Giustizia, il ministro resta Orlando: si riaprono le sfide di Errico Novi Il Dubbio, 13 dicembre 2016 Dalle riforme al ruolo politico: potrebbe candidarsi alla guida del Pd Resta un ministro chiave per molti motivi. Innanzitutto perché mantiene la responsabilità di un ruolo centrale come la Giustizia: Andrea Orlando condivide il privilegio con Pier Carlo Padoan. La nomina di Gentiloni a capo del governo e il passaggio di Alfano dal Viminale alla Farnesina fanno in modo che il guardasigilli rappresenti in modo ancora più chiaro la continuità in uno dei quattro dicasteri decisivi. Il ministro della Giustizia sarà fatalmente chiamato a dividersi con l’attività nel partito. Difficile dire se Orlando possa formalizzare una candidatura a segretario con il governo in carica, ma certo chi gli ha parlato in queste ultime ore conferma la sua intenzione di "dedicarsi anche all’attività politica in senso più generale". Si fa notare tra l’altro che "Orlando ha esercitato un ruolo pienamente politico nel corso di tutta la campagna referendaria, che lo ha visto impegnarsi in una quantità incredibile di incontri pubblici". Non solo: "È stato lui per esempio ad anticipare persino Renzi sul via libera alla commissione interna per la revisione dell’italicum". Dovrà dividersi, è inevitabile. Ma Orlando sarà anche personalmente messo alla prova sul fronte più impegnativo: il Senato. La rottura di Verdini apre un problema enorme a Palazzo Madama e, al momento, rende precaria la stessa sopravvivenza dell’esecutivo. Ma se pure la fiducia arrivasse, in un modo o nell’altro, l’aula presieduta da Pietro Grasso resterebbe un terreno quasi impraticabile. Si potrebbe confidare sulle aperture di Berlusconi in materia di riforma elettorale. Ma sarebbe comunque difficilissimo concludere altro. A cominciare dalla riforma del processo penale: l’unico dei dossier in capo al guardasigilli che si trovi in fase di esame parlamentare abbastanza avanzato da poterne ipotizzare l’approvazione definitiva. E se era da temerari sfidare gli imprevisti del Senato con Renzi a Palazzo Chigi, diventa al limite dell’impossibile racimolare i voti con l’aventino annunciato dai verdiniani. Difficile d’altra parte che Orlando abbia accettato di conservare il proprio ruolo di ministro senza confidare in un via libera in extremis per il ddl che più gli sta a cuore, quello appunto che tocca tra l’altro intercettazioni e prescrizione. Solo che l’impresa richiederà nella più ottimistica delle ipotesi almeno un sacrificio: lo stralcio delle norme relative proprio ai tempi di estinzione dei reati. Mettere da parte quel passaggio sarebbe indispensabile per tentare di raccogliere in Aula i voti necessari. Sulla prescrizione oltretutto Ala si era detta contraria anche con Renzi a Palazzo Chigi. Era stato in particolare il plenipotenziario di Verdini sulla giustizia, Ciro Falanga, ad annunciare il no suo e degli altri senatori del gruppo: "Con l’allungamento dei tempi venuto fuori in commissione non possiamo votare né quella parte né il ddl nel suo complesso". Magari gli uomini di Denis non cambierebbero comunque idea: ma con lo stralcio della prescrizione si può tentare di mettere assieme i sì necessari nella piccola e confusa galassia centrista che a Palazzo Madama oscilla tra maggioranza e opposizione. Dalle tre senatrici di "Fare", il gruppo di Flavio Tosi, ai senatori di Gal. Va detto che l’ambiziosa riforma del processo penale è destinata a rimanere in ogni caso incompiuta anche su altri punti. Al suo interno infatti ci sono due deleghe: una relativa alle intercettazioni e l’altra, assai innovativa, sulla riforma del carcere. A quest’ultima Orlando tiene molto. Ma le deleghe "scadono" con il chiudersi della legislatura. Ed è davvero improbabile che il governo Gentiloni possa durare così tanto e con un tasso di produttività così alto da poter ottenere anche i pareri favorevoli sugli eventuali decreti delegati. Resta in coda la riforma del processo civile e il testo sul diritto fallimentare. Il primo ha ottenuto l’ok di Montecitorio ed è ora fermo in commissione Giustizia al Senato: impossibile che possa marciare verso il sì definitivo. Destino a maggior ragione segnato per il secondo dei due dossier. Tra le misure minori, qualche speranza di approvazione anche rapida sembrano averla invece due norme invocate dall’Associazione magistrati: il reinnalzamento a 72 anni dell’età pensionabile per tutte le toghe e il ritorno a 3 anni del tempo minimo di permanenza nella sede assegnata per i giudici di prima nomina. Si tratta di questioni che andrebbero definite entro il 31 dicembre, perché siano pienamente efficaci: la sola chance sembra poter arrivare dal decreto milleproroghe. Orlando farà il possibile: si è impegnato in proposito con l’Anm di Piercamillo Davigo. Che, se non arrivassero le misure richieste, potrebbe proclamare contro il nuovo esecutivo un clamoroso sciopero. Riforma della giustizia: nuovi scenari ed effetti collaterali di Giunta dell’Unione Camere Penali camerepenali.it, 13 dicembre 2016 La crisi di governo post-referendaria ha interrotto l’iter parlamentare del Ddl giustizia quando sembrava che il ricorso alla fiducia ne avrebbe consentito una rapida approvazione. Si archivia così, almeno per ora, la riforma del 146bis con la sua devastante estensione del processo a distanza. E si archiviano la riforma della prescrizione e gli aumenti di pena inutili ed indiscriminati. Ed è un bene che riforme inutili e dannose, che avrebbero certamente aggravato le condizioni di imbarbarimento del processo penale, finiscano (almeno per ora) in soffitta. Ma vi sono più ragioni per riflettere su questi nuovi scenari. I nostri tempi, segnati dalla complessità, ci avevano infatti consegnato una ipotesi di riforma schizofrenica, che al tempo stesso introduceva modifiche capaci di mortificare in profondità principi e garanzie fondamentali, ed altre che al contrario restituivano garanzie, correggendo addirittura recenti linee interpretative delle Sezioni Unite (come nel caso della limitazione dell’utilizzo del Trojan e del ripristino della oralità nei ricorsi avverso misure reali), o introducendo nuove inedite forme di controllo sui tempi di esercizio dell’azione penale (art. 18 del Ddl). Si tratta, con tutta evidenza, del risultato di un approccio alle riforme che, come abbiamo sempre sostenuto, è segnato in radice dalla mancanza di un disegno organico, dalla totale assenza di una idea di processo, e dalla mancata individuazione di quelli sono o che dovrebbero essere i suoi principi fondanti e che, come tali, non possono essere al tempo stesso, qui demoliti e lì ripristinati, qui oggetto di tutela e promozione e lì gettati nel fango. Occorre impegnarsi in una non facile operazione selettiva, salvando ciò che del Ddl ci sembra andare nel giusto verso della tutela e della promozione delle garanzie, e contrastando l’eventuale recupero di ciò che va invece in senso contrario. È in questa ottica pragmatica che ci siamo in questi due anni già responsabilmente impegnati, affinché quello che di pessimo il disegno di legge conteneva venisse eliminato e perché ciò che non poteva essere eliminato venisse migliorato. Si tratta, in questo nuovo contesto, di ripartire da zero, riconsiderando, ancora una volta con il necessario realismo, le nuove condizioni politiche che la crisi ha generato e di valutare quali scenari si potranno aprire per gli sviluppi futuri della riforma. In questo nuovo contesto politico si tratterà di ricomporre un quadro assai complesso, recuperando lo spazio per rilanciare iniziative legislative che sembrano dimenticate. Se, infatti, la crisi ha compromesso il rapido evolversi di riforme da noi osteggiate, come quella relativa alla abolizione del Tribunale per i Minorenni (S 2284), essa rischia anche di far abbandonare quella che era stata una delle migliori elaborazioni del ministero Orlando, la riforma del processo di Sorveglianza e dell’Ordinamento penitenziario, con la convocazione di quegli Stati Generali dell’esecuzione penale ai quali abbiamo dato il nostro fattivo contributo. Rischia di ritardare ancora, inammissibilmente, l’introduzione del reato di tortura (con le necessarie modifiche per le quali ci siamo costantemente e coerentemente battuti) e di marginalizzare l’ipotesi di un provvedimento urgente in materia di indulto e di amnistia, l’unico allo stato capace di restituire legalità alle condizioni nelle quali versano tuttora migliaia di detenuti. L’incertezza del quadro futuro ci rende, tuttavia, anche consapevoli della necessità di aprire, in questa fase, il confronto con tutte le forze politiche e con gli interlocutori istituzionali e sociali che andranno a ricomporre i nuovi equilibri, aprendo spazi di interlocuzione per la ripresa di tali ambiziosi progetti e per prevenire il rilancio delle ipotesi di riforma sino ad oggi contrastate. Non vi è dubbio, infatti, che se da un lato il lavoro sino ad oggi svolto ha visto l’emarginazione di ipotesi di riforma deleterie e distruttive per l’impianto liberale e costituzionale del nostro processo, quale l’ipotesi "Casson" di interruzione definitiva della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, occorre dall’altro evitare "effetti collaterali" e tenere alta la guardia anche su possibili "ritorni", giustificati e propiziati da futuri nuovi equilibri parlamentari. Non vi è dubbio che l’Unione debba farsi artefice e promotrice di un reale cambiamento di rotta della politica giudiziaria, ponendo sul tavolo delle future riforme del processo penale il problema relativo alle scelte valoriali intorno alle quali riedificare il nostro modello accusatorio, ponendo altresì al centro di ogni riflessione sulla riforma della giustizia penale la imprescindibile necessità della riforma ordinamentale. Il 2017 si aprirà, infatti, con l’avvio della campagna per la raccolta delle firme per la nuova legge costituzionale di iniziativa popolare sulla "separazione delle carriere". Senza una nuova figura di Giudice, non solo indipendente, autonomo e imparziale, ma anche e soprattutto "terzo", nessuna riforma processuale e sostanziale potrà dare i suoi frutti. Una battaglia difficile nella quale, tuttavia, ci impegniamo con il necessario coraggio e con inevitabile passione, consapevoli che si tratta di riaprire uno spazio politico a quella che giustamente consideriamo la battaglia storica dell’Unione, ed anche del fatto che lo scenario futuro nel quale la legge dovrà essere discussa potrà essere totalmente diverso da quello passato. C’è meno diritto all’oblio per i reati di corruzione di Stefano Caliciuri Il Dubbio, 13 dicembre 2016 Il Garante della privacy su una vicenda del 2006: le notizie restino in rete. L’oblio è un diritto ma soltanto se non pregiudica la conoscenza. Lo ha stabilito il Garante per la privacy con un provvedimento relativo a una richiesta di cancellazione di alcuni articoli di stampa indicizzati su Google. I fatti risalgono al 2006, quando un consigliere comunale venne coinvolto in un’indagine e poi in un rinvio a giudizio per corruzione e truffa. La vicenda si concluse nel 2012 con sentenza di patteggiamento ma la pena verrà interamente coperta dall’indulto. A distanza di qualche anno, abbandonata la carriera politica a tornato ad occuparsi di immobiliare, l’ex consigliere comunale ha fatto ricorso al tribunale per chiedere la cancellazione di tutto il materiale rintracciabile in rete che possa ricordare in qualche modo i suoi trascorsi giudiziari. Ma la decisione dell’Authority preposta alla protezione dei dati personali e presieduta da Antonello Soro non ha accolto la richiesta. Due gli elementi su cui si è basata la sentenza: la notiziabilità del fatto e il breve lasso temporale trascorso. "La definizione della vicenda giudiziaria a carico del ricorrente - dice il Garante - è effettivamente intervenuta solo in epoca recente, a seguito di una sentenza di patteggiamento pronunciata nel 2012". A questo, bisogna ulteriormente aggiungere che "la particolare gravità dei reati contestati" implica che sia "prevalente l’interesse del pubblico ad accedere alle notizie in questione e che pertanto debba dichiararsi infondata la richiesta di rimozione degli Url indicati dal ricorrente e tuttora indicizzati da Google". Il ricorrente in un primo momento aveva tentato la strada legale nei confronti di Google, intimando la cancellazione dagli archivi del motore di ricerca di ogni riferimento ed articolo che potesse ricordare la sua vicenda personale. Di fronte al no di Google di accogliere le sue richieste di deindicizzazione, l’ex consigliere aveva presentato il ricorso al Garante. Non ricoprendo più incarichi pubblici e operando in un settore privato - è stata la tesi supportata la permanenza in rete di notizie di dieci anni prima gli avrebbero arrecato un danno all’immagine, alla vita privata e all’attuale attività lavorativa nel settore immobiliare. Ma l’Autorità, anche alla luce delle linee guida tracciate dai Garanti europei, ha rilevato che sebbene il trascorrere del tempo sia la componente essenziale del diritto all’oblio, questo incontra un limite quando le informazioni di cui si chiede la deindicizzazione siano riferite a reati gravi e che hanno destato un forte allarme sociale. Come dire: il diritto alla conoscenza prevale sul diritto all’oblio. "In termini generali - commenta Massimiliano Masnada, il legale che ha difeso Google - il Garante ha interpretato correttamente alla luce della sentenza della Corte di giustizia il bilanciamento di interesse tra diritto alla conoscenza e il diritto all’oblio. Un principio che a seconda dei casi naturalmente deve essere valutato sulla base degli interessi generali. Non c’è interesse all’oblio ad nutum, non è un diritto unilaterale. I Garanti europei si stanno ormai allineando su questa posizione. La discriminante perché il diritto alla conoscenza possa avere il sopravvento sull’oblio, non è avere un ruolo pubblico nella vita sociale ma esercitare una funzione sociale nella vita pubblica come ad esempio i medici, i preti, gli avvocati, i giornalisti". Garante Privacy: no al diritto all’oblio per i casi giudiziari gravi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2016 Garante per la protezione dei dati personali - Provvedimento 6 ottobre 2016 n. 400. Escluso il diritto all’oblio se la vicenda giudiziaria é di particolare gravità e l’iter processuale si è concluso da poco tempo. Per il Garante della privacy in tal caso prevale l’interesse pubblico a conoscere la notizia. Con questa motivazione l’Authority ha dichiarato infondata la richiesta di un ex consigliere comunale, coinvolto in un’indagine per corruzione e truffa, di "deindicizzare" alcuni articoli. La vicenda era iniziata nel 2006 per concludersi nel 2012 con una sentenza di patteggiamento e la pena coperta dall’indulto. L’ex amministratore, dopo il no di Google alla richiesta di deindicizzazione, aveva fatto ricorso al Garante per chiedere la rimozione delle notizie che apparivano sul motore di ricerca. Alla base della richiesta la nuova vita dell’ex consigliere che non ricopriva più incarichi pubblici ma svolgeva un’attività privata, un lavoro che poteva, come la sua vita privata e la sua immagine, essere pregiudicato dalla circolazione di notizie risalenti a circa dieci anni prima. L’Autorità che ha rigettato la richiesta chiarisce che, anche se il tempo resta una componente essenziale del diritto all’oblio, la circostanza incontra un limite quando le informazioni riguardano reati gravi, che hanno destato allarme sociale. Per questo le richieste vanno dunque valutate, caso per caso, ma con minore favore. Nella vicenda esaminata hanno pesato due elementi: il procedimento giudiziario si era definito pochi anni prima e alcune url rendevano la notizia ancora interessante per l’opinione pubblica perché rimandavano ad una maxi inchiesta sulla corruzione pubblicata fino al 2015. Spetta al giudice l’oscuramento dei siti internet di Alessandro Longo Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2016 Spetta a un giudice ordinario e non a un’autorità amministrativa oscurare un sito web: è quanto emerge da un a sentenza del Gup di Roma in merito a un sito di trading internazionale che era stato oscurato, su richiesta della Consob, per il sospetto di reati finanziari. Il Gup ha assolto il titolare del sito e annullato l’oscuramento. La vicenda vedeva radicato un doppio procedimento, penale di fronte al Tribunale di Roma e amministrativo alla Consob, entrambe con poteri concorrenti sulla stessa violazione. La sentenza del Gup è significativa per un doppio motivo, perché si occupa di un caso di oscuramento di sito web di trading estero - caso meno comune rispetto a quelli standard (p.es. siti di pirateria audiovisiva) - e, soprattutto, perché prende posizione su un conflitto di competenze "digitali" tra giustizia ordinaria e autorità amministrative, su cui il dibattito è aperto da anni. L’oscuramento di siti viene disposto, di fronte a violazioni di legge, quando questi sono basati su server stranieri. Non potendo chiudere il sito, si ordina ai provider di impedire l’accesso (cioè: l’oscuramento) agli utenti italiani. Il sito in questione era stato oscurato dai provider dopo l’istruttoria della Consob per violazione delle norme del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (Tuf). L’accusa era di porre in vendita servizi di investimento su strumenti finanziari, con trading on line di opzioni binarie e contratti derivati regolati in contanti rientranti nell’allegato 1, sezione C della Direttiva 2004/39/CE, (MiFid), al di fuori del sistema di autorizzazioni previste dal Tuf. Il Gup, all’esito del giudizio abbreviato, ha stabilito che i comportamenti erano riconducibili a una colpa scusabile (il sito era autorizzato dall’autorità cipriota ma non da quella italiana) e pertanto può continuare a operare anche su territorio italiano. "Per la prima volta in Italia viene risolto un conflitto di competenze tra un’autorità giudiziaria e una amministrativa in merito all’oscuramento di un sito internet. E si è risolto stabilendo, di comune accordo tra le due autorità, che la decisione spetta al giudice ordinario", ha commentato l’avvocato Fulvio Sarzana specializzato in diritto del web. In particolare "dal provvedimento si apprende che il Giudice può tenere conto dell’istruttoria dell’Authority al fine di ordinare l’inibizione o di rifiutarla, se in sede amministrativa venga garantito in maniera scrupolosa il diritto al contraddittorio del titolare del sito, e si sia svolta una istruttoria amministrativa molto dettagliata". "Non è ancora risolto, invece, il conflitto di competenze tra Agcom e la giustizia ordinaria nella tutela del copyright, dato che le due autorità sono solite avviare procedimenti autonomi e paralleli sui siti web da oscurare" chiosa Sarzana. Su alcol e droga il Lazio "lancia" i prelievi coattivi di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2016 Test su alcol e droga effettuati con procedure precise in strutture sanitarie specializzate e sempre disponibili. Direttive e formazione agli agenti per l’accompagnamento coatto in questi ospedali di chi dopo un incidente con morti o feriti rifiuta il test. Riconoscimento esplicito che, in questi casi di rifiuto, è legittimo anche effettuare il prelievo del sangue. Sequestro dei telefoni cellulari dei guidatori coinvolti in gravi incidenti. Si articola su questi punti l’azione concertata fra Procura generale di Roma, (competente su tutto il Lazio), Polizia stradale e Regione Lazio per cercare di applicare in modo efficace le nuove norme su omicidio stradale e lesioni personali stradali. L’azione, sfociata in un protocollo operativo approvato dalla Regione il 27 settembre e portato dalla Stradale a conoscenza di altre Regioni e Procure per arrivare a iniziative analoghe ovunque, è necessaria perché la legge 41/2016, che lo scorso aprile ha introdotto questi nuovi reati, prevede pene severe che fanno emergere i limiti di un sistema giudiziario basato su un approccio poco rigoroso, data la sproporzione tra il grande impegno e la specializzazione richiesti dagli incidenti stradali (all’accusa, alla difesa, al giudice e ai rispettivi consulenti) e l’entità delle sanzioni effettivamente irrogabili in precedenza. Si aggiungono problemi nel trovare ospedali con organici e mezzi adeguata per effettuare test attendibili in ogni momento. Per questo la Procura ha coinvolto la Regione Lazio, che ha individuato strutture di riferimento in ogni parte del suo territorio, garantendo anche il finanziamento necessario. Ha così preso corpo una rete costituita da 27 ospedali con laboratori di primo livello, dove vengono effettuati i primi test di screening. Per la conferma dei risultati, i campioni vengono spediti a due strutture di secondo livello, entrambe a Roma: il Policlinico Umberto I e l’Università Tor Vergata. Nel protocollo, la Procura ha inserito alcuni chiarimenti per le forze dell’ordine. Il più importante riguarda la possibilità di effettuare in modo coattivo il prelievo del sangue su un conducente che lo rifiuta. Infatti, la legge 41/2016 rende possibile l’accompagnamento coattivo in ospedale, ma quanto al prelievo c’è ancora la sentenza 238/1996 con cui la Consulta lo considera come lesivo dell’integrità fisica della persona. E l’articolo 191 del Codice di procedura penale non consente l’utilizzo di prove acquisite violando divieti stabiliti per legge. Secondo la Procura, la nuova legge supera il problema, perché introduce nell’articolo 359 del Codice di procedura il comma 3-bis, che autorizza prelievi e altri accertamenti coattivi purché "necessari"; e qui il prelievo del sangue è necessario, dato lo stato dell’arte della medicina. Giornali senza sequestro. No alla cancellazione delle pagine telematiche di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 13 dicembre 2016 La Corte di cassazione sui contenuti diffamatori delle testate online. Niente sequestro civile preventivo di giornali online in caso di pubblicazioni sospette di diffamazione. Non è ammissibile l’ordine di cancellazione o di oscuramento di una singola o di più pagine di stampa di testate telematiche, attraverso il ricorso all’azione inibitoria ex articolo 700 codice di procedura civile. La Corte di cassazione, con la sentenza delle sezioni unite n. 23469, depositata il 18 novembre 2016, ha disposto che non c’è spazio per la tutela cautelare preventiva civilistica in caso di pubblicazioni a contenuto diffamatorio su testate telematiche. Vediamo il contenuto e il principio formulato dalla Suprema corte, che precisa che l’interessato può comunque ottenere la tutela piena con una sentenza nel giudizio di merito e, quando previsto dal codice della privacy, fare ricorso al Garante. In alcune controversie civili, relative alla richiesta di sequestro civile di articoli offensivi pubblicati sul sito internet, i giudici di merito hanno deciso in maniera diversa e la questione è arrivata sul tavolo delle sezioni unite della Corte di cassazione civile. La Cassazione ha escluso la possibilità del sequestro civile. Anche l’editoria online gode della tutela costituzionale dell’articolo 21 Costituzione. La tutela della libertà di stampa dai sequestri, scrive la Cassazione, si applica al giornale o al periodico pubblicato, in via esclusiva o meno, con mezzo telematico, quando possieda i medesimi tratti caratterizzanti del giornale o periodico tradizionale su supporto cartaceo. L’equiparazione scatta quando il giornale online sia caratterizzato da una testata, diffuso o aggiornato con regolarità, organizzato in una struttura con un direttore responsabile, una redazione e un editore registrato presso il registro degli operatori della comunicazione, finalizzata all’attività professionale di informazione diretta al pubblico, cioè di raccolta, commento e divulgazione di notizie di attualità e di informazioni da parte di soggetti professionalmente qualificati. In conseguenza dell’equiparazione, nel caso in cui sia evidenziato il contenuto diffamatorio di notizie pubblicate, il giornale pubblicato, in via esclusiva o meno, con mezzo telematico non può essere oggetto di provvedimento cautelare preventivo o inibitorio, di contenuto equivalente al sequestro o che ne impedisca o limiti la diffusione. Gli interessati hanno, però, la possibilità di ricorrere al Garante della privacy, utilizzando le tutele previste dal Codice della privacy (blocco del trattamento). Inoltre va ricordato che l’interessato (potenzialmente diffamato) ha tutela piena con la sentenza. La tutela piena andrà riservata al momento, necessariamente successivo, del riconoscimento, con la sentenza, dell’effettiva violazione del diritto individuale all’onore o alla reputazione, la quale solo potrà eventualmente ribaltare la valutazione di prevalenza tra i due diritti fondamentali. Però il giudice potrà disporre il risarcimento in forma specifica (cancellazione) o per equivalente, tenendo conto della particolare diffusività degli strumenti adoperati, solo dopo avere accertato con una istruttoria piena i profi li della vicenda. Per effetto della pronuncia devono qualificarsi precluse, e quindi non ammissibili quale oggetto di qualsiasi provvedimento cautelare o equiparato del giudice civile, tutte le misure, comunque denominate, che tendano ad impedire la persistenza nella Rete o l’ulteriore circolazione o diffusione dell’articolo - o equipollente - di giornale telematico ritenuto diffamatorio o, se da esse inscindibile, dell’intera pagina o dell’edizione o, in casi estremi, della testata; misure tra cui devono comprendersi anche quelle indicate come deindicizzazione o ad esse analoghe o di contenuto o soprattutto effetto corrispondente. Infortuni, per il reato di rimozione di cautele non serve il danno di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 52511/2015. È stata una "colpa imponente" quella commessa dall’ex ad della Thyssen Harald Espenhahn (condannato a 9 anni e 8 mesi) che insieme ad altri cinque manager del gruppo siderurgico ha provocato, per la totale e consapevole mancanza di adeguate misure di sicurezza, il rogo dello stabilimento di Torino nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007 in seguito al quale morirono sette operai. Lo scrive la Cassazione nelle motivazioni depositate ieri, sentenza 52511 della Quarta sezione penale, del verdetto emesso lo scorso 13 maggio di conferma delle sanzioni lievemente ridotte nell’appello bis. Sul piano giuridico, la Cassazione mette in evidenza come per l’applicazione del reato di rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro (articolo 437 Codice penale) è sufficiente la consapevolezza della condotta tipica del reato di disastro colposo e non anche dell’evento che aggrava il delitto. In altre parole, non serve un danno per determinare la condanna; se questo però si verifica, nella forma del disastro o dell’infortunio, allora scatta l’ipotesi aggravata. Nella vicenda Thyssen, peraltro, chiarisce la Cassazione, l’accertamento di un’assenza di un nesso causale tra la dolosa omissione delle misure di cautela ascrivibile a vario titolo agli imputati e il disastro non ha alcun tipo di conseguenza sul diverso reato di omicidio colposo e neppure sul trattamento sanzionatorio. La sentenza osserva che "in sostanza mentre nel reato di omicidio colposo plurimo gli imputati, in riferimento alle posizioni di garanzia dagli stessi rivestite (...) e in ragione di una serie impressionante di violazioni a regole cautelari nel settore della programmazione, prevenzione e adozione di sistemi antinfortunistici causalmente collegate con l’evento dannoso sono stati riconosciuti colpevoli di avere cagionato la morte dei lavoratori, l’evento disastroso di cui all’articolo 437 secondo comma codice penale, rileva quale obiettiva aggravante della fattispecie semplice". La Corte, poi, quanto alla misura delle sanzioni, poi la Cassazione avverte che anche se (ipotesi solo accademica peraltro) una delle condotte individuate come determinanti ai fini dell’omicidio colposo fosse esclusa, in ogni modo resterebbe attuale una serie di violazioni di regole cautelari nel settore di contrasto agli infortuni riferibili a tutti gli imputati per effetto del meccanismo della cooperazione colposa tali da escludere qualsiasi esimente del reato contestato. Agli imputati la Corte attribuisce la consapevolezza che avevano maturato "del tragico evento prima che poi ebbe a realizzarsi, sia per la pluralità e per la reiterazione delle condotte antidoverose riferite a ciascuno di essi che, sinergicamente, avevano confluito nel determinare all’interno dello stabilimento di Torino una situazione di attuale e latente pericolo per la vita e per la integrità fisica dei lavoratori". Imponente poi la serie di inosservanze a specifiche disposizioni infortunistiche, non ultima la disposizione del piano di sicurezza che impegnava gli stessi lavoratori in prima battuta a fronteggiare gli inneschi di incendio, dotati di mezzi di spegnimento a breve gittata, ritenuti inadeguati. Casi di concessione e diniego della liberazione anticipata. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2016 Esecuzione - Magistratura di sorveglianza - Procedimento - In genere - Valutazione dello stesso dato negativo - Revoca del beneficio della semilibertà e diniego della concessione della liberazione anticipata - Principio del "ne bis in idem" - Violazione - Esclusione - Ragioni. Non viola il principio del "ne bis in idem" la valutazione, da parte del giudice della sorveglianza, dello stesso dato negativo ai fini della revoca del beneficio della semilibertà e del diniego della concessione della liberazione anticipata, atteso che tale duplice valutazione non comporta una duplicazione sanzionatoria, trattandosi di benefici di natura diversa, aventi procedimenti autonomi, caratterizzati da finalità e presupposti ontologicamente distinti. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 7 settembre 2016 n. 37193. Istituti di prevenzione e pena - Liberazione anticipata. In materia di benefici penitenziari, la pena rilevante va individuata con riguardo ai singoli reati satellite nell’aumento in concreto inflitto a titolo di continuazione per ciascuno di essi, non rilevando quindi la sanzione edittale minima prevista per la singola fattispecie astratta. Lo ha affermato la Cassazione che, annullando il provvedimento impugnato con rinvio al Tribunale di sorveglianza per un nuovo esame, ha accolto il ricorso di un detenuto per fatti di droga in continuazione con altri reati a cui era stata negata la liberazione anticipata speciale sulla considerazione del presunto effetto ostativo del delitto più pericoloso per il quale era stata inflitta la condanna, effetto che impedirebbe la concessione della liberazione anticipata speciale. Per la Corte, dunque, i calcoli - e quindi gli eventuali benefici - devono far riferimento alla pena irrogata in concreto, e non invece alla pena edittale dei singoli reati. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 26 aprile 2016 n. 17143. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Liberazione anticipata - Pluralità di provvedimenti concessivi relativamente agli stessi semestri di pena espiata - Superamento dei limiti di operatività del beneficio - Rimedi. In caso di plurime concessioni della liberazione anticipata con riguardo agli stessi semestri di pena espiata e conseguente superamento dei limiti di operatività del beneficio, non occorre procedere alla revoca di alcuno dei provvedimenti applicativi, essendo al contrario sufficiente che l’ufficio del pubblico ministero, cui fa carico il rapporto esecutivo, provveda al cosiddetto "ridimensionamento" della riduzione di pena derivante dalla liberazione anticipata, emanando, a seconda dei casi, un provvedimento di cumulo o un provvedimento di ridefinizione della posizione giuridica dell’interessato, con possibilità, per quest’ultimo, qualora abbia da sollevare obiezioni, di promuovere incidente di esecuzione davanti al giudice competente ai sensi dell’articolo 665 cod. proc. pen. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 7 aprile 2016 n. 13986. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Liberazione anticipata speciale - Provvedimento di unificazione di pene concorrenti - Reati ostativi - Scindibilità del cumulo - Ammissibilità - Condizioni - Imputazione per prima della pena per i reati ostativi - Necessità. In tema di concessione della liberazione anticipata speciale, lo scioglimento virtuale del cumulo adottato in presenza di pene concorrenti, finalizzato a verificare se il condannato abbia già espiato la pena inflitta per i reati ostativi alla concessione del beneficio, previsti dall’articolo 4 bis ord. pen., non può realizzarsi imputando alla parte di pena ancora da espiare la frazione sanzionatoria riferibile a detti reati ostativi, bensì imputando per prima al periodo già sofferto la frazione riferibile a tali reati. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 22 febbraio 2016 n. 6817. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Liberazione anticipata speciale ex articolo 4 D.L. n. 146 del 2013, conv. in L. n. 10 del 2014 - Omessa inclusione dei condannati ammessi alla liberazione condizionale dal trattamento di maggior favore disposto dall’articolo 4 D.L. n. 146 del 2013 - Questione di legittimità costituzionale - Manifesta infondatezza - Ragioni. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4 D.L. 23 dicembre 2013 n. 146, così come modificato dalla legge 21 febbraio 2014, n.10, in relazione agli articoli 3 e 27 Cost., nella parte in cui non include tra i destinatari della liberazione anticipata speciale i condannati ammessi alla liberazione condizionale, avendo voluto il legislatore riservare il beneficio ai soli detenuti in carcere, nell’intento di ovviare all’eccezionale e temporanea situazione emergenziale di sovraffollamento. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 8 gennaio 2016 n. 498. Marche: diminuiscono i detenuti, mancano psicologi e agenti penitenziari picenooggi.it, 13 dicembre 2016 823 a fine settembre, contro gli 860 del 2015. Mancano psicologi (sono dieci ma ne servono 20) e agenti penitenziari (646 effettivi a fronte dei 739 richiesti). Diminuiscono, in controtendenza rispetto al resto dell’Italia i detenuti totali (823 a fine settembre, contro gli 860 del 2015) e quelli stranieri (277 contro i 340 dell’anno scorso) reclusi nelle carceri delle Marche, ma mancano psicologi (sono dieci ma ne servono 20) e agenti penitenziari (646 effettivi a fronte dei 739 richiesti). È il quadro tracciato ad Ancona dal presidente del Consiglio regionale Antonio Mastrovincenzo e dal Garante Andrea Nobili. In un anno Nobili e i consiglieri hanno effettuato oltre 600 incontri e visite negli istituti penitenziari. Un percorso che abbraccia tutto il 2016, che si è concluso con un’ulteriore e più attenta serie di visite negli istituti penitenziari marchigiani, effettuata tra ottobre e novembre, ed anticipata nei mesi precedenti da numerosi accessi per rendere possibile il confronto con i detenuti che ne hanno fatto richiesta. Oltre 600 incontri che hanno perfezionato la fotografia dettagliata della situazione, contenuta nel "Report", presentato a Palazzo delle Marche dal Garante dei diritti, Andrea Nobili. Il dato evidente è quello di un sistema che ha superato la fase emergenziale, peculiarità degli anni passati, anche se il raffronto con il passato è condizionato dai lavori di ristrutturazione in atto presso il carcere di Montacuto, con la conseguente chiusura di alcune sezioni. Le risorse a disposizione - "Le criticità più significative che abbiamo registrato - sottolinea Nobili - sono legate alla compressione delle risorse a disposizione. In particolare le attività trattamentali non risultano soddisfare compiutamente la prospettiva della finalità rieducativa della pena". Nel complesso le visite sono state organizzate in modo da coniugare più esigenze, "l’obiettivo principale - spiega il Garante - è stato quello del confronto con tutti gli operatori per poter elaborare la documentazione acquisita nel modo più dettagliato possibile. In secondo luogo, oltre ai colloqui con i detenuti, sono stati presi in considerazione gli aspetti strutturali degli istituti, dopo gli eventi sismici che hanno colpito la nostra regione e che hanno determinato la chiusura del penitenziario di Camerino". Nobili torna ad evidenziare "il positivo rapporto con le direzioni e con la Polizia penitenziaria, a cui va riconosciuto il merito di adoperarsi con competenza e sensibilità". Ma nello stesso tempo non manca di ribadire che "è necessario continuare ad impegnarsi, con sensibilità e umanità, per garantire condizioni di vita dignitose anche per chi si trova a vivere in carcere". Filosofia di fondo che ha animato, nel maggior scorso, il convegno "Dei delitti e delle pene", sul carcere attuale, su quello possibile e sulla riforma del sistema sanzionatorio. Secondo il Presidente del Consiglio, Antonio Mastrovincenzo, "anche se si registra una diminuzione della popolazione carceraria, rispetto al dato nazionale, la questione del sovraffollamento va, comunque, monitorata costantemente, come va incrementata la presenza degli agenti, degli educatori e degli psicologi". Altro aspetto importantissimo per Mastrovincenzo quello delle attività trattamentali: "La Regione, anche dietro la sollecitazione contenuta nella mozione approvata dal Consiglio, ha stanziato 400.000 euro, ma sono mancate all’appello le risorse statali". All’incontro hanno partecipato anche Marco Nocchi, responsabile per la Regione Marche dell’area prevenzione disagio sociale e dipendenze patologiche; Franco Dolcini che segue l’area sanitaria di Montacuto e Bargaglione; Nicola De Filippis, comandante della polizia penitenziaria di Montacuto. Proprio sul fronte dei finanziamenti, Nocchi ha sottolineato che nel 2017 sarà possibile prevedere uno stanziamento di 700.000 euro, di cui 400 per le attività trattamentali e 300 per l’inclusione lavorativa da finanziare tramite il Fondo sociale europeo. Cosa "dicono" i numeri - Al 30 settembre 2016 i detenuti registrati nelle Marche erano 823, a fronte degli 860 del 2015, di cui 277 stranieri rispetto ai 340 del precedente anno. Il dato ricomprende anche le presenze nel carcere circondariale di Camerino (51 di cui 8 donne e 32 stranieri), chiuso per i danni strutturali riscontrati dopo il terremoto ed il trasferimento degli stessi detenuti in istituti fuori regione. Al primo posto, come sempre, la casa circondariale di Pesaro - Villa Fastiggi con 222 detenuti (di cui 97 stranieri e 16 donne) per una capienza complessiva di 153 unità. A seguire Fossombrone con 161 (25 stranieri e 78 in alta sicurezza) a fronte di 201 posti disponibili; Marino del Tronto con 123 (23 stranieri e 44 in regime di 41 bis) su 104; Barcaglione con 109 (44 stranieri) su 100; Montacuto con 105 (43 stranieri) su 212, Fermo 52 (13 stranieri) su 41. Per quanto riguarda la casa circondariale di Montacuto da sottolineare che, al termine dei lavori di ristrutturazione, verranno istituite due sezioni di alta sicurezza, ognuna delle quali dovrebbe ricomprendere 46 persone. Nel contesto generale, escludendo Camerino, sono presenti 646 agenti di polizia penitenziaria (su 739 assegnati), 20 educatori e dieci psicologi. Sul fronte della situazione sanitaria, le tossicodipendenze mantengono sempre il primato con 200 detenuti che presentano problemi di droga accertati, mentre sono 75 quelli affetti da epatite. Per quanto riguarda la Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) di Monte Grimano Terme, si registrano 19 ospiti, di cui 14 provenienti dalle Marche. Gli interventi messi in atto sul territorio dagli Uepe (Uffici di esecuzione penale esterna) del Ministero ammontano a 4065, di cui 2328 per l’ufficio di Ancona (comprendente anche Pesaro) e 1737 per quello di Macerata (con Fermo ed Ascoli Piceno). Le esecuzioni penali esterne sono complessivamente 1909 (1053 e 856). Campania: il Garante nazionale dei detenuti ha visitato tre grandi istituti penitenziari Quotidiano del Sud, 13 dicembre 2016 Tappe a Bellizzi Irpino, Benevento, Santa Maria Capua Vetere. Il Garante ha visitato ieri tre grandi istituti penitenziari della Campani Riflettori sulle carceri Tappe a Bellizzi Irpino, Benevento, Santa Mana Capua Vetere. Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha visitato tre grandi istituti penitenziari della Campania: Bellizzi Irpino, Benevento, Santa Maria Capua Vetere (quest’ultimo con quasi 1.000 detenuti). A Santa Maria Capua Vetere, inoltre, per la prima volta il Garante nazionale ha visitato il carcere militare. "Abbiamo chiamato questa missione Campania 1 - spiega Mauro Palma, Presidente del Collegio del Garante nazionale - perché dovremo esaminare altre zone della regione prima di produrre un rapporto complessivo". È stata fatta anche una visita mirata al carcere di Salerno, sono state viste le Camere di sicurezza di Questura e Carabinieri e una casa di accoglienza per detenute madri di Avellino. In positivo il Garante nazionale ha verificato la qualità professionale di direttori e comandanti di reparto delle strutture ed il livello di vita detentiva, con molti progetti di reinserimento sociale e lavorativo. Gli aspetti di maggiore criticità hanno riguardato i rapporti con le Asl per la tutela della salute dei detenuti e le problematiche legate ai diversi circuiti carcerari (Alta sicurezza, reparti protetti e così via) che comportano diversi regimi di sicurezza (diversa organizzazione della vita quotidiana diversi orari di apertura delle celle, scuole e accesso ai passeggi separati, e così via) e chiedono ai dirigenti e al personale un sforzo maggiore. Altre criticità riguardano i rapporti col territorio in cui queste carceri si trovano. A Bellizzi Irpino, sottolinea il Garante, è difficile raggiungere la struttura con i mezzi pubblici, con conseguenze per il personale, per i parenti e per i volontari, per questo si è impegnato a sollevare il problema con il Comune. Invece, a Santa Maria Capua Vetere l’Istituto non è allacciato alla rete idrica, con conseguenti e comprensibili gravi problemi. Ora sembra che la Regione abbia stanziato i fondi e si intraveda la soluzione. "La delegazione - precisa infine Mauro Palma - ha esaminato registri, documenti, fascicoli personali: tale è infatti prerogativa della propria funzione. Lo ha fatto tenendo bene a mente il suo primario compito di prevenire possibili maltrattamenti e situazioni detentive che possano essere non in linea con l’assoluto precetto di tutelare la dignità di ogni persona. Questo vale per il carcere così come per le camere di sicurezza. Su alcuni limitati casi specifici ha approfondito le situazioni riferite o riscontrate con le autorità responsabili. Da parte di tutti gli interlocuzioni ha ricevuto un’ottima collaborazione". Sardegna: Uil-Pa; vuoti d’organico nella polizia penitenziaria, un nodo irrisolto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 dicembre 2016 "Rispetto alla media della realtà degli istituti carcerari del Paese, quella di Sassari è una realtà di qualità". Lo ha affermato a inizio mese il ministro della Giustizia Andrea Orlando dopo una visita di due ore effettuata in compagnia dei vertici dell’istituto. Ha potuto visitare tutti i settori, compreso il braccio che ospita il 41 bis. "È un carcere nuovo e funziona - ha spiegato Orlando - certo, ci sono problemi legati ai vuoti di organico nella dirigenza penitenziaria, ma è dotato di spazi che rispondono ad un’idea positiva dell’esecuzione penale". Come rilevato dal guardasigilli, quella delle carenze a livello dirigenziale e di personale è la nota dolente dell’istituto. La questione riecheggia nelle testimonianze raccolte tra le rappresentanze degli operatori, a cominciare dal sindacato di polizia penitenziaria Uil-Pa. In una nota diffusa successivamente alla visita a cui ha preso parte il ministro, si osserva: "Abbiamo avuto modo di constatare una consistente carenza di organico nei vari ruoli pari a 110 unità, vuoti che interessano anche i ruoli intermedi a cui compete il coordinamento dei servizi degli agenti. Le poche unità disponibili vengono distolte dai loro compiti principali per effettuare le videoconferenze dei detenuti al 41 bis presenti nell’istituto". Per questo motivo il 29 novembre scorso il sindacato ha manifestato davanti alla sede del Dap per evidenziare i problemi delle carceri sarde. Secondo la Uil-Pa il personale deve ancora fruire di 12.822 giorni di congedo ordinario, di cui 2.881 giorni relativi gli anni precedenti. Dall’inizio del 2016 si sono verificati 56 eventi critici, di cui 7 aggressioni a danno del personale e 8 tentati suicidi di detenuti che sono stati sventati grazie all’intervento tempestivo della polizia penitenziaria. Sono inoltre state effettuate 950 traduzioni e 33 piantonamenti in luogo esterno di cura che hanno interessato 1642 detenuti e l’impiego di 5061 Agenti. Numeri importanti che vanno aggiunti alla problematica del distretto: non si riesce ancora ad assegnare un direttore in ogni istituto penitenziario così come i funzionari non sono sufficienti per ricoprire le varie sedi dove necessita la loro assegnazione. Caso emblematico proprio l’istituto di Sassari dove non sono ancora stati ricoperti il coordinamento del Ntp (Nucleo Traduzioni e Piantonamenti) ed il Vice comando con i citati funzionari. " Gli Istituti sardi - conclude la nota della Uil-Pa - ospitano detenuti al 41 bis, Alta sicurezza; più è alto il livello di sicurezza richiesto, più dovrebbero essere sufficienti gli organici". Di fatto, la Sardegna, è diventata da due anni a questa parte una grande Asinara. Nei due nuovi complessi penitenziari di Sassari e Uta sono concentrati quasi tutti i detenuti del 41 bis, prima dislocati su tutto il territorio italiano. Tutto partì da una nota del Dap del febbraio del 2015 con la quale si spiegava che "i provvedimenti di trasferimento di detenuti ex art. 41 bis nelle sezioni delle carceri di Sassari e Uta saranno adottati ai sensi delle disposizioni in materia di sicurezza pubblica, varate con la legge 15 luglio 2009, n. 94 che dispone: i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all’interno di se- zioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria". I costi complessivi, al netto del ribasso, sono stati comunque alti: 18 milioni 600.000 euro per il carcere di Uta e 16 milioni e 350.000 per quello Sassari. La vicenda della concentrazione dei detenuti del 41 bis aveva creato numerose polemiche. A parte le idee soggettive, e fortemente discutibili sulla natura del 41 bis, la proposta di concentrare i detenuti a regime speciale nelle due carceri va comunque a scontrarsi con le parole del dottor Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento presso il Dap, ascoltato nel 2014 dalla commissione straordinaria sui diritti umani, presieduta dal senatore Luigi Manconi: "Nell’assegnazione della misura si evita l’assembramento in pochi istituti di soggetti che facciano parte della medesima associazione o di organizzazioni fra loro contrapposte. E si evita che soggetti di grande spessore criminale siano ristretti nello stesso istituto". Ma nel frattempo sono avvenute i trasferimenti e quindi la concentrazione in pochi istituti. Avallino: il Garante dei detenuti "pochi bus per raggiungere il carcere di Bellizzi" Il Mattino, 13 dicembre 2016 Sos dal carcere di Bellizzi Irpino. Pochi, quasi inesistenti i collegamenti dei mezzi pubblici con la struttura carceraria di Avellino. A sollevare la questione è il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, Mauro Palma che ieri mattina ha fatto visita in tre istituti penitenziari della Campania: Bellizzi Irpino, Benevento e Santa Maria Capua Vetere. "Abbiamo chiamato questa missione Campania 1 - spiega Mauro Palma - perché dovremo esaminare altre zone della regione prima di produrre un rapporto complessivo". È stata fatta anche una visita in una casa di accoglienza per detenute madri di Avellino. A Bellizzi Irpino, sottolinea il Garante - è difficile raggiungere la struttura con i mezzi pubblici, con conseguenze per il personale, per i parenti e per i volontari, per questo si è impegnato a sollevare il problema con il Comune. In positivo il Garante nazionale ha verificato la qualità professionale di direttori e comandanti di reparto delle strutture ed il livello di vita detentiva, con molti progetti di reinserimento sociale e lavorativo. "La delegazione - precisa infine Mauro Palma - ha esaminato registri, documenti, fascicoli personali: tale è infatti prerogativa della propria funzione. Lo ha fatto tenendo bene a mente il suo primario compito di prevenire possibili maltrattamenti e situazioni detentive che possano essere non in linea con l’assoluto precetto di tutelare la dignità di ogni persona". Questo vale per il carcere, così come per le camere di sicurezza. Di parere diverso il presidente della Uil penitenziaria, Eugenio Sarno che per bene due volte ha fatto tappa nella casa circondariale di Avellino, riscontrando non poche problematiche. "Rimango piuttosto allibito che il garante dei diritti dei detenuti abbia evidenziato dopo la visita nel carcere avellinese, solo le difficoltà di collegamento - ha precisato il presidente della Uil di settore questa problematica è stata da me sollevata circa dieci anni fa". Ben altre le questioni degne di nota, secondo il responsabile sindacale Samo. Critico Sarno (Uil): "Sorpreso che non abbia visto le precarietà del settore femminile". "Difficile rimanere impassibili dinanzi alla sezione femminile con asilo nido annesso. Ogni politico dovrebbe farvi visita e credo sia impossibile non uscire con l’anima graffiata ed è per questa ragione che mi batto affinché vengano create altre case famiglia per detenute madri". Diversi sono i nodi rimasti irrisolti nonostante le segnalazioni effettuate nel corso degli anni. "Manco ad Avellino da diverso tempo, ma credo che la situazione sia rimasta inalterata per quanto riguarda la pianta organica - ha aggiunto Sarno - pur avendo inaugurato un nuovo padiglione non ci sono stati incrementi di personale e gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Basti ricordare l’evasione di tre detenuti, avvenuto qualche anno fa che chiede ancora giustizia". Fermo (Ap): un detenuto svolgerà lavori di pubblica utilità, intesa tra Comune e carcere fermo.net, 13 dicembre 2016 Un detenuto, per sei mesi, a titolo gratuito, per quattro ore al giorno (dalle 7 alle 11) svolgerà lavori di pubblica utilità, come la cura delle strade e del verde pubblico nelle vicinanze della struttura penitenziaria di Fermo. Prorogato da questo mese di dicembre fino a fine 2017 il contenuto della convenzione (la prima era stata sottoscritta a novembre 2015 ed era divenuta operativa a maggio scorso) fra Amministrazione Comunale e Casa di Reclusione, che concretizza quanto contemplato da un protocollo d’intesa nazionale fra il Ministero della Giustizia e l’Anci del 2012, e che prevede che l’Amministrazione Comunale di Fermo metta a disposizione dei detenuti della struttura penitenziaria di Fermo opportunità per lo svolgimento di lavori all’esterno (art. 21 dell’ordinamento penitenziario) di pubblica utilità. I detenuti, vicini alla fine della pena, vengono scelti per i loro comportamenti e la loro condotta ed i nominativi individuati e proposti al magistrato di sorveglianza che ne autorizza e approva il coinvolgimento in questo progetto, volto a ridare dignità sociale e favorire il loro reinserimento. Questa mattina il Sindaco Paolo Calcinaro e l’assessore alle Politiche Sociali Mirco Giampieri hanno incontrato la Direttrice della Casa di Reclusione Eleonora Consoli, il responsabile dell’area trattamentale Nicola Arbusti ed il Comandante della Polizia Penitenziaria Gerardo D’Errico proprio per sottolineare "l’importanza e l’utilità sociale del protocollo d’intesa che in questi mesi i cittadini hanno gradito e apprezzato - ha detto il Sindaco - comprendendone la valenza sociale". Roma: penalisti in sciopero contro la gestione del Tribunale di sorveglianza di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 13 dicembre 2016 Secondo la Camera penale "è impossibile interloquire con i giudici, che ormai decidono in chiave carcerocentrica". Clima tesissimo al Tribunale di Sorveglianza di Roma. La Camera penale della Capitale ha indetto per oggi una giornata di astensione dalle udienze per protestare contro le "intollerabili condizioni di esercizio del diritto di difesa sia nella fase dell’udienza riservata alla decisione di istanze aventi ad oggetto il diritto fondamentale alla libertà personale, sia nella prodromica fase istruttoria, ove si registrano inaccettabili difficoltà di accesso alle Cancellerie dei singoli Magistrati". Da tempo gli avvocati romani denunciano le criticità organizzative dell’Ufficio di Sorveglianza. Ma, nonostante le rassicurazioni dei vertici, i problemi sono rimasti irrisolti. Anzi, "oltre al peggioramento delle condizioni in cui versa la Cancelleria Centrale del Tribunale di Sorveglianza di Roma, ove il costante afflusso di pubblico determina estenuanti attese che potrebbero essere agevolmente evitate consentendo una più efficace interlocuzione tra il difensore e la Cancelleria del Magistrato di Sorveglianza assegnatario", i legali evidenziano anche un irrigidimento delle decisioni " univocamente orientate ad un’ottica ed ad una politica carcerocentrica che si riflette sui contenuti dei provvedimenti giurisdizionali, sia con riferimento a quelli adottati in contraddittorio che a quelli non giurisdizionalizzati, spesso emessi in tempi inconciliabili". L’Ufficio di Sorveglianza di Roma è, attualmente, senza un capo. E si trova a dover gestire un considerevole numero di collaboratori di giustizia e di detenuti in regime di 41bis. Pur considerando la delicatezza delle funzioni, i dirigenti degli uffici giudiziari hanno sempre risposto alle criticità evidenziate adducendo problemi di organico ed organizzativi che però, per i legali, " non possono certo riflettersi sulla qualità ed efficacia della difesa". La risposta della magistratura associata allo sciopero degli avvocati non si è fatta attendere. Autonomia & indipendenza, la corrente del presidente dell’Anm Piercammillo Davigo, ha replicato con un durissimo comunicato, scorgendo dietro la protesta degli avvocati "pericoli per la democrazia", tanto da richiedere l’intervento urgente del Consiglio Superiore della Magistratura e del ministro della Giustizia affinché siano garantite ai magistrati del Tribunale Sorveglianza di Roma "condizioni di lavoro che consentano la libertà di coscienza nella valutazione e decisione delle delicate questioni giudiziarie rimesse alle loro decisioni". Per A&I, infatti, manifestazioni di protesta contro la "qualità della giurisdizione" - indette da coloro che sostengono le parti nei processi si risolvono "in tentativi di condurre fuori dalle sedi giudiziarie il dibattito su decisioni non gradite, esponendo oltremodo i magistrati che le hanno adottate, tanto più quando esse hanno ad oggetto esponenti detenuti di pericolose associazioni mafiose". Le toghe davighiane esprimono "stupore e preoccupazione per la manifestazione contro il tribunale e la sua giurisprudenza indetta da associazioni di avvocati alla quale si é annunciata la partecipazione anche di altre associazioni, di ex detenuti, di vertici del ministero e di magistrati". Ciò non ha, comunque, intimidito gli avvocati romani, che daranno ad ulteriori forme di protesta nel periodo intercorrente tra il 14 e il 20 dicembre. Catanzaro: la direttrice, Angela Paravati, racconta la realtà carceraria di Filippo Coppoletta infooggi.it, 13 dicembre 2016 "C’è una crepa in ogni cosa. Ed è lì che entra la luce" viene così intitolato l’evento che ha trovato svolgimento lunedì 12 dicembre presso la Casa Circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro, ideato e portato in scena dal commediografo Mario Sei e dal giovane ed intraprendente sacerdote Don Francesco Cristofaro. La nostra testata ha avuto il piacere di potervi partecipare e prima di entrare nell’evento, la direttrice della Casa Circondariale, la dr.ssa Angela Paravati ha raccontato ai nostri microfoni la sua esperienza riguardante la quotidianità del carcere, la vita di chi questo lo vive per scontare anni di reati o addirittura per tutta la vita. Con la direttrice abbia discusso delle criticità che oggi colpiscono le carceri italiane, di come le riforme tentano di contrastare fenomeni come il sovraffollamento e di come il volontariato possa recare un filo di speranza a chi questa l’ha ormai persa. Ascoltate dunque le risposte della dr.ssa Paravati nel nostro servizio. Tornando alla manifestazione, questa è stata rivolta ai detenuti di alta sicurezza per diffondere un messaggio di speranza anche e soprattutto in prossimità del Natale. Vedere la luce anche nei tratti più bui della propria vita e come, in questa, abbia trovato la forza, grazie all’incontro con il Movimento Apostolico nella sua vita, per andare avanti e trasmettere quella stessa luce a chi crede di aver perso ormai ogni speranza. Consapevoli che, molti "abitanti" dell’istituto non avranno l’occasione di rincontrare i propri familiari. Presentazione affidata alla professionale e apprezzatissima conduttrice televisiva di RTC (presente con le sue telecamere) Simona Palaia, la quale con un pizzico di emozione ha reso lo svolgimento armonioso e lineare, alternandosi con i diversi artisti che hanno messo a disposizione il loro talento, regalando momenti di gioia e riflessione allo speciale pubblico in sala, in cui non è mancata l’importante presenza della direttrice del carcere, la dr.ssa Angela Paravati. Musica religiosa e napoletana, poesia e testimonianze, si sono susseguite nel teatro del Caridi, magistralmente interpretate da molti giovani, quali: Stefano Ranieri (con Holy Night), Laura Polito e Maria Cristina Monda (con Vita), Anna Cristina Marino (con All I Want for Christmas), Luciana Pugliese e Pino Rotella (con un bellissimo medley di musica napoletana), Renato Cusimano e Stefania Rhodio (con Bianco Natale e In una notte come tante), Kevin Di Sole (con l’emozionante interpretazione di una poesia di Sei dal titolo "Il mio papà"), Raffaella Capria (con Dicitincello Vuje); tra tutte però, l’esibizione di maggior rilievo è stata quella di alcuni detenuti che per l’occasione hanno appositamente preparato, con il supporto dei maestri Giuseppe e Piera, il classico brano natalizio "Astro del Ciel". Toccante la testimonianza di don Cristofaro che ha raccontato ai presenti la sua giovane ma ricca biografia, sottolineando i momenti più duri e profondamente radicati nella fede; come sia riuscito a vedere la luce anche nei tratti più bui della propria vita e come, in questa, abbia trovato la forza per andare avanti e trasmettere quella stessa luce a chi crede di aver perso ormai ogni speranza. Don Francesco e poi sceso in platea dove sono stati molti i sorrisi, gli abbracci e le carezze ricevute e donate reciprocamente, testimonianza dell’unico fine dell’evento. A chiudere la serata, il canto "Tu scendi dalle stelle" con la voce di tutti i ragazzi presenti e l’accompagnamento musicale alla fisarmonica di don Francesco; a seguire l’intervento della direttrice Paravati, grata a Mario Sei, don Francesco e l’intero cast per aver portato gioia e speranza dove molte volte questa viene a mancare, con l’invito di poter tornare presto a trovare questi amici. Campobasso: la vita dietro le sbarre, proiezione verso una realtà di compiti e doveri di Ludovica Colangelo cblive.it, 13 dicembre 2016 "Vacanzieri a spese dello Stato". Nonostante più volte i riflettori si siano accesi sulla situazione precaria delle carceri italiane, nel gergo comune spesso c’è ancora chi i carcerati li definisce in questo modo, decidendo di non andare oltre la realtà vissuta dietro le sbarre. Una realtà conosciuta, invece, molto bene dal cappellano della casa circondariale, don Francesco Labarile, prete salesiano che, segue i detenuti del carcere di Campobasso e che in questa intervista per CBlive ha provato a raccontare un po’ di quella che è la vita condotta dai reclusi e a sfatare, in questo modo, alcune false credenze. Lo stesso don Francesco, insieme a don Pasquale D’Elia e don Daniele Leo stanno promuovendo una raccolta di alcuni beni per l’igiene per la persona proprio per i carcerati del capoluogo. Lo Stato italiano, infatti, per ogni detenuto oltre a vitto, e alloggio, procura solamente la fornitura minima per pulire le celle e la cura personale. Tutto il resto è preoccupazione dei parenti o amici del recluso e, se questi vengono meno, il possibile lo mette a disposizione la Caritas. Per contribuire alla raccolta di beni per l’igiene personale, inoltre, i cittadini possono rivolgersi alle proprie parrocchie, i cui parroci consegneranno tutto ai cappellani della casa circondariale di via Cavour. Don Francesco, tra le richieste dei detenuti alla Caritas emerge che, uno solo fa domanda di beni essenziali, come slip e che, quasi tutti, hanno invece espresso il desiderio di ricevere del tabacco. Come mai? "Eliminare un vizio non è semplice per nessuno, figuriamoci per chi, come un detenuto, vive recluso e con delle restrizioni. Nel caso del carcere, ad esempio, non si può placare il desiderio del fumo con una passeggiata o con qualcosa in più da poter mangiare. Nel carcere del capoluogo, spesso, noto della solidarietà tra i detenuti. Nel caso del fumo, ad esempio, se uno ha terminato il tabacco, i compagni non sono restii nell’ offrire una sigaretta". Anche a Campobasso, spesso, le ditte incaricate alla fornitura di alimenti hanno prezzi più alti del solito? "Ci sono i detenuti che hanno il compito di fare la spesa e, spesso, purtroppo, emerge che le ditte hanno dei prezzi più alti del normale. Solo una ditta è incaricata al rifornimento degli alimenti e, quindi, non si ha la possibilità di scegliere il prodotto più conveniente". Può descrivere la giornata tipo di un detenuto? "La maggior parte lavorano. Chi in cucina, chi come operatore delle pulizie, chi come addetto ai lavori manuali. Alcuni, attraverso l’articolo 21, per delle ore, possono lavorare anche all’esterno. I soldi che, i reclusi guadagnano, vengono depositati su un conto gestito dal carcere e destinato all’ acquisto di beni utili al detenuto. Se la pena del recluso è definitiva, il guadagno viene utilizzato, anche, per pagare la cella. Chi non attende la condanna, infatti, per legge deve pagare 1,50 euro al giorno per il posto che occupa all’ interno del carcere. Somma che per buona condotta può subire uno scont". E se il detenuto non lavora? "Si trova un modo affinché, attraverso delle prestazioni paghi la cella". Ma qual è, in fondo, lo scopo del carcere? "È duplice: repressivo ed educativo. Il secondo è più difficile da attuare. Il detenuto, infatti, per prima cosa deve desiderare una rieducazione ed è, poi, necessario che venga seguito da un buon gruppo di educatori. Spesso non si hanno abbastanza educatori per poter indirizzare ogni recluso verso la buona strada. Ciò emerge anche in una realtà piccola come Campobasso". Un errore volontario o dettato dall’ irrazionalità. La troppa rabbia o l’eccessiva innocenza. Il luogo di nascita, le persone che ti circondano. Le cause di una reclusione possono essere davvero molte. In dei casi basta un attimo e l’etichetta di "vacanziere a spese dello Stato" è assicurata. Cosa, realmente, si nasconde dietro le sbarre però davvero in pochi lo sanno. Torino: due detenuti in "permesso premio" non rientrano in carcere, è caccia agli evasi torinoggi.it, 13 dicembre 2016 Si tratta di due pericolosi ergastolani, entrambi con un omicidio alle spalle. Uno di loro lo scorso sabato, 11 dicembre, ha minacciato il titolare dell’albergo Doria di via Accademia Albertina, che lo aveva messo in fuga impugnando una mazza da baseball. Avevano ottenuto un permesso premio dal Magistrato di Sorveglianza ma, allo scadere del beneficio, non sono rientrati nel carcere di, dov’erano detenuti, facendo perdere le loro tracce. Uno di loro lo scorso - Alessandro Covelli, 60 anni, collaboratore di giustizia calabrese, una condanna a trent’anni ancora da finire di scontare - sabato, 11 dicembre, ha minacciato il titolare dell’albergo Doria di via Accademia Albertina sparando anche al suo indirizzo due colpi di pistola a salve per intimorirlo, peraltro senza riuscirci, al punto che l’albergatore dopo aver chiamato i carabinieri lo aveva anche inseguito brandendo una mazza da baseball. Il secondo si chiama Tommaso Biamonte, 60 anni, condannato all’ergastolo per omicidio. Durante una precedente evasione, nel 1991, aveva ammazzato un tassista a Viverone (Biella) col solo scopo per garantirsi la fuga. "Tecnicamente si tratta di evasione, e questo non potrà che avere gravi ripercussioni se non si costituiranno al più presto", spiega Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE che giudica l’accaduto "un evento irresponsabile e gravissimo, per il quale sono già in corso le operazioni di polizia dei nostri Agenti della Penitenziaria finalizzare a catturare gli evasi". Cosenza: "Liberi di leggere", iniziativa dell’associazione di volontariato LiberaMente di Alessia Rausa cosenzainforma.it, 13 dicembre 2016 È l’iniziativa portata avanti da LiberaMente per ampliare le biblioteche delle carceri di Cosenza e Paola. I cittadini potranno acquistare un libro da regalare ai detenuti. L’associazione di volontariato penitenziario LiberaMente sta realizzando (in collaborazione con MorEqual, Centro socioculturale Frassati, Casa circondariale di Cosenza, Casa Circondariale di Paola e libreria Ubik) il progetto Liberi di Leggere per ampliare le biblioteche del carcere di Cosenza e Paola. Nell’ambito di questo progetto si inserisce l’iniziativa "Libro sospeso" grazie alla quale i cittadini potranno scegliere di regalare un libro ai detenuti. Il "libro sospeso" è un’iniziativa voluta per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla realtà penitenziaria e sulle criticità che i detenuti vivono nella quotidianità del carcere tentando così di abbattere i pregiudizi che circondano gli istituti penitenziari. In prigione ci sono sempre e comunque chiuse delle persone, non dei mostri. Persone che prima o poi, riacquistano la libertà perduta e prima o poi rientrano nella società civile. Il rischio è che rientrino peggiorate e non rieducate. Perciò la biblioteca del carcere è emblema della promozione culturale del condannato durante il tempo della pena e strumento essenziale per lo sviluppo culturale dell’individuo, per l’istruzione e l’informazione. Il Libro sospeso vuole essere un ponte tra il fuori e il dentro. Tutti possono contribuire entrando in libreria, acquistando un libro e lasciandolo in sospeso affinché possa essere donato alle biblioteche delle carceri di Cosenza e Paola. Per maggiori informazioni: www.liberamentecs.org Roma: il teatro di Eduardo come veicolo per diffondere la cultura della legalità di Eugenio Bruno Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2016 Forse non c’è un testo teatrale italiano che rappresenti meglio di Napoli Milionaria la difficoltà di rinascere dalle proprie macerie. Individuali e collettive. Parte da questa considerazione l’idea della cooperativa Formula sociale di portare sulla scena la celebre commedia di Eduardo De Filippo. Facendo ancora una volta del teatro uno strumento per diffondere la cultura della legalità. L’appuntamento è per Mercoledì 14 e giovedì 15 dicembre al Teatro Ghione di Roma. Dove attori professionisti, studenti del Dams detenuti ed ex detenuti metteranno in scena il celebre testo eduardiano. Uno su tutti: Cosimo Rega, ergastolano, ex camorrista, già visto sul grande schermo in Cesare deve morire dei Fratelli Taviani. La commedia di Eduardo - La storia è nota. Del resto la commedia scritta da Eduardo nel 1945 è stata rappresentata più volte in Italia e all’estero. Siamo a Napoli. La guerra è appena finita e la città si trova ad affrontare i postumi dei bombardamenti. Con la miseria a farla da padrone e l’arte di arrangiarsi come unico viatico per aspettare che passi la "nuttata". Uno sparuto gruppo di persone casualmente trova rifugio al chiuso di un teatro. Sconosciuti gli uni agli altri, diversi, mossi da una emergenza che viene dal "mondo di fuori", sentono di essere in grave pericolo di vita ma ignorano una possibile soluzione. Mobili e oggetti di scena sono accatastati al centro del palcoscenico come per un gesto lasciato a metà. Chissà da quando. "Che cosa è successo...? "La potenza di ciò che hanno di fronte li attraversa quasi inconsapevolmente. E ben presto la solidarietà e l’onestà si rivelano le uniche soluzioni per ricominciare. Sul palcoscenico - Nella versione in arrivo mercoledì e giovedì al Teatro Ghione di Roma, impreziosita dalla regia di Daniela Marazita e dalle musiche di Nicola Piovani, la commedia eduardiana diventa uno strumento per diffondere la cultura della legalità. E dimostrare che c’è vita oltre le sbarre. Grazie anche al lavoro di cooperative come Formula sociale che da sempre puntano ad abbattere le parti visibili e invisibili tra l’interno dei penitenziari e quel "mondo di fuori" mirabilmente narrato da Eduardo. Da qui l’idea di affiancare attori e attrici professioniste - come Bianca Maria D’Amato (Amalia) che dal teatro è partita e al teatro è tornata dopo una lunga parentesi al cinema e in tv - a detenuti ed ex detenuti. In primis Cosimo Rega, ergastolano, ex camorrista, già visto sul grande schermo in Cesare deve morire dei Fratelli Taviani, premiato con l’Orso d’oro al Festival di Berlino del 2012. Uno che ha sperimentato sulla propria pelle cosa vuole dire rinascere grazie alla potenza del teatro e, più in generale, della parola. Anche per questo quel "La guerra non è finita. Non è finito niente", pronunciato dal suo personaggio, il protagonista Gennaro Jovine, arriva dritto al cuore. E rende a pieno la forza del suo (e del nostro) quotidiano arrancare tra le macerie di una realtà sociale corrotta e crollata. Consapevoli la guerra è dentro di noi e non basta un apparente benessere - tanto più se illegale - a farla dimenticare. Taranto: gli studenti recitano in carcere, in scena uno spettacolo di Playback Theatre tarantosera.it, 13 dicembre 2016 Gli studenti del Vittorino da Feltre offrono alla popolazione carceraria lo spettacolo "Amici si può" e i detenuti mettono in scena uno spettacolo di Playback Theatre per i disabili e le loro famiglie. Si avvia alla conclusione il progetto "Vivere non recitare". A partire dallo scorso maggio sono stati avviati e condotti i laboratori di recitazione (tenuti da Maria Teresa Liuzzi e Raffaele Boccuni dell’Associazione Massimo Troisi) e musica (tenuti da Elisa Buono). I laboratori sono finalizzati alla realizzazione di uno spettacolo, la cui regia è stata curata dall’esperta di teatro del Muse Alessia Berardi. Lo spettacolo sarà quindi messo in scena dagli allievi sia in carcere che presso l’Auditorium Tarentum. I detenuti invece hanno lavorato con il Playback Theatre, un teatro ideato da Jonathan Fox e che rintraccia le sue radici nello psicodramma di Moreno. Ormai mancano pochi giorni alla conclusione del progetto. Il prossimo appuntamento è fissato per il 15 dicembre alle ore 9.30, quando gli alunni del Vittorino da Feltre metteranno in scena per la popolazione carceraria lo spettacolo "Amici si può". Il testo prende spunto dalla trilogia dell’amicizia di Sepulveda e vuole trasmettere i valori di amicizia e solidarietà che possono nascere dalla e nella diversità. Lo stesso spettacolo sarà poi riproposto presso l’Auditorium Tarentum sempre il 15 dicembre alle 18. Invece il 17 e il 18 dicembre Gigi Dotti Trainer riconosciuto dalla Scuola di Playback Theatre di New York, nonché psicologo, psicodrammista e direttore di Playback Theatre terrà un laboratorio rivolto tanto ai detenuti che agli allievi del Vittorino da Feltre che ha proprio l’obiettivo di creare conoscenza e integrazione tra il mondo del dentro e del fuori. Il laboratorio sarà la premessa dell’evento finale che si terrà il 19 Dicembre, con uno spettacolo che porta sul palcoscenico non attori, ma uomini, perché "Vivere, non è recitare". Capofila del progetto è il Vittorino da Feltre, diretto dalla preside Alessandra Larizza, e prevede il coinvolgimento del carcere di Taranto, diretto da Stefania Baldassari, dell’istituto comprensivo Don Bosco, diretto da Carmen Acquaro, del Ciofs/fp Puglia, e dell’associazione di promozione sociale Massimo Troisi. Sono stati infatti coinvolti a livello nazionale la Scuola Italiana di Playback Theatre, il Muse di Roma, il Teatro Patologico di Dario D’Ambrosi e la Compagnia di Teatro Stabile Assai di Roma con Antonio Turco, direttore di area pedagogica e responsabile delle attività culturali presso Rebibbia reclusione. Ha coordinato le attività dell’intero progetto la la professoressa Eliana Decaroli, per la parte realizzata nell’istituto comprensivo ha collaborato anche la professoressa Carmen Salluzzi. Tortura (tra legge e sadomasochismo) di Alberto Leiss Il Manifesto, 13 dicembre 2016 L’Italia resta un paese che, nonostante i cogenti richiami europei, non ha ancora una legge che condanni il reato di tortura, in particolare se commesso da personale delle forze dell’ ordine, e da funzionari statali, che dovrebbero invece tutelare i basilari diritti di libertà dei cittadini. Adriano Prosperi lo ricorda nel libro appena uscito "Tortura fuorilegge" edito da Forum e curato da Andrea Lucatello e Laura Morandini, animatori di un centro di impegno culturale a Udine molto vivace, che pubblica la bella rivista Multiverso (www.multiversoweb.it). Prosperi - tra gli altri - denuncia il fatto che nella formulazione della legge attualmente parcheggiata in Parlamento il riferimento alle forze dell’ordine è stato eliminato, e la tortura è riferita come reato a qualunque cittadino eserciti coercizione, minacce e violenze verso altri. E questo nel paese dei vari casi Cucchi, e soprattutto della gravissima serie di violenze e torture inflitte dalle "forze dell’ordine" durante il G8 del 2001 a Genova. Un riferimento che attraversa molte pagine del libro, soprattutto nell’intervista di Andrea Lucatello a Daniele Vicari, regista del film Diaz, che ha rievocato quella vicenda ponendo di fatto la questione se quella ferita profonda inferta allo stato di diritto e alla consistenza stessa della nostra libertà si sia mai più rimarginata. La risposta oscilla tra il dubbio e la negazione. Tanto più che gli esiti giudiziari solo in parte hanno individuato responsabilità e chiarito la dinamica dei fatti, restando solo la verità delle testimonianze di chi la violenza e la tortura l’ha subita. Due mesi dopo l’esplosione di quella violenza di stato in Italia arrivava il crollo delle Torri a New York e l’avvio di una guerra infinita al terrorismo, che in effetti è ancora aperta, nel corso della quale il ricorso legale alla tortura è stato sostenuto da filosofi liberal come Michael Walzer, e da noi da commentatori in teoria liberali come Angelo Panebianco. Nel libro lo ricordano Livio Pepino e Donatella di Cesare, che nel suo intervento pone la controversa questione di una "democratizzazione" del ricorso alla tortura, sia nel senso di una sua giustificazione in momenti di emergenza, di stato di eccezione si potrebbe dire, sia in quello di una sua normalizzazione sotterranea, nonostante le leggi e le convenzioni internazionali la ripudino come pratica inammissibile in uno stato di diritto. Quando anticamente la tortura era considerata uno strumento lecito e legale essa era anche visibile, e spettacolarizzata proprio per renderla "efficace", ma anche regolata in modo preciso per contenerne gli effetti violenti sulle vittime. Oggi il rischio accertato è che al divieto si accompagnino forme segrete e ancora più disumane di torture. Per Ida Dominijanni, che ha presentato "Tortura fuorilegge" a Roma nei giorni scorsi, siamo a una "governamentalizzazione" della tortura, com’è tipico del contesto neoliberale. La legge per lo più la vieta, ma viene praticata secondo la regola aleatoria del "dipende da…"- le condizioni di volta in volta valutate da chi detiene il potere della "governance". Non senza il caso di spettacolarizzazioni spontanee, come avvenne da parte di soldati e soldatesse americane a Abu Graib, in Iraq. E qui arriviamo a come ognuno di noi vive questo genere di "spettacolo" e di informazioni. Il moto di indignazione non sempre produce una adeguata mobilitazione politica - è successo anche all’inizio del caso Regeni - e in questo tipo di esitazione soggettiva bisogna avere il coraggio di non rimuovere il peso inconscio del rispecchiamento sadico e masochista nel carnefice e nella vittima. Soprattutto quando ci si rassegna alla violenza del potere. Torna la tortura è il fallimento della modernità di Federico Vercellone La Stampa, 13 dicembre 2016 La tortura che la cultura illuminista aveva solo idealmente cancellato dai propri orizzonti è rientrata con forza nel panorama politico mondiale. E non si tratta di un ritorno sotterraneo, come ci ricorda Donatella Di Cesare nel suo libro Tortura (Bollati Boringhieri). Il terrorismo ha scatenato reazioni radicali intese a rilegittimare la necessità di questo supplizio come se, dinanzi a estremi mali, fosse concesso rispondere con i sempre inefficaci estremi rimedi. Nessuno come Kafka, in La colonia penale, ha saputo individuare la logica della tortura, che è una logica dell’iscrizione in corpore vivi del castigo e della sottomissione. "La politica della tortura è, alla fin fine", scrive Di Cesare, "una politica del terrore. Sul corpo torturato si imprime la presenza scatenata del potere sovrano". In una logica liberale la tortura costituisce una pura disfunzione, un andamento patologico della sovranità. Essa si, agli occhi dell’opinione pubblica, come una sorta di reviviscenza dell’arcaico nella contemporaneità. Tuttavia le cose non vanno affatto in questo modo. Paradossalmente la tortura prelude e si adatta bene alla globalizzazione, anche perché le sue tecniche e i suoi mezzi sono facilmente esportabili. La questione diviene ancora più angosciosa dinanzi all’evidenza inquietante che la tortura non si è fermata con la caduta della cortina di ferro. Essa è compatibile con la democrazia e con la sua opinione pubblica, come risulta da uno studio di Darius Rejali del 2011 che acclara, sulla base di dati recenti, come la maggioranza dell’opinione pubblica, nell’era post-Obama, fosse favorevole alla tortura. Se la tortura non esprime un’identità atavica ma appartiene anche al mondo contemporaneo e ai regimi democratici che talora la adottano, che conclusioni possiamo trame? Innanzitutto che la tortura rende palese la tragica impotenza dell’Illuminismo, l’incombente fallimento di una modernità che si sente assediata nel proprio benessere e nei valori-guida. L’etica della testimonianza, il ferreo imperativo a non tacere, a cui pur doverosamente ci invita Di Cesare, non è, da questo punto di vista, un’arma da sola efficace per combattere la più efferata delle violenze dell’uomo sull’uomo. L’ineluttabile scommessa che qui si propone è quella di una rifondazione del patto sociale su basi più eque e condivise che sottraggano le logiche del potere a quella della violenza vittima-carnefice. Il libro di Donatella Di Cesare sarà presentato giovedì alle 11,30 alla Sala Berlinguer della Camera dei Deputati. Con l’autrice interverrà tra gli altri il ministro della Giustizia Andrea Orlando In dieci anni si è allargata a macchia d’olio: la povertà in Italia è cresciuta del 141% di Michela Scacchioli La Repubblica, 13 dicembre 2016 Nell’indigenza assoluta oggi in 4,6 milioni: quasi l’8% della popolazione. Nel 2005 erano meno della metà. Lavori più a rischio: tra le famiglie operaie il tasso di immiserimento è salito dal 3,9 all’11,7 per cento. In Europa noi tra i peggiori. A rimetterci le famiglie giovani e numerose. Quasi raddoppiati i bimbi under 6 con gravi privazioni materiali. Spesa in protezione sociale: quinti in Ue ma welfare non basta. Si è allargata a macchia d’olio. Ha finito col mettere in ginocchio intere famiglie. Ha snervato e fiaccato i giovani. Ed è più che raddoppiata nell’arco degli ultimi dieci anni. Un balzo drammatico, da capogiro: più 141 per cento. Il suo nome è povertà. Una realtà messa in luce - con tutta l’evidenza possibile - dagli esiti del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso. Oggi, infatti, 4,6 milioni di persone vivono nell’indigenza assoluta: quasi l’8% della popolazione residente in Italia. Basti pensare che erano poco meno di 2 milioni nel 2005 (il 3,3% del totale). Un incremento che non ha risparmiato nessun’area della penisola: al nord il numero dei bisognosi è addirittura triplicato. Qualche numero? Sempre nel 2005 i poveri erano 588mila al nord e poco più di un milione al sud mentre adesso sono rispettivamente 1,8 e 2 milioni circa. Persone che non possono permettersi spese essenziali come quelle per gli alimenti, la casa, i vestiti, i mezzi per spostarsi né le medicine. E il profilo di chi si è indebolito oltre ogni misura ci restituisce un quadro degli effetti causati dalla crisi (economica e occupazionale) iniziata nel 2008: quella che gli esperti chiamano ‘grande recessionè e che ha cambiato il panorama sociale del nostro Paese. Quando il lavoro non basta. Secondo i dati elaborati da Openpolis (in collaborazione con ActionAid) per Repubblica.it, la probabilità di essere poveri è cresciuta soprattutto tra chi si trova ai margini del mercato del lavoro, come i giovani e coloro che sono in cerca di occupazione. Ma il dato che emerge con prepotenza è che spesso il lavoro - per come si è configurato dopo la crisi - a volte non basta a mettere al riparo da ristrettezze e immiserimenti. Tra le famiglie operaie, ad esempio, il tasso di povertà è salito dal 3,9 all’11,7 per cento. E, con la crisi, il rischio di finire in miseria è aumentato per i lavoratori in 7 Stati Ue su 10. L’Italia è il quarto Paese in cui è cresciuto di più: nel 2005 erano a rischio povertà 8,7 lavoratori su 100, nel 2015 sono diventati 11. Fanno peggio di noi Germania, Estonia e Bulgaria. Tra i lavoratori tedeschi il medesimo rischio è aumentato di oltre 5 punti percentuali. Migliora la situazione in diversi Paesi dell’est Europa, tra cui Polonia, Slovacchia e Ungheria. In parallelo all’aumento dei poveri, cresce anche il numero di persone che lavorano poche ore a settimana. Accanto, poi, a tendenze consolidate a livello europeo, si registrano alcune particolarità tutte italiane. Tipo: il più alto tasso di giovani che non studiano e non lavorano (Neet) e una delle più basse percentuali di donne che continuano a lavorare dopo la maternità. Una combinazione che ha impoverito in particolare le famiglie giovani e numerose. Senza risparmiare, purtroppo, i più piccoli: sono quasi raddoppiati i bambini sotto i 6 anni che vivono in una condizione di grave privazione materiale. Per dire: in punti percentuali, solo la Grecia ha registrato un incremento maggiore rispetto all’Italia. Di certo c’è che dopo oltre 8 anni di crisi economica, la povertà non può più essere considerata un fatto straordinario che riguarda pochi sfortunati. Ha numeri da fenomeno di massa, e il nostro welfare - concepito in un altro momento storico - sembra poco efficace per contrastarla. "Poche risorse vengono destinate alle famiglie in difficoltà, ai senza lavoro e in generale alle situazioni di disagio - sottolinea Openpolis. Le misure contro l’esclusione sociale sono diverse e frammentate, a volte temporanee, prive di un disegno organico che le tenga insieme". Un progetto di legge già approvato alla Camera a luglio - e dunque ben prima della crisi di governo - vuole razionalizzare questi interventi e ricondurli verso una misura universale che, a regime, dovrebbe valere 1,5 miliardi di euro per oltre un milione di persone. Un passo in avanti rispetto agli anni scorsi, ma che esclude ancora oltre 3 milioni di cittadini. Povertà relativa. Oltre alla povertà assoluta "ci sono anche altri modi per contare quante siano le persone in ristrettezze economiche, ma tutti gli indicatori mostrano la stessa tendenza. Il principale metodo alternativo è contare gli individui che si trovano in povertà relativa". In questo caso il discrimine tra povero e non povero non è la capacità di acquistare un paniere di beni essenziali, ma una linea di povertà convenzionale, che per l’Istat è la spesa media per consumi pro capite. Se si contano le persone al di sotto della linea di povertà relativa, i poveri sono 8,3 milioni, vale a dire il 13,7% della popolazione (contro l’11,1 del 2005). Rischio esclusione sociale. Ancora più ampio il numero di persone a rischio povertà o esclusione sociale. In questo caso agli individui a basso reddito vengono sommati coloro che vivono in situazioni di grave privazione materiale oppure in famiglie a "bassa intensità di lavoro". Secondo l’Eurostat, tra 2005 e 2015 la quota di popolazione a rischio povertà o esclusione sociale è passata dal 25,6% al 28,7 per cento. In tutta l’Unione europea, l’Italia ha registrato un peggioramento inferiore solo a quello di Grecia, Spagna e Cipro. Il rischio è cresciuto anche in Svezia e Germania, mentre diminuisce in Francia e Regno Unito. Si registra una forte diminuzione nei paesi dell’Est europeo, che partivano però da situazioni di maggiore disagio. Le famiglie povere. La quota di famiglie in povertà assoluta è quasi raddoppiata. Erano 819mila nel 2005, mentre oggi sono quasi 1,6 milioni, con un balzo dal 3,6 al 6,10%. Su 100 famiglie, 6 non possono permettersi un tenore di vita accettabile. Ma il disagio è ancora più vasto secondo altri indicatori: il 38,6% delle famiglie non può far fronte a spese impreviste (erano il 29% nel 2005). Sono aumentate del 65% quelle che non possono permettersi di riscaldare la propria abitazione e dell’81% quelle che non consumano pasti proteici almeno 3 volte a settimana. In quali professioni crescono i poveri. I nuclei familiari più in difficoltà sono quelli in cui la persona di riferimento è un operaio o è in cerca di occupazione. Le famiglie che dipendono da una persona che sta cercando lavoro in un caso su cinque non possono permettersi uno standard di vita accettabile. Come si diceva, tra le famiglie operaie il tasso di povertà assoluta è triplicato rispetto al 2005, passando dal 3,9% all’11,7% del 2015. È più che raddoppiata la probabilità di trovarsi in povertà assoluta se il capofamiglia è un lavoratore autonomo, mentre è diminuita se si è ritirato dal lavoro. La stessa probabilità rimane contenuta per le famiglie dei colletti bianchi, ma rispetto al 2005 è aumentata di quasi dieci volte. Quanto lavorano gli occupati. Gli oltre 22 milioni di occupati italiani non sono tutti lavoratori a tempo pieno. Per l’Istat è sufficiente un’ora di lavoro a settimana per essere considerati occupati. In diversi casi una situazione lavorativa precaria o part-time può essere il fattore scatenante di una condizione di povertà. Rispetto al decennio scorso, aumentano coloro che lavorano poche o pochissime ore a settimana: il numero di chi è occupato meno di dieci ore è cresciuto del 9% dal 2005, e salgono addirittura del 28% quelli che lavorano tra le 11 e le 25 ore. I lavoratori pagati con i voucher erano meno di 25mila del 2008, sono saliti a quasi 1,4 milioni nel 2015. Forbice generazionale: com’è cambiata. Fino al 2011 non c’erano grandi differenze tra le varie fasce d’età, e i più poveri erano gli over 65 (circa 4,5% si trovava in povertà assoluta). La crisi, distruggendo posti di lavoro e riducendo le opportunità di impiego, ha capovolto questa situazione. In un decennio il tasso di povertà è diminuito tra gli anziani (4,1%) - molti di loro possono contare su un reddito fisso - mentre è cresciuto nelle fasce più giovani: di oltre 3 volte tra i giovani adulti (18-34 anni) e di quasi 3 volte tra i minorenni e nella fascia tra i 35 e i 64 anni. I Neet e il rischio povertà. I Neet sono i giovani che non studiano, non lavorano e non sono in formazione. A livello europeo gli Stati dove è più alta la percentuale di Neet sono anche quelli dove è più alto il tasso di povertà giovanile. In Italia nella fascia d’età tra i 15 e i 29 anni i Neet sono il 15% e i giovani a rischio povertà il 32,2 per cento. In Austria meno del 5% dei giovani sono inattivi e il rischio povertà si ferma al 15,2 per cento. In Bulgaria al 16,5% di Neet corrisponde un rischio povertà pari al 46,1 per cento. La difficoltà economica nelle famiglie giovani. Nel 2015 le famiglie più giovani sono anche quelle più povere. Non può permettersi uno standard di vita dignitoso una famiglia su dieci tra quelle con capofamiglia sotto i 34 anni. Si trova in povertà assoluta circa l’8% delle famiglie all’interno delle quali la persona di riferimento ha tra i 35 e i 54 anni, mentre in quelle dove supera i 65 anni la percentuale si riduce al 4 per cento. Rispetto al 2005, il tasso di povertà assoluta è aumentato di 3 volte quando il capofamiglia ha meno di 55 anni, è cresciuto di 2,7 volte quando ha tra i 55 e i 64 anni, mentre è diminuito nei casi in cui ha più di 65 anni. La povertà infantile. La quota di bambini in situazioni di grave disagio materiale è cresciuta, con la crisi, in 7 Paesi europei su 28. Dopo la Grecia, dove oggi oltre un bambino sotto i 6 anni su cinque vive una condizione di grave privazione materiale, l’Italia è il secondo paese dove è aumentata di più la povertà infantile (+5,3 punti percentuali tra 2006 e 2015). Nel nostro Paese l’11,4% dei bambini sotto i 6 anni vive una grave privazione materiale, ma la situazione è anche peggiore in Bulgaria (33%), Romania (29,6%), Ungheria (21,2%), Grecia (20,7%), Cipro (16%), Lettonia (13,3%) e Croazia (11,6%). Povertà di genere. Il numero di donne che vivono in povertà assoluta è più che raddoppiato tra 2005 e 2015, un andamento coerente con quello del resto della popolazione. Nel 2005 viveva in povertà assoluta il 3,5% delle donne, percentuale molto simile a quella di tutti i residenti in Italia (3,3%). Una quota che nel 2009 era salita al 4%, sia per le donne che per l’intera popolazione. Nel triennio successivo per le donne si arriva fino al 5,8%, per poi superare il 7% nel 2013, livello su cui si attesta anche nel 2015. Questo dato complessivo nasconde ulteriori situazioni di disagio sociale che riguardano in particolare il genere femminile. Continuano a emergere la difficoltà di conciliare lavoro e famiglia e la differenza salariale tra i sessi - il gender pay gap - che, seppure più contenuta rispetto ad altri paesi europei, in Italia ha registrato uno dei maggiori aumenti durante la crisi. Il divario nelle retribuzioni è peggiorato in cinque Paesi e l’Italia è tra questi. Gli altri sono Portogallo, Lettonia, Bulgaria e Spagna. La difficoltà economica nelle famiglie numerose. La scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro e la minore retribuzione rispetto agli uomini si riflettono anche nella povertà familiare, perché questo spesso significa dover contare su un solo stipendio. In effetti la povertà assoluta è cresciuta molto nelle famiglie, in particolare in quelle numerose. Tra quelle con tre o più figli, quasi il 20%, cioè quasi una su cinque, non può permettersi un livello di vita dignitoso (erano il 6,9% nel 2005). La presenza di anziani, di solito pensionati, tende a ridurre il tasso di povertà familiare. Le donne sole incontrano ancora più difficoltà. Si trova in stato di grave privazione materiale il 19,8% delle famiglie rette da una madre single con figli. L’offerta di asili nido. Se la povertà delle famiglie - che è in crescita - dipende anche dalla difficoltà delle donne di accedere al mercato del lavoro, una delle cause è la mancanza di politiche che lo permettano. A cominciare dalla presenza degli asili nido sul territorio nazionale. Nell’arco di dieci anni è aumentato il numero di bambini potenzialmente coperti da questo servizio. Nel 2012 quasi l’80% dei bambini con meno di due anni viveva in un Comune in cui è presente un asilo nido (erano il 63,6% nel 2003). Ma spesso queste strutture non sono sufficienti. La percentuale di iscritti, pur in crescita, resta bassa: oltre l’88% dei bambini tra 0 e 2 anni non frequenta l’asilo nido. Il welfare: quanto è capace di ridurre la povertà? Spesa in protezione sociale, l’Italia è quinta su 28 stati dell’Unione europea. Eppure la capacità del nostro Stato sociale di incidere sulla povertà è inferiore a molti altri Paesi. La ragione è che la stragrande maggioranza di questa spesa in Italia è impegnata nelle pensioni di anzianità e reversibilità. Resta molto limitato il welfare dedicato alla fasce sociali che negli anni della crisi hanno visto aumentare il proprio disagio economico. Le spese per famiglie, bambini e diritto alla casa valgono solo il 6,5% della protezione sociale italiana, contro il 10% della Germania, il 14% della Francia e il 18% del Regno Unito. Per la tutela dalla disoccupazione e dal rischio esclusione, l’Italia spende il 6,5% del budget sociale, contro l’11-12% di Germania, Francia e Regno Unito e il 15,8% della Spagna. Tradotto: i gruppi sociali che in Italia hanno subìto di più la crisi ricevono meno contributi rispetto ad altri Paesi europei. Il rischio povertà prima e dopo il welfare. Un modo per valutare la capacità del welfare di sottrarre la popolazione dalla povertà è confrontare il rischio povertà prima e dopo i trasferimenti sociali. I Paesi dove l’indigenza diminuisce di più (in punti percentuali) sono Ungheria (-35,1), Irlanda (-33,2) - dove però prima dei trasferimenti un cittadino su due si trovava a rischio povertà - e Francia (-31,1). In questa classifica l’Italia è 17esima su 28 stati: nel nostro Paese il rischio povertà diminuisce di 26,4 punti dopo i trasferimenti sociali. Agli ultimi posti Malta (-21,9), Lettonia (-20,5) e Estonia (-19,1). Bambini vittime di violenza: 2 milioni di euro da Daphne di Margherita Dicampo Il Denaro, 13 dicembre 2016 C’è tempo fino a martedì prossimo 13 dicembre (deadline alle ore 17) per partecipare a "Daphne", il bando lanciato dalla Commissione europea per sostenere approcci integrati e multidisciplinari (come il modello della casa dei bambini / Barnahus) a supporto dei bambini vittime di violenza. Risorse II bando prevede un budget complessivo di 2 milioni di euro e un budget individuale che non può costituire più dell’80 per cento dei costi totali ammissibili del progetto e non può essere inferiore a 75mila euro. Azioni finanziabili - Il bando finanzia diversi tipi di attività che si concentrano su due priorità. La prima prevede apprendimento reciproco, scambio di buone pratiche, sviluppo della capacità di progettare e adattare modelli sperimentati della casa dei bambini al contesto nazionale (modelli di casa per bambini possono essere trovati in Islanda, Svezia, Norvegia, Danimarca e Croazia), collaborazione e stipula di protocolli multi-agenzia (ad esemplo polizia, pubblici ministeri, giudici, assistenti sociali, le autorità di protezione dell’infanzia, gli operatori della salute, della salute mentale e dei servizi di Istruzione e di assistenza sociale). Le attività possono includere la creazione di capacità su particolari aree del modello della casa dei bambini, come ad esempio gli esami medici e le valutazioni, l’ascolto protetto, la terapia della vittima, la consulenza e il supporto familiare, nonché la formazione, l’istruzione e la ricerca. Tutti i progetti devono mirare a promuovere la cooperazione a livello locale, regionale e nazionale tra i professionisti di protezione dell’infanzia e le multi-agenzie nazionali di sostegno delle vittime. La seconda priorità si concentra sul rafforzamento del le capacità, l’educazione e la sensibilizzazione per le parti interessate. Questo punto può includere la creazione di capacità e di sensibilizzazione per i professionisti e gli altri adulti che entrano in contatto regolare con i bambini e sono I primi punti di contatto per i minori (potenziali) vittime di la violenza. La priorità 2 è rilevante solo nel caso in cui un approccio integrato e multidisciplinare, centrato sul bambino e rivolto ai bambini vittime di violenza già esiste o è in procinto di essere attuato. Saranno finanziati progetti concreti che garantiscano il massimo dei benefici tangibili e dimostrabili e l’impatto sulla vita dei bambini vittime di violenza. Destinatari delle misure Destinatari ultimi del progetto sono professionisti e altri adulti operanti nei settori della protezione del bambino o dei servizi assistenziali, genitori/caregiver, operatori sanitari, operatori delle strutture di assistenza e cura alternative, delle forze dell’ordine e della giustizia, dell’istruzione, della salute, dello sport e tempo libero, linee di assistenza e hotline per bambini. Chi può partecipare Gli enti ammissibili al finanziamento sono le Amministrazioni locali, nazionali, regionali, associazioni di promozione sociale, Centri ed enti di ricerca, Enti di formazione, Imprese dell’economia sociale, imprese sociali, Ong, Organizzazioni di volontariato, Organizzazioni no profit, scuole e Università. Requisito essenziale è che i beneficiari del finanziamento non abbiano scopi di lucro. Le organizzazioni profit possono partecipare solo come partner e non come proponenti. Noi dannati della Bolognina di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 13 dicembre 2016 Roberto Simonazzi, operaio a 14 anni, ex Pci e Cgil, oggi fa le pattuglie contro i migranti "Spendiamo per loro e io campo con l’invalidità e i pacchi di sopravvivenza. Mi danno del razzista. Non amo la Lega, ma chi devo votare? Qui è una bomba sociale". Al balcone della sua casa popolare, nel cuore tumultuoso della Bolognina, ha appeso il tricolore. "Prima noi italiani! Bravi i romani di San Basilio a reagire, io sto con loro!", dice d’un fiato. La radio, a tutto volume, si sente fin giù dalla strada: "È un trucco per quando esco: allontana ladri e abusivi. Questi animali mi hanno aggredito già tre volte in un anno... sulle scale, in cortile". Dice così, "animali". Ce l’ha con albanesi ed eritrei, cinesi, nigeriani e marocchini, insomma col mondo intero che gli pare minacciosamente acquartierato sul pianerottolo. "L’ironia di ‘sta storia è che mi danno del razzista", ghigna infine, cupo, Roberto Simonazzi, smilzo, baffetti al filo del labbro, 58 anni. Un’anima divisa in due. Comunista - Comunista "finché non hanno soppresso il partito", attivista Cgil, era in piazza nel ‘77 quando ammazzarono il giovane Francesco Lorusso. Adesso ha votato Grillo alle politiche e Lega al Comune: parla come Salvini. Nel bar dove ci incontriamo, prende un portacenere e un bicchiere, dice "guarda, il portacenere è l’Africa, il bicchiere l’Italia, tutta l’Africa dentro l’Italia non ci sta! E noi spendiamo tutto per loro". Cresciuto in orfanotrofio, operaio ad appena 14 anni, poi addetto ai bagagli in aeroporto, infine disoccupato. Sette anni in Bosnia da volontario nelle organizzazioni umanitarie, un esaurimento nervoso. "Tengo a portata di mano una boccetta di antidepressivo Rivotril. La mia fortuna è l’invalidità, lo ammetto, mi hanno dato l’80 per cento, fanno 285 euro al mese, e campo così, aggiungendoci poi quello che mi danno gli amici dell’associazione, una cifra quasi uguale". Aiutare il prossimo - Già, perché Roberto, dopo averci accompagnato attraverso i suoi guai e quelli del quartiere bolognese in cui è cresciuto ed invecchiato, va ad aiutare il prossimo per conto di una onlus: raccoglie cibo che altri butterebbero e lo distribuisce ai poveri, metà dei quali sono migranti contro cui impreca. "Io non ce l’ho con gli stranieri, ma chi picchia e deruba un vecchio va annegato nell’oceano". Lui stesso è tra i destinatari dei pacchi di sopravvivenza, ultimo tra gli ultimi, meno di 600 euro al mese in tasca per pagare un affitto simbolico - la casa col tricolore è dell’Acer - più le bollette e la spesa, che simboliche non sono mai. "Per permettermi questo telefonino, 26 euro al mese, faccio pure il badante. Per fortuna sono felicemente single". La svolta - La svolta di Occhetto dell’89 si è consumata a poche strade da qui, in una sede comunale di via Tibaldi dove dal 2009 c’è un parrucchiere cinese, davanti ai partigiani che celebravano il 45esimo della battaglia della Bolognina. "Qui la battaglia è quotidiana, furti, spaccio dovunque, così ho messo in piedi il comitato". Già: verso sera, quando ha distribuito i pacchi agli indigenti e s’è portato il suo a casa, Roberto esce. Di ronda. "Non chiamatele ronde, ora basta". Con una quindicina di amici del comitato "passeggia" nel quartiere per scoraggiare i molti malintenzionati. L’ultimo assalto a un negozio l’ha patito un fotografo una settimana fa, nel ponte dell’Immacolata i colpi in appartamento si sono impennati. "Puntano solo gli italiani, per farci andar via", dicono qui. Chissà. Paola la parrucchiera, amica di Roberto e attiva in un altro gruppo di pattuglia, specifica: "Noi siamo armati solo di telefonino, quando vediamo cose storte diamo l’allarme, ma ci hanno tolto anche la caserma dei carabinieri di via Barbieri". Qui sono apparsi anche i Guardian Angels, il centro sociale è travolto dal malumore popolare ed è in procinto di sfratto. I famosi "militari nel quartiere" arrivati quando si parlava di "guerra tra bande" ormai sono ridotti a una camionetta che gira senza sosta e si fa vedere come deterrente. Dalle quattro di pomeriggio i pusher si lasciano vedere a loro volta, senza problemi, davanti ai bar; gli abitanti li filmano, fanno petizioni e denunce, nulla accade. Il problema è lo spaccio - Daniele Ara, giovane e ragionevole presidente pd del quartiere Navile che ingloba anche la Bolognina, dice che sì, il problema vero è lo spaccio: "Le strade a rischio sono un quadrilatero, però, la Bolognina è molto più grande e la stiamo rilanciando". Non solo con luci a led. I progetti sono ambiziosi, ma la crisi ha frenato lo sviluppo della nuova area di Trilogia Navile, abbandonata ai tossici. E per replicare San Salvario, modello torinese di integrazione, mancano referenti affidabili dentro le comunità di stranieri. I referenti li ha trovati più agevolmente la ‘ndrangheta calabrese, che controlla i veri flussi di droga e usa gli immigrati africani come manovalanza. "Ara è un bravo ragazzo e mi ha promesso cavalli bianchi al funerale se questi qua mi fanno fuori", ride cupo Roberto. È molto popolare nel quartiere, ne incarna sia pur in maniera sgangherata la rabbia che lo porta a dire truci insensatezze come "i romeni sono il popolo più cattivo". Ma i rischi non sono teorici, l’ultimo morto in un regolamento di conti l’hanno fatto quasi sotto casa sua. "Non amo la Lega ma chi devo votare? Mi hanno trasformato in un caso sociale dentro una bomba sociale". Quando le grandi fabbriche ora ridotte a scheletri, come la Casaralta o la Sasib, attraevano operai e sogni, la gente vide come invasori "i ferraresi prima ancora dei meridionali", raccontano qui. Sì, persino i ferraresi. Poi, a mettere tutti d’accordo, arrivò una merce ormai sparita da queste strade: il progresso. Caos migranti, adesso si teme la stretta Ue di Valentina Errani Il Messaggero, 13 dicembre 2016 Giovedì il Consiglio a Bruxelles sulle modifiche al Trattato di Dublino. Sarà l’esordio di Paolo Gentiloni da premier. Il consiglio dei capi di Stato e di governo, in calendario per giovedì a Bruxelles, è una delle ragioni che ha spinto il Quirinale a chiudere la crisi in tempi strettissimi. La battaglia è ancora aperta sul tema immigrazione. E non ci sono dubbi sul fatto che, in continuità con il governo Renzi, l’Italia torni a chiedere scelte nette nella gestione dell’emergenza. Sul tavolo c’è la revisione del Trattato di Dublino e il nodo della redistribuzione dei migranti in Europa, con la proposta slovacca di istituire una forma di "solidarietà flessibile", già bocciata dal vertice dei ministri dell’Interno. A preoccupare, però, è la proposta della Commissione che rischia di peggiorare le strette regole dell’accoglienza, " con modifiche peggiorative del Trattato, sulle quali il Viminale si è già espresso. Oggi, secondo Dublino, è il paese di primo approdo a doversi fare carico dei richiedenti asilo, che possono trasferirsi in altri stati soltanto per motivi di ricongiungimento familiare. E mentre l’Italia sollecita una revisione che preveda un’equa distribuzione sul territorio, la Commissione propone di eliminare anche la clausola del ricongiungimento. Non solo: la proposta prevede anche che la competenza del paese di primo ingresso permanga in caso di allontanamento volontario dello straniero o in caso di rimpatrio a seguito del ritiro o del rigetto della domanda. Così, se un migrante rimpatriato presenterà un’ulteriore richiesta di asilo, la competenza rimarrà sempre del paese di primo ingresso. Misure che di certo neppure il governo Gentiloni vorrà accettare. Un nuovo bilancio sui rapporti tra Europa e Iran di Domenico Letizia* L’Opinione, 13 dicembre 2016 Si è tenuta qualche giorno fa, alla vigilia della Giornata mondiale dedicata ai diritti umani, una conferenza presso il Parlamento europeo con obiettivo il tentativo di ragionare sullo stato dei rapporti diplomatici, commerciali e di diritto tra Unione europea e Iran. La conferenza si è svolta per iniziativa dell’Intergruppo parlamentare europeo "Amici per un Iran Libero", che vede il supporto di circa 300 parlamentari europei di vari schieramenti e diversi gruppi politici. La relatrice principale è stata Maryam Rajavi, leader del Consiglio nazionale della Resistenza Iraniana accompagnata dall’ambasciatore, già ministro degli Esteri italiano, Giulio Terzi e dalla esule iraniana Shabnam Madadzadeh, ventinovenne, che dopo aver trascorso cinque anni nelle carceri del regime è riuscita a fuggire dall’Iran. La conferenza ha riconfermato la strage di diritto e di dignità in corso nel Paese sciita esortando l’Alto rappresentante dell’Unione europea, Federica Mogherini e gli Stati membri a riguardare e a riflettere sulle condizioni dei futuri rapporti e accordi con la Repubblica Islamica dell’Iran. I partecipanti alla conferenza hanno ribadito il loro sdegno alla prosecuzione delle esecuzioni capitali in Iran, chiedendo ad alta voce la cessazione delle persecuzioni politiche, religiose e sociali nel Paese. Un appello sostenuto anche dai dati raccolti da numerose Organizzazioni non governative, come Iran Human Rights, che in occasione del 10 dicembre ha rilasciato un nuovo appello in cui si chiede il rilascio di numerosi giornalisti, blogger, difensori dei diritti umani, artisti, avvocati, sindacalisti e il rispetto per minoranze etniche e religiose. "Dal 23 novembre 2016 è in carcere il giovane cineasta di origini curde Keywan Karimi. Nella prigione di Evin, a Teheran, dovrà scontare la sentenza definitiva, emessa il 21 febbraio dalla Corte d’appello, a un anno di detenzione e 223 frustate, incriminato per il suo cinema impegnato e per aver esercitato il suo diritto alla libertà di espressione. I fratelli Rajabian, il musicista Mehdi e il regista Hossein, stanno scontando una condanna a tre anni detenzione, giudicati colpevoli nell’aprile del 2015 di "aver offeso le figure sacre dell’Islam" e di "attività audiovisive illegali". Sono in carcere dal 4 giugno del 2016. Durissima e confermata in appello la sentenza contro Narges Mohammadi, 44 anni, una delle più importanti attiviste per i diritti civili in Iran: la donna è stata condannata a 16 anni di detenzione. Avvocatessa e vicedirettore dell’associazione Centro per i difensori dei Diritti umani (messa al bando), nonché uno dei fondatori del gruppo Passo dopo passo per fermare la pena di morte (Legam), Mohammadi è nuovamente in carcere dal 5 maggio 2015, accusata di crimini contro la sicurezza nazionale: propaganda contro il sistema, assemblea e collusione contro la sicurezza nazionale e creazione del gruppo Legam, ritenuto "illegale e contro la sicurezza". Nella prigione di Evin a Teheran si trova dal 26 novembre 2016 anche la giovane attivista Atena Daemi, 29 anni, arrestata nella sua abitazione da agenti della Guardia Rivoluzionaria". Nonostante gli accordi sul nucleare di Vienna, l’abolizione delle sanzioni e un nuovo clima di dialogo e distensione nei rapporti internazionali, la Repubblica Islamica dell’Iran continua ad essere una delle peggiori prigioni al mondo per coloro che sono in dissidenza con il potere centrale. Recentemente, anche "Nessuno tocchi Caino" aveva posto l’attenzione sulla violazione dei diritti umani e la pena capitale in corso in Iran con un nuovo appello alla Mogherini, perché ponga "la questione della pena di morte e più in generale del rispetto dei Diritti umani al centro di incontri, relazioni, intese, piani di aiuto e sviluppo, anche economici e commerciali, con la Repubblica Islamica dell’Iran". L’appello, sostenuto da numerosi intellettuali tra cui Liliana Cavani, Erri De Luca, Roberta Mazzoni, Francesco Patierno, Marco Risi, Susanna Tamaro, Sandro Veronesi e Marco Vichi, è stato presentato, insieme al nuovo Rapporto sulla pena di morte in Iran, in occasione del seminario "Business Italia-Iran: un’analisi costi benefici" patrocinato da United Against Nuclear in Iran (Uani) che si è svolto il 22 novembre presso il Senato della Repubblica Italiana con la partecipazione di Giulio Terzi, Lucio Malan, Daniele Capezzone, Antonio Stango, Enrico Vandini e altri attivisti e deputati impegnati nel rispetto della legalità internazionale e umanitaria. Dal Rapporto di "Nessuno tocchi Caino" emerge infatti che almeno 2.691 prigionieri sono stati giustiziati in Iran dall’inizio della presidenza di Rouhani (tra il primo luglio del 2013 e il 13 novembre del 2016). Dura la reazione anche dell’ambasciatore Terzi, che nel corso della conferenza presso il Parlamento europeo ha sottolineato che "tutti gli accordi commerciali o di cooperazione con l’Iran devono includere una clausola sui diritti umani che preveda i diritti umani al centro delle relazioni di Teheran con l’Ue". Tutti i deputati europei presenti alla conferenza hanno sottolineato che l’Unione europea non può chiudere gli occhi sulla violazione in corso dei diritti fondamentali dell’individuo in Iran in cambio di affari: "Non abbiamo sentito la signora Mogherini condannare le terribili violazioni dei diritti umani in Iran. Uno Stato che non rispetta la dignità umana difficilmente può divenire un partner di fiducia". *Componente del Comitato centrale della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo Turchia. Erdogan sfrutta ogni bomba: mannaia sull’Hdp, 235 arrestati di Chiara Cruciati Il Manifesto, 13 dicembre 2016 Nonostante a rivendicare sia il Tak, il governo accusa il partito di sinistra e il Pkk. Solo poche ore prima era stata presentata la riforma costituzionale che cancella il premier e dà al presidente pieni poteri. Sono almeno 235 i membri dell’Hdp arrestati in un solo giorno in Turchia a meno di 48 ore dal doppio attacco allo stadio del Besiktas a Istanbul. L’ennesima mannaia sul partito di sinistra kurdo già decapitato più di un mese fa con la detenzione dei suoi co-presidenti e di altri sette parlamentari. Così l’Ankara di Erdogan reagisce ai 44 morti, di cui 7 civili, e ai 155 feriti di sabato sera, sparando su sinistra e comunità kurda. Ieri in manette sono finiti i leader locali e i segretari provinciali del terzo partito turco, tutti accusati da Istanbul a Gaziantep, da Sanliurfa a Smirne, di contatti o collaborazionismo con il Pkk. Pochi giorni prima la doppia esplosione che ha riportato morte e paura a Istanbul, la parlamentare dell’Hdp Bestas usciva dalla prigione di massima sicurezza di Edirne, dove dal novembre il co-presidente del partito Demirtas è detenuto: "Isolamento, restrizioni, assenza di Stato di diritto in ogni senso - ha detto. I nostri deputati e co-presidenti sono soggetti a tortura". Una notizia passata sotto silenzio, se si fa eccezione per qualche media turco: è ormai calato in Europa l’interesse per un partito rappresentato in parlamento e oggi decimato e per nove parlamentari democraticamente eletti e ora dietro le sbarre. "Il fatto che il co-presidente del terzo partito della Turchia sia sottoposto a torture e restrizioni non sarà di beneficio al paese", ha concluso la Bestas. Per ora chi ne beneficia è sicuramente il presidente Erdogan per cui le bombe che esplodono con frequenza regolare sono un solido aiuto alla repressione della società civile e della comunità kurda. Cavalca l’onda della paura su cui ha fondato elezioni anticipate e maggioranza assoluta: le bombe che sabato sera hanno centrato un veicolo della polizia sono già servite a lanciare nuovi raid aerei contro postazioni del Pkk in Iraq. Da subito, come accaduto per ogni attacco esplosivo, il governo ha subito accusato il Partito Kurdo dei Lavoratori e le Ypg kurde, con alcuni media vicini all’esecutivo che hanno addirittura parlato di combattenti provenienti dalla siriana Rojava. Eppure in passato il governo è stato costantemente smentito dalle successive rivendicazioni: o l’Isis o Tak, i Kurdistan Freedom Hawks, gruppo nato sì da una costola del Pkk ma fuoriuscito dalla sua orbita 12 anni fa. La doppia esplosione allo stadio del Besiktas ha avuto come target dei poliziotti a partita terminata: secondo Ankara la tempistica voleva provocare il maggior numero di vittime possibile, ma in realtà i tifosi erano già andati via da tempo. Lo dice lo stesso gruppo responsabile: i Tak hanno parlato di due kamikaze e nel comunicato online hanno spiegato di non avere nel mirino il popolo turco ma avvertito che "nessuno potrà vivere tranquillo mentre il Kurdistan viene torturato ogni giorno". Ma già i jet da guerra turchi si erano sollevati in volo per compiere almeno 12 bombardamenti nel nord dell’Iraq, nelle montagne di Qandil dove i combattenti del Pkk si sono ritirati tre anni fa con il lancio del processo di pace. Cinquanta minuti di bombe e vendetta. "Devono sapere che non si salveranno, pagheranno un prezzo alto: hanno attaccato con viltà, perfidamente, quei giovani leoni che si preparavano a salire sugli autobus", il commento del presidente Erdogan, domenica, durante la visita ai feriti ricoverati in un ospedale di Istanbul. E nella capitale culturale del paese, come accaduto nei giorni successivi al tentato golpe del 15 luglio, centinaia di sostenitori dell’Akp, il partito di governo, sono scesi in strada sventolando bandiere della Turchia mentre sui social network si moltiplicavano gli appelli alla vendetta contro il Pkk e i paesi occidentali considerati suoi sostenitori e rifornitori di armi, dai governi europei agli Stati Uniti, tutti però alleati Nato di Ankara (lo stesso ministro degli Interni Soylu ai funerali ha tacciato il Pkk di essere solo "un pupazzo in mano a poteri scuri, schiavo dei partner occidentali"). È la narrativa dell’autoritarismo turco, fondata sull’identità unica e la turchizzazione. In tale contesto ogni attestato di consenso vale oro per Erdogan che da anni infiamma i conflitti interni alla società, politici ed economici, le guerre mediorientali e l’aggressione interna contro la comunità kurda. Ma, invece di assumersi la responsabilità politica di bombe e crisi economica, il presidente sfrutta con saggezza il caos che ha generato. Poche ore prima dell’attacco, l’Akp (con il sostegno dei nazionalisti dell’Mhp) ha presentato ufficialmente al parlamento la riforma costituzionale, 21 articoli che eliminano la figura del premier e consegnano il potere esecutivo al presidente. Spetterà alla presidenza emanare decreti legge, dichiarare lo stato di emergenza e governarlo in solitaria, nominare ufficiali pubblici, ministri e giudici. Il parlamento vedrà ridotto il potere di supervisione dell’esecutivo. Misure criticate anche dalla stampa meno lontana dal governo: il direttore di Hurriyet ieri ha criticato "la mancanza di strategia" compensata da "una stretta nelle miure che limitano ancora di più la libertà ma non falliscono nel fermare gli atti di terrorismo". E senza l’unica vera opposizione in parlamento, l’Hdp, Erdogan avrà quanto vuole al prezzo di una polarizzazione devastante. Tailandia: il nuovo re concede l’indulto a 30mila detenuti Ansa, 13 dicembre 2016 Circa 30 mila detenuti potrebbero essere liberati nei prossimi giorni in Tailandia dopo un indulto concesso dal nuovo re thailandese Vajiralongkorn, in quello che la Gazzetta ufficiale ha definito "la prima opportunità di mostrare la pietà del sovrano da quando è salito al trono". Lo riferiscono oggi i media di Bangkok. Secondo il Bangkok Post, fino a 100mila prigionieri - tra cui anche alcuni dei condannati per lesa maestà - rientrano nei criteri definiti dall’indulto, ma sono meno di un terzo quelli che probabilmente torneranno in libertà, e i condannati per crimini più gravi non sono tra questi. Tra questi c’è il politico Chuvit Kamolsivit, un ex imprenditore attivo nel settore dei casinò illegali e dei bordelli, condannato lo scorso gennaio a due anni di reclusione.