Orlando, finalmente un ministro attento alle questioni del carcere di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 15 dicembre 2016 Nonostante non vi sia stato un concreto mutamento va riconosciuto all’attuale Guardasigilli di avere posto le basi per un possibile cambiamento culturale. Il 30 novembre, l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali ha visitato la Casa circondariale di Sollicciano a Firenze. Tornava nell’istituto dopo esserci stato il 6 maggio 2015. Un disastro. Al peggio, è vero, non c’è mai fine. L’Istituto fu aperto nel 1983. Progettato con velleità artistiche e con grandi ambizioni, avrebbe dovuto ricordare la forma di un giglio, simbolo della città di Firenze, ed ispirarsi all’idea del carcere città, con ampi spazi aperti destinati alle attività ricreative e trattamentali. Ma questa originaria ispirazione illuminata fu abbandonata ancor prima del collaudo, perché ritenuta incompatibile con le concrete esigenze di sicurezza. Dopo poco più di trenta anni, oggi il muro di cinta è inagibile, vi sono infiltrazioni d’acqua dalla copertura e dappertutto. All’emergenza strutturale si aggiunge il sovraffollamento che non lascia ai detenuti quello spazio vitale e quel minimo di decenza indicato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Apprendere, dopo pochi giorni, che il Presidente del Consiglio ha rassegnato le sue dimissioni, che si è aperta un’ennesima profonda crisi istituzionale, che è stato conferito un nuovo mandato per un Governo di "scopo", mentre in Parlamento giace la riforma dell’Ordinamento Penitenziario, lascia cadere anche quel minimo di speranza che si poteva nutrire per l’affermazione di diritti da tempo cristallizzati nella Carta Costituzionale. Intendiamoci, non era la riforma che avrebbe potuto creare aspettative reali - da oltre 40 anni, infatti, molte delle norme in materia non vengono rispettate - ma l’impressione era che finalmente se ne parlasse in termini diversi, come se si fossero compresi valori, principi ed idee sino ad oggi del tutto trascurati. Nonostante non vi sia stato, infatti, un concreto e sostanziale mutamento delle condizioni di detenzione e Sollicciano ne è la prova, va riconosciuto all’attuale Ministro della Giustizia di avere posto le basi per un possibile mutamento culturale in ordine alle innumerevoli problematiche che affliggono l’esecuzione penale. Un percorso difficile e lungo, appena iniziato e che aveva trovato, negli Stati Generali, la rotta da seguire. Nessun Ministro aveva, in precedenza, dedicato tanto impegno all’impopolare tema del carcere, nel tentativo di trovare soluzioni praticabili per porre fine agli abusi che l’Europa ci ha contestato. Un solitario impegno istituzionale che aveva finalmente dato ascolto alla voce, o meglio al grido di dolore, dei radicali, delle associazioni e, fra gli addetti ai lavori, degli Avvocati che da sempre hanno denunciato la violazione di diritti fondamentali. In un recente convegno il Ministro ha manifestato la sua "frustrazione" per non vedere ancora presi in considerazione i lavori degli Stati Generali. Delusione che è anche delle oltre 200 persone che all’iniziativa hanno partecipato, mossi esclusivamente da una sana passione civile. Cosa accadrà ora? Il vento che spira non è favorevole. La politica internazionale sta percorrendo mari impraticabili per il debole vascello dei diritti dei detenuti, che, appena restaurato e messo a mare, rischia di naufragare ancora. *Avvocato responsabile Osservatorio Carcere Unione Camere Penali Italiane Cassazione costretta a dibattere di centimetri, Governo riavvii subito riforma penitenziaria radicali.it, 15 dicembre 2016 Dichiarazione di Riccardo Magi e Michele Capano, segretario e tesoriere di Radicali Italiani. L’arretratezza del dibattito sulla condizione penitenziaria è plasticamente oggi evidenziata dalla decisione della Suprema Corte sullo "scorporo" della superficie del letto dal calcolo dello "spazio vitale" cui si ha diritto in cella. Decisione ovviamente positiva, ma, ci chiediamo: è possibile che invece di parlare - dopo sei anni dalla sentenza Sulejmanovic della Cedu - di lavoro in carcere, di risocializzazione, di affettività, e magari di abolizione delle pene detentive brevi come proposto da Radicali Italiani, siamo ridotti ancora, "metro" alla mano, a disquisizioni sui centimetri in più o meno, a causa di uno Stato incapace di affrontare i grandi nodi della riforma penitenziaria e impegnato ad arrampicarsi sugli specchi delle misure dei letti a fronte delle inevitabili richieste risarcitorie dei detenuti? Anche per questo il governo Gentiloni e il ministro Orlando sono chiamati a riprendere il processo di riforma interrotto, per non abbandonare i cittadini e la Cassazione a un dibattito da geometri, piuttosto che da garanti e promotori della legalità Costituzionale sulle condizioni di detenzione. Riforma della giustizia. Dalle intercettazioni alla prescrizione, i nodi ancora irrisolti di Ennio Fortuna Il Gazzettino, 15 dicembre 2016 A quanto pare i magistrati sono decisi alla protesta e pronti perfino allo sciopero (già in programma, ma che si spera di evitare). I motivi sono da un lato di ordine personale e dall’altro di ordine generale, riflettendo i problemi del processo penale da tempo all’esame del Parlamento e secondo molti destinati a slittare ulteriormente non si sa fino a quando. Prescindo qui dai problemi personali anche se non posso non rilevare che l’intervento del Governo compendiatosi nel noto decreto-legge dell’agosto scorso non solo non ha risolto la crisi delle vacanze ma l’ha in qualche modo aggravata, non fosse altro perché ha accentuato lo scontento generale Del resto non si vede come il governo potesse illudersi di alleviare se non di risolvere il problema disponendo la proroga dell’età pensionabile solo per i vertici della Corte Suprema. Giustamente si sono sottolineate l’inutilità dell’intervento e il suo carattere fortemente discriminatorio nei confronti di tutti gli altri magistrati di pari età. Allo scontento di carattere personale si aggiungono però considerazioni critiche legate alla riforma del processo penale e alle scelte all’esame del Parlamento. Due sono i problemi più scottanti sui quali si stenta a trovare un accordo di massima. Il primo concerne la prescrizione: è generale il consenso dei giudici e dei p.m. sulla necessità che i tempi della prescrizione siano più lunghi. Oggi buona parte dei processi si estingue prima di arrivare alla Corte d’Appello. Sul come intervenire per evitare il disastro si discute se allungare il termine per ogni reato oppure se interrompere il corso della prescrizione con la condanna di primo grado ovvero se sospenderla concedendo un nuovo termine (piuttosto moderato, due anni e un ulteriore anno)per i giudizi di impugnazione. L’interruzione della prescrizione con la prima condanna è certamente la soluzione più semplice e più accreditata tra gli esperti: se il significato dell’istituto consiste soprattutto nella constatazione dell’assenza dell’interesse dello Stato alla repressione si deve riconoscere che un sistema giudiziario che arriva alla condanna di primo grado dimostra di per sé, senza alcun bisogno di ulteriori prove, che non manca e comunque non è ancora venuta del tutto meno la volontà di reagire al delitto. Lasciare correre i termini di prescrizione dopo la sentenza è una contraddizione in termini del tutto ingiustificata. Qualcuno sostiene che con l’interruzione della prescrizione dopo la condanna i processi diventerebbero eterni perché i magistrati se la prenderebbero comoda. A parte l’implicita accusa alla categoria (secondo me del tutto priva di giustificazioni) all’interessato non mancherebbe la possibilità di sollecitare la fissazione dell’udienza magari interessando i capi della Corte. In ogni caso, in mancanza di un accordo su questa che è evidentemente la soluzione da privilegiare, ben venga anche la proposta del governo di sospensione dei termini. Sarebbe comunque meglio di oggi. Richiamerei in ogni caso l’attenzione sull’opportunità di rivedere il minimo del termine oggi sei anni per i delitti e quattro per le contravvenzioni. La prescrizione corre anche se il reato non è stato ancora scoperto e spesso si è constatato che i termini indicati sono troppo brevi e comunque insufficienti. Il secondo problema riguarda le intercettazioni: qui si può dire in poche parole che gli interventi sulle utenze di indagati e testimoni vanno decisamente limitati perché anche la riservatezza è un bene giuridico tutelato direttamente dalla Costituzione. Inoltre se non si può ottenere che i testi rimangano riservati per sempre (come sarebbe auspicabile in forza del principio di riservatezza che riguarda anche gli indagati e gli accusati) si deve premere perché la pubblicazione sui giornali sia la più limitata possibile e che in ogni caso comprenda le conversazioni che non hanno connessione con le indagini. Ogni eccezione a tale principio è un affronto alla civiltà e al rispetto delle persone. So bene che molti, anche in Parlamento, sono contrari ad ogni limitazione, ma è comunque necessario sottolineare questo principio che è alla base di ogni rapporto civile. Stretta sulla corruzione tra privati, un Decreto legislativo proposto da Orlando di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 dicembre 2016 Una condotta più circostanziata. Una platea più ampia. Un nuovo reato. Sanzioni più severe nei confronti delle imprese e più pesanti, sul fronte delle interdizioni, per le persone fisiche. Il Consiglio dei ministri di ieri ha approvato in prima lettura, su proposta del ministro della Giustizia Andrea Orlando, la bozza di un decreto legislativo che recepisce nel nostro ordinamento la decisione quadro del 2003 sulla corruzione tra privati. Con il decreto si interviene ulteriormente sulla disciplina anticorruzione dopo che l’anno scorso, con la legge 124, si era provveduto a un intervento di generale aumento delle sanzioni. Non però sul fronte della corruzione tra privati, "ventre molle" del sistema, come sottolineato ancora pochi giorni fa dal procuratore capo di Milano, Francesco Greco. Ora il decreto rivede alcuni aspetti dell’articolo 2635 del Codice civile. Ne riscrive almeno in parte la fattispecie, prevedendo che a essere colpite con una detenzione da 1 a 3 anni (la pena rimane inalterata) sono le figure già oggi previste (amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili, sindaci e liquidatori di società o enti privati) che, anche attraverso un’altra persona, e questa è una novità, "sollecitano o ricevono per se o per altri denaro o altra utilità non dovuti", per compiere oppure omettere atti contrari ai doveri di ufficio o fedeltà. Medesima sanzione, anche questo un inedito, se poi il fatto è commesso da chi nell’organizzazione societaria o dell’ente privato esercita funzioni direttive "di fatto", non comprese nelle canoniche figure punibili. Ma a venire colpiti, con pena ridotta però di un terzo, quindi da 8 mesi a 2 anni, con una misura specifica, introducendo nel Codice civile un nuovo articolo, il 2635 bis, dal titolo "Istigazione alla corruzione", è anche chi punta a corrompere le medesime figure dirigenziali nelle società private. La stessa sanzione, quindi nella misura ridotta, colpisce gli amministratori e le figure a loro equiparate quando la loro sollecitazione all’evento corruttivo non viene accettata. A rendere più ampio e completo il ventaglio delle misure repressive si aggiunge poi il fatto che la condanna per le due fattispecie di reato, quella base e l’istigazione, comporta poi sempre l’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. Infine, questa volta sul versante della responsabilità delle società, sulla base di quanto previsto dal decreto 231, il provvedimento approvato ieri e che ora passa all’esame del Parlamento per i pareri, stabilisce un inasprimento che passa innanzitutto dall’innalzamento della misura pecuniaria che adesso oscillerà da un minimo di 400 a un massimo di 600 quote (ora è tra 200 e 400 quote), dove una quota può andare, lasciando ampio margine di flessibilità al giudice, da un minimo di 258 a un massimo di 1.549 euro. Ma, ed è forse un punto anche più severo, si prevede anche la possibilità di applicare per la corruzione privata le sanzioni interdittive contemplate dal decreto 231 che vanno dal divieto di contrattare con la pubblica amministrazione al commissariamento passando per l’interdizione dall’esercizio dell’attività, per una durata compresa fra 3 mesi e 2 anni. A non essere toccati sono però i due punti più critici che Greco aveva messo nel mirino (si veda "Il Sole 24 Ore" di ieri) e cioè il livello delle pene e le condizioni di procedibilità. Resta infatti inalterata la necessità della querela della persona offesa. Si procede d’ufficio solo nel caso in cui l’illecito provochi una distorsione della concorrenza. Sciopero dei penalisti di Roma. Il disagio dei difensori stia a cuore anche ai giudici di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 15 dicembre 2016 Dopo le critiche dell’Anm allo sciopero dei penalisti di Roma. Per il sindacato dei magistrati: "Condurre fuori dalle aule il dibattito sulle nostre decisioni è pericoloso". Ma di cosa si deve discutere se non delle sentenze? E dunque la Camera penale di Roma sciopera per protestare contro le difficili condizioni in cui versano gli avvocati chiamati a difendere i propri assistiti detenuti, sia per quanto riguarda l’accesso alle cancellerie ed agli uffici, sia per quanto riguarda il tipo di decisioni assunte dai giudici di sorveglianza, spesso ritenute e censurate come "carcerocentriche". Immediatamente, la corrente che fa capo al presidente Piercamillo Davigo, Autonomia & indipendenza, stigmatizza l’operato degli avvocati affermando che essi vorrebbero "condurre fuori dalle sedi giudiziarie il dibattito su decisioni non gradite" e che voler sindacare perfino la qualità delle decisioni sarebbe un vero attentato alla democrazia. Che dire? Che l’accesso alle cancellerie sia spesso complicato e che possa richiedere anche lunghi o lunghissimi tempi di attesa è noto a qualunque avvocato. Come ripeteva uno di loro mestamente: "Trent’anni di professione: uno di lavoro e ventinove di attesa". Il che fa comprendere abbastanza bene lo stato di disagio denunciato dai difensori non certo per sé, ma per la funzione esercitata, appunto quella a tutela dei propri assistiti. Il fatto è che bisognerebbe davvero smetterla con l’idea del tutto errata e priva di ogni fondamento per la quale l’amministrazione della giustizia è una cosa e il mandato difensivo un’altra, alla prima quasi fastidiosamente appiccicato e del quale in fondo si potrebbe fare a meno per ragioni di rapidità ed efficienza. Le cose non stanno così: il modello difesa si colloca a pieno titolo all’interno della funzione giurisdizionale, della quale rappresenta un ineliminabile elemento costitutivo: prova ne sia che mancando per qualunque ragione il difensore di fiducia, il diritto si preoccupa ve ne sia uno d’ufficio. Ma se le cose stanno in questo modo - e non si vede come altrimenti potrebbero stare - ne viene che dovrebbero essere per primi i giudici a preoccuparsi che gli avvocati siano messi in grado di svolgere al meglio la loro funzione: solo così si potrà ottenere davvero la prova del reale funzionamento di un meccanismo processuale improntato ai principi dello Stato di diritto. In questo, infatti, essenziale è la difesa e non l’accusa: a seconda di come si assicuri al difensore la pienezza del mandato difensivo - non fittizio, non apparente, non reso complicato - si potrà affermare - o negare - che ci si trovi in uno Stato di diritto. E allora, se i giudici non si preoccupano della corretta amministrazione della giustizia, in quanto non si curano abbastanza delle condizioni in cui viene ad essere esercitato il mandato difensivo, è ovvio che debbano preoccuparsene gli avvocati: il che è esattamente ciò che hanno fatto con questa giornata di sciopero. Tuttavia, resta la domanda: lo sciopero può essere proclamato anche per protestare contro una giurisprudenza "carcerocentrica", vale a dire per motivi afferenti al merito delle decisioni? Premesso che ogni decisione assunta da un giudice è liberamente criticabile - altrimenti non ci sarebbe l’obbligo della motivazione, la quale appunto spiega il percorso logico-giuridico seguito - non si vede perché criticare il merito della stessa possa rappresentare addirittura un "pericolo per la democrazia". E se non il merito, cosa bisognerebbe criticare? Il metodo? Anche, ovviamente, ma non basta. Non basta ridurre ogni questione a problemi di carattere strettamente processuale, altro invece essendo il rilievo delle scelte operate dai giudici. Ed infatti, che farmene di un giudice rigoroso osservante delle norme processuali, se poi assumesse decisioni assurde o comunque prive di quel buon senso che è loro necessario, più di quanto lo sia l’acqua per un pesce? Nessun attentato alla democrazia dunque o, peggio, alla indipendenza dei giudici, ma l’esatto contrario: un forte richiamo a tutela dell’una e dell’altra. E d’altra parte, anche i giudici in diverse occasioni han fatto ricorso allo strumento legittimo dello sciopero per lamentare varie occorrenze negative. Nessuno si è mai sognato di parlare di attentato alla democrazia: e non si trattava certo di questioni fondamentali, quale appunto l’uso del carcere come strumento privilegiato di detenzione, ma di cose assai più povere e insignificanti. Per esempio, degli scatti di anzianità. Il processo dei forconi, intolleranza allarmante di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 15 dicembre 2016 Nessun segnale deve essere sottovalutato. È indispensabile punire chi va oltre le regole e soprattutto viola il codice penale. Altra cosa è tenere conto del malcontento espresso da numerose categorie, saper ascoltare le loro ragioni. Un processo di piazza con tanto di contestazioni formali e poi l’aggressione. Hanno "arrestato" l’ex deputato del centrodestra Osvaldo Napoli, ma chiunque fosse passato per quella stradina al centro di Roma andava bene. Perché l’obiettivo degli attivisti del movimento "9 dicembre forconi" era un qualsiasi esponente politico, un rappresentante delle istituzioni contro il quale sfogare una rabbia cieca. Ingiustificata perché espressa gridando frasi sconnesse e comportandosi in stile squadrista. È un episodio sconcertante, ma soprattutto molto allarmante quello accaduto ieri davanti a Montecitorio. Perché mostra quanto alto sia ormai il livello di prepotenza e intolleranza nei confronti di chi guida questo Paese, sia esso ministro o parlamentare. Finora questo clima violento aveva trovato sfogo sui social network. Ieri per la prima volta - dopo tanto tempo - si è passati dalle parole ai fatti. Inizialmente sembrava quasi uno scherzo, una goliardata, tanto che i carabinieri presenti hanno assistito alla scena senza intervenire. Gli stessi manifestanti - scesi in piazza senza autorizzazione - ridevano mentre recitavano i capi di accusa. Ma appena un minuto dopo si è capito quali fossero le vere intenzioni del gruppo visto che si sono scagliati contro Napoli e hanno opposto resistenza agli stessi carabinieri. Nessun segnale deve essere sottovalutato. È indispensabile punire chi va oltre le regole e soprattutto viola il codice penale. Altra cosa è tenere conto del malcontento espresso da numerose categorie, saper ascoltare le loro ragioni, impegnarsi per cercare soluzioni. In un momento delicato come quello attuale, c’è bisogno che i politici diano prova di coerenza e serietà per evitare che la protesta monti fino a travolgere proprio le istituzioni. Soltanto così si potranno isolare i violenti. Sanzione disciplinare all’avvocato incompetente di Dario Ferrara Italia Oggi, 15 dicembre 2016 Tempi duri per l’avvocato incompetente. Scatta la sanzione disciplinare al legale che assume la difesa nella causa ma non ha la necessaria preparazione, al punto da articolare domande generiche e prove inammissibili. Ai fini della contestazione basta che sia chiara la condotta addebitata all’incolpato e il Consiglio dell’Ordine ben può procedere d’ufficio, al di là dell’esposto del cliente deluso. La cattiva esecuzione del mandato, poi, rileva in modo autonomo sul piano disciplinare indipendentemente da profili civilistici d’inadempimento e danno in pregiudizio dell’assistito. Lo stabiliscono le Sezioni unite civili della Cassazione con la sentenza 25633/16, pubblicata il 14 dicembre. Errori di diritto - Diventa definitiva la censura inflitta all’avvocato dopo che il giudice ha respinto il suo ricorso in favore dell’assistito. Al professionista si rivolge una lavoratrice che agisce in giudizio contro il datore. E la sanzione disciplinare scatta perché il legale non è diligente prima e durante la stesura del ricorso. "Confusa" la descrizione dei fatti negli atti introduttivi del giudizio. Ma soprattutto il ricorso contiene errori di diritto "ingiustificabili": si chiede ad esempio la reintegra della lavoratrice all’azienda che ha meno di quindici dipendenti. È peraltro il giudice a rilevare la superficialità con cui sono confezionati gli atti difensivi. Risulta evidente che all’incolpato viene addebitata l’inosservanza del dovere di diligenza: va dunque ritenuta sufficiente la contestazione rispetto ai comportamenti tenuti, che risultano collegati a concetti generalmente compresi dalla collettività, vale a dire l’inadeguatezza dell’avvocato rispetto al diritto del lavoro. Infine, anche se la firma dell’esposto all’Ordine fosse stata falsa il procedimento disciplinare resterebbe valido: si tratta di un innesco occasionale per l’esercizio dell’azione del Coa, non di una fonte di prova. E nel penale, ad esempio, sono spesso denunce anonime che portano all’apertura delle indagini. Sequestro legittimo solo se considera quanto già versato con la rateizzazione di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 15 dicembre 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 14 dicembre 2016 n. 52857. In presenza di un reato tributario il sequestro è legittimo, ma deve tenere conto dell’accordo sottoscritto dal contribuente con il Fisco per la restituzione rateizzata della somma dovuta. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 52857/2016. Nella vicenda finita sul tavolo della Corte, un contribuente al quale era stata emessa una misura cautelare reale per omessa presentazione della dichiarazione dei redditi per gli anni 2009-2011. In particolare il reato attribuito al cittadino riguardava la violazione dell’articolo 5 del Dlgs 74/2000. Il giudice del riesame, disattendendo le argomentazioni in base alle quali il gip aveva rigettato la richiesta di sequestro preventivo diretto avanzata dal pm, affermando l’assenza dei presupposti per emettere il provvedimento cautelare sia nella forma diretta (nei confronti della società) che nei confronti del legale rappresentante (nella forma per equivalente), riteneva sussistere le condizioni per il sequestro diretto sulla base dell’analisi dal pm sullo stato economico finanziario della società, peraltro operativa sul mercato oltre che attiva dal punto di vista economico. La posizione della Cassazione - I Supremi giudici hanno rivisto le modalità di calcolo delle somme oggetto di contestazione arrivando alle seguenti conclusioni. Per il biennio 2010/2011 l’importo oggetto della contestazione era inferiore alla soglia di punibilità per fatti commessi prima della conversione del Dl 138/11 nella legge 148/11 (e la punibilità per importi inferiori pari a 30mila euro) è stata introdotta per le condotte poste in essere dopo il 19 settembre 2011, epoca di entrata in vigore della menzionata legge di conversione. Rimaneva escluso dal conteggio solo il 2009. Ma per tale annualità il contribuente aveva presentato la richiesta di accertamento con adesione seguita dalla rateizzazione dell’intero debito fiscale per quell’anno, parzialmente pagato nella misura di 67mila euro. A tal proposito la Corte ha richiamato alcuni precedenti secondo cui il raggiungimento di un accordo tra contribuente e amministrazione finanziaria per la rateizzazione non esplica i suoi effetti soltanto in ambito tributario-amministrativo, ma anche in ambito penale l’effetto solutorio parziale che si verifica nelle ipotesi di versamento non integrale del dovuto attraverso il piano di rateizzazione implica una corrispondente proporzionale riduzione del debito cui deve corrispondere la riduzione del sequestro per l’importo sino a quel momento. È stato così precisato che in evenienze siffatte il mantenimento del sequestro preventivo in vista della confisca nel suo quantum iniziale nonostante il pagamento seppur parziale del debito erariale "darebbe luogo a una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto con il principio che l’espropriazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al profitto derivato". Conclusioni - Logica conclusione è che in riferimento al sequestro operato nell’intero per l’anno 2009, questo avrebbe dovuto quanto meno essere ridotto proporzionalmente all’importo già versato attraverso la rateizzazione. Annullata dunque l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Forcolandia di Massimo Gramellini La Stampa, 15 dicembre 2016 La situazione è grave ma non seria, disse una volta e per sempre Flaiano. Ieri un gruppo di figuri in precario equilibrio sulla grammatica - qualificatisi come emissari di quel movimento dei Forconi il cui capo girava in Jaguar - ha circondato l’ex deputato Osvaldo Napoli in uno dei vicoli che costeggiano il Parlamento per leggergli un mandato d’arresto infarcito di articoli del codice penale. Napoli è uomo mite e gentile. Poiché la zona adiacente alla Camera è da tempo un set a cielo aperto dove scorrazzano jene e gabibbi, ha stropicciato la faccia nel sorriso di chi sa di doversi sottoporre a una goliardata e non vuole passare per privo di spirito. Ma all’improvviso la scena è cambiata. I figuri lo hanno afferrato per le braccia e il loro portavoce ha invocato l’intervento di una camionetta parcheggiata nei paraggi, strillando: "Maresciallo, lo arresti!". Che l’Italia sia l’unico luogo al mondo dove i sovversivi pretendono di fare la rivoluzione d’accordo con i carabinieri era già stata un’intuizione di Montanelli. Nel parapiglia, mentre si cercava di capire chi dovesse arrestare chi, Napoli è riuscito a svignarsela. La situazione rimane poco seria, ma diventa sempre più grave. Con vena profetica, sul "Foglio" di due anni fa Mario Sechi preconizzava l’evento di ieri, analizzando le condizioni sociali ed economiche che, come negli Anni Venti del secolo scorso, stanno di nuovo trasformando l’Italia nella culla delle rivolte di un popolo cupamente arrabbiato e facilmente manipolabile dagli avventurieri bramosi di farsi regime. Forcolandia. La differenza rispetto al passato è che stavolta sappiamo. Perciò non avremo scuse. Giustizia, Rai e tivù: chi ha fatto poco e chi troppo di Paolo Pillitteri L’Opinione, 15 dicembre 2016 La giustizia da noi viaggia su accelerati e direttissimi, a seconda delle situazioni e cioè dei protagonisti: giudici, politici o cittadini che siano. Meno male che i Radicali hanno promosso un "Pannella Day" a Cremona, e lo diciamo con quel senso di malattia incurabile che è la malinconia. Malattia che non ci toccava ai tempi di Marco Pannella anche, e soprattutto, perché la giustizia - sullo sfondo del terribile caso di Enzo Tortora - aveva trovato nei Radicali, ma non solo, penso ai socialisti e ai garantisti sparsi qua e là, un argomento principe, una montagna da scalare, una battaglia nobile che partiva dal basso dei carcerati fino all’alto degli eccellenti. Una battaglia riformista a tutto tondo che imponeva una riforma da fare presto e bene. Figuriamoci. Nessuna riforma o suo tentativo non è, almeno fino ad ora, stato compiuto "comme il faut", giacché qualsiasi riforma o riformetta, da Silvio Berlusconi ad Andrea Orlando, è stata timidamente accennata, scalfita ma mai del tutto risolta. Pannella Day, "et pour cause", nel tempo nel quale si osservano le retate pressoché quotidiane con arresti eccellenti, il caso di Vincenzo De Luca, nientepopodimeno che presidente della Campania indagato per voto di scambio; l’ex sindaca di Genova condannata a cinque anni e al sequestro dei beni; le dimissioni dell’assessore Paola Muraro della Giunta Raggi con ben "cinque avvisi di garanzia cinque" con tanto di telefonata impositiva (dicono) di Beppe Grillo alla sindaca, come se ce ne fosse stato bisogno, salvo che per un aspetto diciamo mediatico-pubblicitario e pro domo sua. E vabbè. Pannella day, ancora, e non a caso, proprio nel giorno ad hoc. Il giorno della conferma di Orlando a Guardasigilli, in lui e nell’opera svolta in questi mille giorni con Matteo Renzi è emblematizzato l’immortale detto del "chi ha fatto poco e chi ha fatto troppo"; poco, troppo poco, ancorché volonterosamente, ha realizzato Orlando viaggiando, per l’appunto, come un treno accelerato o un trattore guasto se è vero, come è vero, che il fieno da lui portato in cascina è ben poca cosa rispetto al fienile della giustizia che attende ben altro da oltre vent’anni. Nel rapporto politica-giustizia sembrano ancora risuonare le parole di Mauro Mellini, che già nel 1994 ammoniva severamente a proposito dello squilibrio fra giustizia e classe politica denunciando "il peso della magistratura, la sua tendenza a costituirsi in partito e interlocutore di Governo, Parlamento, corpo elettorale, e il suo sconfinamento in funzioni costituzionali e in operazioni politiche che sono la contraddizione del suo ruolo corretto e non danno certezza d’incremento e di speranza per garanzie, diritto e legalità". Parole sante, ancorché inascoltate. Ha fatto troppo poco il ministro Orlando, ma potrebbe anche fare di più e meglio con Paolo Gentiloni, anche se un certo scetticismo è d’obbligo. In compenso c’è chi ha fatto troppo, appunto. Ed è il Renzi allora Premier. Fatto troppo per la giustizia? Macché! No, per la Rai e in genere per la tivù. L’ossessione referendaria renziana per i mezzi di comunicazione si è sfogata nel medium televisivo con un incalzare sistematico, onnipresente e onnivoro. Adesso basta, pensavamo noi, e invece lui procedeva indefesso dalle luci dell’alba fino a notte inoltrata visitando il visitabile fra talk-show, telegiornali, spettacolini ad hoc, dibattiti e/o soliloqui tribunizi da cui si sono salvati i vari "Master Chef", ma per caso. Un treno direttissimo, superveloce, altro che freccia del Sud. Ha fatto troppo e ha perso, il buon Matteo, anche in Rai, servizio pubblico, e l’accusa di avere "copiato" il Cavaliere d’antan, dotato di Governo e di tivù regge fino ad un certo punto, anche perché Mediaset era, è e sarà (noi non tifiamo per Vincent Bolloré) di sua proprietà. La Rai invece no, non è di proprietà privata, tanto meno di un Premier. Adesso, via Renzi, quel suo uso e abuso del servizio pubblico radiotelevisivo ripropone, a cominciare dalla minoranza del suo Partito Democratico, una ricomposizione, se non dimissione, dei vertici amici suoi, con una generale e più che giustificata richiesta di maggiore trasparenza. E forse anche la richiesta di un Tg2, se non addirittura di una rete, a Milano non appare così stravagante, tanto più che da almeno trent’anni i socialisti, da Claudio Martelli in poi, hanno proposto esattamente la stessa cosa. Milano è il nord che produce, Milano è la metropoli dell’innovazione, è una sorta di Città-Stato culla del "made in Italy" e della tivù berlusconiana, capitale dell’editoria, con alle spalle un’Expo straordinaria, anche e soprattutto negli effetti indotti. E mi fermo qui, altrimenti il direttore mi fulmina. Taranto: 8 medici indagati per la morte in carcere di Antonio Fiordiso di Marilù Mastrogiovanni Il Manifesto, 15 dicembre 2016 Antonio Fiordiso, 32 anni, è morto in carcere un anno fa, l’8 dicembre 2015. Rigettando la richiesta di archiviazione della procura, il gip chiede di effettuare ulteriori indagini sulla sua morte. Sono otto gli iscritti al registro degli indagati per la morte di Antonio Fiordiso, morto in carcere un anno fa, l’8 dicembre 2015. Sono i medici che erano di guardia presso l’ospedale di Taranto quella maledetta notte in cui Antonio morì, ridotto ad un fantasma, immerso nelle sue feci: A. S., 34 anni di Lizzano; A. M., 43 anni di Terlizzi (Ba); N. M., 50 anni di Taranto; F. S., 39 anni di Conversano; O. B., 36 anni di Pulsano; B. P. 38 anni di Locorotondo; e gli psichiatri O. N. 47 anni di Noci e M. M., 34 anni di Lizzano, tutti indagati per avere, per ragioni in corso di accertamento, causato per negligenza, imperizia e imprudenza e con violazione delle leges artis, la morte di Antonio Fiordiso. La sostituta procuratrice della Repubblica Maria Grazia Anastasia ha anche disposto "accertamenti tecnici irripetibili", come aveva richiesto il giudice delle indagini preliminari Pompeo Carriere, accogliendo la richiesta di Oriana Fiordiso, zia di Antonio e sua unica parente. La Procura ha nominato i consulenti Alberto Tortorella, medico legale e Salvatore Silvio Colonna, anestesista rianimatore. Per Paolo Vinci, avvocato della zia di Antonio, tra i maggiori esperti italiani di malasanità, è una "bella pagina della Giustizia coniugata con la Verità, la cui ricerca deve essere sempre perseguita e mai sottesa". Infatti il pm Lelio Festa, chiedendo l’archiviazione aveva rilevato una "insussistenza di profili di responsabilità penale" nella condotta del personale sanitario e della sorveglianza coinvolti. Invece il gip ha disposto la prosecuzione delle indagini, perché il pm "avrebbe dovuto disporre la riesumazione della salma e un esame autoptico urgente", come aveva chiesto, inascoltata, la zia nella sua denuncia all’indomani della morte del nipote. Nel caso poi che l’autopsia sia impraticabile, si procederà ad una perizia medico-legale "di scienza" che accerti le cause della morte. Il gip inoltre, rigettando la richiesta di archiviazione del pm, ha disposto che vengano sentiti i detenuti, il personale penitenziario e il personale dell’ospedale SS. Annunziata e Moscati di Taranto, dove fu ricoverato Antonio, ormai quasi incosciente, disidratato e denutrito. Antonio Fiordiso aveva 32 anni, una vita ai margini, abbandonato dalla madre e con il padre che, con problemi psichiatrici ed entrando e uscendo per piccoli reati dal carcere, aveva condannato il figlio alla stessa vita. Antonio aveva sempre goduto di ottima salute, arrestato per piccoli furti, non aveva mai fatto uso di droghe pesanti. Poi la situazione nel carcere di Lecce precipita e in tre mesi Antonio, prima trasferito ad Asti, comincia ad essere spostato in altri istituti di detenzione e ospedali. La zia, quando lo rivede dopo tre mesi in cui nessuno le aveva comunicato, nonostante numerose richieste, dove lo stessero trasferendo, si ritrova davanti ad un simulacro d’uomo. Ha la prontezza di spirito di filmarlo e fotografarlo. Antonio è semi-incosciente: denutrito, contratto, con vistosi ematomi lunghi e stretti sui fianchi, escoriazioni. Alle interrogazioni dei deputati Elisa Mariano e Salvatore Capone (Pd), il Ministro della Giustizia risponde ricostruendo gli ultimi mesi di vita. Così si apprende che Antonio era stato picchiato in carcere da alcuni detenuti di origine rumena. Tre mesi dopo morirà, ridotto così: "Stato settico in paziente con polmonite a focolai multipli bilaterali. Diabete tipo 2. Grave insufficienza renale. Tetraparesi spastica", versava in uno stato di "progressiva astenia, con tremori, ipoalimentazione e progressiva chiusura relazionale". Non si conoscono le cause della sua fine disumana, ma l’iscrizione nel registro degli indagati dei medici di guardia e degli psichiatri, è l’inizio di una pagina della Giustizia tutta da scrivere. Padova: Università in carcere, chance per 180 detenuti di Silvia Quaranta Il Mattino di Padova, 15 dicembre 2016 Ieri sono stati illustrati i dati e le tappe della collaborazione tra Bo e Due Palazzi. Francesca Vianello, delegata del rettore: "Nell’ultimo anno più di 30 laureati". Più di trenta dottori, una cinquantina di iscritti ed un progetto che dura ormai da tredici anni: il polo universitario della casa di reclusione di Padova, nato nel 2003, rappresenta ad oggi un progetto d’eccellenza, tanto per l’ateneo quanto per il carcere Due Palazzi. Ieri, al Bo, sono stati illustrati dati e tappe di questa collaborazione, che ad oggi ha portato all’iscrizione di circa 180 detenuti. Non tutti, poi, arrivano alla conclusione degli studi: alcuni danno solo pochi esami, altri si impegnano con costanza e fino alla fine. Ciro Ferrara, un caso esemplare, è entrato semi-analfabeta e sta per raggiungere la laurea magistrale in Filosofia. Elton Kalica, entrato 21enne, si è laureato in Scienze Politiche per poi iscriversi, una volta fuori, anche al dottorato, che sta per concludere. Donato Bilancia, condannato a scontare tredici ergastoli, si è diplomato la scorsa estate in ragioneria ed ora si è iscritto alla facoltà di Lettere. "Il nostro compito" commenta la professoressa Francesca Vianello, delegata del Rettore per il Progetto Università in carcere "è soprattutto quello di garantire un diritto, che è il diritto allo studio, e quindi di fare il possibile per rimuovere gli eventuali ostacoli che un detenuto può incontrare. Si tratta di un intervento di rete, a cui non collabora solo l’ateneo ma anche il carcere con tutto il suo personale, e noi abbiamo avuto la fortuna di incontrare persone molto sensibili al nostro progetto. Nell’ultimo anno abbiamo avuto trentuno laureati: alcuni di loro sono riusciti anche a trovare un reinserimento lavorativo, altri no, ma sicuramente l’esperienza di studio ha un valore rieducativo importante. Ci sono persone che hanno scontato una pena molto lunga e sono cambiate profondamente: in alcuni casi, vedendo l’impegno profuso e la maturazione dimostrata, credo che l’amministrazione dovrebbe valutare di dare una seconda possibilità". Ieri, dopo il convegno al Bo, è stata inaugurata anche la mostra "Vivere dentro", alle scuderie di palazzo Moroni. Il percorso, costruito assieme agli stessi detenuti, propone prodotti artigianali frutto dell’abilità e creatività artistica dei detenuti. In più è accompagnato da video, messaggi essenziali, immagini fotografiche, nonché la ricostruzione virtuale di un ambiente carcerario. La storia di Elton, uscito con un dottorato in Sociologia Elton Kalica è un ragazzo albanese, quasi dottore in Sociologia. È stato in carcere per quindici anni, per un sequestro di persona messo a segno insieme ad altri suoi connazionali. Aveva vent’anni ed ha sbagliato, ma in carcere ha scelto il percorso rieducativo arrivando a laurearsi in Scienze Politiche. Nel 2012 è uscito e ha deciso di continuare: ora sta finendo il dottorato, è diventato papà e si è rifatto una vita. "Quando sono uscito dal carcere" racconta "dovevo trovare una casa, un lavoro, ripartire da zero. Mi sentivo perso, perché la mia famiglia era lontana e io avevo passato gli ultimi quindici anni in un ambiente molto ristretto. La mia cerchia di conoscenze era limitata agli educatori, i professori ed altri detenuti. Una volta fuori non sapevo come muovermi, così ho pensato di tornare a fare quel che facevo in carcere: studiare. C’era un bando per il dottorato in Sociologia, ho tentato e sono entrato". Elton continua a collaborare con la rivista "Ristretti Orizzonti" ed è stato il curatore della mostra inaugurata ieri a palazzo Moroni, "Vivere dentro". "L’idea è arrivata un po’ per caso" spiega "volevamo fare qualcosa e il professor Giorgio Ronconi è andato a chiedere lo spazio: inaspettatamente il Comune l’ha concesso e si è posto il problema di come riempirlo. Non era facile raccontare il carcere: ci sono uomini che vivono in pochi metri quadri e spesso sono incattiviti, ci sono le persone che gestiscono la sicurezza, c’è la società civile che cerca di entrare in questo panorama di negoziazione di spazi e regalare ai detenuti momenti di umanità. Mi sono ispirato ad una mostra della Scuola di Medicina: per raccontare le ricerche avevano usato dei video, e così abbiamo fatto anche noi, alternando i lavori fatti dai carcerati a dei video girati da me". Nel frattempo Elton ha finito il dottorato: è in attesa della tesi e due settimane fa è nato il suo bambino: Dariel. Ciro: "In cella ho 300 libri, tutti in ordine. Ho scritto la tesi anche sulla carta igienica" Quando è arrivato sapeva a malapena leggere e scrivere. Oggi, trent’anni dopo, Ciro Ferrara sta per conseguire la laurea magistrale in Filosofia. La sua è una storia di rieducazione autentica, profonda, radicale. La condanna è arrivata quando aveva 21 anni e, come oggi, non prevedeva vie d’uscita: alle spalle, racconta chi lo conosce, ha un passato incredibile, fatto di errori commessi e ingiustizie subite. E di riscatto. I primi quarant’anni di vita li ha passati, diciamo, da illetterato. Poi qualcuno lo ha convinto a riprendere: aveva la quarta elementare e ha dovuto ripartire da zero. Grazie alla premura dei suoi insegnanti ha preso prima la quinta elementare, poi la licenza media, il diploma e la laurea. "Nella mia cella" ha raccontato in occasione della laurea triennale "ci sono 300 libri, tutti in ordine. La mia stanza la chiamo "la suite". Una suite, però, in assoluto isolamento e senza computer: "la tesi l’ho scritta a mano, 120 pagine. Scrivevo anche di notte, meditando con me stesso, e se finivano i quaderni scrivevo sulla carta igienica. Nel tempo ho consumato 400 penne". I libri e la fede, negli ultimi anni, sono stati le ancore di salvezza nel buio dell’isolamento: "non sono stato un santo, forse neanche un bravo cristiano. Ma sono molto religioso e credo nella spiritualità. Avrei voluto studiare Teologia, ma non era tra le facoltà che potevo scegliere. Mi hanno consigliato di iscrivermi a Filosofia, che per me è stata illuminante". La sua prima tesi parlava del tempo in Sant’Agostino. "Il tempo" aveva spiegato alla discussione "è qualcosa che non puoi misurare, se non con i mezzi che ne scandiscono la quotidianità. Il passato vive nei ricordi, il presente nell’attesa del futuro". Oggi Ciro guarda oltre il tempo immobile della pena: spera nella libertà, in apparenza lontana, ma teme anche quel mondo esterno "che non conosco più, e dove domina il mare dei pregiudizi". Foggia: chiede di andare in bagno ed evade dal tribunale, caccia a un 34enne di Maria Grazia Frisaldi La Repubblica, 15 dicembre 2016 Francesco Paolo Matrella è imputato in due procedimenti ed era in attesa di giudizio all’interno di una delle "cellette" del palazzo. La denuncia del Cosp: scorte in condizioni ai limiti della sicurezza. In attesa di giudizio, riesce ad evadere e a fuggire dalle "cellette" del Tribunale di Foggia. È quanto accaduto nel palazzo di giustizia foggiano, dove Francesco Paolo Matrella, un 34enne di Cerignola imputato in due diversi procedimenti è riuscito a evadere dal Tribunale e a dileguarsi. Attivate tutte le misure necessarie a rintracciare il 34enne, che risulta tuttora ricercato. La dinamica dell’evasione è ancora da ricostruire e sulla vicenda vige il più stretto riserbo. A rompere il silenzio sull’accaduto è Domenico Mastrulli del Cosp, il coordinamento sindacale penitenziario, impegnato in una riunione al carcere di Foggia. Secondo la versione diffusa dal Cosp pare che il 34enne abbia chiesto ed ottenuto di andare in bagno, salvo poi far perdere le sue tracce. Forte la denuncia di Mastrulli: "Continuiamo a denunciare le gravi condizioni di precarietà in cui sono costretti a lavorare gli agenti della polizia penitenziaria", spiega. "Le scorte viaggiano in condizioni ormai ai limiti della sicurezza. La carenza di personale non permette di garantire il rapporto di 3/1 (ovvero tre agenti per detenuto) richiesto. Nel caso specifico, ad esempio, erano presenti in Tribunale otto detenuti, ma solo sei unità della polizia penitenziaria, compreso l’autista. Il comparto della polizia penitenziaria soffre della carenza di 10mila unità, di cui 400 nella regione Puglia e 80 nel Foggiano. Chiediamo al governo di intervenire e di farsi carico di tale grave problematica". Gli agenti della polizia penitenziaria e di altri corpi hanno avviato le ricerche dell’evaso. Milano: l’iniziativa di Arcigay "basta discriminazioni nelle carceri milanesi" di Franco Vanni La Repubblica, 15 dicembre 2016 Un programma di formazione rivolto al personale che gestisce le carceri, per introdurre nei penitenziari il criterio di non discriminazione per le persone omosessuali. A proporlo è Arcigay, che martedì prossimo voterà un progetto da sottoporre all’attenzione degli enti pubblici e degli organi di amministrazione carceraria. "Oggi il carcere è uno degli ambiti in cui è maggiormente necessaria la promozione di una cultura di rispetto e uguaglianza nei diritti - dice Fabio Pellegatta, presidente milanese di Arcigay. Il nostro obiettivo è coinvolgere i decisori pubblici e tutte le strutture detentive del distretto". Vale a dire il carcere di Opera, quello di Bollate e soprattutto San Vittore, dove viene portata la maggior parte degli arrestati dopo la convalida da parte di un giudice. E dove quindi il turn over fra i detenuti è maggiore. Lucia Castellano, dirigente generale del dipartimento Giustizia minorile e comunità del ministero della Giustizia, commenta: "L’iniziativa di Arcigay è giusta e necessaria. I detenuti con tendenze omosessuali acclarate troppo spesso vengono separati dagli altri, allo scopo di proteggerli. Ma non è una soluzione accettabile". Negli anni, Castellano si è sempre opposta al criterio di protezione, che finisce per ghettizzare alcune categorie di detenuti. Tanto che nel carcere di Bollate, che ha diretto dal 2002 al 2011, non era prevista alcuna sezione speciale per autori di reati sessuali o per persone transessuali. Un’impostazione sopravvissuta al cambio di gestione del carcere, quando Castellato è stata chiamata a ricoprire incarichi a livello nazionale. "Più in generale, al di là della discriminazione, un tema di civiltà è il diritto all’affettività - dice Castellano. In Italia è vietato ogni contatto sessuale fra il detenuto o la detenuta e i compagni all’esterno del carcere. Un limite che in altri Paesi, fra cui la Spagna, si è superato". Novara: case popolari, scantinati ripuliti da rifiuti, rottami e auto abbandonate novaratoday.it, 15 dicembre 2016 Intervento dei detenuti del carcere di Novara, che hanno ripulito l’area di via Bonola, che versava in condizioni disastrose. Case popolari, scantinati ripuliti da rifiuti, rottami e auto abbandonate. La situazione in cui versavano lo scantinato e i garage sotterranei delle case popolari di via Bonola, a sant’Agabio, era di degrado assoluto. Rifiuti, mobili, elettrodomestici, materassi, rottami indistinguibili e, addirittura, delle auto distrutte abbandonate e telai di motorini risultati rubati. A risolvere la situazione, che si protrae da anni, sono stati i detenuti della casa circondariale di Novara che, usciti in permesso premio, hanno lavorato sotto il coordinamento di Assa. Sono stati rimossi un grosso quantitativo di ingombranti, numerose gomme auto e parti di demolizioni dei veicoli: filtri, paraurti, olio motore. Non sono stati rimossi i telai delle auto, in quanto non targati e non assicurati, ma è stata avviata la procedura da parte degli agenti della polizia penitenziaria che accompagnavano i detenuti. "Ho voluto controllare di persona lo svolgimento delle operazioni e ho riscontrato una situazione indecente, uno stato di degrado assoluto - ha detto il sindaco Alessandro Canelli - Il prossimo passo da parte nostra sarà quello dello sgombero delle tre unità abitative abusivamente occupate". Verona: Di Montigny presenta in carcere il suo ultimo libro "Il tempo dei Nuovi Eroi" Ristretti Orizzonti, 15 dicembre 2016 "Vi invito a pensare di essere un modello per gli altri". Un sorprendente messaggio fra i tanti seminati tra i detenuti del carcere di Montorio (Verona). Un pubblico attento come non mai, un silenzio di ascolto attivo quello di martedì 13 dicembre, con Oscar Di Montigny a risvegliare gli animi, nel senso positivo. Non si sono sottratti alle sollecitazioni, anche ruvide nella schiettezza di parlarsi cuore a cuore, pari a pari. Senza mascheramenti. Dunque modelli, capaci di porsi come educatori del mondo. Sembrerebbe una follia. E invece ci sta. Lo dimostrano nel corso degli anni le persone che, detenute perché responsabili, sanno rileggere la loro storia di vita e riescono a trasformarla in valore, in esperienza utile ai ragazzi, per esempio. Usare la propria storia come strumento di educazione. Dunque noi lo sappiamo che non sono discorsi strampalati ma accessibili conquiste in chi si avventura con passione, nel suo almeno duplice significato, nella scoperta di sé, rendendosi liberi attraverso la responsabilità. Accendendosi di entusiasmo, rianimati da grandi valori. MicroCosmo dunque si illumina nella condivisione di questa filosofia, riconosce in Oscar Di Montigny un linguaggio comune e vi si alimenta. La presentazione del suo ultimo libro, "Il tempo dei Nuovi Eroi", che ha donato individualmente a tutti i presenti, circa una sessantina di persone tra detenuti uomini e donne, italiani e migranti, studenti delle scuole in carcere, del Cpia e dell’Istituto Alberghiero "Berti", oltre al Gruppo del Laboratorio MicroCosmo, attivo anche nel supportare tecnicamente l’incontro, è stata occasione per lanciare un appuntamento. Ritrovarsi fra poco più di un mese per riprendere il dialogo. E chissà... ci sentiremo con l’anno nuovo. Intanto siamo grati a tutti... In primis ad Oscar e al suo staff, per questa meravigliosa condivisione. E poi a chi da sempre e con passione sostiene iniziative volte alla crescita personale delle persone detenute: la dott.ssa Maria Grazia Bregoli, Direttore della Casa Circondariale di Verona, con tutti i suoi collaboratori, la dott.ssa Angela Venezia, Direttore dell’Ufficio Detenuti e Trattamento del Prap (Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria per il Triveneto), la dott.ssa Margherita Forestan, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale per il Comune di Verona. Erica, per MicroCosmo Venezia: il patriarca Moraglia in carcere tra i detenuti, nel ricordo di Raffaele Levorato di Daniela Ghio Il Gazzettino, 15 dicembre 2016 "Raffaele è sempre qui con noi con le sue battute scherzose". All’incontro natalizio al carcere di Santa Maria Maggiore con il patriarca Francesco Moraglia i detenuti e il cappellano don Antonio Biancotto hanno voluto ricordare in maniera particolare la figura di Raffaele Levorato, storico fondatore della cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri. "Con la sua testardaggine è riuscito a far entrare i suoi volontari nel carcere, per aiutare tanti ospiti - ha sottolineato don Biancotto - creando numerose attività, e la loro opera continua anche dopo la scomparsa del fondatore". I detenuti della cooperativa hanno donato al patriarca un libro con la copertina in cuoio e una borsa portadocumenti, Moraglia ha regalato a ognuno di loro il libro di don Biancotto "Le sbarre, esperienza di libertà", pubblicato grazie alla Scuola grande di San Rocco. "Sono storie di vita vere - ha detto Moraglia - che possono aiutarvi a tirar fuori quel cammino di speranza e di fiducia di gesti concreti. Da quella prima messa che ho celebrato qui, quasi appena arrivato a Venezia, abbiamo fatto tanta strada insieme. La Chiesa deve essere dove vivono le persone, incontravi nella verità è importante. Guardatevi con simpatia: le grandi strade iniziano muovendo i primi passi". Dopo un breve ricordo del cappellano don Gastone Barecchia, alcuni detenuti hanno portato la loro testimonianza sul giubileo, raccontando le proprie esperienze. Modena: delegazione del consiglio comunale in visita al carcere di Sant’Anna modena2000.it, 15 dicembre 2016 Una delegazione del consiglio comunale di Modena, guidata dalla presidente Francesca Maletti, ha visitato oggi, mercoledì 14 dicembre, il carcere di Sant’Anna con l’obiettivo di constatare direttamente le condizioni di utilizzo della struttura e la situazione dei detenuti, rispetto ai numeri, alle attività che svolgono e ai problemi che devono affrontare. Accolti dalla direttrice, dottoressa Rosa Alba Casella, i consiglieri hanno incontrato in un primo momento il comandante della Polizia penitenziaria Mauro Pellegrino e le responsabili degli uffici. Un secondo momento di incontro è stato con un gruppo di detenuti del reparto "Ulisse", dove si sperimenta una modalità di reclusione nuova, con maggiore libertà e condivisione, per coloro che si avvicinano a fine pena. Dopo questa prima visita, richiesta dal Consiglio comunale anche alla luce delle tensioni dei mesi scorsi, il percorso proseguirà con l’obiettivo, come ha sottolineato la presidente Maletti, "di una maggior conoscenza dei problemi che si vivono all’interno del carcere". Della delegazione dei consiglieri comunali facevano parte Marco Bortolotti, Marco Chincarini, Diego Lenzini, Marco Malferrari, Fabio Poggi, Vincenzo Walter Stella, Grazia Baracchi, Antonio Montanini, Andrea Galli e Francesco Rocco. Siena: "Ricordo, sogno e libertà", mostra di pittura con 40 dipinti realizzati dai detenuti radiovaticana.va, 15 dicembre 2016 Fino al 18 dicembre i detenuti delle carceri di Siena e San Gimignano diventeranno artisti grazie alla mostra di pittura "Ricordo, sogno e libertà". 40 dipinti realizzati dai detenuti, insieme alle associazioni di volontariato durante tutto l’anno, all’interno delle case circondariali. Fa parte del festival "Siena città aperta", un festival nato proprio per abbattere barriere e pregiudizi. Sergio La Montagna, direttore della casa circondariale Santo Spirito di Siena, al microfono di Maria Cristina Montagnaro spiega l’iniziativa. R. - Attraverso questi quadri, i detenuti intendono, in qualche modo, esprimere i propri sentimenti e soprattutto proporsi, affermarsi, creare una forma di comunicazione con l’esterno, con la società. D. - Chi ha preso parte all’iniziativa? R. - I detenuti che partecipano al laboratorio di pittura e ceramica, che è gestito dai volontari della Croce Rossa Italiana-Sezione di Siena. D. - Com’è il mondo attraverso le sbarre? R. - È sicuramente un mondo fatto di disagio e di sofferenza, ma anche di tanta umanità, di sentimenti che poche volte escono alla scoperto. Iniziative come questa - e come altre che si svolgono all’interno della casa circondariale - servono proprio a far conoscere alla realtà esterna una dimensione che è a più sconosciuta. Questa mostra, che sarà in esposizione fino al 18 dicembre, è il frutto del lavoro quotidiano e costante che viene condotto dai volontari della Croce Rossa Italiana. L’art. 27 della Costituzione afferma che le pene debbono tendere alla rieducazione: un compito, questo, che non è soltanto appannaggio degli operatori penitenziari, ma anche della comunità e della collettività intesa in senso lato, che deve partecipare a questa opera di rieducazione. In realtà il concetto di rieducazione si sposa con quello di socializzazione. È impensabile credere che lo Stato, che dà un precetto - quello, appunto, della rieducazione - poi si disinteressi dei destinatari di questo precetto, nel caso dei detenuti. È invece naturale pensare che ci sia una collaborazione da parte di tutti, perché l’obiettivo venga perseguito nel migliore dei modi. In questo senso a Siena siamo riusciti a fare rete - come si suole dire - e quindi a riuscire a stabilire un rapporto di intensa collaborazione con le istituzioni, con l’associazionismo, con gli enti privati e pubblici, ma anche con volontari privati e singoli cittadini che collaborano intensamente per la realizzazione di tutte le attività aventi finalità rieducative. D. - Come hanno reagito i detenuti, che sono diventati per una settimana artisti? R. - Non sono diventati artisti per una settimana: in realtà lo sono tutto l’anno, perché il laboratorio di pittura e ceramica è attivo nell’arco di tutto l’anno. D. - C’è anche uno spettacolo teatrale dal titolo "Ho sognato un mondo nuovo". Di cosa si tratta? R. - Questo spettacolo, come tutti gli spettacoli teatrali, è realizzato dagli stessi detenuti che interpretano un testo da loro stessi scritto: quindi non si muovono su un copione già scritto, ma in questo caso - così come nei precedenti casi - raccontano se stessi. Anche nel caso del laboratorio teatrale, questa iniziativa non ha carattere estemporaneo, ma è frutto di un lavoro che va avanti da anni e che anche in passato ha prodotto regolarmente degli spettacoli, sempre aperti al pubblico. Como: inaugurata la mostra "Sperart", 200 opere realizzate dai detenuti del Bassone comolive.it, 15 dicembre 2016 L’esposizione ospiterà fino al 14 gennaio nella hall del presidio 3 grandi drappi, un’installazione aerea e, collocate sulla parete con pannelli in legno, oltre 200 opere realizzate dai detenuti che hanno lavorato al fianco di Angiola Tremonti nel laboratorio "Sperart" del Carcere Bassone di Como. Allestimento di Luisangelo Cozza. Colore, cultura, bellezza e desiderio di riscatto oltre le sbarre. È stata inaugurata stamattina all’ospedale Sant’Anna di San Fermo della Battaglia la mostra "Sperart" che ospita più di 200 opere realizzate dai detenuti del Carcere del Bassone di Como affiancati dall’artista comasca Angiola Tremonti, che da quattro anni tiene vivo un corso "Sperart" (Arte della speranza). L’esposizione, visitabile fino al 14 gennaio, è stata allestita da Luisangelo Cozza, artista dello spazio, e propone anche l’installazione "L’abito non fa il monaco, immaginiamoci una camicia" e tre pannelli intitolati, rispettivamente, Amore, Perdono e Misericordia. I testi a corredo sono a cura della critica d’arte Elisabetta Mossinelli, presente oggi insieme all’artista, alla direttrice della Casa Circondariale Carla Santandrea, all’assessore alla Cultura del Comune di Como Luigi Cavadini e al direttore delle Attività Cliniche del Territorio dell’Asst Lariana Giuseppe Carrano. "Viviamo in un’epoca in cui si conta solo se si è visibili - sottolinea l’artista Angiola Tremonti presentando l’iniziativa -. Se si è soggetti forti o contrassegnati dall’appartenenza: al colore della pelle, a una religione, a un partito, a un giornale... Il rispetto si gioca solo qui, in questa apertura di poteri, logiche di scambio, circuiti economico-finanziari, cerchie simil culturali, in cui ognuno deve essere visibile, controllabile; in cui il pudore, riserva sacra dell’anima, viene scambiato con la timidezza, una virtù per deboli o donnicciole. Ebbene, l’arte spazza via tutto questo, rompe l’ipocrisia domiciliata presso i potentati, sa dialogare con pazienza con ogni uomo aperto al bello, alla verità della misericordia, come invoca Papa Francesco, alla fragilità che abita l’umano. E, allora, eccomi qua, con un frammento di bellezza, una creazione forse sgualcita, ma carica di vita, nel segno della donazione infinita". L’iniziativa è il risultato di una collaborazione tra l’Azienda socio sanitaria territoriale Lariana, che si occupa della sanità carceraria, e della Casa Circondariale di Como. "Angiola Tremonti - come evidenzia la direttrice dell’Istituto, Carla Santandrea, collabora da tempo con il Carcere di Como come volontaria in un percorso artistico denominato "Sperart" il cui obiettivo è non solo insegnare l’arte, ma anche donare serenità. Le creazioni spaziano dall’uso della tempera all’uso di materiali di riciclo e vengono realizzate da un gruppo di detenuti multietnici che esprimono così all’unanimità, attraverso vari segni di identità, la possibilità che l’arte diventi comunicazione. L’esposizione all’interno della struttura ospedaliera Sant’Anna, oltre a sancire una collaborazione tra Enti, acquista un valore aggiunto perché mette in comunicazione luoghi simili all’interno dei quali le persone esprimono la loro fragilità, la forza e il bisogno di sostegno da parte degli operatori". Il 17 dicembre, alle ore 18.30, è previsto un incontro con l’artista aperto a pazienti, familiari, operatori, artisti, appassionati d’arte animato dall’installazione vivente "Arte Libera dietro le sbarre" con Ermanno Stea. L’ingresso alla mostra, all’inaugurazione e all’incontro con l’artista è libero. Milano: i detenuti fanno i "Camerieri", a Bollate la performance gastronomico-scenica La Repubblica, 15 dicembre 2016 Per chi non lo sapesse, dentro il carcere di Bollate dall’anno scorso c’è un ottimo ristorante, aperto a pranzo e a cena. Si chiama InGalera, lo guida lo chef Ivano Manzo e lo mandano avanti detenuti che hanno imparato a servire in sala e aiutare in cucina. Oggi e domani cultura del cibo, del teatro e del reinserimento sociale si incrociano per la "cena galeotta" proposta da "Camerieri della vita", performance gastronomico-scenica a cura della regista Michelina Capato, da anni attiva a Bollate con la Cooperativa E.S.T.I.A. Dall’aperitivo al dolce, gli attori (detenuti e non) offrono musica, canzoni, frammenti poetici e stralunate incursioni come in un cabaret d’antan. Una sarabanda stravagante che accompagna ogni portata mescolando le storie di chi sta dentro e chi sta fuori. Costo della serata 50 euro, sicuramente ben spesi. Carcere di Bollate, via Cristina Belgioioso 120, oggi e domani (ingresso 19.30-20), pren. obbl. cooperativaestia.org. Avellino: "Non me la racconti giusta": la street art senza barriere tra le mura carcerarie di Nicola Perilli La Repubblica, 15 dicembre 2016 L’arte non ha barriere e il progetto "Non me la racconti giusta" lo dimostra. L’idea è semplice: portare la street art all’interno delle mura carcerarie. Un lavoro di arte pubblica nato dalla collaborazione del Collettivo Fx e Nemòs, il magazine di arte e cultura contemporanea Ziguline e Antonio Sena, fotografo e videomaker, autore di questo video. "Uno dei paradossi del carcere è che i detenuti vivono quotidianamente una realtà che non gli appartiene e che non li rispecchia. La realizzazione di un’opera d’arte ideata e concretizzata attraverso il loro lavoro rappresenta qualcosa che possono sentire proprio. Per ogni tappa un gruppo di detenuti viene coinvolto nella realizzazione di un murale all’interno del carcere dove l’ideazione e la progettazione dell’opera non vengono imposte dai coordinatori ma generate dal confronto tra gli stessi detenuti", raccontano gli ideatori. Al momento a essere colorati sono stati i muri della Casa circondariale di Ariano Irpino e della la Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi. Benevento: il Pastore Evangelico Cesare Turco al fianco dei detenuti ottopagine.it, 15 dicembre 2016 Scontare la pena con il conforto della fede, nell’ottica della riabilitazione per il reinserimento nella società, è quello che fa quasi tutti i giorni la Chiesa con il Pastore Evangelico Cesare Turco e i suoi collaboratori nelle carceri. Celebrato il primo culto nel carcere di Benevento, in due riunioni tenutesi davanti a decine di detenuti e agenti penitenziari dell’alta sicurezza rinchiusi in vari reparti del carcere. Alcuni detenuti provenienti dal carcere di Santa Maria Capua Vetere e trasferiti in quello beneventano, hanno testimoniato come il Vangelo abbia cambiato la loro vita e come quest’esperienza a reso sopportabile la propria detenzione creando serenità nel loro cuore e in quello delle loro famiglie. Durante il corso della riunione, il pastore Turco predicando il messaggio biblico, ha risaltando l’importanza di Cristo nel cuore dell’uomo, che a cambia pensieri sentimenti e comportamenti di quanti glielo permettono. La direzione del carcere Beneventano è molto aperta alle innovazioni progettuale che hanno il fine di contribuire esclusivamente al reinserimento del detenuto nella società civile. Il Pastore Cesare Turco ribadisce che, chi ha commesso un crimine è condannato a scontare la propria pena con la privazione della libertà, e non la perdita della dignità. Come essere umani, abbiamo il dovere di trovare il "proprio spazio" per esercitare la carità, il comandamento dell’Amore. Cristo dice: "Ero carcerato e sei venuto a visitarmi"(Mt.25,36), chiedendo così di essere incontrato nei carcerati, come in tante altre persone toccate dalle varie forme della sofferenza umana "ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me" (Mt. 25,40); "I carcerati sono una categoria di persone misconosciuta, incompresa, travolta dal proprio destino, che non ha portavoce perché suscita più scandalo che compassione. Eppure vuole riscattarsi e sporge le braccia dalle sbarre in richiesta di aiuto. Le sbarre sono legali, il compito della chiesa non è quello di infrangere, fare uscire, ma è quello di andare - gli altri - dietro le sbarre e annunciargli il messaggio biblico che nella sua globalità, se viene ricevuto nel cuore, produce sentimenti divini. Il pastore Turco considera i carcerati pecore che languono fra le spine, ed afferma con determinazione che, è lecito lasciare il resto del gregge, che non rischia allo stesso modo. Credo, afferma il pastore, che c’è un modo di sporgere le braccia da dietro le sbarre che è estraneo alla richiesta umile e consapevole, fa capo a una situazione oggettiva di miseria e abbrutimento. Essa è di per se sufficiente ad attrarre la simpatia e l’intervento degli altri, perché rappresenta una detrazione della dignità umana e reclama una compensazione. La consapevolezza del carcere, l’impegno per il carcere è più che mai una testimonianza cristiana e merita il suo spazio di carità." "Tortura" di Donatella Di Cesare. L’esperienza della morte in vita di Mauro Palma Il Manifesto, 15 dicembre 2016 "Tortura" di Donatella Di Cesare, per Bollati Boringhieri. Quando il dominio sul corpo del nemico si fa simbolo dell’esercizio del potere. Pronunciare la parola indicibile è già operazione di chiarezza. Invita a indagarne il significato, a vedere se o meno corrisponda a situazioni, pratiche, fatti che conosciamo, che sappiamo esistere; li rende presenti con tutti gli interrogativi che tale presenza determina. È quindi positivo che la parola "tortura" sia tornata a essere detta. Ma, seppure tolta dall’imbarazzo linguistico, non di meno la tortura continua a essere negata dagli apparati di potere che la praticano. Poiché "nessun regime neppure quello dittatoriale, ammetterà mai il ricorso alla tortura perché significherebbe ammettere la propria illegittimità". Sono le parole dello psicoanalista Miguel Benasayag, torturato durante la dittatura del generale Videla in Argentina, che ricorda come i suoi torturatori, che pur realizzavano una sorta di prossimità feroce tra il loro corpo e il suo che martoriavano, si guardavano dall’essere identificati come funzionari dello Stato; non affermavano la visibilità del potere assoluto, ma si celavano dietro una fantasiosa appartenenza a corpi separati, civili. L’episodio lo riporta Donatella Di Cesare, che dal duplice punto di vista della filosofia teoretica e dell’analisi storico-critica, ripercorre la persistenza della tortura, il suo consolidarsi anche in termini dialogici nel presente e la continuità del tratto indelebile che lascia nella vittima, come "propria morte esperita in vita" (Donatella Di Cesare, Tortura, Bollati Boringhieri, pp. 217, euro 11). Molte pagine del suo libro sono dedicate al dibattito sorto dopo il settembre 2001, in larga parte oltre Atlantico, ma per taluni aspetti anche nel vecchio continente. Un dibattito che non ha superato il tabù della negazione, ma lo ha aggirato, attraverso locuzioni contorte che ruotano attorno a concetti di eccezionalità, necessità, utilità dando a essi sinistri significati. Di Cesare ne trova le premesse già nella posizione assunta da Thomas Nagel, più di quaranta anni fa nel periodo della guerra in Vietnam, circa il dilemma morale tra teorie assolutiste e teorie utilitariste, le prime che danno priorità a ciò che si fa, agli schemi valoriali di riferimento, le seconde centrate invece su ciò che accadrà, sulle conseguenze in gioco. Nessun problema per Nagel nel sostenere queste ultime, liquidando l’assolutismo - e quindi il divieto assoluto della tortura nelle Dichiarazioni e Convenzioni dal secondo dopoguerra - come un ideale regolativo insensatamente astratto e provvidenzialmente irrealizzabile. Anche se il contesto dell’analisi del filosofo analitico è quello bellico, la sua posizione apre alla possibilità di considerare comunque la tortura una opzione eventuale. Tema, questo che da una prospettiva diversa verrà ripreso da Michel Walzer nell’affermazione della necessità per chi ha responsabilità politica di misurarsi anche con le "mani sporche", quasi "nobilitando" la scelta di accettare il fardello morale di un crimine, non reso meno da grave da considerazioni apparentemente necessitanti. Per giungere così al dibattito degli ultimi quindici anni, alla posizione di Alan Dershowitz che Di Cesare sintetizza in una intrigante parola chiave: accountability. Intrigante perché si è abituati a declinarla nel suo significato positivo, di assunzione di responsabilità. Giacché la tortura persiste - ragiona il penalista americano, che si era abituati a collocare nel fronte democratico - ne regoliamo la pratica, la rendiamo trasparente e limitata. Scrive in proposito l’autrice: "Al torturatore nobile Dershowitz preferisce l’esperto che mentre conferisce di volta in volta il mandato, autorizzando la tortura, si impegna anche a far luce garantendo la trasparenza, consentendo quella accountability, senza la quale non sarebbe immaginabile la democrazia". Questa pretesa di "portare il diritto nelle stanze oscure degli interrogatori" ha in parte lambito la discussione in alcuni Stati europei che, a metà del primo decennio di questo secolo, hanno proposto di limitare l’assolutezza del divieto di tortura enunciato nella Convenzione europea per i diritti umani, bilanciandolo con le esigenze di sicurezza, quale altro bene da tutelare in modo assoluto. Una posizione, questa, respinta, ma che ritorna di tanto in tanto quando l’uso legale della forza, il diritto e l’esercizio di giustizia vengono declinati come strumenti di lotta verso un presunto nemico, sia esso un singolo, una organizzazione, un gruppo sociale il cui stesso esistere viene assunto come potenziale aggressore di chi ha la responsabilità di agire in nome della collettività. Lo schema relazionale che si stabilisce diviene allora un derivato della dinamica di guerra e il dominio sul corpo del nemico diviene simbolo e concretezza dell’esercizio di potere. Il libro spazia lungo gli esempi negli anni recenti che rimandano a questa torsione (l’etimo è lo stesso della parola tortura), dalla tortura politica latino-americana agli episodi europei, inclusi quelli che hanno riguardato l’Italia: gli interrogatori in occasione del sequestro Dozier, le morti purtroppo ormai famose di giovani fermati e privati della libertà, l’epifania della violenza del potere nei giorni di Genova. Tutti casi in cui la parola negata, tortura, è stata scritta in sentenze; anche per dire che non vi è ancora nel nostro codice la possibilità di riconoscerla, chiamarla con il proprio nome e punirla adeguatamente. Ma, anche casi ripresi per ricordare che la previsione del reato, assolutamente essenziale, non risolve del tutto il nostro rapporto con la tortura, con la corporeità perversa che essa rappresenta, con il suo intrinseco rifiuto del limite necessario. Ancora una volta il diritto non basta; ancora una volta - ci ricorda l’autrice - occorre interrogarci più in profondità. "Il corpo del reato" di Carlo Bonini. Stefano Cucchi, la verità nascosta alla luce del sole di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 15 dicembre 2016 Ne "Il corpo del reato" di Carlo Bonini (Feltrinelli) i nessi con il caso Regeni, come la centralità dell’autopsia e l’intreccio di colpe, burocrazia, depistaggi, giustizia negata. Quando s’indaga su una morte misteriosa, qualunque ne sia la causa, si deve interrogare il cadavere. Che può aiutare a capire che cosa è successo, chi e perché ha messo fine alla persona che era. È il punto di partenza per risalire ai responsabili di un eventuale reato, il primo indizio. E in alcuni casi le autopsie diventano decisive, se ne discute all’infinito, si litiga per arrivare a conclusioni opposte. Per cercare la verità. O per nasconderla. È quello che è accaduto e continua ad accadere nella vicenda di Stefano Cucchi, il trentunenne romano arrestato il 15 ottobre 2009 con l’accusa di spaccio di droga e morto dopo una settimana di detenzione trascorsa tra camere di sicurezza, carcere e ospedali. Un incredibile intreccio di colpe e burocrazia, bugie, depistaggi e giustizia negata che il giornalista Carlo Bonini racconta in un libro significativamente intitolato "Il corpo del reato" (Feltrinelli, pagine 320, euro 18). Perché è dal corpo (e sul corpo) di Stefano che tutto è cominciato, e perché dietro questa storia si continuano a inseguire reati che qualcuno voleva coprire. A partire dal certificato di "morte naturale" redatto subito dopo il decesso, e dall’ineffabile comunicazione data ai genitori che solo attraverso la notifica dell’autopsia seppero che il loro ragazzo non c’era più. "Si è spento", si sentirono dire. La narrazione di Bonini si addentra in ogni passaggio della battaglia che la famiglia Cucchi conduce da sette anni, e si snoda proponendo un parallelo con un’altra morte violenta, tragica e misteriosa, quella di Giulio Regeni. Anche in quel caso è stato il cadavere a smentire le menzogne e gli inquinamenti, attraverso lo svelamento delle torture che ha fatto piazza pulita delle falsità proposte a più riprese dal regime egiziano. In comune tra i due casi c’è l’anatomopatologo che ha fatto parlare i corpi delle vittime - il professor Vittorio Fineschi, uno dei protagonisti principali del racconto - e la determinazione dei parenti a non accontentarsi di un funerale e qualche scusa. Approdati entrambi in una sede istituzionale, il Senato, per chiedere aiuto a ottenere giustizia. Con una differenza di non poco conto: per Regeni si tratta di sfidare un altro Stato a trovarla; per Cucchi, a quattromila chilometri e qualche gradino di democrazia più su, si attende che lo faccia la Repubblica italiana. I genitori e la sorella di Stefano, Ilaria, dovettero mostrare a tutti le foto del ragazzo ridotto a poco più di uno scheletro, così come era stato restituito dalle istituzioni che lo avevano in custodia. Lo ha fatto anche un pubblico ministero, in uno dei vari processi che si sono succeduti senza approdare a nulla. Per far capire di che cosa si stava parlando, muovere le coscienze e tenere accesi i riflettori. "Andrà a finire che su questa storia ci faranno anche un film!", si lamentò il difensore di qualche imputato. "Magari!" replicò l’avvocato dei Cucchi, Fabio Anselmo, altro personaggio che si muove tra le pagine del libro con un ruolo di primo piano. Perché è grazie alla pubblicità voluta dalla famiglia, alla volontà di tenere desta l’attenzione di chi rimaneva fuori dalle aule di tribunale, che a sette ani di distanza c’è ancora la speranza di arrivare a una versione credibile di ciò che è successo, e individuare i responsabili. Bonini ripercorre i principali punti di svolta di un percorso lungo e accidentato. Dalle incongruità della notte dell’arresto alla settimana in cui Cucchi è rimasto segretato, privato non solo della libertà ma anche dei diritti che invocava inutilmente: per esempio il colloquio con un avvocato; dalle manovre per lasciare nell’ombra chi lo aveva avuto tra le mani nelle prime ore, all’inutile processo agli agenti di custodia, viziato da consulenze e perizie che si ostinavano a negare ogni relazione tra le percosse subite da Cucchi e la sua morte. Per mettere a tacere il corpo e occultare il reato; andando a ripescare testi medici dell’Ottocento sulla morte per fame come durante le carestie, o gli studi sulla fine inflitta ai prigionieri dei campi di sterminio, lasciati senza cibo né acqua. Poi è arrivata la nuova indagine sui carabinieri, innescata dalle rivelazioni di due colleghi ai Cucchi e portata avanti da magistrati diversi della Procura di Roma, con metodi ereditati dalle inchieste sulla criminalità organizzata grazie ai quali è caduto il muro di omertà eretto intorno alla cattura di Stefano. Ma anche queste nuove prove, su cui verosimilmente si imbastirà un nuovo processo, dovranno fare i conti con una nuova perizia sulle cause della morte, che stavolta ha tirato in ballo un presunto quanto incomprensibile attacco epilettico. E sarà l’ennesima battaglia legale. Il corpo del reato si chiude riproponendo un paragone con l’omicidio consumato al Cairo poco meno di un anno fa: il paradosso di una verità nascosta alla luce del sole. Ma il caso Cucchi è ancora aperto. Come il caso Regeni. Detenuti uccisi dalle torture nelle carceri siriane. A Napoli mostra fotografica di Caesar Agenparl, 15 dicembre 2016 Un’importante e terribile testimonianza che documenta i crimini contro l’umanità commessi nelle carceri siriane: la mostra "Nome in codice: Caesar. Detenuti siriani vittime di tortura", che aprirà domani (giovedì 15 dicembre) alle ore 16 e sarà in programma fino a domenica 18 dicembre a Napoli nelle Sala delle Terrazze di Castel dell’Ovo. La mostra, già esposta al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, al Memorial dell’Olocausto a Washington, al Parlamento Europeo di Strasburgo, a Westminster, a Parigi, Boston, Dublino e in Italia al Maxxi di Roma, è una selezione delle immagini scattate da Caesar, pseudonimo che protegge l’identità di un ex fotografo della polizia militare del regime siriano, il cui incarico, dal 2011, era quello di fotografare i corpi dei detenuti uccisi dalle torture nelle carceri siriane. Per due anni, Caesar ha fatto copie delle immagini su chiavette Usb e nel 2013 ha disertato, portando con sé in Occidente le copie delle fotografie. La magistratura francese, sulla base delle informazioni fornite da Caesar, ha aperto un procedimento per crimini contro l’umanità nei confronti del regime di Assad e iniziativa analoghe sono in corso in Spagna e in Germania, mentre il Congresso degli Stati Uniti ha appena votato una legge al riguardo. L’inaugurazione della mostra, promossa da Amnesty International, Fnsi, Articolo 21, Focsiv - Volontari nel mondo, Coordinamento delle Università del Mediterraneo - Unimed e Articolo 21, con la collaborazione della Fuci napoletana e degli Studenti UniOr pro Rivoluzione Siriana e con il patrocinio del Comune di Napoli e dell’Università Orientale, sarà preceduta, alle 10.30 di giovedì 15 dicembre, da un incontro con la stampa e gli studenti, in Via Mezzocannone n. 101. All’incontro interverranno: l’ex prigioniero sopravvissuto alle torture Mazen Alhummada, Tina Marinari di Amnesty International, Claudio Silvestri della Fnsi, Nino Santomartino della Focsiv, il giornalista italo-siriano Fouad Roueiha, la Prof.ssa Daniela Pioppi, docente di Storia contemporanea dei Paesi Arabi all’Università Orientale, il Dott. Sami Haddad, esperto di Lingua Araba presso la stessa Università, Filomena Annunziata della Fuci e Chiara Cetrulo degli Studenti UniOr pro la Rivoluzione Siriana. Coordina Germano Monti, del Caesar Team Italia. Rapporto Istat. Benessere? La società dell’incertezza permanente di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 15 dicembre 2016 Dal quarto rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) dell’Istat emerge un paese ambivalente dove cresce il "benessere soggettivo" e l’incertezza per il futuro. Un paese diviso - I 130 indicatori del rapporto fotografano le diseguaglianze territoriali tra Centro-Nord e Sud. Nell’ultimo anno al Nord e al Centro è stato registrato un miglioramento nella gestione dell’ambiente, nella salute dei cittadini e nell’istruzione, mentre negli altri "domini" (sono dodici in tutto), come la "qualità dei servizi", il benessere economico o la sicurezza, si sta tornando ai livelli del 2010, l’ultimo anno di relativa stabilità prima che la crisi iniziasse a mordere davvero. Fatta eccezione per la qualità del lavoro, non a caso. Nel Mezzogiorno, invece, il 2010 è un anno lontano. Pesano condizioni economiche compromesse, peggiora la qualità del lavoro, insieme a un altro criterio dalla forte valenza simbolica: la "soddisfazione per la vita". Partecipazione - La sfiducia rispetto ai partiti e alle istituzioni è alta, anche se quest’anno l’Istat sostiene di avere "avvertito" un’inversione di tendenza rispetto al Parlamento, al sistema giudiziario o alle istituzioni locali. "Ma il clima resta negativo", precisa. La partecipazione politica e civica è diminuita (dal 66,4% al 63,1%) nel 2015. In questo caso non esiste una differenza tra Nord e Sud: l’abbandono è diffuso, senza distinzioni territoriali. Interessa uomini e donne di tutte le fasce d’età e si fa sentire in particolare tra i 35 e i 59 anni. Resta ancora stabile la quota delle persone che sostengono di svolgere attività sociali e partecipano a reti informali: l’81,7% degli interpellati conta su una rete potenziale di aiuto, il 14,8% ha finanziato associazioni, il 10,7% svolge attività di volontariato. Dal 2013, anno elettorale che ha segnato un’inversione di tendenza della presenza femminile negli organi legislativi ed esecutivi, è stato registrato un miglioramento della partecipazione delle donne alla vita istituzionale. Oggi la loro rappresentanza nel Parlamento europeo tocca il 37%, nel 2009 era il 35%. A livello nazionale supera la quota del 30%, un aumento di dieci punti dal 2009. Giovani Neet - Il peso delle diseguaglianze si fa sentire nell’accesso all’istruzione, al mercato del lavoro e all’economia della conoscenza. Il divario territoriale tra Nord e Sud è tradizionalmente stabile. Il tasso di abbandono scolastico è in diminuzione a livello nazionale: 14,7% nel 2015, ben al di sopra della media Ue (11%). La situazione assume tutta la sua gravità vista dai territori. L’abbandono si è attestato all’11,6% nel Centro-Nord e al 19,2% nel Mezzogiorno, dove la quota dei Neet - i ragazzi tra i 15 e i 24 anni che non studiano né lavorano - è al 35,3%. Quasi doppia rispetto al Nord (18,4%). Con la trasformazione dell’università nell’esamificio del "3+2" e l’enfasi sulla professionalizzazione dell’istruzione secondaria, il nostro paese è riuscito a ridurre solo leggermente il basso tasso di istruzione diffuso. Tra il 2004 e il 2015 è cresciuta la quota di persone tra i 25 e i 64 anni con un diploma superiore (al 59,9%, +11%) e quella tra i 30 e i 34 anni con una laurea (25,3%, +10%). Diplomati e laureati - Rispetto alle medie europee, resta l’abisso. La quota di 25-64enni con almeno il diploma è di oltre 16 punti inferiore alle media europea, così come il tasso d’istruzione terziaria dei giovani 30-34enni è inferiore di oltre 13 punti e ancora molto lontano dall’obiettivo nazionale previsto da Europa 2020 (25-26%). È la prova del fallimento della ventennale strategia neoliberale che ha inteso aumentare il numero dei laureati. Oggi assistiamo a un fenomeno imprevisto per i "riformatori" del sistema: il calo degli iscritti all’università. Tra i pochi risultati positivi c’è la partecipazione alla scuola dell’infanzia che supera il 92% per i bambini tra i 4 e i 5 anni, una delle più alte in Europa. Il taglio di 8 miliardi alla scuola e di 1,1 all’università, voluto dal governo Berlusconi nel 2008, ha prodotto conseguenze devastanti su un sistema dove gli investimenti sulla conoscenza e l’innovazione sono ben al di sotto la media Ue sulla spesa per ricerca e sviluppo, i brevetti, l’occupazione hi-tech e qualificata. Nel 2014 era all’1,38%, in aumento sul 2013, inferiore all’obiettivo dell’1,53%. Una percentuale raggiunta solo al Nord. Servizi pubblici - Aumentano le differenze territoriali nell’erogazione dei servizi pubblici. Le politiche di austerità che hanno tagliato i fondi sociali agli enti locali, il blocco del turn-over, hanno inciso sull’offerta dei servizi socio-educativi per la prima infanzia. La spesa impegnata dai comuni è in diminuzione dal 2011. L’obiettivo è garantire il 33% dei posti in strutture pubbliche ogni 100 bambini da 0 a 2 anni. Il divario fra le regioni del Centro e del Nord e quelle del Mezzogiorno è rilevante. Questo significa che la conciliazione tra i tempi del lavoro e quelli della vita dei genitori diventa sempre più difficile man mano che si scende da Roma in giù. Nei servizi di pubblica utilità si registra un aumento dei black out in Sicilia: sono state più di cinque nel 2015. Altrove ci sono state 2,4 interruzioni dell’elettricità per utente, erano due nel 2014. Beni culturali - I tagli hanno inciso anche sulla capacità di gestire i beni culturali in un paese che conserva il primato nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco per numero di beni iscritti: 51, pari al 4,8% del totale. La spesa pubblica destinata alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale continua a diminuire: dallo 0,3% del 2009 allo 0,2% del 2015. Cresce - a dispetto della crisi dell’edilizia - l’abusivismo. Nel 2015 sono state realizzate venti costruzioni abusive ogni 100 autorizzate, contro le 17,6 dell’anno precedente e le 9,3 del 2008. Cresce anche la percezione del degrado paesaggistico: il 22,1% nel 2015 contro il 20,1% dell’anno precedente. E si registra anche il fenomeno opposto: diminuiscono gli italiani che considerano l’abusivismo tra i principali fattori della rovina del paesaggio: 15,7% nel 2015, 17,1% nel 2014. Salute - Il Belpaese resta uno dei paesi più longevi d’Europa, anche se la speranza di vita è sotto la media europea. Diminuisce l’età media, da 82,6 a 82,3 anni. L’aumento della mortalità ha fatto discutere. Per l’Istat le cause sono dovute a una combinazione di elementi: oscillazioni demografiche e fattori congiunturali di natura epidemiologica e ambientale che hanno comportato un aumento dei decessi nella popolazione più anziana. Lo stesso fenomeno è stato registrato in altri paesi europei. L’incremento della mortalità non ha avuto conseguenze sulla qualità degli anni da vivere. Resta da capire come vivere i prossimi anni in uno dei paesi più diseguali d’Europa. Migranti. Quei richiedenti asilo abbandonati sulle isole greche di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 dicembre 2016 In occasione del vertice odierno dei capi di stato e di governo dell’Unione europea, Amnesty International ha sollecitato il trasferimento in terraferma di oltre 16.000 richiedenti asilo bloccati sulle isole della Grecia in condizioni agghiaccianti. Nei giorni scorsi, la Commissione europea ha sollecitato la Grecia a migliorare le condizioni di accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo: non per un improvviso spirito umanitario ma per poter riprendere i rinvii verso la Grecia dagli altri paesi dell’Unione europea e aumentare il numero dei ritorni in Turchia, ridando dunque un senso all’agonizzante accordo siglato con Ankara a marzo. Le condizioni di accoglienza sulle isole greche sono pericolose, a tal punto che recentemente una donna e un bambino sono morti per l’esplosione di una bombola a gas. Migranti e rifugiati, tra cui molti bambini e famiglie vulnerabili, dormono in tende esposte al freddo e alla pioggia, senza servizi igienico-sanitari adeguati a disposizione e nella costante paura di attacchi razzisti o di altre forme di violenza, compresa quella di genere. Alcuni rifugiati si trovano sulle isole greche da parecchi mesi senza avere accesso a una procedura d’asilo. Altri hanno optato per il ritorno "volontario" solo per porre fine alla situazione in cui si trovavano e all’incertezza sul loro futuro. Amnesty International ha anche documentato casi di rifugiati rimandati indietro contro la loro volontà, nonostante avessero espresso l’intenzione di chiedere asilo. Sebbene secondo la legislazione europea abbiano diritto alla riunificazione familiare, alcuni rifugiati non riescono a riunirsi alle loro famiglie che si trovano già in altri paesi dell’Unione europea. La Commissione europea sta spingendo perché queste persone siano rimandate in Turchia e da lì chiedano la riunificazione familiare, sempre per aumentare il numero delle persone da rimandare indietro. Ai leader degli stati membri dell’Unione europea, Amnesty International ha presentato sei proposte concrete: trasferire immediatamente migranti e richiedenti asilo dalle isole greche alla terraferma; accelerare le ricollocazioni e le riunificazioni familiari in modo da favorire i trasferimenti verso altri paesi dell’Unione europea; assicurare la rapida registrazione dei richiedenti asilo bloccati sulle isole greche; istituire percorsi legali e sicuri, compreso un programma su ampia scala di reinsediamenti dalla Turchia; aiutare la Turchia a sviluppare un sistema d’asilo; porre fine ai ritorni in Turchia sulla base dell’accordo tra questo paese e l’Unione europea. Il costo umano dell’accordo tra Unione europea e Turchia avrebbe dovuto essere da monito contro futuri accordi con altri paesi. Eppure ne vengono firmati di nuovi ogni settimana, con scarsa attenzione per i costi in termini di vite umane e per gli stessi valori dell’Unione europea. Siria. Aleppo senza tregua di Michele Giorgio Il Manifesto, 15 dicembre 2016 È saltato l’accordo per l’evacuazione dei miliziani dell’opposizione. Migliaia di civili sempre vittime dei combattimenti. Assad: la Costituzione sarà emendata solo a conflitto finito, la ricostruzione della Siria sarà affidata a Paesi amici come Russia, Cina e Iran. È paralisi ad Aleppo Est da dove giungono notizie confuse, spesso non accurate, sulla situazione riguardante i civili vittime del conflitto e la mancata applicazione dell’intesa sul cessate il fuoco annunciata martedì dalla Russia. Ieri circa 5 mila miliziani jihadisti di an Nusra e di altre formazioni "ribelli" dovevano, con le loro famiglie, lasciare la città per aree della Siria che non sono controllate dalle truppe governative, in particolare la provincia di Idlib. Decine di autobus erano pronti a caricarli a bordo, si sono avvicinati all’ultima roccaforte degli oppositori ma dopo qualche ora si sono allontanati vuoti. I combattimenti perciò sono andati avanti con altre tragiche conseguenze per i civili che vivono nei 2,5 kmq della parte orientale della città che, fino a ieri sera, erano ancora nelle mani dell’opposizione. Secondo alcune fonti altri 50mila siriani potrebbero abbandonare le loro case o sarebbero sul punto di farlo. Accanto alla guerra vera si combatte anche una guerra mediatica, con gran parte dei media occidentali e di quelli appartenenti alle monarchie del Golfo, che riferiscono di esecuzioni sommarie e di massacri di civili che avrebbero compiuto le forze governative e le milizie sciite arrivate da Libano, Iran, Afghanistan e Pakistan. Informazioni che spesso sono originate da un’unica fonte, L’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), vicino all’opposizione siriana. Un alto responsabile dell’Onu Rupert Colville, ha detto che sei differenti fonti avrebbero confermato che 82 "non-combattenti" sarebbero stati uccisi dai governativi lunedì in quattro differenti quartieri, tra cui 11 donne e 13 bambini. Non è chiaro però se le fonti di Colville siano indipendenti o legate all’opposizione. I media che condividono le ragioni di Damasco da parte loro negano che siano stati compiuti crimini sistematici a danno dei civili di Aleppo in questi ultimi giorni. E denunciano il silenzio della stampa regionale e internazionale sulle espressioni di gioia di tanti abitanti di Aleppo Est all’arrivo delle forze governative. Silenzio calato anche sulle uccisioni di civili siriani nella zona Ovest, presa di mira da lanci di razzi e colpi di mortaio dei jihadisti. La tv di stato siriana ieri ha riferito dei sei civili uccisi da razzi sparati su Aleppo Ovest. L’agenzia russa Interfax ha aggiunto che 6.000 civili siriani (tra questi 2.000 bambini) sono riusciti a trovare riparo fuori la città mentre 366 jihadisti avrebbero deposto le armi. Incerte restano le cause della mancata applicazione dell’intesa per la fine delle ostilità. Secondo i media internazionali, le posizioni contrastanti di Russia, Siria e Iran avrebbero impedito l’applicazione della tregua e l’evacuazione dei miliziani dell’opposizione. Tehran, secondo al Jazeera, avrebbe richiesto la liberazione di alcuni prigionieri iraniani nelle mani dei jihadisti ad Idlib e la restituzione dei corpi degli iraniani uccisi negli ultimi combattimenti. L’Ondus invece afferma che a impedire il cessate il fuoco sarebbero state le forze armate governative e le milizie alleate, perché la Russia avrebbe negoziato la soluzione con la Turchia senza discuterne prima con il governo di Damasco. Diversa è la versione di Mosca che accusa le forze dell’opposizione di aver violato l’accordo. "Le opposizioni hanno ripreso le ostilità (ieri) all’alba cercando di penetrare nelle posizioni governative nel nord ovest della città" ha riferito il ministero della difesa russo. Dopo le intense consultazioni con Ankara sulla situazione ad Aleppo e in tutta la Siria, ieri Mosca ha avviato colloqui con l’Iran. I ministri degli esteri, Serghiei Lavrov e Javad Zarif, hanno avuto una lunga conversazione telefonica. Torna ad intervenire pubblicamente anche Bashar Assad. Con una intervista a Russia Today, il presidente siriano che si è detto scettico sulla possibilità di uno stop ai combattimenti alla luce del comportamento delle formazioni jihadiste e ha dichiarato che "i Paesi occidentali vogliono la tregua ad Aleppo solo per salvare i terroristi". In un’altra intervista concessa alla tv di stato russa Rossia-24, Assad ha illustrato il futuro politico della Siria. "Qualsiasi proposta di introdurre degli emendamenti alla Costituzione - ha affermato - non può essere messa in atto in tempo di guerra perché per svolgere un referendum sono richieste altre condizioni". Quanto al processo di ricostruzione post bellico, il leader siriano ha annunciato che "la priorità verrà data ai paesi amici come la Russia, la Cina, l’Iran e altri". Il popolo siriano, ha aggiunto, "non consentirà l’accesso alle società di quei paesi che hanno avuto una posizione anti-siriana, si sono schierati contro l’integrità territoriale e hanno sostenuto il terrorismo". Quanto al presidente americano eletto Donald Trump, Assad si è detto convinto che potrebbe diventare un alleato di Damasco nella lotta al terrorismo se supererà le pressioni delle lobby. Siria. Aleppo la strage di Assad e Putin vincitori e impuniti di Andrea Milluzzi Il Dubbio, 15 dicembre 2016 Migliaia di civili uccisi, ospedali distrutti, rappresaglie. La furia dei lealisti dopo la presa della città non ha risparmiato neanche le donne e i bambini, ma la denuncia dell’Onu è un grido nel silenzio. "Nessuno dei crimini che avete fatto vi è entrato sotto pelle? Siete davvero incapaci di provare vergogna?" la risposta alla domanda che Samantha Power, ambasciatrice Usa all’Onu, ha rivolto ai rappresentanti di Siria, Russia e Iran è "evidentemente no". Non prova vergogna chi per più di quattro anni ha bombardato una città con tutte le armi a disposizione, ha assediato e ridotto alla fame 250mila persone, ha carbonizzato e giustiziato decine di civili in fuga. Questo è quello che succede ad Aleppo, che da roccaforte dell’opposizione al presidente Bachar al Assad è diventata lo scalpo che lo stesso Assad è pronto a mostrare al mondo intero. O forse no, forse non sarà Assad a mostrarlo. Saranno i suoi comandanti: i russi che nella tarda serata di martedì hanno negoziato con la Turchia il cessate il fuoco, o gli iraniani che hanno infranto quell’accordo la mattina successiva. Sembrava finita martedì sera, quando sia i russi che i turchi avevano annunciato la fine delle operazioni militari ad Aleppo est e l’inizio dell’evacuazione dei combattenti e delle centinaia di migliaia di civili. Non si sapeva ancora dove queste persone sarebbero state dirottate, se nella provincia di Idlib, dove il regime sta ammassando sotto le bombe le ultime sacche di resistenza per poi completare la riconquista, o nelle zone controllate dai governativi. Non si sapeva, ma l’opinione pubblica già tirava un sospiro di sollievo: meglio che morire sotto le bombe. Non la pensavano così gli aleppini che affidavano a media e social network le loro ultime parole: "Stanno venendo a prenderci per ucciderci. Lo abbiamo già vissuto e lo rivedremo"; "Questo è probabilmente il mio ultimo messaggio video. Il mondo si ricordi di Aleppo"; "Ci metteranno in carcere e ci tortureranno. Oppure ci ammazzeranno qui". Timori che hanno già trovato conferma nei giorni scorsi, quando l’avanzata delle truppe di Assad e dei suoi alleati iraniani a capo di milizie sciite irachene e dei libanesi Hezbollah, ha lasciato sul campo oltre 4mila vittime. Non proprio vittime di una guerra "normale": "Ci sono decine di civili uccisi, tra cui donne e bambini, rastrellati in quattro quartieri della città. - ha detto il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon - Sappiamo di giovani uomini fatti sparire, probabilmente per essere arruolati a forza nell’esercito governativo, e di rastrellamenti forzati. Abbiamo visto vi- deo scioccanti di cadaveri in fiamme nelle strade". Tutto questo è già successo, altro sta accadendo in queste ore. Lo raccontano i White Helmets, i volontari di Aleppo che da mesi soccorrono i feriti dei bombardamenti russo- siriani, in un dispaccio tradotto e diffuso da Osservatorio Iraq martedì notte: "Le bombe cadono mentre scriviamo. Ad ora restano 100mila civili intrappolati in un’area di cinque chilometri quadrati, con bombardamenti senza sosta, barili- bomba e avanzamento delle truppe sul terreno. Oltre 500 persone hanno trovato rifugio in un edificio. Persone che sono rimaste sottoterra per giorni. Non possiamo credere che i Paesi più potenti del mondo non possano fare niente per salvare 100mila anime in cinque chilometri quadrati. Sappiamo - concludono - che c’è il piano di portarci fuori attraverso i quattro chilometri di Aleppo ovest: con poche dozzine di pullman e camion potremmo essere tutti evacuati in 24 ore. Ma anche per questo c’è bisogno di assicurare protezione e salvezza ai loro operatori e a noi". Effettivamente gli autobus c’erano, ieri. Tappezzati di bandiere e immagini di Assad, alle 4 di mattina erano pronti ad Aleppo Sud per cominciare l’evacuazione come da accordi. Ma sono rimasti vuoti e fermi per ore, perché quell’evacuazione non c’è mai stata. Alle prime luci dell’alba, 14 colpi di mortaio sono caduti sulla zona da evacuare, sparati dalle forze governative. Secondo fonti militari russe i mortai erano una risposta all’attacco dei ribelli che non hanno voluto arrendersi, secondo gli attivisti e l’opposizione locale è tutta un’altra storia: "Gli iraniani hanno respinto l’accordo raggiunto dalla Russia e ora stanno attaccando" ha detto il presidente dell’ufficio politico dei ribelli, Zakaria Mahifyi. Il coordinatore Abdelmoneim Zeinedin ha precisato che "l’Iran non vuole applicare l’accordo a meno che esso includa clausole speciali sugli interessi sciiti su Fua e Kefraya", le due località a maggioranza sciita accerchiate dai qaedisti di Jabhat Fatah al Sham ( la vecchia Jabat al Nusra). Mentre altre versioni incolpano direttamente Assad per la ripresa dei combattimenti, "infastidito per essere stato escluso dalle trattative fra Russia e Turchia", soprattutto perché non agli ufficiali siriani non è stata fornita la lista con i nomi di coloro che sarebbero stati evacuati. Fatto sta che ad Aleppo est si è ripreso a combattere e addirittura i caccia siriani sono tornati a gettar bombe su quel fazzoletto di cinque chilometri quadrati. Ieri Erdogan e Putin si sono sentiti al telefono per rimettere in piedi il cessate il fuoco e l’evacuazione dei civili. L’auspicio è che gli aleppini rimasti possano lasciare la zona di guerra in tutta sicurezza, con la supervisione dei caschi blu dell’Onu, come chiedono la Francia e gli Stati Uniti, che finora non sono stati mai interpellati. Aleppo cadrà, è solo questione di giorni, forse di ore. Assad avrà il suo scalpo e le tonnellate di aiuti umanitari bloccati per giorni alle porte di Aleppo potranno entrare in una città deserta e sventrata. Su quelle macerie e sull’impotenza di quegli aiuti sorgerà la nuova Siria, comandata ancora da chi ha voluto distruggerla. Stati Uniti. L’amministrazione Obama fa il punto sulla guerra all’Isis di Guido Olimpio Corriere della Sera, 15 dicembre 2016 Nonostante le offensive della coalizione a guida Usa, lo Stato Islamico continua a rappresentare una minaccia: nel solo 2016 condotte 1036 azioni kamikaze. Sono le ultime settimane della presidenza Obama e la Casa Bianca, anche per rispondere alle sortite di Trump, fa il bilancio sulla lotta allo Stato Islamico. I collaboratori forniscono dati che vanno accolti per quello che sono: non c’è dubbio che la coalizione a guida USA ha inferto colpi agli uomini del Califfo, ma il movimento continua a rappresentare una minaccia. Mobile, flessibile, articolata. Nel solo 2016 ha condotto 1036 azioni kamikaze in Siria, Iraq e Libia. La cautela sui numeri - Le fonti ufficiali statunitensi sostengono che in questi due anni di campagna sono stati uccisi quasi 50 mila militanti, tra questi 180 alti dirigenti e centinaia di quadri intermedi. Le incursioni o le azioni di unità speciali hanno eliminato molti luogotenenti e "ministri" del Califfo. Attualmente la fazione - secondo le valutazioni americane - dovrebbe contare su 12-15 mila elementi schierati tra Siria e Iraq, compresi i 3-5 mila che difendono Mosul. Si tratta di semplici stime. In passato sono circolate informazioni diverse, una valutazione del 2014 fissava a circa 32 mila i seguaci del Califfato in Siria e Iraq. In estate un rapporto Cia aveva indicato 18-22 mila effettivi, un’altra analisi fissava a 45 mila le perdite. E non manca chi avverte: "nessuno sa con esattezza quanti guerriglieri possa contare lo Stato Islamico". Peraltro informazioni europee sottolineano come il flusso di volontari si sarebbe ridotto in modo sensibile per l’aumento dei controlli nei paesi di partenza e al confine turco. I target dei raid - Il generale Stephen Townsend ha sottolineato l’importanza dell’offensiva aerea: 17 mila incursioni in gran parte condotte da velivoli americani (appena 4500 quelle alleate). Gli attacchi sarebbero costati alla casse Isis una media di 4-5 milioni di dollari al mese. L’offensiva terrestre nei due scacchieri ha permesso di liberare tre milioni di persone, di attaccare Mosul e di iniziare la manovra verso Raqqa. Quasi 66 mila i soldati iracheni addestrati - anche con il contributo dei partner occidentali, Italia inclusa - e 3000 siriani (curdi e ribelli). Per ora 5 i militari del Pentagono caduti in battaglia. Quanto ai bersagli centrati da aerei e droni abbiamo tenuto un conto in base ai comunicati ufficiali diffusi da Washington, bollettini che a volte sono stati contestati. Ad ogni modo questi alcuni dei bersagli: 164 tank, 388 fuoristrada, 193 ruspe, 131 scavatrici (usate anche per missioni suicide), 422 bunker, 535 tunnel, 508 veicoli-bomba impiegati da kamikaze, 200 officine o depositi per mezzi-bomba, 632 impianti per la produzione di ordigni, 489 imbarcazioni, 2638 strutture petrolifere. Il fronte terrorismo - Andando oltre le oltre tabelle, è stata importante l’azione contro il network che coordina i terroristi in Occidente. La coalizione ha dedicato risorse per colpire diversi referenti e militanti, facilitatori di missioni, reclutatori, addetti allo strategico dipartimento media. Gli ultimi sono caduti pochi giorni fa, tre elementi collegati alle cellule che hanno agito in Francia e in Belgio. Ma insieme ai comprimari hanno fatto fuori molti capi, come Abu Mohamed al Adnani. Solo il tempo dirà quanto il target killing abbia inciso sulla proiezione esterna dell’Isis che, attraverso esponenti - spesso europei - rappresenta una fonte di ispirazione per simpatizzanti e seguaci. Filippine. L’infinita guerra alla droga di Duterte: 6 mila morti in cinque mesi Corriere della Sera, 15 dicembre 2016 5.927 i morti in cinque mesi: è il bilancio ufficiale della "guerra alla droga" dichiarata da Rodrigo Duterte diventato presidente delle Filippine a giugno scorso. Le esecuzioni extragiudiziali, così come la repressione della polizia, contro consumatori e spacciatori di stupefacenti si sono scatenate dopo la dichiarazione di tolleranza zero di Duterte che dopo il suo insediamento dichiarò: "Ci saranno molti morti finché non saranno cacciati tutti gli spacciatori dalle strade". Secondo quanto riporta la Cnn 2.086 persone sono state uccise dalle forze dell’ordine e 3.841 da vigilantes privati, organizzati in squadroni della morte. Oltre 40mila gli arrestati. Ma non solo. Il presidente filippino ha rivelato di aver ucciso personalmente "delinquenti" quando era sindaco per dare l’esempio alla polizia quando era sindaco di Davao. Lì, ha raccontato "ero solito farlo personalmente. Semplicemente per mostrare ai ragazzi (i poliziotti) che se potevo farlo io, potevano farlo anche loro". "Andavo in giro per la città a pattugliare le strade in motocicletta, una moto di grossa cilindrata, in cerca di problemi, cercavo un confronto per poter uccidere", ha aggiunto nel discorso tenuto al palazzo presidenziale. Duterte ha anche risposto alle critiche delle organizzazioni di difesa dei diritti umani e al presidente Usa Barack Obama, assicurando che la sua campagna brutale contro i narcos va avanti. "Se pensano che la fermerò per paura di Obama si sbagliano, non lo farò", ha detto. Nella foto detenuti ammassati nella prigione di Quezon City, una delle carceri più affollate delle Filippine: costruita per ospitare 800 persone, ne accoglie oltre 4mila. Gran Bretagna. Condannato a 45 anni per fatti mai commessi, punito per averli annunciati fanpage.it, 15 dicembre 2016 La sentenza senza precedenti di un tribunale britannico nei confronti di un 38enne già detenuto che dal carcere aveva minacciato diverse persone di volerli uccidere diversi e poi di voler compiere atti sessuali sui loro cadaveri. Una sentenza senza precedenti e destinata far discutere quella emessa da un giudice britannico nei confronti di un uomo che per lungo tempo si era "divertito" a lanciare continue minacce di morte e di necrofilia ma senza mai metterle in pratica. Come raccontano i giornali inglesi, l’uomo infatti è stato condannato in primo grado a ben 45 anni di carcere per fatti mai commessi dopo che il giudice ha voluto punirlo pesantemente solo per aver minacciato di mettere in pratica efferati delitti. In realtà l’uomo non avrebbe mai potuto mettere in pratica nessuna delle efferatezze che minacciava perché è un detenuto rinchiuso già da 14 anni nel carcere di Nottingham dove deve scontare una pena a 30 anni di reclusione per precedenti reati. Proprio dalla sua cella però l’uomo, il 38enne Richard Ford, ha inviato degli inquietanti messaggi di morte in alcune lettere destinate a diverse persone: guardie carcerarie, un giudice, altri detenuti e una sua ex partner. A queste persone, tutte considerate dall’uomo come suoi nemici e all’origine della sua rovina, il 38enne ha scritto di volerli uccidere e di voler poi compiere atti sessuali sui loro cadaveri. Minacce accertate che il giudice Michael Heath però non ha considerato solo tali ma le ha equiparate a veri e propri tentativi d’omicidio punendo l’imputato di conseguenza. Durante la sentenza il giudice ha spiegato che con la sua decisione ha voluto proteggere la società da un uomo pericoloso e punire "le gravi angosce" provocate nelle potenziali vittime.