Ministero della Salute: ok alla sigaretta elettronica nelle carceri di Stefano Caliciuri sigmagazine.it, 14 dicembre 2016 Il Ministero della Salute, su indicazione della direzione centrale Amministrazione penitenziaria, consente l’utilizzo e la diffusione delle sigarette elettroniche all’interno delle carceri. La sigaretta elettronica entra nelle carceri. E lo fa ufficialmente dalla porta principale. L’impegno dell’onorevole Rita Bernardini e la lungimiranza di Santi Consolo, capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, sono stati premiati. Con una circolare diramata nei giorni scorsi, Consolo ha ufficializzato di aver ottenuto dal Ministero della Salute il via libera alla diffusione dell’ecig - con e senza nicotina - negli istituti penitenziari, sia nei locali pubblici o aperti al pubblico che nei pubblici uffici. La circolare fornisce alle direzioni degli istituti chiarimenti ai quesiti posti circa le modalità di acquisto e uso della sigaretta elettronica, a seguito delle numerose istanze presentate da detenuti fumatori. La battaglia fu iniziata dall’onorevole Rita Bernardini che annunciò proprio su Sigmagazine la volontà di estendere il diritto di vaping anche nelle carceri. L’idea fu subito appoggiata dal direttore Consolo. La sigaretta elettronica - disse Bernardini - allevia i "danni per la salute sia dei detenuti ex fumatori che dei loro compagni di cella, costretti fino ad oggi ad intossicarsi respirando il fumo da combustione del tabacco". Con l’autorizzazione del Ministero della Salute si compie dunque un bel passo in avanti. La speranza è che presto le istituzioni riconoscano senza appello il valore della sigaretta elettronica come strumento di riduzione del danno da tabacco. Carceri, sì alla sigaretta elettronica non ricaricabile (Il Sole 24 Ore) Sì alla sigaretta elettronica in carcere ma solo se il modello è monouso e dunque non ricaricabile e se acquistata tramite sopravvitto, cioè in aggiunta alla normale razione di cibo. Non potrà dunque essere consegnata al detenuto direttamente dai familiari. Le indicazioni sono contenute in una lettera circolare agli istituti diramata dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo lo scorso 7 dicembre. Le direttive hanno tenuto conto del parere fornito dal Ministero della Salute che ha precisato la liceità dell’uso della sigaretta elettronica - con o senza nicotina - nei locali pubblici o aperti al pubblico o nei pubblici uffici. La circolare, si legge in una nota del Dap, fornisce chiarimenti a seguito delle numerose istanze presentate da detenuti fumatori. Le direttive inoltre, prosegue il comunicato, saranno puntualmente e tempestivamente aggiornate a seguito di eventuali modifiche delle norme vigenti in materia o per mutate evidenze scientifiche sull’uso della sigaretta elettronica. Santi Consolo ha evidenziato il ruolo propositivo avuto da Rita Bernardini nel rappresentare al Dipartimento l’avvio della sperimentazione del "vaping" negli istituti penitenziari, in alternativa all’uso della sigaretta tradizionale con evidenti vantaggi per la salute sia dei fumatori che dei non fumatori. Processo penale, ritorna in pista il Ddl. Ora è possibile il via libera a febbraio di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2016 La riforma era stata accantonata da Renzi in attesa del referendum. La presenza di Andrea Orlando come ministro della Giustizia anche nel governo Gentiloni lo lasciava presagire, ma le parole del neopresidente del Consiglio sui punti-chiave dell’agenda del nuovo Esecutivo sono state la conferma ufficiale che la riforma del processo penale verrà tirata fuori dalla palude in cui era finita prima del referendum, e portata al traguardo. È infatti tra quelle "in corso" citate da Gentiloni, alle quali il governo intende "ridare slancio", con un "impulso ulteriore". Musica per le orecchie di Orlando, che peraltro sarebbe stato in grande imbarazzo a rimanere in via Arenula spogliato di una delle riforme sulla giustizia che, nelle intenzioni del governo Renzi, era tra le più "qualificanti", e che il guardasigilli ha difeso con le unghie e con i denti contro il tentativo, di Renzi e della sua stessa maggioranza, di archiviarla, mettendola su un binario morto in attesa dell’esito referendario. Troppo divisiva, sia rispetto all’opposizione sia nella maggioranza e nel Pd, per essere sottoposta al voto, anche di fiducia, alla vigilia di una consultazione popolare dall’esito incerto, poi rivelatosi addirittura catastrofico per l’ex premier. Troppo impopolare, poi, anche fra magistrati e avvocati, che però avevano deciso di mandar giù quel boccone amaro, frutto di una serie di compromessi, nella speranza che alcune norme della legge non venissero mai attuate. Il Ddl sul processo penale è infatti composto di 40 articoli sulle più svariate materie (prescrizione, intercettazioni, carcere, durata delle indagini, video-conferenze, aumento di pene per furti, scippi, voto di scambio politico, impugnazioni), molti dei quali contengono norme di delega da attuare in un anno. L’esame del provvedimento riprenderà al Senato a gennaio e, una volta approvato, tornerà alla Camera per la ratifica. Se non ci saranno intoppi (ci sono circa 200 voti segreti e la fiducia, a questo punto, sembra difficile), potrebbe diventare legge a febbraio. In tal caso, se il governo Gentiloni durerà per tutta la legislatura, avrà il tempo per emanare i decreti di attuazione su intercettazioni, nuovo ordinamento penitenziario, impugnazioni, videoconferenze. Se, invece, si dovesse andare a elezioni anticipate a giugno, l’attuazione sarà lasciata in eredità al prossimo governo, che dovrà provvedere nel tempo rimanente e sempre che vi sia continuità politica con i due precedenti. Il cammino è tutt’altro che in discesa perché, nel frattempo, l’Unione delle camere penali si è rimangiata il via libera dato a Orlando (sia pure controvoglia), diffidando anzi dall’approvare la riforma, salvo che per la parte sul carcere. È invece finora rimasta silenziosa l’Anm, che con il suo presidente Piercamillo Davigo aveva prima definito la riforma "inutile e dannosa" ma poi aveva dato semaforo verde, confidando in alcuni ritocchi promessi da Renzi e da Orlando, come l’allungamento (da tre ad almeno sei mesi) del tempo entro cui il Pm, chiusa l’indagine, può chiedere il rinvio a giudizio. A questa condizione, e con l’ulteriore promessa di Renzi di assumere altri cancellieri nei Tribunali (ormai alla paralisi) nonché di estendere la proroga dell’età pensionabile a una cerchia di magistrati più ampia di quelli beneficiati dal governo, l’Anm ha sospeso la proclamazione dello sciopero. Ora, l’unica possibilità del governo di mantenere quelle promesse è infilare le due misure nel decreto mille-proroghe. Sul quale sono puntati gli occhi delle toghe. Il capo del Dap Santi Consolo: attenti al grido degli avvocati di Alfredo Barbato Il Dubbio, 14 dicembre 2016 Consolo interviene al dibattito organizzato dai penalisti di Roma nella giornata di sciopero. Secondo parte della magistratura associata ricorrevano tutti i presupposti per un attacco alla giurisdizione e in particolare all’autonomia delle toghe. Con un grado di allarme massimo infatti, la corrente dell’Anm che fa capo al presidente Piercamillo Davigo aveva deplorato l’iniziativa della Camera penale di Roma. Che ieri ha tenuto fede agli annunci e ha attuato una giornata di astensione dalle udienze per denunciare le "gravi disfunzioni degli uffici di sorveglianza, dopo due anni di inutili tentativi di interlocuzione con i magistrati". Solo che sulla protesta per le "decisioni condizionate da una visione carcerocentrica" e per l’impossibilità addirittura fisica di interloquire con i giudici di sorveglianza di Roma, l’avvocatura penale ha trovato riscontri tutt’altro che censori negli interventi di due autorevoli voci esterne: il capo del Dap Santi Consolo e la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze Antonietta Fiorillo. Così quella che doveva essere una pericolosa insubordinazione si è trasformata in una giornata di confronto tra avvocati, magistrati e ministero della Giustizia: il dibattito si è svolto a piazzale Clodio, nell’aula della settima sezione, dove la Camera penale ha organizzato una discussione molto partecipata. Si è partiti dalla "estrema difficoltà di accesso alle cancellerie e di interlocuzione con i giudici", denunciata da diversi avvocati. Difficoltà che sono "origine di compressioni dei diritti dei condannati sia nella fase delle udienze, sia nella fase istruttoria. Ed è chiaro che nessun problema organizzativo degli uffici giudiziari può riflettersi sulla qualità ed efficacia della difesa". Nella tavola rotonda si sono avvicendati dunque rappresentanti non solo dell’avvocatura: oltre al presidente del Tribunale di Roma Francesco Monastero, hanno preso la parola il segretario dell’Unione delle Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, il garante dei detenuti della Regione Lazio Stefano Anastasia, il conduttore della trasmissione di Radio Radicale "Radio Carcere", Riccardo Arena, il segretario della Camera Penale di Roma Cesare Gai. Con Alessandro De Federicis, avvocato del foro di Roma, a fare da moderatore e il contributo, appunto, del capo del Dap Consolo e della dottoressa Fiorillo. Nella sua introduzione il presidente della Camera penale di Roma Cesare Placanica ha segnalato dati meritevoli di riflessione: contro i provvedimenti della magistratura di sorveglianza romana, nel solo 2016, si contano 392 ricorsi per Cassazione; nella Capitale inoltre il dato statistico dell’ammissione alle misure alternative raggiunge solo il 10%, a fronte di una media nazionale del 25%. Secondo il garante Stefano Anastasia, tra le lamentele ricorrenti da parte dei detenuti ci sono la "mancanza di funzione ispettiva da parte del magistrato di sorveglianza" e la "confusione quotidiana tra le misure umanitarie e quelle premiali". Consolo appunto non ha disconosciuto le ragioni del malessere di avvocati e detenuti: a proposito del prevalere di un’idea ancora carcerocentrica dell’esecuzione penale, ha ricordato che "negli ultimi mesi la popolazione detenuta è passata da 52.000 circa a 55.170 unità". E ha sottolineato la necessità che "ciascuno degli operatori faccia la propria parte con una stella polare: una stringente etica della responsabilità". Solo così si può far fronte alle "carenze che riguardano tutte le categorie coinvolte nel trattamento dei detenuti". Che pare un richiamo rivolto anche all’avvocatura, certo, ma che non tiene affatto fuori la magistratura di sorveglianza. "Il ruolo e la funzione dell’avvocato nel procedimento di sorveglianza è essenziale", ha ribadito il capo dell’Amministrazione penitenziaria. Secondo la presidente Antonietta Fiorillo, "sono mancati interventi di clemenza che sarebbero stati necessari. D’altra parte", ha aggiunto, "la magistratura di sorveglianza rappresenta l’ultimo anello su cui si tende a scaricare la responsabilità per i difetti del sistema della pena: senza un aumento delle risorse e degli investimenti, ogni idea di riforma strutturale rischia di rimanere sulla carta". Alla giornata è mancato solo un tassello perché l’avvocatura penale potesse dirsi completamente soddisfatta: la presenza dei magistrati di sorveglianza della Capitale, che avevano declinato l’invito con una lettera inviata la scorsa settimana, in cui avevano definito le ragioni della protesta "di non agevole comprensione". Ma lo stesso segretario dell’Unione Camere penali italiane Francesco Petrelli ha colto nel dibattito di piazzale Clodio un’altra prova di un modello processuale accusatorio in crisi, "in cui prevale in realtà ancora l’eco del precedente sistema inquisitorio". Gli avvocati Cesare Placanica e Vincenzo Comi, presidente e vicepresidente della Camera penale di Roma, hanno apprezzato la larga partecipazione degli avvocati, e l’adesione assicurata anche dai colleghi dei fori di Civitavecchia, Latina e Tivoli: "Questo dibattito", hanno dichiarato Placanica e Comi, "rafforza la consapevolezza del ruolo degli avvocati e attesta la fondatezza delle ragioni della protesta. Occorre ritrovare le ragioni di un dialogo che restituisca la dovuta centralità a una fase delicatissima del sistema penale, dalla quale si misura il livello di efficienza e di civiltà dello Stato" Sicurezza. Accordi bilaterali sui rimpatri e più espulsioni dei clandestini di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2016 Il neo-ministro dell’Interno, Marco Minniti, affronta subito il dossier immigrazione. Nel giorno del suo insediamento al Viminale, dopo il passaggio di consegne con Angelino Alfano, Marco Minniti affronta subito la priorità numero uno: l’immigrazione. Il "cruscotto statistico giornaliero" dell’Interno snocciola cifre mai viste prima. Siamo a 177.533 sbarchi da gennaio (+18% sul 2015, +7% sul 2014). A fine anno si toccherà quota 190mila arrivi. Il sistema di accoglienza ospita 200mila stranieri (175mila adulti e 25mila "minori non accompagnati"). Ma l’impronta di Minniti sul dossier immigrazione porta in dote la sua esperienza di autorità delegata all’intelligence nei governi di Enrico Letta e Matteo Renzi. La questione, dunque, si affronta guardando oltreconfine. Certo, oggi il ministro presiederà il tavolo di coordinamento con gli enti locali: c’è in ballo il piano di redistribuzione dei migranti tra tutti i Comuni d’Italia. Finora solo 2mila700 sono i centri abitati impegnati con l’accoglienza migranti. Proteste e resistenze serpeggiano ormai numerose non solo tra i sindaci targati centrodestra. La questione immigrazione, tuttavia, comincia dai paesi africani. Il patrimonio di conoscenze e informazioni acquisite con la guida dell’intelligence consente a Minniti di puntare, il prima possibile, alla stipula di accordi bilaterali con gli stati di provenienza. Consentono, se ci sono risorse economiche sufficienti, di organizzare rimpatri consistenti. Garantiscono, soprattutto, un effetto di disincentivo alle partenze e di riduzione dei flussi: è l’obiettivo politico prioritario. I principi umanitari non sono affatto in discussione. Ma anche nel travagliato scenario libico, ben noto a Minniti, occorre trovare occasioni di freno, di riorganizzazione e di deterrente ai viaggi della disperazione. È da lì, del resto, che parte la quasi totalità dei flussi. Ma a distanza di pochi mesi da una nuova tornata elettorale la politica dell’immigrazione non può essere una buccia di banana che fa scivolare il governo. Un approccio di tipo securitario, dunque, sarà mescolato a quello umanitario. E, proprio per esigenze politiche, il primo aspetto - Minniti è già stato viceministro dell’Interno con il governo Prodi - andrà rafforzato. Gli accordi bilaterali per i rimpatri, del resto, presuppongono la capacità di fare espulsioni e, se necessario, trattenere i clandestini che non si fanno identificare. I Cie (centri di identificazione ed espulsione), destinati a queste esigenze, sono strutture negli ultimi anni ridotte ai minimi termini. Non è escluso però che, con tutto il rispetto dei diritti umanitari e personali, non si concepiscano nuovi centri destinati a rimpatriare i clandestini. Il dialogo con i partner europei diventa dunque strategico e può andare anche oltre l’approccio d’insieme a Bruxelles finora perdente per l’Italia. I contatti positivi con la Germania sull’immigrazione, per esempio, sono diventati numerosi e intensi. La partita in Europa può fornire spunti vincenti se il governo italiano si mostra virtuoso: lo ha già dimostrato con i meccanismi di foto-segnalamento e rilievi digitali, ora deve far vedere un’azione più efficace sul fronte degli irregolari. Non è poi escluso che sia rilanciato il tema - sollecitato già da Matteo Renzi - dei migranti impegnati in un’occupazione mentre sono in accoglienza anziché trascorrere le giornate senza alcun impegno. Un quadro molto complesso, dunque, dove Minniti potrà contare su tre prefetti del calibro di Luciana Lamorgese, capo di gabinetto confermato, Franco Gabrielli e Mario Morcone, numeri uno ai dipartimenti Pubblica sicurezza e Libertà civili. Crimine economico "cuore" della corruzione di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2016 La corruzione, anche a livello internazionale, è ormai inquadrata essenzialmente come "rottura della concorrenza" e in questo approccio "il cuore del problema è rappresentato dalla criminalità economica". Dunque, non solo corruzione in senso tecnico ma anche riciclaggio, evasione fiscale, falso in bilancio, tutti quei reati preparatori o conseguenziali alla corruzione. Questo raccontano le indagini giudiziarie e questo dicono i Procuratori della Repubblica di Milano e di Roma, Francesco Greco e Giuseppe Pignatone, segnalando la "gravità" del problema al di là della sua "percezione" e la necessità che tutto il "sistema economico si mobiliti". Occorre un "approccio unitario", con Agenzia delle entrate, Guardia di Finanza, Banca d’Italia. Così come, sul fronte della prevenzione, è indispensabile un "controllo diffuso", con la collaborazione tra Procure e Autorità nazionale anticorruzione (Anac) e con il "pieno coinvolgimento" della Pubblica amministrazione e dei cittadini, osserva il presidente dell’Anac Raffaele Cantone: la prima dev’essere consapevole di essere "protagonista" della prevenzione e non mera "esecutrice burocratica" degli adempimenti previsti; i secondi devono ripristinare il rapporto di fiducia con le istituzioni ed essere i primi controllori della Pa. Con questo sguardo a 360 gradi si è discusso ieri, nella sede del Cnel, di corruzione e di "misure di reazione del sistema Paese", partendo dalla "percezione" di questo fenomeno sulla base di indicatori, per lo più internazionali, che vedono l’Italia tra i Paesi più colpiti ma che, secondo Cantone, testimoniano essenzialmente "il tasso di fiducia del Paese nelle istituzioni". Paola Balducci, componente laico del Csm, ha coordinato il dibattito, aperto dal vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, che ha anticipato l’emanazione di "linee guida" per le Procure in materia di corruzione, sulla falsariga di quanto già fatto per le intercettazioni. "L’obiettivo - ha spiegato Legnini - è favorire lo scambio di informazioni tra Pm e Anac con più salde sinergie", come peraltro già avviene a Roma e a Milano, per "diffondere le buone prassi e la cultura organizzativa degli uffici inquirenti in funzione di contrasto ai fenomeni corruttivi". Il punto di partenza è stato il pressoché unanime riconoscimento al legislatore di aver imboccato una strada "corretta" nella lotta alla corruzione. Ma pressoché unanime è stata anche la richiesta di ulteriori e improcrastinabili misure. Sul fronte della prevenzione Balducci ha sollecitato "misure premiali per quelle aziende che adottano sistemi di certificazione più efficaci o che si dotano di modelli di prevenzioni più efficaci", mentre Cantone ha segnalato la necessità di "elaborare indici il più possibile oggettivi sulla corruzione, per individuarne le cause e i modi per intervenire", in mancanza dei quali "non saremo in grado di mettere in campo un’efficace politica di prevenzione". Più lungo il cahier des doleances di Pignatone e Greco. Il Procuratore di Roma segnala, anzitutto, l’incoerenza tra le parole e i comportamenti, ricordando, ad esempio, che alcune aziende considerano la corruzione "un costo di impresa", il che "spiega perché in Italia continua a non funzionare la sanzione sociale" contro corrotti e corruttori, che fa leva sulla "reputazione". Detto questo, restano "due grandi buchi" normativi: la prescrizione e l’inefficienza della risposta penale. Le indagini si fanno ma mancano risorse, il processo è su tre gradi di giudizio e le sentenze arrivano in tempi biblici, o con la prescrizione o con "pene incredibilmente miti". Per non parlare di alcune scelte del legislatore, come quella di ridurre la custodia cautelare in carcere a extrema ratio, tant’è che nel 2015 i detenuti per reati di corruzione erano appena lo 0,6% della popolazione carceraria mentre in Germania l’11%. Greco, dopo aver premesso che l’Italia è forse l’unico Paese che dà una garanzia assoluta di autonomia dei Pm, segnala anzitutto la mancanza di un’adeguata disciplina della corruzione privata (perseguibile a querela e con una pena "inutile"). "Il principale problema che abbiamo in Italia non è la corruzione pubblica ma quella privata". Il problema è "serio" e riguarda le società "ibride, pubblico/private", rispetto alle quali "è molto difficile la qualifica di pubblico ufficiale". "Non va", poi, la disciplina sulle Fondazioni, va affrontato il problema delle "lobby occulte" e quello del conflitto di interessi. Infine, Greco suggerisce che, per agire contro la corruzione, "si mobiliti tutto il sistema economico" e ricorda che negli uffici della Procura di Milano, contro la criminalità economica lavorano quasi stabilmente uomini dell’Agenzia delle entrate, di Bankitalia, della Gdf. Lo spazio minimo della cella si calcola senza contare il letto di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2016 Lo spazio minimo individuale da garantire ai detenuti va calcolato al netto delle strutture fisse della cella, letto compreso. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Prima penale, nella sentenza 52819 depositata ieri, che riproponeva l’annosa questione delle condizioni delle persone detenute in relazione ai parametri Cpt (prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti). Il caso era stato sollevato da un cinquantenne italiano ospite del carcere di Spoleto, che era ricorso dapprima al magistrato di sorveglianza e poi al tribunale di Perugia per ottenere un’inibitoria (e inizialmente anche una decisione risarcitoria) sulla violazione del suo diritto a vivere in condizioni adeguate, dal punto di vista costituzionale e delle normative europee, la sua reclusione. Il giudice di secondo grado aveva alla fine stabilito che, metro alla mano, lo spazio minimo del detenuto va calcolato al netto delle strutture fisse (per esempio armadi, mensole e pensili sotto l’altezza uomo) ma al lordo del letto. Secondo questa prospettazione, infatti, il letto è "superficie d’appoggio" destinata all’attività sedentaria,che è quella caratteristica durante le ore trascorse nel locale di detenzione, considerato che gran parte del tempo viene impiegato piuttosto negli spazi collettivi del carcere. Il detenuto ha impugnato in Cassazione proprio questa sottile distinzione tra arredi, lamentando in sostanza che tutto lo spazio sottratto al libero movimento degli occupanti della cella dovrebbe essere considerato senza distinzione come sottratto agli standard minimi di superficie della cella. Posizione, questa, che la Prima penale ha condiviso facendola propria, anche sulla base dei numerosi precedenti della Corte europea, dal caso Goodwin/Regno Unito(28957/95) a quello Scoppola/Italia (10249/03) fino a Sabri Gunes/Turchia (27396/06). In tutte quelle decisioni l’esigenza dei tre metri quadrati per detenuto nelle celle collettive resta "la norma minima pertinente al fine di apprezzare le condizioni delle detenzione sotto l’aspetto dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo". Tuttavia, aggiunge la Cassazione, i parametri Cpt svolgono una funzione preventiva a monte, mentre il giudice deve apprezzare se nel caso specifico esistano fatti costitutivi di pene o trattamenti inumani o degradanti. E se l’insegnamento della Grande Camera della Cedu spiega che nel calcolo della superficie disponibile deve essere incluso quello occupato dai mobili, determinante è "se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella cella". Proprio in applicazione di questo criterio, la Cassazione esclude oggi dal computo le strutture tendenzialmente fisse - tra cui il letto - "mentre non rilevano arredi facilmente amovibili". Fortemente critici i Radicali sulla sentenza di ieri. "Decisione ovviamente positiva, ma ci chiediamo se è possibile che invece di parlare di lavoro in carcere, risocializzazione, affettività, e magari di abolizione delle pene detentive brevi, siamo ancora ridotti a dibattere "metro alla mano". Niente gratuito patrocinio al detenuto "la sua famiglia è stipendiata dalle cosche" di Marco Benvenuti La Stampa, 14 dicembre 2016 Confermata la decisione del magistrato di sorveglianza Dal supercarcere di Novara, dove sta scontando una condanna definitiva per delitti mafiosi, ci ha provato in tutti i modi per non pagare l’avvocato. Già il giudice di Sorveglianza di Novara, pronunciandosi nel 2014 fa su una delle sue tante richieste, aveva espresso parere negativo. Lui non si è arreso e ha proseguito la sua battaglia. Ora è arrivato anche il "no" della Cassazione: Alessio Attanasio, 46 anni, considerato esponente di spicco dei clan siracusani, non ha diritto al patrocinio gratuito a spese dello Stato. Questo perché tre anni fa un pentito ha rivelato che le cosche stavano supportando economicamente la sua famiglia. Detenuto dal 2001 con i beni confiscati, Attanasio aveva presentato ricorso contro le ordinanze con cui, a marzo, il magistrato di Sorveglianza gli aveva negato i benefici previsti per i non abbienti pur ammettendo che i modesti sussidi periodicamente corrisposti dall’anziana madre e i risultati scolastici conseguiti facciano presumere che non percepisca più profitti o redditi da attività illecite di origine mafiosa. A supporto della decisione il giudice aveva citato, fra l’altro, un’informativa del 26 giugno 2014 della procura di Catania da cui risultava che, secondo un pentito, "sino a luglio 2013 un’associazione criminale di tipo mafioso avrebbe inviato uno "stipendio" ai familiari". La Suprema Corte ha sottolineato che si tratta solo di un "elemento investigativo da approfondire", ma concluso che il tribunale di Novara ha fatto bene a tenerne conto. La lettera scritta al Papa - Non è la prima volta che Attanasio passa alla ribalta delle cronache per le sue richieste e le battaglie legali. Nel 2013 aveva spedito da Novara una lettera a Papa Francesco. Essendo scritta in spagnolo, aveva attirato l’attenzione dell’ufficio censura di via Sforzesca. Nel 2014 aveva fatto ricorso al Tar perché non aveva ricevuto due libri di Isabel Allende, in spagnolo, che voleva leggere. Il giudice di Novara gli aveva dato il via libera e lui, dopo mesi di inutile attesa, aveva presentato un esposto. Ludopatia e proscioglimento per totale incapacità di intendere e volere di Antonella Calcaterra Il Manifesto, 14 dicembre 2016 Tribunale di Milano, sezione VII penale. Che la ludopatia possa essere considerata una patologia psichiatrica (diagnosi di gioco d’azzardo patologico, G.A.P.) in presenza di alcuni indici significativi non appare discutibile. Quello che appare discutibile è la possibile ricaduta di essa sulla capacità di intendere e di volere del soggetto al punto da abolirla completamente. In tal senso, invece, sembra essersi espresso il Tribunale di Milano, sezione VII penale, che ha prosciolto, per totale incapacità di intendere e volere, dall’accusa di reiterati furti una donna dichiarata giocatrice patologica, "con dipendenza dall’abitudine del gioco quale condizione per cui il soggetto non può impedirsi di compiere furti in modo coattivo per garantirsi tale possibilità". La notizia è apparsa nelle cronache giornalistiche pochi giorni fa ed è stata accolta con interesse dall’Associazione Azzardo e nuove dipendenze per il riconoscimento di malattia e della fragilità delle persone. È mai accaduto che un giudice penale abbia prosciolto per totale incapacità totale di intendere e volere un tossicodipendente che aveva commesso furti o rapine spinto dall’insopprimibile necessità di procurarsi denaro per acquistare lo stupefacente necessario? Facilissimo rispondere a questa domanda retorica. La dipendenza da gioco, come quella da alcool e da droga, in quanto patologia, va certamente curata e trattata e sarebbe utile un sistema sanzionatorio che prevedesse, a fronte di fatti reati commessi al fine di procurarsi soldi per "giocare, drogarsi o bere", percorsi di cura adeguati con servizi specialistici. Sarebbe auspicabile, ad esempio, che vi fosse un ampliamento delle misure alternative di cura previste dal DPR 309/90 per i tossicodipendenti anche alle persone colpite da ulteriori e patologiche dipendenze, quale quella della ludopatia. La circostanza stessa che i servizi ormai affrontino queste problematiche attesta la loro consistenza e suggerirebbe una uniformazione della disciplina giuridica oggi prevista solo per i tossicodipendenti e non, invece, estensibile ad altre patologie da dipendenza, secondo i dettami della Suprema Corte (Cass. Sez. I, 3.5.2016 n. 29331). Desta invece molte perplessità una pronuncia che addirittura azzeri la capacità di intendere e volere di un soggetto: se da un lato può esserci limitazione del volere, appare francamente forzata e discutibile la esclusione completa di quella di intendere il fine delle azioni, che sono ovviamente indirizzate a soddisfare i bisogni della dipendenza in atto. L’estensione a dismisura delle incapacità di intendere e volere rischia di stravolgere i criteri rigorosi di accertamento e riconoscimento di essa secondo i parametri giuridici e forensi e di ampliare il campo delle misure di sicurezza con pericolose derive verso applicazioni di misure restrittive già ampiamente abusate rispetto ai criteri previsti e sanciti dalla legge 81/2014 sulla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg), che fatica ad andare a regime proprio a causa dell’impropria applicazione dei nuovi principi. La cura può passare anche attraverso un riconoscimento di penale responsabilità, con misure alternative connotate di attenzione, oppure può costituire l’elemento fondante di un progetto di messa alla prova, come previsto dalla normativa introdotto con la legge 67/2014. Disciplina peraltro applicabile anche ai recidivi e ad una vasta tipologia di reati. Il tutto senza forzare i principi che dovrebbero caratterizzare gli accertamenti di correlazione tra malattia ed incidenza di essa al momento dei fatti sui processi volitivi e determinativi del soggetto. Concordato preventivo, la frode c’è solo se i fatti sono chiari Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 50675/2016. Il carattere frodatorio del piano per il concordato preventivo va accertato in concreto e deve consistere in una chiara e indiscutibile manipolazione della realtà aziendale, tale da falsare il giudizio dei creditori e orientarli in maniera presumibilmente diversa. La frode non può consistere in una diversa lettura dei dati esposti nel piano da parte dei soggetti cui tocca la verifica, ma presuppone una rappresentazione non veritiera della realtà aziendale, attuata attraverso la volontaria pretermissione di cespiti rilevanti. Emilia Romagna: Marcello Marighelli è il nuovo Garante regionale dei detenuti estense.com, 14 dicembre 2016 Ha ottenuto 39 voti su 44 dall’Assemblea legislativa, prende il posto di Desi Bruno. È il ferrarese Marcello Marighelli il nuovo Garante regionale dei detenuti, votato con una ampissima maggioranza (39 voti su 44) dall’Assemblea legislativa nelle seduta di martedì mattina. Paolo Calvano, consigliere Pd, si è espresso a nome del proprio gruppo e di quello di Sel per proporre l’incarico a Marighelli, che da maggio 2011 ricopre il ruolo di Garante dei detenuti del Comune e della Provincia di Ferrara. "La figura di Marcello Marighelli, grazie alla sua riconosciuta esperienza, ha trovato un consenso molto ampio. Il suo nome ha infatti ottenuto 39 voti su 44, facendo confluire su di sé tutti i gruppi presente in Assemblea Legislativa ad eccezione dei 5 Stelle (che hanno proposto Roberto Cavalieri, Garante a Parma, ndr). È la conferma del valore dell’attività svolta a Ferrara e non posso che augurargli di proseguire con lo stesso impegno il buon lavoro iniziato nella nostra città", commenta Calvano. "Complimenti e auguri di buon lavoro a Marcello Marighelli e un sincero ringraziamento per il lavoro svolto in questi anni dal Garante uscente Desi Bruno". Simonetta Saliera, presidente dell’Assemblea legislativa regionale dell’Emilia-Romagna, commenta così dalle pagine del suo sito Internet l’elezione avvenuta questa mattina da parte del "parlamento" di viale Aldo Moro del nuovo Garante regionali dei Detenuti. "Sono certa che darà un grande contributo al lavoro di tutta l’Assemblea che così si caratterizza sempre più come l’Assemblea dei Diritti", spiega Saliera che ricorda anche come "nel rispetto dei reciproci ruoli istituzionali ci saranno molte occasioni di collaborazione e impegno comune su temi che stanno a cuore ai cittadini perché toccano le parti meno potenti della società a cui, invece, la politica e le Istituzioni devono dare voce e visibilità". La Presidente dell’Assemblea rivolge poi un ringraziamento "sincero e per nulla rituale per il grande lavoro svolto in questi anni difficili" al Garante uscente Desi Bruno. "Il suo impegno è un modello di lavoro e di passione nella dedizione alla vita pubblica per tutti noi", spiega Saliera. Soddisfazione anche dal consigliere comunale Leonardo Fiorentini (SI), da sempre molto attento ai diritti dei detenuti: "Sono molto contento per la nomina, è sia un premio al suo lavoro svolto in questi anni che un segno di continuità rispetto all’esperienza dei garanti territoriali dei detenuti. Positiva - commenta Fiorentini - la convergenza sul suo nome". Il ruolo - finora svolto da Desi Bruno - prevede la vigilanza sulle condizioni di vita delle persone detenute nelle carceri regionali al fine di garantirne il rispetto della dignità e dei diritti, con particolare riguardo alla presenza di trattamenti inumani e degradanti e alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie dei luoghi di privazione della libertà personale e sull’adempimento del dettato costituzionale relativo alla finalità rieducativa della pena. Per svolgerlo può visitare senza necessità di autorizzazione preventiva gli istituti penitenziari ed effettuare colloqui riservati con le persone detenute. Svolge anche attività di formazione e sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani e sulla finalità rieducativa della pena. Marighelli, 66 anni, da molto tempo attivo nell’ambito dei diritti dei detenuti, è Garante territoriale di Ferrara e provincia dal maggio 2011. In precedenza è stato assessore comunale al Personale e al Decentramento per otto anni, dal 2001 al 2009. Toscana: gli scrittori in carcere a parlare di libri La Repubblica, 14 dicembre 2016 All’iniziativa "Caro amico ti scrivo..." hanno aderito Emiliano Gucci, Federico Regeni, Giampaolo Simi, Simone Lenzi e altri. Il primo è stato Emiliano Gucci, lo scorso 7 dicembre nel carcere di Prato. Ora tocca (13 dicembre) a Federico Regeni nel carcere di Porto Azzurro, poi il 15 dicembre Giampaolo Simi andrà a Volterra mentre il 19 Simone Lenzi sarà alla casa di reclusione di San Giminiano. Il progetto, promosso dal Prap di Firenze, il provveditorato di polizia penitenziaria, in collaborazione con la libreria Rinascita di Empoli si intitola "Caro Amico, io scrivo…" ed è coordinato da Monica Sarno. Il progetto prevede che alcuni scrittori entrino in carcere per conversare, con i detenuti studenti e con quelli che partecipano ai laboratori di scrittura, sul senso dello scrivere. Consegneranno inoltre i premi (tre libri a testa frutto della raccolta libraria della precedenza iniziativa "C’è un libro per te") ai diplomati e ai diplomandi dell’anno scolastico 2015/2016. Gli incontri proseguiranno a gennaio 2017 in date da definire, con Jacopo Chiostri al carcere di Livorno, Marco Malvaldi alla casa di reclusione di Massa, Francesca Melandri a Firenze Sollicciano ed Enzo Carabba a Massa Marittima e Firenze Mario Gozzini. Gli incontri saranno seguiti da Teresa Delogu della Libreria Rinascita di Empoli e coordinati da Monica Sarno dell’ufficio detenuti e Trattamento del Prap di Firenze. Bologna: morto l’agente penitenziario che si sparò al pronto soccorso Corriere di Bologna, 14 dicembre 2016 I motivi del gesto non sono stati ancora chiariti. È morto martedì mattina il 44enne agente di Polizia Penitenziaria che lo scorso 3 dicembre si era sparato un colpo di pistola mentre era in attesa al pronto soccorso del Sant’Orsola di Bologna. L’uomo, fin dall’inizio in condizioni disperate, è deceduto nel reparto rianimazione dell’ospedale Maggiore, dove era stato trasferito poche ore dopo il tentativo di suicidio. Originario del Napoletano, il 44enne era un assistente capo di Polizia e lavorava nel centro di prima accoglienza adiacente all’istituto penale minorile del Pratello. Nella stessa struttura, dove aveva il proprio alloggio, quella mattina si era fatto soccorrere da un’ambulanza per un problema alla bocca, dovuto a quanto pare a un incidente in bicicletta di pochi giorni prima. Arrivato in ospedale con un "codice bianco", si era fatto sistemare in una saletta d’attesa dove si era poi sparato alla bocca con la pistola d’ordinanza. I motivi del gesto non sono stati chiariti. Aversa (Ce): all’Opg diventato Casa di reclusione c’è "Arte che libera la speranza" di Livia Fattore pupia.tv, 14 dicembre 2016 L’Opg "Filippo Saporito" diventa Casa di reclusione, ma non cambia l’attività di solidarietà di associazioni e istituzioni. Giovedì 15 dicembre, alle 16.30, infatti, ancora una volta, artisti, istituzioni e volontariato si mobiliteranno per trasmettere la loro solidarietà alla popolazione carceraria e ai loro familiari con "Arte che libera la speranza". "Una testimonianza - affermano gli organizzatori - di vicinanza declinata attraverso l’arte: un mezzo straordinario per parlare al cuore di ciascuno di noi e, contemporaneamente, farci riflettere sui grandi temi che toccano la nostra vita, sia come persone che come collettività, mettendo in scena i valori, i sentimenti, le sfide e le speranze in un domani più bello e sereno. Un domani che nessun muro potrà precludere, occorre solo avere il coraggio di alzare lo sguardo più in alto e mirare ad un orizzonte di legalità e rispetto dell’altro". L’iniziativa, che si terrà presso il teatro della struttura carceraria, è promossa d’intesa tra l’associazione Casmu, presieduta da Mario Guida, la rassegna nazionale di Teatro scuola PulciNellaMente, rappresentata dal direttore Elpidio Iorio, i vertici della casa di reclusione con la direttrice Elisabetta Palmieri e il comandante commissario Luigi Mosca. Ben quattro i comuni che hanno dato il proprio patrocinio: Aversa, rappresentato dal sindaco Enrico De Cristofaro, Sant’Arpino, dal sindaco Giuseppe Dell’Aversana, Cesa, dal sindaco Enzo Guida, e Carinaro, dal sindaco Marianna Dell’Aprovitola. "Con l’evento, - spiegano gli organizzatori - i detenuti saranno i beneficiari di dediche, gesti, parole, pensieri, sguardi, canti, performances varie, il tutto abilmente sintetizzato in un percorso in cui arte e solidarietà s’intrecciano e uniscono quei valori che sanno toccare la sensibilità più profonda di ciascuno di noi dando vita ad un percorso intimo e personale che invita alla riflessione profonda e autentica. Se poi tutto ciò avviene all’interno di un luogo inconsueto come una struttura penitenziaria, dove la visita non è mai accompagnata dall’indifferenza e le emozioni si amplificano, allora l’iniziativa assume contorni ancora più leggibili perché la fusione tra la bellezza di un’opera d’arte e la semplicità di un gesto di solidarietà diventa naturale". Padova: cellulare da 007 per gli ergastolani di Donatella Vetuli Il Gazzettino, 14 dicembre 2016 Un cellulare dalle dimensioni ridottissime ma ultra sofisticato, un apparecchio degno di uno 007 che, come nel migliore canovaccio di spionaggio, era stato nascosto tra le pagine scavate al millimetro di un dizionario. La scoperta è stata fatta dagli agenti penitenziari del Due Palazzi: l’apparecchio era nelle mani di un detenuto, ex esponente della Mala del Brenta, tradito dalla sua insolita ricchezza: una fornitissima provvista alimentare, tra pacchi di caffè e pasta, che avrebbe guadagnato in cambio della disponibilità di quel super telefonino verso altri detenuti. Gli agenti: "Scandaloso che non venga trasferito". L’ultimo prodigio della tecnologia si trova in carcere. Trattasi di un telefono cellulare grande quanto un accendino, ma dalle svariate funzioni, compresa quella di essere facilmente occultabile, come è affettivamente accaduto, anche tra le pagine di un vocabolario. È stato sequestrato dagli agenti della polizia penitenziaria a un detenuto della casa di reclusione, un italiano legato alla mala del Brenta prossimo a lasciare il carcere, dopo una lunga pena per rapina e furto aggravato. Scoperto, l’uomo si è trincerato dietro il più assoluto silenzio sulla provenienza del cellulare. "Ma è il quarto telefono trovato in 20 giorni - rivela Giovanni Vona, segretario nazionale per il Triveneto del sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Il Due Palazzi è ormai un carcere colabrodo, manca il personale, c’è poca sicurezza". Lo scandalo dei telefoni in uso ai detenuti era scoppiato nel 2014. Il Due Palazzi si era rivelato il market dove si poteva acquistare di tutto, complici alcuni agenti. Tra droga e cellulari imboscati nelle celle, quindici persone furono arrestate, cinquanta vennero indagate. Ma il fenomeno è duro a morire se si ripresenta regolarmente, nonostante inchieste e condanne pesanti. Stavolta spunta anche il telefonino invisibile e reperibile su internet a poche decine di euro. È lungo meno di sette centimetri, largo poco più di due, pesa solo pochi grammi e tra le leggende che circolano in Rete c’è anche quella che nessun metal detector riuscirebbe a intercettarlo. Per nasconderlo il detenuto aveva ritagliato le pagine di un dizionario di inglese, così da ricavarne un piccolo spazio dove inserirlo. Altro nascondiglio era dietro il water ed è lì che l’apparecchio è stato trovato dagli agenti. Certo è che l’uomo, già finito nei guai alcuni anni fa al Due Palazzi per avere ricavato dalla frutta bevande alcoliche e per essere stato trovato in possesso di un cellulare, aveva insospettito le guardie carcerarie per via della sua fornitissima provvista alimentare, tra pacchi di caffè e pasta, pur non lavorando, né avendo denaro. Insomma, temevano che riuscisse a guadagnare attraverso loschi traffici e scambi di piaceri, telefonate comprese. "È uno scandalo - continua Vona. Nonostante la violazione del regolamento quell’uomo non è stato trasferito dalla casa di reclusione di Padova. È un recidivo, che pure in sfregio alle regole resta in un carcere modello, dove l’offerta trattamentale è ampia. Noi agenti ci troviamo in una situazione di impotenza. Ripeto: solo pochi uomini in servizio, a scapito delle misure di sicurezza in un regime di vigilanza dinamica, cioè a porte aperte. Per il periodo di Natale, e dunque con le ferie, c’è il concreto rischio che un poliziotto si ritrovi da solo con cento detenuti". Milano: un nuovo accesso al Teatro Beccaria-Puntozero, all’interno del carcere minorile chiamamilano.it, 14 dicembre 2016 "Una porta dal forte valore simbolico che avvicina due realtà quali la Società civile e la comunità dei ragazzi detenuti e che rafforza i valori di reinserimento sociale applicati all’interno dell’Istituto dalle Autorità e del personale che vi opera, da figure di prestigio umano e culturale come Don Gino Rigoldi e dai promotori del nuovo Teatro Beccaria-Puntozero Giuseppe Scutellá e Lisa Mazoni grazie al sostegno di Enti quali la Fondazione Marazzina, la Fondazione Cariplo, il Teatro alla Scala, il Piccolo Teatro di Milano, Mapei, Ars Aedificandi, Banca Prossima, MAG2 Finanza, Peroni e altri", così è scritto nella nota di presentazione della nuova Porta del Carcere minorile Beccaria che sarà inaugurata domani alle 18 e che permetterà al pubblico di accedere in modo diretto al Teatro Beccaria-Puntozero, all’interno dell’Istituto Penale Minorenni. Alla cerimonia, insieme alla Direzione dell’Istituto Olimpia Monda, al Direttore del Centro Giustizia Minorile Flavia Croce e al Cappellano del Carcere Beccaria Don Gino Rigoldi, saranno presenti il Sindaco Giuseppe Sala, il deputato Gennaro Migliore, il Senatore Franco Mirabelli, il Capo Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità Francesco Cascini, il Direttore Generale del Dipartimento Vincenzo Starita, l’Assessore alle Politiche Sociali Pierfrancesco Majorino. I promotori dell’iniziativa tengono a ricordare che il carcere minorile possiede oggi tra le sue mura un "teatro moderno, funzionale e tecnologicamente aggiornato". L’associazione Puntozero ha potuto realizzare questo progetto, nato nel 2005, grazie al lavoro svolto negli ultimi anni da Giuseppe Scutellà e Lisa Mazoni, con il sostegno dell’Amministrazione della Giustizia Minorile, di numerose altre Istituzioni e Aziende Milanesi. Il Teatro alla Scala, che per interessamento del Direttore Generale Maria Di Freda è accanto all’associazione dal 2005 e nel 2007 ha destinato al Teatro del Beccaria le poltrone dopo il restauro del Piermarini, ha fornito un sostegno fondamentale coordinando i lavori grazie alla passione dell’ingegner Franco Malgrande, con il coinvolgimento di Mapei che a sua volta ha contribuito con la fornitura gratuita dei propri prodotti e una donazione. Il ripristino del Teatro interno al carcere minorile e l’inizio dell’attività teatrale permanente crea un nuovo punto di produzione culturale aperto e accessibile all’intera cittadinanza, contribuendo ad arricchire l’offerta culturale della città di Milano e ad attenuare l’idea del carcere come istituzione punitiva, facilitando la comunicazione tra "dentro" e "fuori" attraverso l’accessibilità della cittadinanza. L’attività di Puntozero si è avvalsa del contributo di sostenitori e volontari tra cui l’Onorevole Franco Mirabelli, Giuseppe Vaciago della Fondazione Marazzina, Moreno Gentili per la Comunicazione, Alexander Pereira e Maria Di Freda per il Teatro alla Scala, Sergio Escobar per il Piccolo Teatro e altri. Sempre martedì 13, alle ore 19.30, andrà poi in scena La Cenerentola per bambini, riduzione per i più piccoli dell’opera di Gioachino Rossini eseguita dai complessi e dai solisti dell’Accademia Teatro alla Scala diretti da Pietro Mianiti, protagonista Aya Wakizono. Lo spettacolo è il titolo di maggior successo dell’iniziativa Grandi spettacoli per i piccoli che ha portato alla Scala decine di migliaia di bambini con i loro genitori e insegnanti e che conserva in questa nuova cornice la sua funzione di coinvolgimento e apertura: il pubblico dello spettacolo sarà costituito da giovani detenuti ma anche da numerosi bambini del quartiere che verranno invitati a scoprire per la prima volta la nuova struttura che arricchisce la loro zona. Cagliari: "Benessere… dentro e fuori" al reparto femminile del carcere di Uta Ristretti Orizzonti, 14 dicembre 2016 Terzo appuntamento con "Benessere…. dentro e fuori", l’iniziativa che l’associazione "Socialismo Diritti Riforme" e il Centro Estetico "Dalle ceneri della Fenice" dedicano alle detenute della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. Organizzato con la collaborazione dell’Area Educativa dell’Istituto, il progetto, concordato con il Direttore del Penitenziario Gianfranco Pala, è finalizzato alla valorizzazione dell’immagine femminile e all’attivazione di strategie per favorire la convivenza nella sezione destinata alle donne all’interno del Villaggio Penitenziario. L’iniziativa in programma giovedì 15 dicembre alle ore 10 prevede un incontro con Maria Franca Marceddu, medico estetico e con una delegazione delle socie e del direttivo di SDR. L’appuntamento di giovedì avrà un significato speciale per l’imminenza delle Festività Natalizie un periodo particolarmente delicato e difficile per chi vive l’esperienza detentiva. "Incontrare le donne carcerate con l’intento di trascorrere con loro qualche ora in segno di solidarietà ma anche per valorizzare la cura della persona - affermano Maria Franca Marceddu e Maria Grazia Caligaris - è la principale finalità dell’iniziativa. Abbiamo riscontrato che i momenti di socialità dedicati allo scambio di esperienze al femminile sono accolti dalle detenute con particolare favore. In prossimità di festività importanti come il Natale offrono un’occasione in più per assaporare la vicinanza del volontariato alla condizione di perdita della libertà. Un momento in cui anche il profilo problematico della convivenza tra detenute, non sempre facile, si attenua e migliorano ulteriormente le relazioni positive con le Agenti della Polizia Penitenziaria. Figlie, madri, mogli, compagne si riconoscono in un universo femminile in cui emergono molti tratti comuni e la cura della persona, insieme a qualche segreto per conservare la propria bellezza che solo un medico estetico può fornire, potrà essere un toccasana". In occasione dell’incontro, le detenute, attualmente una ventina, riceveranno in omaggio dei campioncini di prodotti per la cura della persona messi a disposizione dal Centro medico estetico "Dalle ceneri della Fenice" di Cagliari e gusteranno qualche dolce in compagnia. Pescara: addobbi natalizi made in carcere, una piccola storia di cambiamento di Francesco Lo Piccolo felicitapubblica.it, 14 dicembre 2016 È nelle piccole storie, nei piccoli fatti quotidiani per lo più ignorati dai giornali, che in realtà si nascondono le grandi storie, le storie che danno il senso della vita. E la piccola storia di cui voglio raccontare oggi qui, come quelle storie che mi ha insegnato a raccontare Vincenzo Cerami, l’autore di "La vita è bella", e che ho conosciuto negli anni in cui ho lavorato al Messaggero a Roma, si svolge nel carcere di Pescara, nello spazio chiamato "la città", in un piccolo laboratorio di sartoria attrezzato alla buona, con tre macchine da cucire, aghi che si rompono, guanti di plastica. Ogni giorno dalle 9 alle 12, utilizzando vecchi abiti recuperati nei mercatini o dismessi dagli stessi detenuti, Rachid, Roberto, Carlo e Lyang imbastiscono, cuciono, creano. Borse, borselli porta tabacco, bambole, cuscini… Hanno molti anni di carcere alle spalle, altrettanti ancora da fare. Seduti con loro attorno ai tavoli da lavoro ci sono le studentesse dell’Università D’Annunzio che entrano in carcere come tirocinanti di Voci di dentro e due sarte. Tutti insieme in una stanza allegra e colorata dove il suono delle macchine da cucire si accompagna alle musiche di una radio e ai racconti, ai ricordi, alle parole, alle confidenze, alle illusioni. In questo piccolo laboratorio qualche settimana fa è entrata una speranza, un lavoro per il Comune di Manoppello: la realizzazione di una quarantina di sfere natalizie e di altrettanti fiocchi da appendere nelle vie del paese in occasione delle feste di Natale. Un’occasione per chi non ha occasioni, una chance per chi nella vita non ha poi avuto grandi chance e neppure la possibilità di fare altre scelte. Rachid, Roberto, Carlo e Lyang si sono subito messi all’opera assieme a Chiara e Alessia, le due tirocinanti dell’Università del corso di Laurea in Sociologia e Criminologia: insieme hanno costruito fiocchi e palle e grazie alla loro inventiva hanno trasformato un piccolo lavoro in qualcosa di magico. Addobbi natalizi stupendi, colorati, rosso e oro. Che sono stati consegnati martedì scorso. Ma non solo addobbi natalizi. Insieme hanno creato qualcosa che in realtà vale tanto di più, quel qualcosa che è rappresentato da un’idea, un progetto, dove il mondo di fuori e il mondo di dentro hanno abbattuto seppure idealmente, seppure per poco tempo, mura, cancelli e sbarre. Quelle mura, cancelli e sbarre che ormai da tempo non servono né alla sicurezza, né alla fantomatica rieducazione. E che al contrario fissano, sconfiggono e imprigionano le persone in ruoli: o guardia o detenuto. O maestro o allievo. Nel laboratorio di sartoria, e negli altri laboratori allestiti da Voci di dentro onlus (laboratori di scrittura, di teatro, fotografia, computer, anche questi realizzati grazie ai tirocinanti e ai volontari dell’associazione), in quello spazio nel carcere di Pescara chiamato "la città", accadono eventi tutti nuovi, accade l’incontro tra persone. Senza ruoli. Prima pietra di un cambiamento che riguarda gli uomini richiusi nel carcere e la stessa struttura carcere. Con la convinzione che l’uno non può esserci senza l’altro. Vincenzo Cerami, morto tre anni fa, mi aveva insegnato ad entrare con lo sguardo dentro alle piccole cose del mondo. Beh, questa nel carcere di Pescara è una piccola cosa. In realtà una grande cosa… Una cosa che dà il senso della vita. Qualche anno prima che morisse avevo sentito Cerami al telefono per un progetto da realizzare insieme. Poi ci siamo persi di vista. Mi era caro. I suoi libri mi hanno fatto una bella compagnia: li rivedo qui nella mia libreria in mezzo a tanti altri autori. Da tutti ho imparato che prima di ogni cosa, ovunque, ci sono le persone. Come Rachid, Roberto, Carlo e Lyang. Napoli: "ArtigiaNato in Carcere", mostra mercato di prodotti realizzati dai detenuti Ristretti Orizzonti, 14 dicembre 2016 Il giorno 17 dicembre 2016, presso la Galleria Umberto I° di Napoli, si terrà la mostra-mercato "ArtigiaNato in Carcere", organizzata dal Comune di Napoli, dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Napoli, dal Garante per i Detenuti per la Regione Campania e dall’Associazione "Il carcere possibile o.n.l.u.s.". La manifestazione, giunta ormai alla sesta edizione, propone l’esposizione e la vendita di prodotti realizzati negli Istituti e nei Servizi Penitenziari della Regione e dalle Associazioni e Cooperative collegate. Accanto a manufatti di ispirazione prevalentemente natalizia, verranno proposti ai visitatori prodotti rientranti ormai nell’eccellenza e conosciuti anche oltre i confini regionali, quali il caffè a marchio "Lazzarelle", tostato e confezionato presso la Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli, e il vino "Fresco di Galera" e il miele provenienti dalla Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi. Non mancano poi oggetti artigianali realizzati con le più svariate tecniche, anche utilizzando materiali riciclati, con un occhio di riguardo quindi per l’ecologia e l’ambiente. Obiettivo principale dell’iniziativa è quello di creare un ponte tra la società e il carcere, promozionando le tante attività che vengono svolte all’interno degli Istituti e dando risalto alla missione fondamentale dell’Amministrazione Penitenziaria, che deve realizzarsi attraverso un azione trattamentale mirante al reinserimento delle persone in esecuzione di pena attraverso il lavoro e la formazione professionale. Benevento: "Limiti", il diario di bordo. Due anni di teatro in carcere Ottopagine.it, 14 dicembre 2016 Si è concluso il progetto di Solot e Motus presso la casa circondariale. Ristretti nello spazio di un carcere dove regnano dolore, solitudine e abbrutimento un gruppo di sognatori visionari ha vinto attraverso l’arte, la cultura, la poesia. È il progetto Limiti a cura di Motus - Solot, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale. Chi l’ha condotto ha combattuto tra le sbarre della realtà con il mondo dove tutto diventa possibile: il teatro. Ha misurato i passi, non per contare lo spazio angusto delle celle piuttosto per prendere la dimensione delle esistenze e indagare le storie che occorrono a conoscersi e a guadagnare la sfida più difficile di tutte: quella con l’esistenza quotidiana. E ha vinto, puntando i riflettori sui limiti che tutti hanno. Questo appassionante percorso durato due anni è diventato uno spettacolo teatrale, un film e un libro. Ieri sera, al l Mulino Pacifico di via Appio Claudio, l’evento di chiusura del progetto con la presentazione de "Il Diario di bordo", ultima tappa che racconta l’esperienza teatrale e cinematografica svoltasi alla Casa Circondariale di Benevento attraverso il punto di vista degli operatori, dei detenuti e di quanti indirettamente ne hanno fanno parte. Il libro, diviso in sezioni, si apre con i volti e le storie degli operatori Motus-Solot e dei detenuti-attori. Una sintesi degli eventi e di tutto ciò che hanno significato viene presentata attraverso i comunicati stampa, le foto, i post condivisi sul blog senzacravatta. Lo stesso per le attività del progetto: il laboratorio teatrale, lo spettacolo al Carcere "Come comincia una poesia", il docufilm "Fine Pena. Il futuro oltre le sbarre", il canale youtube della Solot con le interviste ai detenuti. A chiudere il libro una raccolta di racconti ispirati all’esperienza e narrati da diversi protagonisti: detenuti, familiari, operatori, figure legate alla struttura carceraria, arricchiti da suggestive illustrazioni sul tema. Sondrio: un "Natale in libertà" in carcere, tante iniziative per i detenuti e non solo Il Giorno, 14 dicembre 2016 Obiettivo delle manifestazioni: riavvicinare la città di Sondrio alla Casa circondariale e permettere il reinserimento dei carcerati. Anche quest’anno la Casa circondariale di Sondrio si avvia a celebrare in Natale in carcere. "Diverse le manifestazioni previste - spiegano la direttrice, Stefania Mussio, e il suo staff - al fine di continuare la relazione e l’amicizia tra l’Istituto e la città. Si inizierà venerdì 16 nel primo pomeriggio con una partita di calcio giocata dai ragazzi della scuola Pio XII "contro" la squadra di detenuti che prevede anche un buona merenda tutti insieme, per continuare il giorno 17 alle ore 17.00 con il concerto di Natale che vede la partecipazione dei ragazzi della Scuola civica di Sondrio in un bel concerto musicale regalato dalla scuola alle persone detenute. Il giorno 20 invece alle ore 20.00 il coro Alpi Retiche di Civo, in cui non manca la presenza degli alpini, ci regalerà canti in onore del natale e dopo il concerto ci sarà un momento conviviale preparato dalle persone detenute durante il quale saranno distribuiti di doni ai loro figli. Il 21 sarà il vescovo della Diocesi a farci visita per augurare ai detenuti il buon Natale, ed infine il coro "Voci nel tempo" di Cortenova chiuderà l’anno con una esibizione mercoledì 28 dicembre alle ore 21.00. A questi eventi, naturalmente aperti a tutta la cittadinanza, è prevista come ogni anno la distribuzione dei doni per i figli delle persone detenute, doni quest’anno acquistati grazie al contributo raccolto durante la proiezione del film Fiore presso il cinema Excelsior dalle persone intervenute che con la loro generosità permetteranno l’acquisto di un piccolo dono ai figli di chi è detenuto". Il giorno di Natale, è prevista la tradizionale messa celebrata dal cappellano del carcere, don Ferruccio Citterio nella caratteristica chiesa presente all’interno dell’Istituto. Sono previste altresì una serie di iniziative a sostegno dei detenuti tra le quali la possibilità di effettuare dei colloqui straordinari nel giorno di Natale, ed ancora la visione di film e cineforum e l’organizzazione di giochi e altre attività grazie ai volontari che partecipano all’opera di riavvicinamento sociale. Tutti gli eventi vedranno la partecipazione di tanti volontari, del cappellano dell’Istituto, del personale di Polizia Penitenziaria e di tutti coloro che vorranno essere presenti. "Sport, musica ed eventi culinari quindi, saranno la chiave per rafforzare la relazione con la città - conclude Stefania Mussio. Ogni evento e momento condiviso vuole rappresentare l’opportunità per chi nello sbaglio sta cercando la nuova strada. I volontari e quanti sono stati coinvolti in questo progetto sono la testimonianza che anche verso chi ha sbagliato occorre tendere la mano e lasciare spazio alla necessità di riavvicinarsi alla comunità di cui si è parte". Alessandria: la Crivop Onlus e il Progetto "L’Arpa di Davide" alla Casa circondariale Ristretti Orizzonti, 14 dicembre 2016 La Crivop Onlus associazione di volontariato penitenziario presente in cinque regioni d’Italia, anche quest’anno in occasione delle festività di fine d’anno, nel tentativo di creare momenti di gioia, serenità e sollievo morale negli Istituti Penitenziari della nostra nazione, si ispira al noto episodio biblico che narra come Davide con il suono della sua arpa riusciva ad infondere serenità al re Saul, ed è per questo che ha voluto realizzare il progetto musicale nella casa circondariale di Alessandria denominato "L’arpa di Davide", un’occasione per trasmettere in un momento delicato come le festività di fine d’anno, un messaggio di amore e speranza a tutti i detenuti. Nell’occasione la Crivop ha invitato la band cristiana "Eman" formata da tredici giovani dall’hinterland milanese attivi dal 2009, che ha pubblicato il suo secondo album il 22 novembre 2016: "Sarà ancora primavera". La band realizzerà un concerto gospel contemporaneo all’interno del teatro della casa circondariale di Alessandria sabato 17 dicembre 2016 con inizio alle ore 13:00. Michele Recupero Fondatore e Presidente Nazionale Crivop Onlus Gli accattoni, le multe e i doveri verso i poveri di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 14 dicembre 2016 Il sindaco forzista di Trieste Roberto Dipiazza e il suo vice leghista hanno fissato una multa da 150 a 900 euro perfino per chi fa l’elemosina, anteponendo gli inviti evangelici a quelli securitari. "L’abbietto mestiere dell’accattone è una piaga sociale che è sempre esistita sin dal tempo delle repubbliche greche. (…) I legislatori hanno sempre cercato di risanare questa piaga, tentando di porre un argine all’accattonaggio nell’interesse della pubblica decenza, del buon costume e della pubblica sicurezza…". Lo scriveva l’"Enciclopedia di polizia", di Luigi Salerno, "Ad uso dei funzionari e impiegati di P.S., ufficiali e sottufficiali dei carabinieri, degli agenti di polizia e della guardia di finanza, magistrati, avvocati, sindaci e segretari comunali", edizioni Hoepli, 1952. Erede del fascismo, citava il rischio, lasciando in giro i questuanti, di "una menomazione del decoro nazionale". Ecco, il sindaco forzista di Trieste Roberto Dipiazza e il suo vice leghista Pierpaolo Roberti, decisi a mostrare i muscoli vietando la pubblica carità e fissando una multa da 150 a 900 euro perfino per chi fa l’elemosina, anteponendo gli inviti evangelici a quelli securitari, potrebbero trarre ulteriori ispirazioni dalla lettura del codice Rocco e dell’enciclopedia citata, la quale liquida la "plebaglia" che "spesso non ha camicia addosso, né scarpe ai piedi, né tetto sotto cui riparare" spiegando che "il risparmio e la previdenza le sono sconosciuti". Se poi volessero andare fino in fondo, i guardiani del decoro triestino potrebbero fare un esposto contro Bergoglio Jorge Mario, extracomunitario, nato a Buenos Aires, alias Papa Francesco, per "istigazione recidiva all’elemosina". Nell’udienza giubilare del 9 aprile 2016, infatti, dopo aver ricordato che "elemosina, deriva dal greco e significa proprio misericordia", ha detto: "Il dovere dell’elemosina è antico quanto la Bibbia. Il sacrificio e l’elemosina erano due doveri a cui una persona religiosa doveva attenersi". E insistito che è un dovere verso "il bisognoso, la vedova, lo straniero, il forestiero, l’orfano…". Non bastasse, ha detto che sì, "dobbiamo distinguere tra i poveri e le varie forme di accattonaggio che non rendono un buon servizio ai veri poveri", ma non è accettabile fare di ogni erba un fascio: "Quanta gente giustifica se stessa per non dare l’elemosina dicendo: "Ma come sarà questo? Questo a cui io darò, forse andrà a comprare vino per ubriacarsi". Ma se lui si ubriaca, è perché non ha un’altra strada! E tu, cosa fai di nascosto, che nessuno vede? E tu sei giudice di quel povero uomo che ti chiede una moneta per un bicchiere di vino?". Conclusione: "Non distogliere lo sguardo da ogni povero e Dio non distoglierà da te il suo". Ma si sa, il Papa non deve raccattare voti… Migranti. Salta l’accordo, leader divisi al Consiglio Ue di Carlo Lania Il Manifesto, 14 dicembre 2016 Contrasti su riforma del Trattato di Dublino e Turchia. Si annuncia come un consiglio europeo particolarmente difficile quello che si aprirà domani a Bruxelles. I 28 leader arrivano infatti alla riunione divisi tra di loro sull’atteggiamento da tenere nei confronti della Turchia e su come riformare il regolamento di Dublino. Due temi delicati - come ha voluto sottolineare ieri la cancelliera Merkel - sui quali si gioca "il consolidamento delle nostra politica sulle migrazioni e dei partenariati sulle migrazioni anche con i paesi dell’Africa". Una preoccupazione non certo disinteressata. Sotto pressione per le elezioni politiche del prossimo autunno, la Merkel spinge per arrivare al più presto alla realizzazione con i paesi di origine e di transito dei migranti di accordi simili a quello siglato a marzo con la Turchia (una prima intesa è già stata firmata con il Mali). Accordi che possano mettere fine agli sbarchi in Europa, tranquillizzando così l’elettorato tedesco. Proprio il tanto criticato patto con Ankara è però uno dei nodi più difficili che i 28 capi di stato e di governo dovranno sciogliere. L’accordo è stato oggetto di una discussione definita "accesa" da fonti diplomatiche avuta ieri a Bruxelles durante il Consiglio degli affari generali preparatorio del vertice. La riunione sarebbe dovuta servire a mettere a punto la bozza di documento finale del summit di domani e venerdì, ma l’intesa è saltata per l’opposizione dell’Austria che ha chiesto ancora una volta di ufficializzare nero su bianco il congelamento dei negoziati di adesione della Turchia all’Unione europea. Una richiesta che si è scontrata con il parere contrario di praticamente tutti gli altri paesi. Il ministro degli Esteri austriaco Sebastian Kurz ha quindi deciso di non dare il consenso alle conclusioni sui processi di allargamento. Uno stop che non riguarda solo la Turchia ma che coinvolge anche Montenegro e Serbia. All’origine del rifiuto di Vienna (oltre ai soliti motivi elettorali per possibili elezioni anticipate a primavera) la forte repressione in corso in Turchia da dopo i fallito golpe di luglio e sulla quale gli altri leader - terrorizzati dalla prospettiva Erdogan possa aprire le frontiere ai profughi siriani, sembrano essere più disponibili a mediare. Germania e Italia compresi. "Siamo per mantenere l’accordo con la Turchia e vogliamo anche sostenere la Grecia per accelerare l’applicazione dei meccanismi di rimpatrio", ha spiegato sempre ieri la Merkel. Nella bozza di documento è prevista invece la possibilità (per la verità abbastanza improbabile) di offrire rimpatri volontari ai migranti "bloccati" in Libia. Altro tema caldo è la riforma del sistema di asilo europeo e i meccanismi di ricollocamento dei richiedenti asilo in Europa. Parlando ieri alla Camera per il voto di fiducia, il premier Paolo Gentiloni ha ribadito l’intenzione dell’Italia di andare allo scontro, se necessario. "Non è accettabile, e ancor meno lo sarebbe nel quadro di un’ipotetica riforma di Dublino - ha detto - che passi il principio di un’Europa troppo severa su alcuni aspetti delle politiche di austerity e troppo tollerante nei confronti di paesi che non accettano di assumere responsabilità comuni sui temi dell’immigrazione". Riferimento diretto a chi, come il gruppo di Visegrad ma non solo, rifiuta categoricamente di accogliere migranti. Senza contare che la riforma di Dublino alla quale sta lavorando la presidenza di turno slovacca punta di fatto a lasciare tutto immutato, continuando a considerare il paese di primo sbarco responsabile della richiesta di asilo del migrante. Gli altri temi sul tavolo riguardano l’accordo di associazione con l’Ucraina che porti alla sua ratifica - già bocciata dall’Olanda - la sicurezza delle frontiere attraverso il controllo dei viaggiatori che entrano in Europa e il rafforzamento della legislazione sul possesso di armi. Migranti. Storica sentenza al processo per la strage dei 700 naufraghi di Alfredo Marsala Il Manifesto, 14 dicembre 2016 La più grande tragedia del mare. Il barcone speronò il mercantile portoghese King Jacob, corso in aiuto: lacunosa la registrazione. Due colpevoli, un maxi-risarcimento da 10 milioni di euro che mai nessuno pagherà a familiari e superstiti e qualche ombra, come quella scatola nera del mercantile portoghese King Jacob ritrovata con appena 12 ore di registrazione. Il processo per il più grande naufragio nella storia del Mediterraneo - avvenuto al largo della Libia il 18 aprile del 2015, con ben 700 morti e 28 sopravvissuti - si è chiuso, in primo grado, con la condanna a 18 anni per Mohamed Alì Malek, tunisino di 27 anni considerato il "capitano" del peschereccio della morte, e a 5 anni per Mahmud Bikhit, siriano di 25 anni, indicato come il "mozzo". I due sono stati condannati dal Gup di Catania, Daniela Monaco Crea, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, il "capitano" anche per omicidio colposo plurimo e naufragio. Per il procuratore Carmelo Zuccaro, che ha seguito il processo con i sostituti Rocco Liguori e Andrea Bonono, la sentenza si può ritenere storica perché "afferma due importanti principi giuridici: la giurisdizione e il riconoscimento delle parti offese". In sostanza, spiega il magistrato, "ha riaffermato la legittimità italiana per i delitti di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare commessi in acque internazionali ma con una preordinata richiesta di soccorso in mare da parte dei trafficanti, e ha sancito la qualità di persone offese, e non di indagati in procedimento connesso, per i migranti tratti in salvo prima dell’arrivo in Italia". Gli imputati si sono sempre proclamati innocenti, sostenendo di essere dei semplici "passeggeri" come gli altri del barcone: il siriano ha accusato il co-imputato, confermando quanto riferito agli inquirenti dagli altri testimoni, di essere il "comandante", mentre quest’ultimo ha sempre sostenuto di avere visto i componenti dell’equipaggio ma di non averli individuati tra i sopravvissuti. Secondo l’accusa il naufragio "fu determinato da una serie di concause, tra cui il sovraffollamento dell’imbarcazione e le errate manovre compiute dal comandante che portarono il peschereccio a collidere col mercantile King Jacob", intervenuto per soccorre i migranti. "Siamo soddisfatti della sentenza che riconosce, credo per la prima volta in Italia, i migranti trasportati come parti lese, riconoscendo un risarcimento del danno, ha un grande valore simbolico", commenta l’avvocato Giorgio Forestieri, che rappresentava due dei 28 sopravvissuti, entrambi del Bangladesh, ammessi come parti lese nel processo. Probabile che gli avvocati dei due imputati facciano ricorso. "Aspettiamo i 90 giorni per il deposito della sentenza e poi ricorreremo in appello, perché sono pienamente convinto dell’innocenza del mio assistito", afferma Giuseppe Ivo Russo, che difende il siriano Mahmud Bikhit. È convinto che ci siano "elementi processuali per dire che lui non aveva alcun ruolo: ci sono quattro superstiti che confermano come Bikhit fosse un migrante come loro che stava aspettando di partire per l’Italia". Anche Massimo Ferrante, legale del tunisino, ritiene il suo assistito "innocente", anche se la verità processuale al momento è un’altra: "Vedremo in appello". Per il penalista "in questo processo parliamo di un incidente navale in cui non c’è la scatola nera: la polizia è andata a sequestrarla dieci giorni dopo, ma c’erano soltanto le ultime 12 ore". Fu proprio quando il mercantile si avvicinò per prestare soccorso che il peschereccio stracolmo di disperati si capovolse. Decine di persone finirono in mare, il King Jacob lanciò le scialuppe ma nemmeno un terzo dei migranti riuscì a salvarsi. Gli altri furono risucchiati dal mare o intrappolati nel barcone dell’orrore. Quel che è rimasto del barcone è stato trasportato ad Augusta lo scorso giugno. Nel molo fu costruita una tensostruttura refrigerata, una sorta di mega cella frigorifera lunga 30 metri, larga 20 e alta 10, per contenere il peschereccio. Qui furono effettuate le operazioni di recupero di circa 250 salme di bambini, donne e uomini senza volto, senza nome. Corpi martoriati, dilaniati dai pesci e dal mare, rimasti più di un anno negli abissi, intrappolati nella stiva: i trafficanti avevano sigillato i portelloni per impedirne l’uscita mentre il barcone affondava. Quando il King Jacob approdò nel porto di Palermo i marinai filippini chiesero l’aiuto di un prete e di una squadra di psicologi per superare lo shock. Stati Uniti. Trump e i diritti umani: tre proposte di nomina preoccupanti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 dicembre 2016 Subito dopo la sua elezione a presidente degli Usa, in molti hanno pensato che se solo alcune delle promesse fatte da Donald Trump in campagna elettorale fossero diventate politiche di governo, i diritti umani di centinaia di milioni di persone, negli Usa e nel mondo, sarebbero stati messi a rischio. Negli ultimi giorni, il presidente eletto ha proposto tre nomine molto preoccupanti, in due dipartimenti-chiave come la difesa e gli esteri. Come segretario alla difesa, Trump ha manifestato l’intenzione di nominare il generale John Kelly. Di lui si ricorda, quando era a capo del comando meridionale degli Usa, la supervisione sul centro di detenzione di Guantánamo, soprattutto nel periodo degli scioperi della fame e dell’alimentazione forzata dei detenuti. Con Kelly segretario alla difesa, il rischio che Guantánamo (che il presidente Obama si era impegnato a chiudere ormai sette anni fa) non si svuoti e anzi possa addirittura riempirsi di altri detenuti è concreto. Le proposte di Trump per i ruoli di segretario e vicesegretario di stato, rispettivamente Rex Tillerson e John Bolton, sono altrettanto preoccupanti. Come segretario di stato, Tillerson (nella foto Reuters) sarebbe il capo della diplomazia Usa, rappresenterebbe la politica estera di Trump (che non promette niente di buono) e dovrebbe assicurare il rispetto, da parte degli Usa, degli obblighi in materia di diritto internazionale dei diritti umani e di diritto internazionale umanitario. Una persona che ha saputo brillantemente proteggere gli interessi di una grande compagnia petrolifera come la Exxon di cui è capo, sarebbe in grado di proteggere altrettanto bene i diritti umani all’estero? Se nominato segretario di stato, Tillerson dovrebbe chiedere a tutti gli stati di rispettare gli standard internazionali sui diritti umani. Sarebbe in grado Tillerson di pretendere il rispetto dei diritti umani da paesi che hanno fatto affari con la sua compagnia, primo tra tutti la Russia? Da parte sua, Bolton ha manifestato entusiastico sostegno persino per la tortura e non ha mancato di esprimere disprezzo per le istituzioni internazionali create per promuovere i diritti umani. Durante l’amministrazione Bush, è stato uno dei principali oppositori della Corte penale internazionale dichiarando più volte che gli Usa non ne avrebbero mai sottoscritto lo Statuto istitutivo. Insomma, la coppia Tillerson-Bolton darebbe vita a uno dei dipartimenti di stato più ostili ai diritti umani da anni a questa parte. Siria. Ultimi messaggi dal mattatoio Aleppo. Le rovine delle case, le nostre tombe di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 14 dicembre 2016 Al telefono e via Internet parlano i sopravvissuti alle bombe e alla vendetta dei governativi. Intesa Russia-Turchia. La denuncia dell’Onu: "Famiglie passate per le armi. "Addio, addio. Qui abbiamo finito di vivere. Queste sono le mie ultime parole. Potrei morire da un momento all’altro". Iniziano o terminano quasi tutti così i tweet postati dai siriani nella sacca di Aleppo Est. Sono messaggi crudi, inevitabilmente brevi, di grande effetto. C’è Lina Shamy, una voce nota tra i civili nelle zone controllate dalle milizie che si oppongono al regime di Bashar Assad, che lancia addirittura un appello: "Umani in tutto il mondo non dormite! Potete fare ancora qualche cosa, provate adesso. Bloccate il genocidio!". Bana Alabed, la bambina di sette anni che da qualche tempo si fa sentire dal portatile della madre ci avvisa che questo è il "mio ultimo messaggio". E annota che ha pianto quando ha visto il papà ferito dalle bombe. Abdul Kafi Alhamado, maestro di inglese, posta un video in cui si sentono esplosioni, concitato parla di strade pericolosissime a causa dei raid aerei russi, testimonia di civili sotto le macerie che nessuno può aiutare: "Le rovine delle loro case diventeranno le loro tombe". Monther Etaky, barba sfatta, occhiaie nere come la pece, dice, con una sorta di flemma rassegnata, "spero almeno di potervi raccontare la mia morte in diretta". I Caschi Bianchi, come sono conosciute da ben oltre un anno le squadre locali di soccorso alla gente nelle case bombardate, che il Corriere è riuscito a contattare negli ultimi giorni, sino a domenica sera ci raccontavano di vere e proprie "selezioni" da parte dei militari siriani lealisti, assieme ai miliziani sciiti dell’Hezbollah libanese, che si preoccupano di arrestare uomini e ragazzi tra i civili in fuga. "Li prendono, li picchiano, quindi spariscono. Forse li hanno già fucilati", ci diceva venerdì uno di loro, il quarantenne Ismail Alabdullah. Scalzi - Intanto fanno capolino foto inquietanti: si vedono decine di uomini in piedi con i lacci delle scarpe spariti, alcuni scalzi. Non possono correre, non possono fuggire. Il regime di Damasco sostiene che li vuole arruolare. Ma ormai anche il generalmente super-cauto Ban Ki-moon ha denunciato allarmato "le voci e i racconti di atrocità commesse contro un grande numero di civili ad Aleppo". Amnesty International parla apertamente di "crimini di guerra". Nelle ultime ore le accuse dell’Onu si sono fatte molto più precise. Fonti locali rimbalzate al Palazzo di Vetro riportano di "almeno 82 civili uccisi, tra loro 11 donne e 13 bambini". Ma la cifra sembra davvero conservativa. Emergono racconti di squadracce lealiste che entrano nelle case aprendo il fuoco in modo indiscriminato. "Siamo estremamente preoccupati per la sorte dei civili intrappolati in quell’inferno. Non hanno alcun rifugio sicuro. Abbiamo testimonianze che raccontano di persone uccise a sangue freddo nelle proprie abitazioni e per le strade mentre cercavano di fuggire", sostiene Rupert Colville, portavoce Onu per i diritti umani. Scudi umani - Scene dall’inferno, vengono in mente Stalingrado, Varsavia durante la Seconda guerra mondiale, e più di recente Grozny e Beirut nel pieno del conflitto civile, sino a Mosul presa da Isis nel giugno 2014. Intanto anche Mosca e Damasco accusano i "terroristi" di utilizzare i civili come "scudi umani" e compiere massacri. Eppure, sono ormai i soldati pro-Assad ad avere la meglio. Sino a due settimane fa erano segnalate 250.000 persone nelle aree tenute dai ribelli ad Aleppo Est. Ora il loro numero parrebbe sceso a meno di 50.000. Gli ultimi sono asserragliati in un’area di appena 2-3 chilometri quadrati: assetati, affamati, sporchi, infreddoliti, disperati. Come nel 1982 - Alla fine ad Aleppo i morti della repressione della dittatura siriana, sostenuta in modo determinante da Russia e Iran (senza di loro Bashar Assad sarebbe caduto già da tempo), potrebbero essere centinaia, se non migliaia. Lo testimoniano da oltre un anno le vittime dei bombardamenti condotti con criminale precisione da Mosca e Damasco persino contro ospedali e cliniche di fortuna. Un massacro che ricorda quello condotto dal padre di Bashar, Hafez Assad, nel 1982 contro la città ribelle di Hama, costato forse tra i dieci e ventimila morti. Con la differenza che oggi, grazie alla comunicazione globalizzata, siamo in grado di venirne a conoscenza in tempo quasi reale. Uno strumento che aiuta a superare le censure di Damasco e la sua politica di concedere i visti solo ai media "graditi". L’intesa per l’evacuazione - Un pallido barlume di speranza si è alzato ieri sera con la prospettiva di un accordo per l’evacuazione dei civili dalle ultime zone sotto assedio grazie alle intese tra Turchia e Russia. Due corridoi umanitari potrebbero venire aperti verso la Aleppo Ovest lealista e le zone controllate dai ribelli nella provincia di Idlib. L’evacuazione doveva partire all’alba ma, rende noto l’Osservatorio siriani per i diritti umani, è stata ritardata: numerosi autobus inviati per prelevare i civili sono ancora fermi in attesa di partire con i primi gruppi. Il governo siriano pretenderebbe l’evacuazione simultanea dei "propri" feriti - civili e militari - dalle città vicine assediate dalle forze ribelli. Ankara annuncia un campo di tende per 80 mila profughi. Ma altre volte questi tipi di intese si sono esauriti in nuovi bagni di sangue. Lo stesso Assad ripete di voler porre fine in modo drastico e radicale alla presenza dei "terroristi". Per il momento pare avere mano libera: è ormai terminato il sostegno americano ai gruppi di ribelli moderati, la prospettata nuova armonia tra Donald Trump e Vladimir Putin gli garantisce ampio margine di manovra. Il futuro - La Siria rimane un Paese gravemente destabilizzato, martoriato da brutalità indicibili, lacerato da desideri di vendetta. Impossibile tornare allo status quo pre-2011. I massacri di Aleppo paiono destinati a radicalizzare ulteriormente gli oppositori al regime in chiave filo-Isis. L’agonia di Aleppo potrebbe rappresentare non la fine della guerra in Siria, bensì l’inizio di una stagione ancor più violenta. Un campo di battaglia chiamato Yemen di Valentina Porcheddu Il Manifesto, 14 dicembre 2016 Archeologia sotto attacco. La ricognizione è desolante: più di cinquanta i siti storici colpiti dai bombardamenti sauditi, alcuni - da Barâqish a Sada’a fino a Marib - hanno danni irreversibili. Al Mao di Venezia una mostra e un convegno internazionale per non dimenticare quel patrimonio dell’umanità ferito. "La porta principale di Sana’a si apre sui luoghi, dove fino a pochi mesi fa - isolate nella vallata desertica - sorgevano le sue stupende mura. Ci rivolgiamo all’Unesco perché aiuti lo Yemen a salvarsi dalla sua distruzione, cominciata con la distruzione delle mura di Sana’a. Ci rivolgiamo all’Unesco perché aiuti lo Yemen ad avere coscienza della sua identità e del paese prezioso che esso è (…). Ci rivolgiamo all’Unesco perché trovi la possibilità di dare a questa nuova nazione la coscienza di essere un bene comune dell’umanità e di dover proteggersi per restarlo. Ci rivolgiamo all’Unesco in nome della vera, seppur ancora inespressa, volontà del popolo yemenita, in nome degli uomini semplici che la povertà ha mantenuto puri, in nome della grazia dei secoli oscuri, in nome della scandalosa forza rivoluzionaria del passato". Era il 1971 quando la docile ma ferma voce di Pier Paolo Pasolini accompagnava con queste parole un breve documentario (Le Mura di Sana’a) in forma di appello all’Unesco, volto a trasmettere una speranza e una supplica: che il desiderio di progresso e le speculazioni della civiltà industriale non oscurassero per sempre la nobile poesia di un mondo autenticamente arcaico. Quindici anni dopo, l’Unesco riconobbe le mura in terra cruda ancora preservate e i palazzi di Sanàa quali capolavori di architettura di antica tradizione. Con questi criteri - uniti all’importanza delle sue moschee per la diffusione dell’Islam nei primi anni dell’Egira - la capitale dello Yemen entrò nella prestigiosa lista del World Heritage. E se Pasolini non poté gioire di questo risultato, oggi proverebbe rammarico nel veder realizzato il suo cupo timore. L’operazione militare "Tempesta decisiva" (nel marzo 2015) guidata dall’Arabia Saudita con l’obiettivo di respingere i ribelli sciiti Houthi dalla capitale yemenita e dal resto del paese, ha aperto ferite indelebili nella città vecchia di Sana’a. Assieme a centinaia di civili, alcuni palazzi costruiti in mattoni e pietra sono caduti sotto il peso delle bombe "intelligenti", mendaci e perversi feticci delle guerre moderne. "In questo campo non si possono commettere errori. Si tratta, al contrario, di attacchi mirati ad annientare una struttura sociale e culturale", dice al manifesto l’architetto Renzo Ravagnan, direttore dell’Istituto veneto per i beni culturali (Ivbc) con sede a Venezia e che proprio a Sana’a - dopo un percorso decennale destinato a formare un centinaio di giovani restauratori yemeniti - ha fondato nel 2014 l’Istituto italo-yemenita per la conservazione. "Sana’a è una città senza architetti. Le case-torri (se ne contano circa 6500, ndr) sono il risultato di una concezione culturale che si è protratta nei secoli, la manifestazione fisica di un sistema abitativo che è al contempo tradizione e ricerca di creatività collettiva". Nel giugno 2015 - a ridosso del famoso bustan (orto-giardino) di al-Qasimi - tre palazzi contigui sono stati colpiti dai raid sauditi e, sebbene il numero degli edifici storici distrutti non sia a tutt’oggi elevatissimo, la situazione resta drammatica a causa della profonda crisi umanitaria in cui versa lo Yemen. "Temo che nell’imminente futuro non ci saranno le risorse economiche per affrontare eventuali ricostruzioni" continua Ravagnan, persuaso che alla fine del conflitto lo scenario più probabile sarà quello di una spaccatura del paese in due blocchi, con la regione settentrionale in posizione di debolezza. Nel 2015 sarebbe dovuto partire, sempre a cura dell’Ivbc, il progetto di restauro della moschea di Muzaffar a Tàizz, lavoro attraverso il quale i tecnici formati da Ravagnan avrebbero potuto svolgere un ruolo da protagonisti nella salvaguardia del patrimonio storico dello Yemen. Tuttavia, laddove scarseggiano i beni di prima necessità, la sopravvivenza della popolazione viene prima di qualsiasi monumento. Emblematica in questo senso è la storia di Selma Hasan, giovane yemenita originaria di Sana’a, diplomatasi in restauro a Venezia e ora costretta a rifugiarsi in Italia senza poter mettere a frutto nella terra natia le competenze acquisite. Ad esser devastata da una guerra che malgrado i silenzi della stampa ha ormai assunto portata internazionale non è soltanto Sana’a. Come riferisce l’archeologa Sabina Antonini - dal 2011 direttrice della Missione archeologica italiana nello Yemen - la lista con le coordinate dei monumenti e dei siti da risparmiare, compilata dalle missioni archeologiche operanti nello Yemen e fornita dall’Unesco alla Coalizione, non è servita a nulla. "Il fatto che nelle maggiori città dello Yemen ci siano musei archeologici ed etnografici, dimostra che gli yemeniti sono molto orgogliosi della loro eredità storica. La distruzione delle testimonianze del loro passato vuole privarli dell’identità", afferma Antonini. Il bilancio delle perdite, che la studiosa ci aiuta a stilare, è desolante. Secondo le ultime informazioni sarebbero circa una cinquantina i siti archeologici e storici colpiti finora dai bombardamenti sauditi con la complicità degli alleati (anche occidentali), i quali forniscono armi e munizioni. La città di Sada’a, uno tra i più antichi centri religiosi sciiti della Penisola araba e fulcro della rivoluzione degli Houthi, è stata rasa al suolo. Danni irreversibili si registrano anche a Barâqish, luogo simbolo del regno carovaniero di Màin: qui la Missione archeologica italiana - col sostegno finanziario del Ministero degli affari esteri e dell’associazione Monumenta Orientalia - aveva condotto scavi estensivi e restaurato i templi dedicati alle divinità Athtar dhu-Qabd e Nakrah (VI secolo a. C. - I secolo d.C.). Gravemente danneggiata è Marib, capitale dei Sabei e oggetto di ricerche da parte dell’Istituto archeologico germanico (Dai). Punto d’incontro di importanti rotte commerciali dell’Arabia interna, il regno di Saba controllava il lucroso commercio d’incenso e mirra, prodotti apprezzati sia nel Mediterraneo che in Mesopotamia. La cinta muraria di Marib conteneva magnifici complessi cultuali e palazzi mentre i giardini che le davano lustro erano irrigati dall’omonima diga, spettacolare esempio di ingegneria idraulica anch’esso colpito dall’aviazione saudita. Una sorte ugualmente funesta è toccata a Sirwah, altro celebre sito sabeo che si distingueva per il santuario consacrato al dio Almaqah. Scavato e restaurato dal Dai, il maestoso tempio provvisto di propilei ha subìto pesanti danni in seguito alle battaglie di terra svoltesi al suo interno. Letteralmente polverizzata, invece, è la preziosa collezione di reperti del museo archeologico di Dhamar, che contava dodicimila manufatti sia di epoca pre-islamica che di periodo islamico. Più recentemente è stato abbattuto il museo storico che era il palazzo dell’ultimo imam a Tàizz, dove erano custoditi, tra l’altro, antichi manoscritti. E se i media denunciano raramente la ferocia delle operazioni militari che persistono nello Yemen, esponenti della comunità internazionale provano a tenere alta l’attenzione sul paese e a sensibilizzare l’opinione pubblica. È il caso dell’Istituto veneto per i beni culturali, distintosi per aver promosso un padiglione sullo Yemen alla XV Esposizione internazionale di architettura - Biennale di Venezia. Il medesimo istituto, di concerto con la Missione archeologica italiana nello Yemen e Monumenta Orientalia, ha organizzato al Museo d’arte orientale di Venezia una mostra con pannelli fotografico-descrittivi inerenti all’archeologia sudarabica e un ciclo di conferenze che terminerà il 16 dicembre con un convegno internazionale nell’ambito del progetto Yemen, patrimonio dell’umanità. Archeologia, arte e architettura.