a 25 detenuti di uscire per un pomeriggio, andare a cantare in pubblico insieme con musicisti e con gli attori della compagnia Macrò Maudit, incontrare i propri familiari più stretti. Grazie a un concerto natalizio, dopo due mesi di prove. Fuori dal carcere. Una cosa mai successa prima. O meglio, successa con detenuti condannati definitivamente. Ma questi erano quasi tutti con processi in corso. Quelli che per il codice possono uscire solo per "gravi motivi". Ci sono volute le porte aperte dal presidente del Centro studi manzoniani Angelo Stella, la costanza dei vertici di San Vittore, Gloria Manzelli e Teresa Mazzotta, il provveditore Luigi Pagano. E poi l’Ats di Milano. Per dire che anche la perdita di una opportunità culturale è un fatto "grave". Quasi come un funerale. Quando sfruttarla, invece, è un po’ come vivere. E sperare già nella prossima. Genova: "Made in Jail", a Villa Bombrini in mostra le opere dei detenuti di Claudio Cabona Il Secolo XIX, 16 dicembre 2016 Opere d’arte per far evadere la fantasia. Da sabato 17 a venerdì 23 dicembre a Villa Bombrini, tutti i giorni dalle 10.30 alle 19, è visitabile la mostra "#Evasioniadarte Liberi Tutti", curata dall’artista Graziano Cecchini e realizzata grazie all’associazione Made in Jail. Le tecniche utilizzate per la realizzazione delle opere esposte sono varie: spray art, scultura, materiali di recupero, pittura e serigrafie. Le 40 opere presenti in Villa sono le più significative degli oltre 30 anni di volontariato nelle carceri da parte dall’associazione. Si tratta di lavori provenienti dai detenuti di strutture come il carcere minorile di Casal del Marmo, Rebibbia terza casa penale, Rebibbia sezione minorati psichici, Villa Andreini della Spezia, Le Nuove a Torino e altri. L’associazione Made In Jail ha il preciso intento di reinserire i detenuti nella società attraverso lo strumento della formazione in serigrafia, la realizzazione di stampe, loghi, immagini tipiche delle subculture quali quelle carcerarie o metropolitane. Per oltre 20 anni ha organizzato corsi di formazione in serigrafia in vari istituti penitenziari e ora arriva a Genova con una mostra che racconta tutto il lavoro svolto. Matera: performance teatrale dei detenuti, nell’ambito del Progetto Legalità sassiland.com, 16 dicembre 2016 Nell’ambito del progetto Legalità giunto alla VI edizione, d’intesa con l’Itcg "Olivetti-Loperfido" di Matera ed in collaborazione con l’Associazione "Libera - associazioni, nomi e numeri contro le mafie", è organizzata la giornata conclusiva per l’anno 2016. Nel corso della manifestazione sono previsti gli interventi della coordinatrice del corso Itcg, dei rappresentanti locali e nazionali dell’Ass. Libera, dei volontari facenti parte dello staff del progetto e degli operatori dell’Amm.ne Penitenziaria. Sarà rappresentata una performance teatrale dei detenuti componenti il gruppo di lavoro del Progetto Legalità, autori della drammaturgia dello spettacolo, diretto dal regista Luca Mazzone. L’evento avrà luogo alle ore 14.oo del giorno 20 dicembre 2016 presso la sala teatro di questo istituto penitenziario. Lo schiaffo sui migranti spariti dal tavolo Ue di Carlo Nordio Il Messaggero, 16 dicembre 2016 Il Consiglio d’Europa ha accolto il nostro nuovo Primo ministro con l’argomento dell’immigrazione all’ordine del giorno. Dalle anticipazioni, sembrava che avremmo battuto i pugni sul tavolo, pretendendo la riapertura delle frontiere interne, un rigoroso controllo del Mediterraneo e addirittura la revisione del trattato di Dublino. Invece non è accaduto nulla, salvo un marginale accordo con il Niger, e tutto è stato rinviato a data da destinarsi. Un inizio un po’ deludente. In realtà tutta la nostra politica degli ultimi anni, in tema di immigrazione, è stata mancante. Facciamo un breve riepilogo. All’inizio essa ha cercato di dribblare l’accordo di Dublino omettendo l’identificazione dei fuggiaschi, agevolandone la fuga e sollevando così le ire, o almeno la diffidenza, degli altri Stati europei interessati. Ha subìto passivamente il ricatto degli scafisti, prestandosi ai salvataggi in mare su loro richiamo, alimentandone così i guadagni e gli incentivi. Ha contrabbandato per caritatevole soccorso quella che il realtà era rassegnazione impotente, senza peraltro accorgersi della contraddittorietà di un simile atteggiamento: se infatti gli scafisti aiutassero i profughi a sottrarsi alle guerre e alla miseria non andrebbero puniti come "trafficanti di carne umana" ma premiati come salvatori. E ancora. Ha consentito che lo stesso trattato di Dublino fosse disapplicato a nostro sfavore. Accogliendo, in tal modo, nei nostri porti le persone salvate in acque internazionali da navi straniere, per le quali, soprattutto quelle militari, vale il principio del territorio di bandiera. Ancora la nostra politica ha imposto ai sindaci, sempre più riluttanti, l’accoglienza e la gestione di flussi sempre più numerosi, esponendo alla loro rimostranze i poveri prefetti, con il rischio di conflitti istituzionali. Incidentalmente, sarà utile ricordare che in Veneto, dove l’affluenza al referendum è stata altissima, quasi tutti gli intervistati hanno ammesso di aver votato così non in ossequio alla conservazione costituzionale ma per protesta rabbiosa contro l’immigrazione incontrollata. E infine, cosa anche più allarmante, il governo non ha mai detto quale sarebbe stato il limite dell’ accoglienza a fronte di decine di milioni di individui che premono e premeranno ai confini del Mediterraneo: li prenderemo tutti? O solo alcuni milioni, lasciandone comunque la scelta agli scafisti? Mistero. Cosa ha alimentato questa pericolosa miopia? Alcuni dicono: la supina acquiescenza alle esortazioni pontificie. Se fosse così, sarebbe grave. Ma forse la ragione è molto più amara: è stato l’eterno nostro vizio di comportarci prima da furbi, e poi da vittime, passando così dalla parte del torto anche quando avevamo ragioni da vendere. Quando l’Europa, tutta l’Europa, a cominciare dalle "civilissime democrazie baltiche", via via fino a Calais e al Brennero, ha chiuso le frontiere lasciandoci con il cerino in mano, abbiamo risposto timidamente, alzando un po’ la voce solo in prossimità del redde rationem referendario. Ma ormai era tardi. E tuttavia il nostro primo Ministro ha (avrebbe) ancore molte frecce al proprio arco. Non solo perché i trattati non sono eterni, e in questo caso quello di Dublino lo è meno che mai. Ma perché siamo stati la prima vittima delle avventurose iniziative altrui: dalla guerra in Libia, che ne ha sgretolato le frontiere, alle sanzioni alla Russia, che ha penalizzato principalmente le nostre aziende. Inoltre contribuiamo in modo cospicuo al bilancio dell’Unione Europea destinato al cosiddetto mantenimento della pace del mondo: la nostra presenza in Libano, da sola, dovrebbe consentirci di trattare da posizioni di forza nel concerto internazionale. Insomma, ci sono i presupposti perché la prossima volta, e speriamo presto, il nostro presidente del Consiglio ritorni più agguerrito. L’accordo con il Niger potrebbe già essere un piccolo segnale. Migranti. L’Ue gela l’Italia e rinvia sui ricollocamenti di Marco Conti Il Messaggero, 16 dicembre 2016 I Paesi dell’Est ottengono la revisione di Dublino solo entro giugno. Migration Compact, patto col Niger. Prorogate le sanzioni a Mosca. Migranti: i Ventotto segnano il passo lasciando intatto il quadro, concedendo all’Italia solo la promessa che il negoziato per la revisione dell’accordo di Dublino "non scade" e che quindi la questione di come e se rivedere le regole del diritto d’asilo, finirà alla presidenza maltese dell’Unione che comincia il primo gennaio. Sul resto il Consiglio europeo di ieri ha confermato il sostegno economico alla Turchia affinché continui a bloccare il flusso di migranti via terra che arriva da est e spinge per andare verso la Germania. Poco o nulla per il confine mediterraneo con Italia, Grecia e Malta che dovranno continuare a trattenere i migranti nei centri di accoglienza, identificarli e poi rimpatriare coloro che non hanno diritto all’asilo. Unica concessione, confermata ufficialmente ieri l’altro da Juncker, la possibilità che viene riconosciuta al nostro Paese di non conteggiare nei parametri le spese che sosteniamo per salvataggi e accoglienza. Il meccanismo di relocation, messo a punto dalla Commissione, non decolla per le resistenze dei quattro Paesi Visegrad che non intendono aprire le proprie frontiere e non sembrano turbati nemmeno dalle minacce ritorsive dell’Italia sul fronte del bilancio comunitario. Tra la "solidarietà volontaria" di Ungheria, Polonia, Slovenia, Austria e Repubblica Ceca e "l’obbligatorietà" chiesta da Italia, Grecia e Malta, c’è ancora tanta incomprensione che la Commissione non riesce nemmeno a mettere in fila ed è destinata a riversarsi anche su altri dossier. Ciò che seppur lentamente prende forma è il Migration Compact grazie all’attività di Federica Mogherini. L’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione ha portato alla firma l’accordo con il Niger, paese che più di tutti alimenta il flusso migratorio che passa attraverso la Libia. 610 milioni di euro che il presidente del Niger Mahamadou Issoufou riceve per contrastare la migrazione attraverso l’attuazione di politiche economiche in grado di trattenere giovani e famiglie. Di migranti i Ventotto parlano sino a pomeriggio inoltrato mettendo in crisi la bislacca organizzazione del Consiglio voluta dal presidente Tusk che vorrebbe contenere la riunione in un solo giorno per dare, sostiene una maggiore impressione di efficienza delle istituzioni. Innovazione che coincide con l’inaugurazione del palazzone tutto vetro che dalla prossima riunione sarà utilizzato dai Ventotto e con la cancellazione della foto opportunity di gruppo che ha irritato fotografi e cameramen. La riunione si è quindi protratta sino notte, ma prima di discutere di Brexit - senza la britannica May - i Ventotto hanno parlato di Ucraina e di Siria e hanno ascoltato il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi che ha parlato di banche e della situazione economica. Per portare l’accordo Ue-Kiev su sicurezza e commercio fuori dagli steccati del referendum olandese che blocca l’ultima ratifica, si è messo mano ad un documento che tranquillizza gli olandesi sul fatto che l’intesa non è prologo all’ingresso di Kiev nell’Unione. Di Russia e di Siria si è parlato a tarda sera con la decisione di prolungare di altri sei mesi le sanzioni a Mosca, mentre l’idea di una sua estensione a seguito dei bombardamenti su Aleppo sembra definitivamente tramontata. Italiano morì in un carcere messicano: condannate guardie e funzionari Il Dubbio, 16 dicembre 2016 Sono stati condannati a pene tra i 25 e i 21 anni di reclusione sei degli otto imputati messicani per l’omicidio di Simone Renda, bancario leccese di 34 anni morto a Playa del Carmen il 3 marzo 2007, dopo tre giorni di detenzione. La sentenza è stata emessa dalla Corte d’assise di Lecce al termine di una camera di consiglio durata circa tre ore. Nel processo erano imputati il giudice qualificatore, il responsabile dell’Ufficio ricezione del carcere di Playa del Carmen e i vicedirettori del carcere municipale, nonché due guardie carcerarie. Sono stati assolti due agenti della polizia turistica. Per tutti l’accusa era di concorso in omicidio volontario per aver sottoposto la vittima, durante la detenzione, a trattamenti crudeli, inumani e degradanti per punirlo di una presunta infrazione amministrativa. Il sostituto procuratore. Il 34enne leccese era stato arrestato l’1 marzo 2007, vicino il suo albergo con l’accusa di atti osceni, essendo sceso per strada poco vestito ma - secondo la ricostruzione della magistratura italiana - lo avrebbe fatto per chiedere aiuto dopo essere stato colto da un malore. Condotto in carcere con un infarto in corso, morì dopo due giorni senza che gli fosse prestata alcuna cura. La famiglia fu avvisata dell’accaduto solo a morte avvenuta. La madre di Simone, Cecilia Greco, si è battuta a lungo perché venisse celebrato un processo in Italia, considerato che quello messicano si concluse con condanne lievi - trasformate in sanzioni amministrative - per tutti gli imputati. A rendere possibile l’apertura di un secondo processo in Italia fu l’applicazione della Convenzione di New York, che prevede, in caso di trattamenti disumani e degradanti, la giurisdizione nel Paese della vittima di tali soprusi. Tutti gli imputati sono stati condannati in contumacia Siria. Il sangue dei vinti scorre ad Aleppo, al via l’evacuazione di ribelli e civili di Andrea Milluzzi Il Dubbio, 16 dicembre 2016 "Le prime mille persone, fra cui 200 miliziani e 108 feriti, hanno lasciato la città" con questo annuncio il governo di Damasco ha posto fine alla guerra di Aleppo Est. Nella mattinata di ieri si sono realizzate le condizioni per portare via dall’assedio e dai bombardamenti le 50mila persone intrappolate nei cinque chilometri quadrati ancora sotto il controllo degli oppositori di Bachar al Assad. Anche la Mezza Luna Rossa e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che partecipano alle operazioni, hanno confermato l’inizio dell’evacuazione che continuerà per almeno tre giorni. Ma le preoccupazioni non sono sciolte: "Almeno 100mila persone finiranno sotto il controllo delle forze del regime e delle milizie sciite straniere, sia perché resteranno intrappolati nei quartieri orientali da loro conquistati oppure perché fuggiranno verso quelli già in mano al governo. In entrambi i casi andranno incontro a un destino ignoto" ha sottolineato la Rete siriana per i diritti umani. E le testimonianze arrivate sinora non sono incoraggianti: "Nei quartieri riconquistati sono stati commessi crimini di guerra come esecuzioni extragiudiziali, stupri, arresti arbitrati di un gran numero di persone tra cui donne, bambini e anziani con l’accusa di avere legami con le fazioni armate" continua la Rete. Ancora ieri le milizie sciite filo-regime hanno sparato contro i convogli degli sfollati, uccidendo una persona e ferendone tre. I combattenti e le loro famiglie dovrebbero essere trasportati nelle zone occidentali della provincia di Aleppo, quelli più vicini ma non confinanti, con Jarablus, che è ancora in mano alle forze d’opposizione. Non si chiude ad Aleppo la guerra siriana. Ne è consapevole anche Assad che dapprima diffonde un video in cui definisce la giornata di ieri "un momento in cui si è scritta la storia della Siria" e poi si concede alla tv russa per un’intervista: "Siamo pronti a elaborare piani militari in coordinamento con Mosca e Teheran per riprendere il controllo delle altre città - ha detto a Rossiya 24. Decideremo dopo che Aleppo sarà liberata quale di queste città attaccheremo per prima". A inizio autunno il regime e i ribelli avevano trovato un accordo per la fine delle ostilità a Daraya e Moadamiya, sobborghi rurali di Damasco. Ieri sono partiti anche i primi convogli umanitari per Foua e Kefraya, i due villaggi sciiti vicini a Idlib assediati da Jabhat Fatah al- Sham ( l’ex Jabhat al Nusra) per cui due giorni fa l’Iran aveva rotto la tregua. Da mesi la popolazione di Madaya, sulle montagne del Qalamoun al confine con il Libano, vive sotto assedio dei governativi e sono in totale circa una quarantina i villaggi e le città siriane vittime di assedi come non se ne vedevano dalla guerra nei Balcani. Certo, la caduta di Aleppo fa molto rumore perché è la seconda città della Siria e perché con Aleppo Assad si è assicurato tutta la "Siria utile", ossia il territorio urbano e produttivo che comprende la costa e le principali città. Con Aleppo cade anche la madre della rivoluzione, la città che più ha resistito nel richiedere libertà e democrazia e dove la popolazione ha creato realtà autogestite come le università, i media e l’amministrazione locale. Con la caduta di Aleppo finisce la rivoluzione del 2011, ma non la guerra. A Sud, al confine con la Giordania, ci sono sacche di ribellione, a Nord Jarablus e Idlib sono in una situazione molto caotica. Là c’è anche l’Isis e là c’è anche l’esercito turco, che due giorni fa ha dichiarato l’inizio delle operazioni contro l’Isis ad al Bab, sulla strada fra Jarablus e Raqqa. Già, Raqqa. La capitale siriana dell’Isis è sempre più vicina per le Forze Democratiche Siriane, la coalizione a guida curda che comprende arabi, siriaci e turkmeni, messa su dagli Stati Uniti e i suoi alleati. Dopo la liberazione di Raqqa i giochi politici entreranno nel vivo. Ieri la Russia ha abbandonato i colloqui con gli Usa su Aleppo, perché "non partecipano in alcuna forma alla soluzione", ha detto il portavoce del Cremlino Dimitry Peskov. I russi si vogliono presentare da vincitori al tavolo su Aleppo e per questo hanno già indetto una riunione per il 21 dicembre con i soli rappresentati di Damasco, Tehran e Ankara, ultima a salire sul carro degli amici di Putin. Gli Stati Uniti e i loro alleati, su tutti Francia e Inghilterra, che non vogliono nemmeno immaginare una Siria ancora sotto Assad, non sono contemplati. Putin ne riparlerà quando l’Isis non ci sarà più e lo farà con Trump e Tillerson. Stati Uniti: il numero di suicidi in carcere è aumentato del 30 per cento Il Velino, 16 dicembre 2016 Lo ha rivelato un programma di monitoraggio dell’Ufficio delle statistiche giudiziarie. Il numero di suicidi nelle carceri statunitensi è aumentato del 30 per cento. Lo ha comunicato l’Ufficio statistico di giustizia. "Dal 2013 al 2014 il numero dei suicidi è cresciuto da 192 casi a 249. I suicidi rappresentavano il 7 per cento del totale dei 3.483 detenuti morti nelle prigioni di Stato nel 2014". I dati emergono dal programma di monitoraggio sulle cause di morte dei detenuti attivato dal 2001. Stati Uniti: se a fine pena parla come all’inizio tornerà a delinquere di Angelica Basile west-info.eu, 16 dicembre 2016 Il rischio recidiva dei detenuti si misura anche da come cambia il loro modo di parlare in carcere. È quanto è emerso da un’indagine, portata a termine dall’Università dell’Ohio, nella quale migliaia di carcerati sono stati seguiti per 7 anni in un lungo percorso di analisi psicologica di gruppo. È stato chiesto loro, in particolare, di scrivere periodicamente dei biglietti indirizzati ai compagni di cella: alcuni dovevano essere di incoraggiamento, altri di ammonimento. Nella seconda fase dello studio, i biglietti (200 mila in totale) sono stati inseriti in un database e analizzati. È emerso che tra i detenuti quelli che nel tempo avevano iniziato ad arricchire il proprio vocabolario, usando, rispetto a quando erano finiti dietro le sbarre, un lessico più ampio ed eterogeneo, correvano meno rischi, una volta scontata la pena, di tornare a delinquere. Il linguaggio che ognuno usa, infatti, a detta degli autori dello studio, rispecchia gli "schemi mentali" alla base della psicologia di una persona, gli stessi che la portano anche a commettere un crimine. L’unico modo per avere, quindi, una riabilitazione completa è modificarli radicalmente. Amnesty accusa la Russia: "in Crimea tatari perseguitati" di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 16 dicembre 2016 "La comunità dei tatari di Crimea è oggetto di una persecuzione sistematica delle autorità russe sin dall’occupazione e dall’annessione illegale della Crimea da parte della Federazione russa". È quanto denuncia Amnesty International in un rapporto pubblicato giovedì 15 dicembre e intitolato Nell’oscurità: mettere a tacere il dissenso. Da quando i russi hanno preso il controllo della penisola, è la tesi dell’Ong, hanno utilizzato tattiche repressive contro gli oppositori. Nel mirino sono finiti soprattutto i tatari "perché sono il gruppo più coeso e visibile che si oppone all’occupazione" "Le autorità russe - scrive l’Ong - hanno perseguitato e costretto virtualmente all’esilio tutte le voci del dissenso, inclusi i leader chiave e gli attivisti della comunità dei tatari di Crimea", e questo anche "prima che il Mejlis (il parlamento dei tatari di Crimea, ndr) fosse bandito per legge". Il rapporto documenta alcuni casi eclatanti di persecuzione come quella di uno dei leader della comunità Ilmi Umerov arrestato e chiuso in un ospedale psichiatrico. Un altro, Akhtem Chiygoz, arrestato quasi due anni fa per aver organizzato "manifestazioni di disturbo", non può nemmeno assistere al suo processo in aula ma è costretto a guardarlo via Skype con una connessione molto instabile. Amnesty chiede che il Mejlis sia reso nuovamente legale e che cessi ogni tipo di tentativo di perseguire i suoi membri o chiunque altro si opponga all’occupazione russa.