Giornalisti, non raccogliete la merda per darla in pasto a un pubblico impaurito di Ornella Favero (Direttrice di Ristretti Orizzonti) Ristretti Orizzonti, 12 dicembre 2016 È questo in fondo il senso della raccomandazione che fa Papa Francesco quando associa alla professione giornalistica le parole "coprofilia e coprofagia". Qualche anno fa, quando rischiava di finire in galera per reati legati alla sua professione di giornalista, Alessandro Sallusti, direttore del quotidiano Il Giornale, era venuto nella nostra redazione per "assaggiare il carcere" e si era confrontato con i redattori di Ristretti Orizzonti in modo piuttosto schietto. Di quell’incontro ricordo in particolare queste sue affermazioni: "È anche vero però che ognuno di noi ha fatto dieci cose che se messe una in fila all’altra, estrapolate dal contesto vero, possono far apparire ognuno un santo o un mascalzone. Io posso arrivare, se mi impegno, a scrivere un articolo dove anche il Papa sembra un poco di buono". E proprio il Papa di recente, in un’intervista al settimanale cattolico belga Tertio, ha parlato di mezzi di comunicazione e di etica dell’informazione con una durezza sorprendente: "E una cosa che può fare molto danno nei mezzi di informazione è la disinformazione: cioè, di fronte a qualsiasi situazione dire solo una parte della verità e non l’altra. Questo è disinformare. Perché tu, all’ascoltatore o al telespettatore dai solo la metà della verità, e quindi non può farsi un giudizio serio. La disinformazione è probabilmente il danno più grande che può fare un mezzo, perché orienta l’opinione in una direzione, tralasciando l’altra parte della verità". Le affermazioni di Sallusti, e poi le parole del Papa sembrano la fotografia di quello che sta succedendo a Padova, dove per anni si è giustamente parlato sui giornali e in televisione di un carcere attivo, aperto alla città, un carcere dove si cerca faticosamente di non distruggere le persone che hanno sbagliato, ma di dar loro una mano a ricostruirsi, e poi però basta qualche notizia imprecisa, superficiale, a volte proprio menzognera per demolire l’immagine della Casa di reclusione, descrivendola come il regno del male. Le parole del Papa, diciamocelo, sono di una crudezza estrema perché il Papa mette impietosamente a nudo una verità crudele: che quando si informa sul "male" si è sempre tentati di semplificare le cose, di tirar fuori il peggio, di far credere che certe cose le fanno solo "i mostri" per rassicurare tutti gli altri, i cittadini perbene. Oggi, nella mia redazione in carcere, ho dovuto spiegare due vocaboli non facili usati da Papa Francesco sempre in quell’intervista: coprofilia e coprofagia. Il Papa infatti ha accusato tanta informazione di essere malata di "coprofilia", cioè di amore per gli escrementi, ricerca esasperata della merda insomma, e tanta gente di soffrire di "coprofagia", quella patologia per cui uno gli escrementi suoi o altrui li mangia, come dire che le notizie di merda se le beve tutte. Certo io non avrei mai avuto il coraggio di essere così dura e sferzante, ma credo anche di non aver mai letto niente di più efficace su certe operazioni di disinformazione spacciate per notizie. I recenti articoli apparsi sui quotidiani locali a proposito della Casa di reclusione di Padova bisognerebbe solo smontarli punto per punto, ma noi vorremmo fare un altro passo, e invitare i cronisti che li hanno scritti, e i loro colleghi di nera e giudiziaria, a raccontarci quali sono state le loro FONTI, e a provare coraggiosamente con noi a fare quel lavoro che il Papa consiglia caldamente, cioè mettere a nudo quell’insieme di mezze verità che alla fine creano una colossale menzogna. Cerchiamo di vedere come è stata allora fatta funzionare la macchina della disinformazione: - Un quotidiano locale un bel giorno, senza che sia successo nulla di particolare in carcere, tira fuori vecchie storie e spara un articolo che parla di oltre 100 telefonini sequestrati al Due Palazzi, in modo tale che sembra che la cosa sia successa il giorno prima, e non nel corso di due anni. - Qualche tempo dopo, escono articoli a raffica che raccontano che "almeno una decina di detenuti in regime di Alta Sicurezza sono stati declassati a reclusi comuni. In questo modo hanno potuto godere di un impiego all’interno del penitenziario e di permessi premio": FALSO, perché la declassificazione non dà in alcun modo l’accesso ai permessi, l’unica cosa che ti concede è di vivere in una sezione di Media Sicurezza. Nel corso di una inchiesta che ho fatto sulle sezioni di Alta Sicurezza 1 in Italia, tra l’altro, la maggior parte dei detenuti che ho incontrato mi ha detto di non aver mai chiesto la declassificazione, e noi di Ristretti da tempo andiamo sostenendo che chiedere la declassificazione è un passo importante per un detenuto dell’Alta Sicurezza, un "mafioso" come lo definiscono senza tante sfumature certi giornalisti, perché è un segnale di volersi allontanare dal proprio passato, e perdere lo "status" di appartenente a una associazione criminale, per affrontare una vita detentiva come tutti gli altri. - Scrivono sempre i giornali "il carcere di Padova è stato dichiarato dal DAP non più di Massima Sicurezza ma di Media Sicurezza". FALSO, a Padova c’è ancora una sezione di Alta Sicurezza 1, che probabilmente si allargherà perché arriveranno altri detenuti da carceri sovraffollate. - L’ergastolano Mario Pace, accusato di recente di aver gestito un traffico di droga, viene inserito in questo calderone per cui sembra che a Padova abbiano chiuso l’Alta Sicurezza e declassificato a raffica, naturalmente creando una situazione di grande pericolo e facilitando traffici e illegalità. TUTTO VERO o TUTTO FALSO? Piuttosto mezze verità, che messe insieme danno un quadro lontanissimo dalla verità. Mario Pace prima di tutto non c’entra nulla con la situazione attuale delle declassificazioni, lui esce in permesso dal 2010 ed è stato declassificato nel 2014 (le due cose infatti non sono collegate, essere declassificati non significa affatto uscire dal carcere), quindi questa cosa che a colloquio con la sorella (a proposito, qualcuno può verificare se ha mai fatto colloqui in carcere con la sorella?) lui le passava i pizzini per organizzare un traffico di droga suona quanto meno strana per uno che usciva in permesso regolarmente e non aveva nessuna censura sulle lettere. Ma naturalmente se si parla di pizzini è meglio perché la gente subito si rafforza nell’idea del mafioso e di tutto il suo armamentario per delinquere. Se poi sia vero o no che Mario Pace aveva ripreso a fare reati non lo so, spero di no perché sarebbe veramente un colpo per tutti quelli che l’hanno aiutato a costruirsi un percorso di cambiamento. Ma voglio che sia chiaro che io e tanti come me combattiamo ogni giorno perché le persone abbandonino la via dei reati, e lo facciamo però nella consapevolezza che, se a Padova è successo che per i più grossi traffici di droga e cellulari in carcere, e anni fa per l’evasione del boss Felice Maniero, sono stati condannati prima di tutto degli agenti della Polizia penitenziaria, dobbiamo tutti capire che la tentazione dei guadagni facili purtroppo non guarda in faccia nessuno. E io, società, devo continuare a mantenere intatta la mia stima per le Istituzioni, la Polizia, i Giudici, sapendo però che le Istituzioni sono fatte di uomini che possono sbagliare, e anche essere tentate dalla strada dell’illegalità, e poi devo combattere perché i delinquenti capiscano che una vita fatta di reati alla fine non paga, che i reati non pagano perché dormire tranquilli con a fianco la propria famiglia e camminare liberi senza voltarsi a guardare se qualcuno ti segue sono beni davvero inestimabili. - A proposito dei telefoni cellulari, che vengono ogni giorno ritrovati in TUTTE LE CARCERI ITALIANE, e non solo a Padova, sostiene Luigi Pagano, uno dei più attenti e sensibili dirigenti del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che "alla fine il modo per consentire l’abuso è proprio quello di restringere l’uso. Ci vuole invece tempo per creare cultura, responsabilizzazione, autodeterminazione, e ci vuole coerenza… non possiamo a ogni piè sospinto tornare indietro e gridare allo scandalo. Io sarei dell’opinione che la questione dei telefoni potrebbe essere addirittura risolta aumentando e liberalizzando le telefonate e i momenti con i familiari (oggi tecnologie accessibili a poco prezzo possono impedire telefonate a numeri non autorizzati)" e sempre Pagano ricorda che ai tempi in cui vigeva il famigerato art. 90, cioè la possibile sospensione dei diritti delle persone detenute ad opera del Ministro di Grazia e Giustizia quando ricorrevano gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza, "le rivolte, le armi in carcere, gli assassinii erano all’ordine del giorno…". Sono quindi inutili la semplice repressione, le chiusure, una specie di militarizzazione delle carceri, che non risolvono il problema, incattiviscono le persone e alla lunga rendono la società più insicura. La perdita della libertà e il distacco dalle famiglie sono già una pena durissima, non aggiungiamo anche le continue restrizioni degli affetti e delle relazioni, la nostra legge per quel che riguarda i legami famigliari è vecchia, non si può aver cura di una famiglia vedendola al massino sei ore al mese e parlando al telefono dieci minuti a settimana. Seguiamo l’esempio di Paesi più civili, liberalizziamo le telefonate e stroncheremo tante speculazioni. Per inciso, c’è un cronista che abbia chiesto all’Amministrazione Penitenziaria dei dati sui cellulari "clandestini", per capire se i detenuti col cellulare chiamano la moglie, i figli, la madre, o organizzano traffici e altri reati? - In questi anni di Volontariato in carcere e Informazione dal carcere mi sono presa l’impegno di raccontare con onestà, e quindi non ho mai taciuto i percorsi finiti male, le ricadute, le sconfitte. Mi sono accorta però che, per questo bisogno che ho di precisione e sincerità di fronte a una informazione invece spesso imprecisa e menzognera, ho smesso anche di raccontare le cose buone. Eppure, quando mi guardo intorno in quel carcere definito come un supermarket dell’illegalità e vedo le cooperative che danno lavoro ai detenuti, vedo la mia redazione che incontra tante scuole e gli studenti che ringraziano per aver imparato proprio dai detenuti a non buttare la loro vita in stupide trasgressioni, vedo la Chiesa che porta dentro i suoi parrocchiani a conoscere quel mondo, vedo la scuola che fa crescere le persone culturalmente, il Volontariato che rende la vita detentiva più umana, e poi incontro fuori tante persone, che si sono ricostruite dopo la galera una vita onesta, hanno dei bambini, lavorano, mi consolo. Sono risultati importanti, di cui per fortuna parlano spesso anche giornali e televisioni, ma che rischiano di essere azzerati quando un giornalismo scadente mette insieme dieci cose cattive per sporcare una realtà, che ne ha per lo meno altre cento di buone. - Per finire, al Direttore e al personale di quel carcere voglio dire di non farsi condizionare da certa disinformazione, di non farsi prendere dall’ansia e dalla tentazione di chiudere, limitare, ridurre le possibilità di confronto con la società, col rischio di finire per demolire quella voglia di cambiamento, di sperimentazione, di dialogo che ha sempre caratterizzato la Casa di reclusione di Padova. I viaggi della speranza (giudiziaria) per avere cause di lavoro più veloci di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 12 dicembre 2016 Dipendenti e aziende se possono scelgono Milano, il processo in media termina in 5 mesi. Anche se sono distanti centinaia di chilometri e se ci sono 22 giudici, contro i 63 di Roma e i 54 di Napoli. Si potrebbe parlare di "turismo giudiziario" o di "viaggi della speranza giudiziaria", comunque lo si voglia definire è il fenomeno, piuttosto sorprendente, che ha come meta il Tribunale del lavoro di Milano perché qui i tempi dei processi fanno registrare il record europeo di celerità. La legge - Chi ci rimette di più se il fascicolo di una causa di lavoro ammuffisce nell’armadio del giudice, il lavoratore o il datore di lavoro? Probabilmente entrambi, di sicuro anche l’Italia nel suo complesso perché la lunghezza dei processi scoraggia gli investitori stranieri che vogliono poter contare su una giustizia dai tempi certi e soprattutto celeri. A determinate condizioni, la legge consente che una causa di lavoro, ad esempio per licenziamento, possa essere avviata dove l’azienda ha la sede legale o dove lavora il dipendente oppure dove è stato firmato il contratto di lavoro. La durata - E allora accade sempre più spesso che chi si trova in una di queste condizioni prenda armi e bagagli e scelga, anche da centinaia di chilometri di distanza, di avviare una causa nel Tribunale del lavoro di Milano dove nel primo semestre di quest’anno la durata media dei processi è stata di 144 giorni, meno di cinque mesi. Con un organico di 22 giudici (3 in meno di quelli previsti) la sezione Lavoro si occupa ogni anno di un quarto di tutte le cause del Tribunale civile di Milano, riuscendo a smaltire i nuovi fascicoli e anche parte di quelli che si sono accumulati dall’anno prima. Tra primo luglio 2015 e 30 giugno 2016, come segnalato dal presidente della sezione Piero Martello nella relazione in vista dell’inaugurazione a gennaio del prossimo anno giudiziario, sono stati depositati 14.449 ricorsi che sono stati tutti smaltiti, e allo stesso tempo sono state ridotte del 10,5% le cause pendenti, passate da 4.451 a 3.984. Vuol dire che sono pendenti solo cause avviate dal 2015, tranne 48 (lo 0,24% del totale) che risalgono ad anni precedenti. "La durata media dei processi è inferiore a quella rilevata dalla Commissione europea per l’efficienza della giustizia, di 168 giorni", precisa Martello, presidente del Tribunale del lavoro dal 2011. Le parti - Chi ha interesse a cause brevi? "La parte più debole, che di solito è il lavoratore, perché se ha ragione vuole incassare prima ciò che gli è dovuto, ma anche quella più forte, il datore di lavoro, che se è convinto di essere nel giusto vuole evitare di dover pagare altre spese legali", spiega Martello. Chi sa di avere torto cerca di allungare? "La celerità ha anche l’effetto virtuoso di scoraggiare le cause pretestuose collaterali. Infatti, il debitore che vuole guadagnare tempo potrebbe essere tentato di fare una causa per la speranza di dover pagare quando la sentenza interverrà, dopo anni. Se invece sa che il processo durerà pochi mesi forse deciderà di fermarsi, guadagnerebbe poco tempo". Milano, Roma e Napoli - La ricetta di Milano, che ha 41 giudici del lavoro meno di Roma e 32 meno di Napoli, pur con un volume di cause simile, è sfruttare al massimo le risorse che ci sono, anche se carenti sia tra i giudici che tra il personale amministrativo, e l’uso massiccio dell’informatica (è stata sede pilota per il processo telematico, ora diffuso in tutta Italia). "Abbiamo un carico di lavoro enorme, ma basta organizzarsi bene. Giudici e cancelleria lavorano in maniera intensa e anche gli avvocati contribuiscono impegnandosi con professionalità a evitare di allungare i tempi". Stefano Cucchi e Giulio Regeni: due storie simili di Aldo Funicelli agoravox.it, 12 dicembre 2016 In marzo, l’autopsia di Vittorio Fineschi sul corpo di Giulio Regeni aveva cancellato ogni dubbio. Era stato torturato per giorni dagli uomini del regime di al Sisi. Il suo corpo si era rivelato una lavagna dell’orrore, su cui i suoi carnefici avevano impresso persino una lettera che voleva essere un marchio. E in quella parola - tortura - era ora il cortocircuito tra i destini di due giovani uomini con storie, vite, aspirazioni, pure opposte. Un ricercatore di Cambridge cittadino del mondo. Un tossico di Morena. Due giovani uomini oltraggiati in luoghi che erano agli antipodi del rispetto dei diritti umani. Il regime militare di al Sisi. La Repubblica italiana nata dalla Resistenza. Eppure entrambi i corpi diventati testimoni incoercibili di un abuso di Stato. Stefano Cucchi e Giulio Regeni: ad unire le sue storie non è solo il caso, che ha voluto che ad eseguire una perizia sui due corpi sia stato il dottor Fineschi. Sono due storie che, seppur partendo dagli estremi opposti, l’Egitto di al Sisi e la nostra Repubblica, raccontano della mancanza di rispetto dei diritti umani. Due storie di ragazzi completamente opposti: Stefano coi suoi problemi di tossicodipendenza da cui ne era uscito in un primo momento. Per poi ricaderci, tradendo anche la fiducia dei genitori e della sorella. Giulio, cittadino del mondo, curioso, finito in Egitto per una ricerca della sua università. Raccontano le storie di due famiglie che si sono battute per avere giustizia, che non si sono rassegnate all’evidenza, di fronte al potere. Davide contro Golia: dove Golia era in un caso l’Arma, il corpo dei medici. Nell’altro caso la dittatura del generale al Sisi. Sette anni prima, una donna aveva chiesto allo Stato di rispettare se stesso e la sua ragion d’essere individuando e punendo i suoi servitori infedeli. Ora, una donna chiedeva allo Stato di abdicare alla tentazione cinica di mettere la ricerca della verità sulla tortura e la morte di suo figlio sulla bilancia della diplomazia, degli interessi commerciali o strategici. Di una ragione di Stato che avrebbe solo finito per negarne l’esistenza. In quella sala, c’erano, ancora una volta, Davide e Golia. Il marzo scorso, i genitori di Giulio Regeni hanno tenuto una conferenza stampa nella sala caduti di Nassiyia, i genitori di Giulio Regeni, assieme al portavoce di Amnesty Italia Riccardo Noury, all’avvocato Alessandra Ballerini e al senatore Luigi Manconi. Diversamente da Ilaria, Paola e Claudio Regeni hanno scelto di non mostrare alcuna foto del figlio, come è stato restituito loro. Ma lo stesso hanno voluto ricordare a tutti sia dei depistaggi del regime, che delle torture che quel Corpo ha subito. Il volto di Giulio era piccolo. Piccolo piccolo. Io e Claudio, quando lo abbiamo visto nell’obitorio a Roma, quando ho deciso che mi sarei sentita una vigliacca a non volerlo guardare dopo tutto quello che aveva subito, lo abbiamo baciato e accarezzato. Non vi dico cosa non hanno fatto a quel viso. Io, su quel viso, ho visto il Male, tutto il Male del mondo. E di quel viso ho riconosciuto una sola cosa. La punta del naso. Per il resto, credetemi, non era più lui. Noi non lo avremo più, Giulio. Il Giulio giovane uomo curioso del mondo, che stava approfondendo gli aspetti economici, sindacali - anche se oggi sembra che sia diventata una brutta parola da dire - dell’Egitto. Ma Giulio non è il solo a non esserci più. Ha condiviso il destino di tanti giovani egiziani. Per questo non mi stancherò mai di chiedere la verità. Ora, il 5 aprile arriverà a Roma la delegazione degli investigatori italiani. Ma mi chiedo: cosa porteranno? Mi aspetto, se non porteranno nulla, una risposta forte del governo italiano. Perché in Egitto la gente scompare, finisce nel nulla, rapita e torturata dai servizi del regime: quello di Giulio non è stato un caso isolato: Ebbene, nel 2015 ci sono stati 464 casi di sparizione forzata in carceri segrete e basi militari. Ci sono stati 1676 casi di tortura, 500 dei quali terminati con la morte della persona torturata. Questi sono i numeri portati da Amnesty (citando come fonte un’organizzazione non governativa affidabile, il centro El Nadeem) tramite Riccardo Noury. Che ha concluso il suo intervento tirando in ballo nuovamente la questione dei diritti umani: È dunque reale, alla luce delle circostanze in cui Giulio è scomparso, in cui è stato ritrovato, che il suo sia l’ennesimo caso di violazione dei diritti umani. Ecco perché continuiamo e continueremo a chiedere verità per Giulio. E il governo italiano cosa ha fatto in questi mesi? Molto poco in verità. Qualche dichiarazione di facciata da parte del presidente del Consiglio e da parte del ministro degli Esteri. C’è la "ragione di Stato", ci sono i rapporti commerciali, c’è il bacino petrolifero scoperto dall’Eni nelle acque di fronte l’Egitto. Ma c’è anche altro, che riguarda ancora una volta le nostre istituzioni, la nostra democrazia, le nostre leggi. In cui manca ancora il reato di tortura: c’era qualcosa di indecente nella constatazione che il Paese che ora legittimamente chiedeva a un regime di consegnargli i suoi carnefici, continuasse a essere in ostaggio del ricatto morale ed elettorale di settori delle forze di polizia e della propaganda sgangherata di chi riteneva che la tortura fosse o dovesse essere considerata tale, chiamata e punita con il suo nome proprio, solo se consumata in qualche lurida camera della morte in Medio Oriente o in Asia. E non, come pure era accaduto, in una caserma della polizia stradale a Genova (a Bolzaneto, nei giorni del G8 a Genova del luglio del 2001), sulla panchina di una piazza di Ferrara (Federico Aldrovandi), o in quella stazione dei carabinieri dove Stefano Cucchi aveva cominciato a morire. Processo civile telematico, boom di consultazioni e depositi di Claudia Morelli Italia Oggi, 12 dicembre 2016 I dati del ministero della giustizia sull’andamento dei procedimenti online. Nel processo civile telematico va forte la consultazione online di fascicoli e registri; è a due cifre l’incremento dell’andamento dei depositi telematici di atti processuali; sono ancora timidi i pagamenti on line. Ma soprattutto si riducono drasticamente i tempi di emissione dei decreti ingiuntivi: i dati consolidati riferito a luglio 2016 (confrontati con i 12 mesi precedenti alla obbligatorietà) dicono che a Roma i tempi sono quasi dimezzati (-40%); a Milano e Napoli -21%; a Catania 19%. Fa eccezione Ancona, tra le sedi pilota, perché i tempi si sono allungati del 3%. L’anno che si sta chiudendo è stato caratterizzato da una accelerazione sul fronte della giustizia telematica. Soffermandoci sul tema del processo civile telematico (il primo processo che è stato oggetto di una ampia telematicizzazione), gli ultimi dati del ministero della giustizia - aggiornati al 30 ottobre scorso - parlano di un vero e proprio exploit anche grazie agli avvocati ed agli altri professioni che si interfacciano con le cancellerie giudiziarie e i magistrati. Quasi 8 milioni (7.837.192, per l’esattezza) gli atti depositati telematicamente (da novembre 2015 a ottobre 2016, +13%), di cui 426.087 ricorsi per decreto ingiuntivo; 6.118.119 atti endo-procedimentali, 1.292.986 atti introduttivi. In un anno quindi più di 1 milione e 200 mila procedimenti civili sono nati digitalmente. Facendo riferimento ai dati aggiornati a marzo scorso le percentuali di depositi riferiti ai singoli ambiti processuali vedono, come è prevedibile, il 49% nel contenzioso; il 22% nelle procedure esecutive; il 14% in materia di lavoro; il 13% in materia fallimentare. Gli avvocati iscritti nel registro generale degli indirizzi elettronici oltre 252.947 di cui 235.673 con indirizzo di Pec (93%). I magistrati, dal canto loro, hanno depositato oltre 4 milioni e 200 mila atti di cui:1.280.088 verbali di udienza; 411.359 decreti ingiuntivi; 278.008 sentenze. In un anno, l’8% in più Infine sono state quasi 18 milioni e mezzo le comunicazioni elettroniche, peraltro attivate in tutti i tribunali e corti d’appello, che in sostituzioni delle comunicazioni postali hanno permesso un risparmio di circa 64 milioni (stimato). Gli avvocati indubbiamente hanno preso molta dimestichezza con la consultazione online di registri e fascicoli, infatti sono 7 milioni gli accessi al giorno, anche tramite app mobile mentre ancora dimostrano una certa timidezza nei pagamenti telematici che sono stati circa 133.600, per un incasso totale di 26.870.000 euro. Confisca penale obbligatoria sui profitti legati alla criminalità informatica di Alberto Cisterna Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2016 Decreto legislativo 29 ottobre 2016 n. 202. Il Dlgs 202/2016 reca attuazione della direttiva 2014/42/Ue relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea, in attuazione delle legge di delegazione 2013. L’ampio Preambolo che introduce il testo delle nuove norme rende evidente il fatto che queste si collochino in un complesso reticolo di disposizioni che, a vario titolo, regolano la confisca patrimoniale. Il contrasto degli asset patrimoniali illeciti - Senza considerare, infatti, le norme del Codice antimafia in tema di misure di prevenzione - e prendendo a modello l’antico ordito dell’articolo 240 del Cp sino a giungere all’articolo 603-bis.2 del Cpche ha imposto la confisca in materia di caporalato- gli ultimi due decenni registrano il succedersi quasi frenetico di disposizioni volte a contrastare l’accumulazione e il reimpiego dei proventi da attività delittuosa. Gli asset patrimoniali hanno assunto, a ogni effetto, il ruolo di baricentro dell’attività di contrasto al delitto che ha tracimato dall’alveo dei cosiddetti "serious crimes" (il traffico di droga e la mafia in primis) per giungere - con il decreto in commento - a colpire le nuove manifestazioni dalle ricadute economiche dei reati (si pensi alla contraffazione delle banconote o all’intrusione nei sistemi informatici). Il Dlgs 202/2016 costituisce, probabilmente, una tappa significativa di questo complesso percorso normativo che, partito nel 1930 con l’articolo 240 del Cp, è giunto a un avanzato stato di completamento valorizzando, oggi, in modo generalizzato e ampio le categorie della confisca per sproporzione e di quella per equivalente. Se quest’ultima - più che un’autonoma ipotesi di ablazione patrimoniale - si configura come uno strumento di esecuzione dell’originaria confisca del provento rimasta inefficace, la confisca per sproporzione si adatta al nuovo standard criminologico secondo cui la commissione anche di un solo reato mette in fibrillazione gli apparati di controllo esigendo una verifica allargata (appunto) sulle condizioni patrimoniali, finanziarie ed economiche del colpevole. È il meccanismo sancito, per la prima volta, con l’articolo 12-sexies del decreto legge n. 306/1992 con riguardo alla sola criminalità mafiosa e, poi, ampiamente esteso a ben altre tipologie di reato. L’impostazione è chiara "semel reus semper reus". La condanna definitiva per uno dei delitti di quel catalogo fonda la presunzione circa la provenienza illecita di tutti i beni di cui il colpevole abbia la disponibilità diretta o mediata in valore sproporzionato alle proprie capacità reddituali, indipendentemente dalla provenienza (anche solo sospettata) da un qualche reato. E a fronte di tale presunzione, spetta al reo giustificare la provenienza dei singoli cespiti. La confisca per equivalente, poi, si limita a semplificare l’attività di prelievo coattivo sul patrimonio del reo, escludendo una defatigante ricerca dei beni "silenti" e concentrando l’ablazione sui beni "evidenti" anche se di provenienza lecita (anche ereditaria, ad esempio). Modifiche al codice penale - Operata questa premessa volta a precisare, sia pure con estrema approssimazione, la main stream criminologica di cui la direttiva 2014/42/Ue costituisce l’ennesima manifestazione, l’articolo 2 del decreto 202/2016 modifica l’articolo 240, secondo comma, numero 1-bis) del Cp introdotto dalla legge 12/2012. Il nuovo testo recita così: "È sempre ordinata la confisca … 1-bis) dei beni e degli strumenti informatici o telematici che risultino essere stati in tutto o in parte utilizzati per la commissione dei reati di cui agli articoli 615-ter, 615-quater, 615-quinquies, 617-bis, 617-ter, 617-quater, 617-quinquies, 617-sexies, 635-bis, 635-ter, 635-quater, 635-quinquies, 640-tere 640-quinquies nonché dei beni che ne costituiscono il profitto o il prodotto ovvero di somme di denaro, beni o altre utilità di cui il colpevole ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto o prodotto, se non è possibile eseguire la confisca del profitto o del prodotto diretti". Per i delitti informatici, quindi, si procede alla confisca obbligatoria e per equivalente in valore corrispondente al profitto o prodotto dei reati. L’articolo 5 del Dlgs 202/2016 prevede anche la confisca per sproporzione in relazione a talune di queste fattispecie ai sensi dell’articolo 12-sexies del Dl 306/1992. Ulteriore ipotesi di confisca obbligatoria è quella di cui al nuovo articolo 466-bis del Cpsecondo cui "nel caso di condanna o di applicazione di pena su richiesta delle parti, a norma dell’articolo 444 c.p.p. per uno dei delitti di cui agli articoli 453 ("falsificazione di monete, spendita e introduzione nello Stato, previo concerto, di monete falsificate"), 454 ("alterazione di monete"), 455 ("spendita e introduzione nello Stato, senza concerto, di monete falsificate"), 460 ("contraffazione di carta filigranata in uso per la fabbricazione di carte di pubblico credito o di valori di bollo") e 461("fabbricazione o detenzione di filigrane o di strumenti destinati alla falsificazione di monete, di valori di bollo o di carta filigranata") è sempre ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto, il prezzo o il profitto, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero quando essa non è possibile dei beni di cui il condannato ha comunque la disponibilità, per un valore corrispondente al profitto, al prodotto o al prezzo del reato". Anche in questo caso si procede alla sola confisca per equivalente, laddove la confisca obbligatoria dei mezzi del reato e delle cose che ne sono il provento non sia possibile per l’omesso rintraccio degli stessi. In queste ipotesi la nuova norma prevede che si applichi il terzo comma dell’articolo 322-ter del Cp secondo cui "il giudice, con sentenza di condanna, determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto corrispondente al profitto o al prezzo del reato". L’individuazione dei beni da confiscare per equivalente da parte del giudice rappresenta, a ogni effetto, un’eccezione al principio statuito dalla Corte di legittimità secondo cui "in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, il giudice che emette il provvedimento ablativo è tenuto soltanto ad indicare l’importo complessivo da sequestrare, mentre l’individuazione specifica dei beni da apprendere e la verifica della corrispondenza del loro valore al "quantum" indicato nel sequestro è riservata alla fase esecutiva demandata al pubblico ministero" (si veda tra altre Cassazione, sezione II, 21 luglio 2015 n. 36464, m. 265058). Il problema, al di là dei risvolti teorici circa il perfetto inquadramento della confisca per equivalente nel genus della confisca penale, è praticamente risolto dal fatto che - solitamente - l’ablazione è disposta in sentenza sui beni già oggetto di sequestro preventivo, per cui il giudice si pronuncerà - solitamente - sui cespiti già individuati dal pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari. Cosa cambia nella corruzione tra privati di Alberto Cisterna Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2016 Il decreto legislativo 2012/2016 interviene anche sul codice civile. In particolare l’articolo 2635 del Cc ("corruzione tra privati") registra l’aggiunta del seguente comma: "Fermo quanto previsto dall’articolo 2641, la misura della confisca per valore equivalente non può essere inferiore al valore delle utilità date o promesse", ossia dell’oggetto del sinallagma illecito tra privati. La fonte normativa - Si deve ricordare, in proposito, che l’articolo 19 della "Legge di delegazione europea 2015" (legge 170/2016), recante la delega al Governo per l’attuazione della decisione quadro 2003/568/Gai relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato, prevede un’ampia e sostanziale riscrittura del delitto di corruzione tra privati, introdotto nell’ordinamento dalla Legge anticorruzione del 2012. Il nuovo comma appena indicato costituisce una significativa anticipazione della riforma sotto il versante sanzionatorio di natura patrimoniale e in attesa del decreto delegato rimesso al Governo. La nuova disposizione lascia intatta la possibilità di dar corso alla confisca prevista dall’articolo 2641 del Cc secondo cui "in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti" ai sensi dell’articolo 444 del Cpp(anche) per il reato di corruzione tra privati è ordinata la confisca del prodotto o del profitto del reato e dei beni utilizzati per commetterlo. Quando non è possibile l’individuazione o l’apprensione dei beni indicati nel comma primo, la confisca ha a oggetto una somma di denaro o beni di valore equivalente. La nuova disposizione, quindi, comporta che si debba in ogni caso disporre questa confisca per equivalente in misura che "non può essere inferiore al valore delle utilità date o promesse". Questa soglia minima può non corrispondere al prodotto o al profitto del reato o ai beni utilizzati per commetterlo, giacché vengono in rilievo anche le utilità meramente promesse che, in senso stretto, non rappresentano né il prodotto né il profitto della corruzione tra privati. Le utilità date o promesse costituiscono, quindi, la soglia minima della confisca per equivalente che il giudice deve disporre in esito all’accertamento del delitto. L’articolo 2641 del codice civile chiude il perimetro della disciplina stabilendo, infine, che "per quanto non stabilito nei commi precedenti si applicano le disposizioni dell’articolo 240 del codice penale". Le novità nelle misure antidroga e antiterrorismo di Alberto Cisterna Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2016 L’articolo 73 del testo Unico antidroga (n. 309/1990) è stato modificato dal Dlgs 202/2016 con l’aggiunta di un comma 7-bis secondo cui "nel caso di condanna o di applicazione di pena su richiesta delle parti, a norma dell’articolo 444 c.p.p. è ordinata la confisca delle cose che ne sono il profitto o il prodotto, salvo che appartengano a persona estranea al reato". La nuova confisca antidroga - La disposizione coinvolge anche l’ipotesi lieve o attenuata di cui al comma quinto e rappresenta un’importante innovazione rispetto alla normativa precedente in cui la confisca era disposta ai sensi dell’articolo 240 del Cpe, quindi, era obbligatoria solo in relazione al "prezzo del reato" e non al profitto (cfr. Cassazione, sezione II, 30 settembre 2015 n. 41778, m. 265247 secondo cui "in relazione al reato previsto dall’art. 73, comma quinto, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, può procedersi alla confisca del danaro, trovato in possesso dell’imputato, solo quando ricorrono le condizioni generali previste dall’art. 240 cod. pen. e non ai sensi dell’art. 12 sexies del D.L. n. 306 del 1992, convertito nella legge n. 356 del 1992. In applicazione del principio affermato, la Corte ha annullato senza rinvio la confisca del denaro disposta con sentenza di patteggiamento, in assenza di collegamento eziologico tra il denaro e il reato di detenzione illecita di sostanze stupefacenti contestato all’imputato"). L’alinea successivo prevede che quando tale confisca non sia possibile - fatta eccezione, però e questa volta, per il delitto lieve di cui al comma 5 - deve essere disposta l’ablazione di beni di cui il reo abbia "la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto o prodotto". Naturalmente occorre, in proposito, considerare che l’articolo 12-sexies del Dl 306/1992 già include il reato di cui all’articolo 73, "esclusa la fattispecie di cui al comma 5", tra quelli per i quali è prevista la confisca per sproporzione (comma 1) e quella succedanea per equivalente (comma 2-ter). Parimenti è stato modificato l’articolo 74 del medesimo testo Unico 309/1990 con l’aggiunta di un simmetrico e corrispondente comma 7-bis secondo cui "nei confronti del condannato è ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e dei beni che ne sono il profitto o il prodotto, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero quando essa non è possibile, la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto o prodotto". Naturalmente anche l’articolo 74 citato ricade nel perimetro di applicazione della confisca per sproporzione di cui all’articolo 12-sexies sopra richiamato, a sua volta modificato dal Dlgs 202/2016. Modifiche al Dl 306/1992 - In correlazione con quanto stabilito dall’articolo 2 del Dlgs in commento, questa disposizione cura di includere nel catalogo dei serious crimes di cui all’articolo 12-sexies citato anche l’associazione per delinquere ex articolo 416 c.p. che sia finalizzata allo scopo di commettere uno dei delitti previsti dagli articoli 453, 454, 455, 460, 461 c.p. in materia nummaria. Inoltre è parimenti incluso nel pantheon dei delitti per i quali è applicabile la confisca per sproporzione anche il delitto di cui all’articolo 648-ter.1 del Cp (autoriciclaggio), onde evitare disallineamenti sanzionatori rispetto ai delitti di riciclaggio e di reimpiego da tempo inclusi nell’alveo dell’articolo 12-sexies citato. Accanto all’autoriciclaggio il Dlgs 202/2016 ha incluso anche il reato di cui al citato articolo 2635 del Cc(corruzione tra privati) e quello di cui all’articolo 55, comma 9, del Dlgs 231/2007, ossia la condotta di chi, al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi" e quella di colui il quale "al fine di trarne profitto per sé o per altri, falsifica o altera carte di credito o di pagamento o qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, ovvero possiede, cede o acquisisce tali carte o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi". Lo stesso articolo 5 ha, altresì, modificato le disposizioni in materia di confisca per il delitto di cui all’articolo 131-ter del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 ("abusiva attività di prestazione di servizi di pagamento"), nonché per le gravi e reiterate violazioni delle disposizioni di cui ai commi 1 ("obbligo identificazione") e 4 ("registrazione delle operazioni") del citato articolo 55, prima circoscritta ai soli strumenti che sono serviti a commettere il reato. Il Dlgs 202/2016 prescrive, ora, anche la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, nonché del profitto o del prodotto, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero quando essa non è possibile, la confisca per equivalente di beni, somme di denaro e altre utilità di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto o prodotto. Il terrorismo internazionale - Analogo, rilevante aggiornamento il Dlgs 202/2017 ha previsto nella delicata materia del terrorismo estendendo la disciplina dell’articolo 12-sexies, comma 1, anche al caso dei soggetti resisi responsabili di condotte di terrorismo internazionale. Infine la confisca, ai sensi delle disposizioni che precedono, è ordinata in caso di condanna o di applicazione della pena ex articolo 444 del Cpp per i reati di cui agli articoli 617-quinquies("installazione di apparecchiature atte ad intercettare, impedire od interrompere comunicazioni informatiche o telematiche"), 617-sexies ("falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni informatiche o telematiche"), 635-bis("danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici"),635-ter("danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici utilizzati dallo Stato o da altro ente pubblico o comunque di pubblica utilità"), articolo 635-quater("danneggiamento di sistemi informatici o telematici") e 635-quinquies("danneggiamento di sistemi informatici o telematici di pubblica utilità") quando le condotte ivi descritte riguardino tre o più sistemi (per una definizione cfr. ad esempio Cassazione, sezione V, 20 giugno 2014 n. 44390, m. 260763 "Ai fini della configurabilità del delitto previsto dall’art. 615 ter cod. pen., l’accesso di soggetto abilitato ad un sistema informatico è abusivo solo quando l’agente viola i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema ovvero pone in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli è incaricato ed in relazione alle quali l’accesso è a lui consentito. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso che l’accesso ai dati di un sistema informativo di tipo "chiuso" in dotazione delle forze di polizia, possa essere considerato "abusivo" per la sola violazione dei principi generali di imparzialità e trasparenza dell’azione amministrativa, essendo comunque necessario accertare il contenuto delle prescrizioni formalmente impartite dal "dominus loci")". Brindisi: detenuto muore nel reparto Malattie infettive dell’Ospedale Perrino brindisireport.it, 12 dicembre 2016 Alberto Mangeli (detto Roberto), 50enne di Squinzano, era ricoverato da tempo presso il nosocomio brindisino, dove gli era stata notificata un’ordinanza di custodia cautelare. Si è spento ieri mattina, nel reparto di malattie infettive dell’ospedale "Perrino" di Brindisi, Alberto Mangeli (detto Roberto), 50enne di Squinzano, una delle persone arrestate nell’ambito dell’operazione "Staffetta", condotta dai carabinieri del Nucleo investigativo e del reparto operativo di Lecce nei confronti di una presunta organizzazione dedita allo spaccio di cocaina ed eroina nel nord Salento. L’inchiesta ha avuto origine dalle ricerche del latitante Fabio Perrone, poi arrestato il 9 gennaio scorso. Nell’ambito dell’indagine, gli inquirenti hanno spostato il proprio focus investigativo sul gruppo attivo nel triangolo composto dai comuni di Squinzano, Trepuzzi e Campi Salentina. Mangeli da tempo era ricoverato a Brindisi, tanto che l’ordinanza di custodia cautelare gli era stata notificata in ospedale lo scorso 2 novembre, luogo in cui era stato sentito per rogatoria dal gip di Brindisi Tea Verderosa, nell’ambito dell’interrogatorio di garanzia, avvalendosi della facoltà di non rispondere. Del decesso è stato informato il magistrato di turno della Procura di Brindisi, che potrebbe disporre accertamenti nelle prossime ore. Roma: fermato per droga, si spara alla testa durante perquisizione in casa, gravissimo di Federica Angeli La Repubblica, 12 dicembre 2016 L’uomo, aveva fatto insospettire i carabinieri durante un controllo a un posto di blocco. Una volta nell’appartamento, ha impugnato l’arma e si esploso un colpo alla tempia. Si è sparato alla testa mentre i carabinieri stavano perquisendo la sua abitazione ad Acilia. Una mossa improvvisa quella di Fabrizio Veroli, 34 anni, ora in stato vegetativo all’ospedale San Camillo di Roma. Tutto è cominciato intorno all’una di notte quando l’uomo viene fermato a un posto di blocco in via Micali a bordo della sua auto con 3 amici, dai militari della stazione Ostia Antica. Gli investigatori notano che l’uomo ingoia qualcosa e decidono di andare a perquisire casa sua. Poco dopo quindi insieme salgono nel suo appartamento. Veroli si siede su una sedia e prende in braccio sulle sue ginocchia la fidanzata. Mentre i carabinieri cercavano la droga, all’improvviso il trentaquatrenne butta a terra la fidanzata si sdraia a terra, prende da una parete una pistola e se la punta alla testa. I militari si gettano su di lui per impedire la tragedia ma lui apre il fuoco. E un proiettile calibro 7.65 gli trapassa il cranio. In ambulanza viene portato in codice rosso al San Camillo dove ora é ricoverato in gravissime condizioni. Quando il magistrato di turno é arrivato sul posto la fidanzata ha confermato la versione sulla dinamica del suicidio. La pistola, detenuta nell’intercapedine di una parete aveva la matricola abrasa. Il pusher, numerosi precedenti alle spalle per rapine, furti e spaccio di stupefacenti, era da poco uscito dal carcere. Saluzzo (Cn): carcere, inaugurato il nuovo padiglione di Alta sicurezza targatocn.it, 12 dicembre 2016 Taglio del nastro per le prime due sezioni, alla presenza del sottosegretario Cosimo Maria Ferri. A giorni i primi 48 detenuti, a gennaio il secondo scaglione. "Luogo di pena e di riscatto della propria dignità" le parole del Vescovo. Apertura ufficiale ieri sabato 10 dicembre, alla presenza del Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri delle prime due sezioni del nuovo padiglione di alta sicurezza del carcere "Morandi" di Saluzzo. Avviato nel 2010 il cronoprogramma dei lavori è stato un po’ una corsa ad ostacoli a causa del fallimento della ditta appaltatrice dei lavori ed è, ad oggi, una consegna parziale. Si aprono 2 delle 4 sezioni previste che ospiteranno complessivamente 196 detenuti, 48 detenuti per ogni reparto in celle da tre come previsto dai nuovi criteri di residenza detentiva. Il primo gruppo arriverà nei prossimi giorni, gli altri 48 a gennaio. Aumenterà la popolazione carceraria saluzzese del Morandi attualmente composta da 260 detenuti., divisi in 7 sezioni di cui 2 di alta sicurezza e 5 di media sicurezza. L’istituto di pena di Saluzzo con la nuova struttura si prepara a diventare il secondo carcere del Piemonte, dopo e Vallette Torino. "È un giorno molto importante per l’Amministrazione. Da oggi la gestione del lavoro penitenziario sarà più complessa, ma sarà arricchita dal lavoro di tanti all’interno e dalla società civile con cui c’è grande collaborazione da anni - ha sottolineato Leggieri dopo i tanti ringraziamenti a chi ricreato le condizioni per aprire e organizzare il nuovo padiglione dagli agenti di Polizia penitenziaria agli ordini del comandante Mancini, agli operatori, volontari, a chi opera a vario titolo nell’istituto. "Chiediamo a Dio la benedizione di questa struttura che è un luogo di pena, ma anche di riscatto. La rieducazione come occasione per recuperare dignità e libertà interiore, conoscenza di sé stessi e senso di responsabilità nei confronti degli altri" le parole del vescovo monsignor Giuseppe Guerrini al taglio del nastro. Per il merito e l’impegno il grazie del Provveditore regionale delle carceri Luigi Pagano, che ha assicurato l’organizzazione di attività all’interno di questi reparti di alta sicurezza, in funzione del reinserimento in società dei reclusi. L’applauso del Sottosegretario Ferri al modello detentivo del Morandi e al gioco di squadra, nell’obiettivo, dopo la riflessione sugli anni di ritardo per ostacoli e burocrazia, del massimo impegno per riuscire ad avviare il completamento degli altri due reparti. "Bisognerà riassegnare i lavori e su questo il Governo dovrà impegnarsi". Non ci sono infatti tempistiche per il via di questo secondo lotto di interventi, al momento non finanziati. Incremento delle attività lavorative in carcere anche nella sezione alta sicurezza, la sollecitazione del Sottosegretario nell’intervento che ha toccato i temi della riorganizzazione del sistema "perché il lavoro interno crea sviluppo economico e sociale anche fuori. Recuperare una persona che ha sbagliato significa certezza della pena, minore recidiva e possibilità di inserimento nella società civile con sbocchi occupazionali". A testimonianza di ciò l’intervento di Stefano Diamante, ex detenuto al Morandi ora occupato in una attività di vendita all’esterno delle birre, prodotte nel birrificio della casa di pena. Da Ferri l’invito a Matteo Sebaste del noto gruppo dolciario piemontese che produce torroni, a lanciare dentro la realtà carceraria il marchio di famiglia, auspicando l’ingresso di altre aziende nell’istituto penitenziario saluzzese, dove già sono modelli di successo laboratori professionali e teatrali, corsi, attività imprenditoriali e la sezione carceraria del liceo artistico Bertoni. Presente al momento inaugurale il Procuratore capo del tribunale di Cuneo Francesca Nanni che ha ribadito la necessità di "pena di altro genere fuori dal carcere per reati meno gravi, carcere e rieducazione ed effettività della pena per i reati più gravi " per realizzare sicurezza anche all’esterno. Nel contesto la spina irritativa del garante regionale Bruno Mellano, presente con il garante comunale Bruna Chiotti, che ha ricordato la sanzione all’Italia della Corte europea dei diritti umani. "Il punto di partenza inadeguato dell’importante il lavoro che il Governo ha impostato per cambiare. Penso che l’apertura di questa struttura possa permettere di ragionare in modo diverso per tutto il complesso di questo istituto e per le 13 carceri della Regione". Al taglio del nastro un folto parterre di autorità militari e civili, Forze dell’ordine, Carabinieri, Guardia di finanzia, Polizia penitenziaria, il prefetto Giovanni Russo, il Gip Alberto Boetti, educatori professionali, volontari di associazioni, amministratori di Saluzzo e la direzione generale dell’Asl Cuneo 1. Cagliari: "Tribunale di sorveglianza, quali diritti?", oggi pomeriggio il dibattito castedduonline.it, 12 dicembre 2016 "Tribunale di Sorveglianza: quali diritti?" è il tema dell’incontro-dibattito in programma domani (lunedì 12 dicembre) a Cagliari ore 16.30 nella Biblioteca dell’Ordine degli Avvocati, al quarto piano dell’ala nuova del Palazzo di Giustizia. L’iniziativa promossa dall’associazione "Socialismo Diritti Riforme" e dalla sezione cagliaritana dell’Associazione Nazionale Forense intende mettere l’accento sul ruolo, la struttura, la funzione dell’Istituto nato 41 anni fa con la legge 354 sull’Ordinamento Penitenziario. Molti non sanno che alla Magistratura di Sorveglianza sono attribuite competenze che abbracciano l’organizzazione degli istituti detentivi, le istanze dei singoli ristretti (permessi o ammissione al lavoro esterno), le misure alternative (semilibertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali), le misure di sicurezza. La competenza nei confronti dei condannati ha inizio quando la sentenza è definitiva. Insomma i Magistrati di Sorveglianza sono nati nel 1975 per occuparsi dell’ordinamento penitenziario. Oggi quali problemi devono affrontare? È sufficiente il loro numero rispetto ai reclusi? Gli Uffici sono adeguati? Il dibattito intende altresì evidenziare i ruoli svolti dall’Ufficio Esecuzione Penale Esterna e dagli Istituti Penitenziari affinché sia garantita una organizzazione delle carceri rispettosa dei diritti dei cittadini privati della libertà e un accesso alle pene alternative. Dopo il saluto della Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari Rita Dedola, introdurrà il dibattito l’avv. Marco Perr, componente direttivo ANF di Cagliari. Sono quindi previsti gli interventi di Riccardo De Vito, Magistrato di Sorveglianza, Rossana Carta, Direttore Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna di Cagliari, Gianfranco Pala, direttore Casa Circondariale Cagliari. Franco Villa, avvocato. Seguiranno i contributi programmati di Francesco Mulas, segretario dirigente della sezione di Cagliari dell’ANF e Monica Murru, Direttrice Scuola Forense di Nuoro e il dibattito. Coordina i lavori Maria Grazia Caligaris, presidente associazione SDR. L’evento è in fase di riconoscimento per l’attribuzione del credito formativo. Biella: doni ai figli dai detenuti-papà, l’iniziativa "Per il superiore interesse del minore" ecodibiella.it, 12 dicembre 2016 In occasione dell’avvicinarsi delle festività natalizie, mercoledì scorso, la Casa circondariale di Biella si è resa protagonista di un ulteriore momento di condivisione che ha avuto numerosi protagonisti in positivo. Grazie anche stavolta alla disponibilità della direttrice, Antonella Giordano. Partiamo dai detenuti-papà che effettuano colloqui con i figli in carcere: a tutti verranno forniti dei doni per i loro bambini. Un modo per donare una parentesi di gioia nonostante la tristezza del momento. Protagonisti anche il direttore della struttura unitamente al personale dell’area nota come "trattamentale" e dell’area "sicurezza". E poi la garante delle persone ristrette nella libertà del Comune di Biella, Sonia Caronni, nonché l’associazione "Insieme è... di più" che, nella persona della presidente, Elisa Incoronato Gobbi, ha reso possibile questo importante momento di affettività tra bambini e adolescenti e i loro genitori pur se ristretti in un carcere. "L’iniziativa - riporta il comunicato stampa - ispirata al principio generale del superiore interesse del minore, contribuisce a rafforzare il sentimento ormai diffuso di assicurare una continuità affettiva e relazionale tra ristretti e i loro figli, affinché questi bambini possano crescere senza smarrire il rapporto con i genitori, ed esaltando il valore della famiglia come elemento fondante nell’esperienza di vita di ciascuno di noi". "Un ringraziamento - scrivono da viale dei Tigli - è rivolto all’associazione "Insieme è... di più" che ha dato concretezza all’iniziativa, mettendo a disposizione dei detenuti papà una serie di doni che verranno consegnati da questi ultimi in occasione dei colloqui con i figli. L’attenzione nella scelta dei regali, la cura nell’impacchettamento e il sentito messaggio di auguri rivolto ai detenuti, hanno contribuito a ridurre le distanze tra realtà detentiva e società esterna, in un’ottica di sempre maggior integrazione e in termini culturali in una prospettiva di comunità solidale ed inclusiva. Tale iniziativa, in un quadro più generale, contribuisce a favorire la promozione di interventi diretti ad affrontare il tema dell’accoglienza, del diritto alla genitorialità, della tutela del diritto del minore al mantenimento del rapporto e il legame affettivo con il genitore detenuto. L’augurio di un sereno Natale è stato rivolto a tutti i detenuti, dal direttore, dal presidente dell’associazione "Insieme è... di più", dalla garante, dal personale penitenziario, "affinché il Natale conclude il comunicato a firma della direttrice Giordano - sia un momento gentile, caritatevole, dedicato al perdono. E questi piccoli regali donati ai bambini siano un momento di gioia... perché gli occhi dei bambini che brillano felici sono le vere luci di Natale". Taranto: colletta alimentare tra i detenuti, cibo donato all’ass. "Amici di Marcellino" tarantosera.it, 12 dicembre 2016 Il cibo raccolto nel carcere di Taranto sarà donato all’associazione "Amici di Marcellino". Colletta alimentare tra i detenuti del carcere di Taranto. In occasione della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare, anche quest’anno, il direttore della casa circondariale di Taranto, Stefania Baldassari, in collaborazione con il presidente del Banco Alimentare della Puglia, Luigi Riso, ha voluto fornire il proprio contributo all’iniziativa, attraverso la raccolta di alimenti devoluti volontariamente dai detenuti che si trovano all’interno del carcere di Taranto. I generi raccolti, il cui totale ha raggiunto un valore di 2mila euro, verranno donati all’associazione "Amici di Marcellino", nata nel 1998 ed iscritta dal 2002 all’albo delle associazioni di volontariato, che segue una ventina di famiglie particolarmente disagiate, segnalate dal Banco di Solidarietà, piuttosto che dai Servizi Sociali del Comune di Taranto. L’associazione opera presso la Parrocchia S.Rita da Cascia dove lunedì 12 dicembre, alle 17, avrà luogo la donazione, attraverso la presenza simbolica di una delegazione di detenuti che hanno collaborato alla Giornata della Colletta Alimentare. Dalla casa circondariale parlano di "straordinario risultato raggiunto" e "significativa valenza sociale della manifestazione di solidarietà". Roma: a Rebibbia il murale di Solo realizzato assieme ai detenuti di Arianna Di Cori La Repubblica, 12 dicembre 2016 Una fenice di 30 metri per 4 è risorta dal cemento grigio del muro dell’area verde della III casa circondariale del carcere di Rebibbia, dove si trovano circa 75 detenuti a basso indice di pericolosità sociale. Autore del murales è lo street artist romano Solo, che lo ha realizzato insieme agli "ospiti". L’idea alla base del progetto, ideato da Martina D’Andrea, psicologa volontaria a Rebibbia, è stata quella di rendere il tempo di detenzione - breve o lungo che sia - orientato alla libertà e non all’abbandono. "Volevo coinvolgere chi era lì dentro e mostrare loro come fosse cambiato il volto di Roma - spiega Martina, che gestisce il cineforum - tutto è partito con la proiezione di un video che mostrava la steet art al Trullo, Tor Marancia, Primavalle, San Basilio. In quell’occasione ho coinvolto Solo, nel caso ci fossero state curiosità a fine proiezione". Ma più che domande, arriva una richiesta: "E noi quando dipingiamo?". E così, grazie a un crowdfunding la psicologa e lo street artist riescono a mettere insieme circa un migliaio di euro, necessari a stuccare, imbiancare il muro e acquistare vernice e bombolette spray. Viene deciso il soggetto, una fenice, simbolo di rinascita". Nell’arco di 6 mesi il dipinto prende forma. Il muro, inaugurato da pochi giorni, è un’esplosione di colore. "È stato emozionante vedere la reazione entusiasta di tutte le persone coinvolte - dice Solo - all’inizio ammetto di aver avuto un po’ di timore. Ma poi non solo ho conosciuto una grande umanità, mi sono trovato a domandarmi come fosse possibile che alcune persone, così gentili e simpatiche, potessero davvero trovarsi in carcere". Mantova: il teatro entra in carcere con i detenuti protagonisti di Luca Ghirardini Gazzetta di Mantova, 12 dicembre 2016 La scelta è caduta sulla commedia "Trappola per topi" di Agatha Christie. Il teatro entra in carcere e i protagonisti dello spettacolo saranno gli stessi detenuti. Il progetto, nato dalla collaborazione tra la struttura di via Poma e l’associazione Arte dell’Assurdo, punta a portare in scena, la prossima primavera, la commedia poliziesca Trappola per topi di Agatha Christie. Sono già partite le audizioni per individuare gli interpreti principali. E non sarà facile, visto che l’iniziativa è stata accolta con grande entusiasmo e in tantissimi si sono proposti per interpretare una parte. "Come Arte dell’Assurdo - spiega Annalisa Venturini - abbiamo voluto pensare al carcere e ai detenuti, una realtà che comunque appartiene alla città e alla quale è opportuno tendere una mano. Ci è stato detto che sarebbe stato difficile farsi accettare, ma per rompere il ghiaccio abbiamo organizzato tre iniziative culturali, affidate a Riccardo Braglia. Lui ha affrontato i temi in modo leggero e divertente, conquistando la fiducia dei detenuti". Sarà lo storico dell’arte mantovano, infatti, a curare regia, scene e costumi della commedia. "Sarà un progetto importante per impegno e tempo da dedicare - sottolinea Braglia. Ma ci ripaga l’entusiasmo con il quale è stato accolto: abbiamo ricevuto 30 richieste di provini, a fronte di dieci personaggi, sei uomini e quattro donne. Probabilmente aggiungeremo alcune comparse per accontentare tutti. E devo ringraziare la direttrice Rossella Padula, una persona straordinaria che ha spalancato le porte al nostro progetto, col sostegno anche dello psicologo Carlo Alberto Aitini". Quattro donne, si è detto: il problema nasce dal fatto che gli aspiranti attori sono tutti uomini. "Chiederemo aiuto alle compagnie filodrammatiche mantovane - afferma, il che potrebbe anche darci una mano per insegnare agli aspiranti attori a stare sulla scena". Come vengono selezionati i protagonisti? "Al casting abbiamo affidato loro uno stralcio del testo da interpretare. Molti, tuttavia, non sapevano leggere. Per questo abbiamo chiesto di parlare a ruota libera, ricordando due episodi della loro vita, uno felice e uno triste. È stato molto commovente - ricordano Venturini e Braglia. Poi Enrique Ramos e la moglie Isabella hanno registrato i provini, che sono stati inviati all’agenzia milanese Sticasting. Ma alla fine la scelta sarà nostra". La scelta di Trappola per topi è stata di Braglia, anche per motivi tecnici: la scena è fissa e ben si adatta al teatrino del carcere. Che in primavera si aprirà, quindi, per una serata a inviti con attori specialissimi. Roma: l’auditorium del carcere di Rebibbia si apre al cinema rbcasting.com, 12 dicembre 2016 L’Auditorium del Carcere di Rebibbia si apre ancora al Cinema di qualità con due appuntamenti speciali il 20 dicembre, nell’ambito del Roma Cityfest. Claudio Giovannesi, sarà in sala per presentare la proiezione aperta ai detenuti e al pubblico esterno del suo ultimo bellissimo film, "Fiore". Un film sulla realtà, che racconta il mondo dei ragazzi in modo tutto particolare: l’adolescenza, l’amore, la difficoltà di vivere in equilibrio, ambientata nel contesto più difficile, quello di un carcere minorile. Josh e Daphne sono due ragazzini che le complicazioni della vita emarginata portano a delinquere e a scontare una condanna. L’incontro fra detenuti e detenute in carcere è proibito dai regolamenti penitenziari, e nessuna relazione personale è consentita. Nonostante gli ostacoli i due ragazzi si innamorano attraverso il gioco degli sguardi da lontano, brevi conversazioni rubate, bigliettini fatti filtrare fra le celle. Nel carcere - nonostante il carcere - Daphne e Josh riusciranno a scoprire la libertà di amare. Un film che vivrà tanto più dell’emozione della platea di Rebibbia. La proiezione sarà preceduta dal cortometraggio di Fabio Cavalli "Naufragio con spettatore", Menzione Speciale della Giuria del Premio Migrarti alla 73. Mostra del Cinema di Venezia. Il corto di quindici minuti è stato girato fra il carcere di Rebibbia e quello di Cassino; i protagonisti sono ancora una volta i detenuti-attori della Compagnia che diede vita a Cesare deve morire. Ora sono impegnati nel difficile compito di descrivere cosa significhi il reclutamento in carcere dei fondamentalisti islamici e come, attraverso la libertà dell’arte, possa essere abbandonato e sconfitto ogni estremismo. Ovviamente il cast dei detenuti sarà presente in sala al completo. Presentano l’evento Mario Sesti per Fondazione Cinema per Roma e Laura Andreini Salerno per il Centro Studi Enrico Maria Salerno, ancora una volta sotto l’egida della Direzione della C.C. Rebibbia N.C., con il sostegno del Mibact e della Regione Lazio - Assessorato alla Cultura e Politiche Giovanili, e con il patrocinio di Roma Capitale e del Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università Roma Tre, per dare futuro al progetto di rendere l’Auditorium di Rebibbia un vero centro di cultura e arte aperto alla città. Perché il cinema va a Rebibbia - Se il carcere può avere il senso di un cammino a ritroso dalla "malavita" alla "buona vita", diventare un’occasione di riscatto per chi ha sbagliato, il tempo vuoto della pena va riempito di opportunità: istruzione, formazione, lavoro. C’è anche spazio per l’arte. Il Cinema, che in 24 fotogrammi al secondo fa muovere la realtà e la vita, illumina l’oscurità. Nell’Auditorium di Rebibbia ogni anno, a migliaia, dai 15 anni in su, entrano per assistere agli spettacoli dei detenuti. Poi, da quando le macchine da presa si sono affacciate sempre più spesso oltre le sbarre, i detenuti si sono appassionati al "dietro le quinte" dell’arte cinematografica che di solito si conosce solo a cose fatte. Da qui il desiderio di vedere buone pellicole, incontrare i protagonisti, confrontarsi. Il Cinema sa unire i destini più diversi. Almeno per qualche ora, liberi o reclusi, sogneremo lo stesso sogno. L’evento è ad ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria fino ad esaurimento posti. Per info e prenotazioni contattare il sito: enricomariasalerno.it. Napoli: prigionieri siriani torturati, gli scatti di un fotografo in mostra a Castel Dell’Ovo Roma, 12 dicembre 2016 Nelle Sala delle Terrazze di Castel dell’Ovo, giovedì alle 16 si inaugura la mostra "Nome in codice: Caesar. Detenuti siriani vittime di tortura", in programma fino a domenica 1S dicembre. Una selezione delle immagini scattate da Caesar, pseudonimo che protegge l’identità di un ex fotografo della polizia militare del regime siriano, il cui incarico, dal 2011, era quello di fotografare i corpi dei detenuti uccisi dalle torture nelle carceri siriane. Per due anni, Caesar ha fatto copie delle immagini su chiavette Usb e nel 2013 ha disertato, portando con sé in Occidente le copie delle fotografie. L’inaugurazione sarà preceduta, alle 10,30 di giovedì, da un incontro con la stampa e gli studenti, in Via Mezzocannone 101. All’incontro interverranno l’Assessore alla Cultura ed al Turismo Nino Daniele, l’ex prigioniero sopravvissuto alle torture Mazen Alhummada, Tina Marinari di Amnesty International, Claudio Silvestri della Fnsi, Nino Santomartino della Focsiv, il giornalista italo-siriano Fouad Roueiha, Daniela Pioppi, docente di Storia contemporanea dei Paesi Arabi all’Università Orientale, Sami Haddad, esperto di Lingua Araba presso la stessa Università, Filomena Annunziata della Fuci e Chiara Cetrulo degli Studenti UnìOr prò la Rivoluzione Siriana. Coordina Germano Monti, del Caesar Team Italia. Dalle migliaia di immagini, ne sono state selezionate una trentina, che costituiscono la mostra, già esposta al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, al Memorial dell’Olocausto a Washington, al Parlamento Europeo di Strasburgo, a Westminster, a Parigi, Boston, Dublino e in molte altre città. La magistratura francese, sulla base delle informazioni fornite da Caesar, ha aperto un procedimento per crimini contro l’umanità nei confronti del regime di Assad e iniziativa analoghe sono in corso in Spagna e in Germania, mentre il Congresso degli Stati Uniti ha appena votato una legge al riguardo. In Italia, le immagini di Caesar sono state esposte per la prima volta al Maxxidi Roma nell’ottobre scorso, ed ora approdano a Napoli. Lavoro. Cgil: effetto Jobs Act, crescono i licenziamenti disciplinari di Giacomo Galeazzi La Stampa, 12 dicembre 2016 Aumento del 28% nei primi otto mesi del 2016. E c’è anche chi ha perso il posto mentre era in malattia o per contestazioni senza prove. La Cgil ha depositato le firme in Cassazione per ripristinare l’articolo 18, cancellare i voucher, ristabilire la responsabilità in solido di appaltatore e appaltante per violazioni verso il lavoratore. Da un anno e mezzo, dal marzo 2015, il Jobs Act sta ridisegnando i rapporti di lavoro in Italia. Tra gli effetti rilevati dall’Osservatorio sul precariato dell’Inps, l’innalzamento dei licenziamenti disciplinari (+ 28% nei primi 8 mesi del 2016). Per capire se sia una conseguenza inevitabile della riforma, La Stampa ha messo a confronto storie di lavoratori che quest’anno hanno perso il posto con esperienze sul campo di consulenti, avvocati, economisti ed imprese. "Il Jobs Act rappresenta un forte deterrente nelle relazioni aziendali e ciò ha indubbiamente provocato un cambio di paradigma - spiega l’avvocato Giorgio De Stefani che da trent’anni a Roma offre assistenza legale civile anche nel diritto del lavoro -. Con l’introduzione delle nuove norme, nel mondo del lavoro è mutato il clima psicologico-culturale. Soprattutto in aziende medio-grandi in crisi, nelle situazioni nelle quali prima si soprassedeva o si cercava una mediazione, adesso il datore di lavoro è più portato ad andare per le spicce perché dispone dello strumento tecnico per poterlo fare. Si tollera di meno, specie se non c’è un rapporto di conoscenza col dipendente". Così crescono soprattutto i licenziamenti individuali per ragioni disciplinari, proprio quelli cioè sui quali è intervenuto il Jobs Act con il contratto a tutele crescenti. E per i nuovi assunti niente reintegra nel posto di lavoro in caso di ingiusto licenziamento. "L’aumento registrato dall’Inps non è dovuto tanto alla legge in sé, quanto all’abuso che ne viene fatto", sottolinea la consulente del lavoro Monica Melani. In un anno i licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo sono passati da 36.048 a 46.255, con un aumento appunto del 28%. Intanto i sindacati ricevono molte richieste di aiuto e i tribunali si riempiono di ricorsi. Dimissioni imposte - Tra questi casi c’è quello di Domenico Rossi, che per 35 anni ha lavorato come ausiliare alle vendite e cassiere al supermercato Carrefour di via XXI settembre, nel centro di Roma. Mai richiami, contestazioni o situazioni di conflitto fino allo scorso 3 giugno, quando è stato licenziato. Secondo l’azienda "è stato sorpreso, con merce non regolarmente acquistata, nell’atto di lasciare il punto vendita". Eppure, racconta Rossi, "quando i poliziotti hanno visionate le immagini delle telecamere interne, non hanno trovate niente di irregolare". Infatti, aggiunge, "come facciamo sempre noi dipendenti, ero passato dietro le casse per evitare la coda dei clienti, ho pagato tutto e alla vigilanza che mi ha fermato ho mostrato lo scontrino della spesa che avevo nella busta". Continua: "Mi hanno perquisito e lasciato in piedi per due ore davanti ai clienti che passavano, poi mi hanno ripetuto più volte che l’unica cosa che mi restava da fare era presentare immediatamente le mie dimissioni per non andare incontro a conseguenze peggiori. Possono fare una cosa del genere?". L’azienda gli contesta di aver abbandonato nel supermercato confezioni di cibo aperto e di non aver pagato due prodotti. Carrefour assicura di non licenziare con leggerezza (visti i "risvolti sulla vita delle persone") e che contro Domenico Rossi ci si è basati "esclusivamente su quanto comprovato dalle risultanze aziendali". Situazioni che ripetono analoghe in tutta Italia. "Non vengono spalancate indiscriminatamente le porte d’uscita, né si assiste a esodi di massa, ma senza lo spauracchio della reintegra molte aziende medie e grandi si arrischiano in licenziamenti che prima del Jobs Act avrebbero evitato" afferma Giovanni Guizzardi, consigliere dell’ordine dei consulenti del lavoro di Bologna. Il cinquantenne Antonio Ettore Ambrosini per 28 anni ha lavorato come cameriere ai piani e poi come maître d’hotel in uno storico albergo di Roma, il Victoria, a due passi da via Veneto. In seguito alla separazione della moglie nel 2011 aveva usufruito di 6 mesi di aspettativa non retribuita per un esaurimento nervoso. "Tornato in servizio non ho più avuto problemi finché, nell’ultimo periodo, il nuovo direttore dell’hotel mi ha preso di mira rimproverandomi pubblicamente per qualunque cosa, anche per come disponevo le tazze sui tavoli della prima colazione - ricostruisce Ambrosini -. Per il continuo stato di stress e di ansia ho avuto un collasso sul lavoro e sono stato soccorso da un’ambulanza". Ad agosto è stato "licenziato e liquidato con il Tfr e con due buste paga da 1400 euro: l’azienda sostiene di avere testimoni per dimostrare che sono stato trovato ubriaco in servizio e che mi sono addormentato mentre aspettavo le ordinazioni ai piani". Ma "non è vero", protesta, "dovevano tagliare il personale e le spese, così sono finito io nel mirino". Aria più pesante nelle ditte - Il manager dell’hotel, Filippo Guzzardi oppone un "no comment" alla richiesta di un chiarimento sulla vicenda. "Rossi è accusato di furto e Ambrosini di ubriachezza in servizio: mancanze gravi se accertate, ma in entrambi i casi i datori di lavoro sembrano avere prove piuttosto labili", osserva l’economista Giuliano Cazzola, tra i massimi esperti di lavoro e previdenza: "Nel Jobs Act c’è uno scambio tra contratti più stabili e minore rigidità nella risoluzione del rapporto di lavoro - evidenzia Cazzola, che ha insegnato all’università di Bologna ed è stato vicepresidente della commissione lavoro della Camera -. Finora i giudici sono stati di manica larga anche di fronte a responsabilità vere dei lavoratori". Ambrosini ha gli occhi lucidi e si commuove: "Ora tiro avanti con il trattamento di fine rapporto che mi stanno pagando in tre tranche, ho sempre pagato gli alimenti per mia figlia - scuote la testa. Mi hanno tolto il lavoro, la dignità. Al momento della contestazione mi sono sentito male e sono stato licenziato durante malattia, cosa che non si può fare. L’azienda sostiene che il licenziamento per giusta causa supera anche il divieto di cacciare un lavoratore mentre è malato". È cambiata l’aria o è solo più pesante? "Nelle riorganizzazioni dovute alla crisi, i margini di sopportazione delle aziende sono ormai all’osso - testimonia Paolo Stern, coordinatore del Centro studi dei consulenti del lavoro di Roma -. La ripresa c’è solo in alcuni segmenti imprenditoriali ed è a macchia di leopardo. Prima nella ditte c’erano dei "tesoretti" con cui si potevano ripianare le inefficienze, oggi no". Perciò "in situazioni di sofferenza, se si incrina un rapporto di fiducia con un dipendente, il datore di lavoro è spinto a rischiare il giudizio dei magistrati pur di recuperare efficienza liberandosi di chi è poco produttivo - chiarisce Stern -. Prima si poteva ovviare con margini più alti, adesso mancano i mezzi per farlo". Un quadro allarmante "non direttamente imputabile al Jobs Act", accade lo stesso "nella rinegoziazione dei contratti di consulenza e per la fornitura servizio". Insomma, quando si tratta di occupazione, mal comune non fa mezzo gaudio. La Polonia si ritira dalla Convenzione europea sulla violenza contro le donne? di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 dicembre 2016 Negli ultimi giorni, alcuni rappresentanti di primo piano del governo polacco hanno annunciato l’intenzione di ritirarsi dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e la violenza domestica. Sarebbe un passo indietro senza precedenti, dato che nessuno stato si è mai ritirato dalla Convenzione. La "Convenzione di Istanbul", che prende il nome dalla città in cui venne adottata da tutti gli stati membri del Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011, è entrata in vigore il 1° agosto 2014. Firmato da 43 stati e ratificata da 22, è il primo trattato europeo che riguarda specificamente la violenza contro le donne. La Polonia ha ratificato la Convenzione nell’aprile 2015, dopo una massiccia campagna delle organizzazioni non governative (Ong) locali, ma con una riserva: la Convenzione sarebbe stata applicata solo se e quando non in contrasto con la costituzione del paese. Una riserva che molti stati parte hanno valutato incompatibile con gli obiettivi stessi della Convenzione. La Convenzione di Istanbul stabilisce standard minimi sulla protezione e la protezione delle donne, sui procedimenti giudiziari e sullo sviluppo di politiche integrate per contrastare la violenza contro le donne e la violenza domestica. Gli stati che l’hanno ratificata sono obbligati a proteggere e a sostenere le sopravvissute alla violenza e ad istituire servizi fondamentali come linee telefoniche gratuite, rifugi, ambulatori e centri di assistenza e aiuto legale. Il ritiro dalla Convenzione potrebbe avere conseguenze disastrose per milioni di donne e ragazze e per le organizzazioni che offrono un sostegno determinante alle sopravvissute alla violenza sessuale e alla violenza domestica. Secondo dati ufficiali, solo nel 2015 in Polonia più di 69.000 donne adulte e 17.000 minorenni hanno subito violenza domestica. Nello stesso anno sono state aperte indagini su solo 2140 casi di stupro. Secondo le Ong polacche, non più del 30 per cento degli stupri viene denunciato. Dopo che a ottobre le donne polacche hanno dato vita a una mobilitazione senza precedenti (nella foto) che ha costretto il parlamento a ritirare una proposta di legge che avrebbe vietato quasi completamente l’aborto, il governo di Varsavia ha ripetutamente dichiarato che le sue politiche sono dirette a proteggere e a migliorare la vita delle donne. E allora perché minacciare il ritiro dalla Convenzione di Istanbul? Olanda. Il leader dell’estrema destra condannato per incitamento all’odio La Stampa, 12 dicembre 2016 Geert Wilders giudicato colpevole per le campagna contro i marocchini, "continuerò a dire la verità, nessuno può fermarmi". Le sue frasi contro la comunità marocchina sono costate una condanna a Geert Wilders, il leader del partito anti-islam e anti-Ue olandese Pvv. Incitamento alla discriminazione, ha sancito un tribunale. "Un processo politico per cercare di neutralizzare il leader del maggior partito di opposizione", la replica di Wilders, assente in aula. Che poi ha rilanciato: "Continuerò a dire la verità". L’episodio contestato risale al 2014. In un comizio durante la campagna per le comunali, Wilders aveva chiesto a una folla di sostenitori se desiderassero avere "più o meno" marocchini nel Paese. Alla risposta del gruppo: "meno", aveva quindi replicato: "Ce ne occuperemo". Una scena ritrasmessa dalle televisioni, in seguito alla quale la polizia ha ricevuto ben 6.400 reclami, che hanno dato il via al procedimento penale. Dichiarazioni "avvilenti e insultanti" ha stabilito la corte, che tuttavia ha prosciolto Wilders dall’accusa più grave di incitamento all’odio razziale. Respinta anche la richiesta dell’accusa di una sanzione pecuniaria di 5.000 euro. La condanna, hanno argomentato i giudici, è di per sé una pena sufficiente per un deputato democraticamente eletto. Peraltro, Wilders non è nuovo a problemi giudiziari di questo tipo per le sue esternazioni contro l’islam ed era già stato prosciolto in due processi analoghi, nel 2011 e nel 2007. Contro la sentenza di oggi ha annunciato appello. "Condannato io e metà degli olandesi", ha scritto su Twitter dove ha postato anche un lungo video. Un attacco frontale ai giudici, accusati di volere limitare la libertà di espressione, e una rivendicazione di forza: "Non sarete in grado di fermarmi". Il suo Partito della Libertà in Olanda vola nei sondaggi ed è dato in vantaggio nel testa a testa sul premier uscente Mark Rutte, a tre mesi dalle elezioni. Il voto olandese è visto in Europa come uno dei prossimi appuntamenti chiave per saggiare la tenuta dell’Ue. Wilders, tra le varie cose, ha promesso un referendum per l’uscita dall’Unione. Una sua vittoria alle urne sarebbe dunque una nuova scossa, dopo la Brexit e dopo il voto al referendum italiano. Una botta che arriverebbe inoltre da uno dei Paesi fondatori della Comunità economica europea e a dieci giorni dalle celebrazioni del 25 marzo per il sessantesimo anniversario del Trattato di Roma, il testo istitutivo della Cee. Oggi, in Olanda, si festeggiavano i 25 anni di un altro trattato, quello di Maastricht. "Dobbiamo ricordare il contributo di questo Paese - ha detto tra gli altri il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz: questa nazione fondatrice può essere un vero leader in Europa". Wilders ha idee diverse: "Il sostegno al Pvv è in crescita - dice. Gli olandesi vogliono riavere indietro il loro Paese". Algeria. Morto in carcere il blogger Tamalt, aveva criticato il presidente Bouteflika di Karima Moual La Stampa, 12 dicembre 2016 Morire in carcere solo per aver osato criticare il presidente. È quanto accaduto al giornalista e blogger algerino Mohamed Tamalt. Una voce libera e dissidente che esprimeva senza filtri le sue analisi e critiche sull’Algeria e sull’operato del presidente Abdelaziz Bouteflika attraverso il suo blog, Facebook e almeno due giornali con i quali collaborava dalla Gran Bretagna. Paese nel quale aveva continuato i suoi studi, acquisito la cittadinanza e forse anche quell’illusione di sentirsi una penna libera anche guardando al suo paese d’origine. L’Algeria, paese opaco, difficile da penetrare, raccontare e seguire proprio perché la voce del dissenso è soffocata così come non è concesso a tutti i giornalisti varcare la frontiera algerina. Tamalt infatti si era dovuto rifugiare quasi in esilio in Gran Bretagna per poter scrivere liberamente del suo paese e solo attraverso alcune rassicurazioni politiche - a quanto si apprende da varie fonti - si era fidato a tornare ad Algeri. Una vera trappola. Si era infatti dovuto ricredere quest’anno quando in pieno Ramadan, il 17 giugno, fu arrestato nella capitale e in seguito condannato il 4 luglio a due anni di carcere e 200mila dinari di multa perché per il tribunale algerino, Tamalt aveva osato criticare la figura del Presidente Bouteflika. A nulla servirono le richieste dei colleghi e non solo - in nome della libertà di stampa - per il suo rilascio, così come non servirono da attenuante nemmeno le sue condizioni di salute, molto precarie a causa della sua malattia. Per non parlare degli appelli delle varie organizzazioni internazionali dei diritti del uomo. Dal 17 giugno, anche le visite dei suoi parenti erano vietate e da qualche settimana aveva iniziato uno sciopero della fame, sfidando la sua malattia e chi lo aveva ingiustamente incarcerato. Nella settimana che ricorda la giornata mondiale dei diritti umani, un’altra voce coraggiosa viene soffocata e si spegne. L’amministrazione penitenziaria parla di infezione polmonare. Amnesty International chiede alle autorità internazionali di aprire un’inchiesta indipendente. Tamalt, intanto, non può più osare criticare il suo presidente perché ormai non c’è più. Ma il suo nome e i suoi scritti, sono nero su bianco, continuano e continueranno a viaggiare sul web attraverso i social network, da un profilo all’altro. Fino a quando invece l’Algeria continuerà a chiudersi e a credere di poter silenziare ogni sintomo di critica? Paradiso perduto: ora le Maldive fanno paura d Renata Fontanelli Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2016 "C’è un messaggio che vorrei passare agli italiani. Devono sapere cosa sta succedendo nel mio paese, da quando i militari mi hanno arrestato e costretto a dimettermi da Presidente. C’è pochissima informazione, e tutti si immaginano un Paradiso. Le Maldive lo sono, in effetti, ma solo per i turisti. Per la popolazione locale, i più deboli, è l’inferno". Mohamed Nasheed è arrivato a Milano per parlare con Il Fatto della sua decisione di ricandidarsi alle prossime elezioni. Da un anno vive a Londra, con moglie e due figlie, esiliato politico: "L’Inghilterra non supporta me personalmente, ma la democrazia". A sostenerlo nella sua lotta per rientrare nell’arcipelago, dove nel 2008, dopo essere riuscito a emendare la costituzione ha ottenuto e vinto le prime elezioni democratiche della storia sbaragliando la trentennale dittatura di Maumoon Gayoom, c’è un team di legali internazionali, guidati da Amal Clooney e Jared Genser, tra i più importanti attivisti al mondo nella difesa dei diritti umani. E poi tante associazioni, prima fra tutte Amnesty International. Nel 2012 un colpo di stato portò al potere il suo vicepresidente e successivamente venne eletto l’attuale capo di Stato Abdulla Yameen, fratellastro del dittatore Gayoom. Per il colpo di stato, il gruppo di azione interministeriale del Commonwealth ha accusato le autorità maldiviane aggiungendo che il paese sta diventando un centro di riciclaggio. In tutta risposta il presidente Yameen, in ottobre ha dichiarato l’uscita dal Commonwealth. È Nasheed, il presidente esiliato, a denunciare due tra i più gravi problemi, il reclutamento di combattenti islamici e il crescente consumo di eroina tra i giovani: "Le Maldive sono sempre state mussulmane, ma molto moderate e aperte. Ora non più, il Wahabismo più fondamentalista si sta diffondendo capillarmente, e ci sono tanti ragazzi giovani disposti ad arruolarsi". Ma l’Islam non dovrebbe proibire le droghe? "Dovrebbe, appunto. Ma la capitale è piena di gang criminali appoggiate dallo stesso governo, cui danno una mano a tenere sotto controllo la popolazione. La disoccupazione giovanile è al 9.3%, e la droga circola liberamente". L’inferno, dicevamo. In un paese con poco più di 400.000 anime. Tra le "riforme" di Yameen, il figlio del colpo di stato, contro cui una buona fetta di popolazione scende regolarmente in piazza (solo ieri sono stati arrestati 14 manifestanti, ndr), ci sono state la reintroduzione della pena di morte dopo processi sommari dove spesso è lui stesso, con il suo staff, a dettare le sentenze ai suoi giudici prezzolati. Poi la creazione di un impressionante rete di corruttela, puntualmente documentata, mail, sms e testimonianze alla mano, da un interessante reportage di Al Jazeera visibile su You Tube. Notevole anche il suo personale tesoretto, circa 1.5 miliardi di dollari sottratti al partito e alla popolazione o provenienti da tangenti, distribuiti tra Singapore e l’Arabia Saudita. L’economia del paese traballa, sia dal punto di vista dell’afflusso turistico (quest’anno meno 3.7%), che dei conti. A denunciare il sistema è stato un altro grande corrotto, il vicepresidente Adeeb, detenuto in carcere da un anno con l’accusa di aver attentato alla vita del presidente. Proprio lui ha consegnato a Nasheed e alla stampa i suoi cellulari e il computer pochi minuti prima di finire in carcere. I suoi fedeli autisti hanno confermato, salvo poi in un secondo tempo negare o fare scena muta, il viavai di pacchi giganteschi pieni di cash che loro stessi trasportavano ai potenti di Malè. Incomprensibile autogoal, quello del grasso e potente ex vicepresidente, in quanto, aprendo le sue mail, è chiaro ed evidente il suo ruolo attivissimo nel sistema corrotto. Documentato anche dal suo stesso telefono dove in una sorta di compulsiva selfie-mania, fornisce l’immagine di un autentica escalation verso l’opulenza. A patire dal look che all’inizio è modesto (prima faceva l’allenatore di una squadra di calcio), e a poco a poco si fa sempre più pacchiano e volgare: orologi d’oro, barche, auto, abiti griffati, viaggi e bella vita. Perché ha consegnato tutto quel materiale? Presumibilmente per il principio "muoia Sansone con tutti i filistei", mi avete arrestato e ora vi diffamo tutti. Ma al Presidente in carica poco importa. Lui va avanti, nonostante il malcontento popolare sia sempre più forte. Nonostante le numerose denunce di organismi internazionali, e delle Nazioni Unite che in più occasioni hanno puntato il dito contro le violazioni dei diritti umani perpetrate dal suo governo. Tra i provvedimenti non poteva mancare il più importante: zittire la stampa. Dopo aver fatto incendiare l’unica sede della televisione antagonista, poi ricostruita, ha riordinato la seconda demolizione alla stessa polizia, che però ha avuto un’idea più brillante: "distruggiamo la redazione annientando gli sponsor. E così è stato. I redattori Adam Zareer, Mohamed Wisam, Leevan Ali Nazeer e Hssein Fiyaz, proprio in questi giorni sotto processo. Ahmed Rilwan, 29 anni, sorriso smagliante e sguardo curioso è scomparso in una notte di agosto. Aveva scritto un articolo-denuncia sul quotidiano Minivan News. Sono passati due anni. nessuno l’ha più visto. "Viveva per il giornalismo", raccontano i colleghi. Torniamo a Nasheed, noto anche come Il Mandela delle Maldive: "Per carità, non ditelo mai - sorride - di Mandela ce ne è stato solo uno e irripetibile". Alle Maldive i suoi sostenitori, la gran parte dei ceti sociali più debole iscritta al Partito Democratico, lo chiamano tutt’ora Rais, in segno di rispetto. Laureato in diritto marittimo a Liverpool, ha sempre avuto la passione per la penna e i reportage. Per questo motivo, cui si è aggiunta successivamente la militanza politica ha trascorso metà della sua vita adulta in carcere, sottoposto a torture evidenti dalle cicatrici, e mesi di isolamento su isole disabitate. "Una volta mi hanno messo in un atollo dove c’era un po’ di popolazione locale. Li hanno terrorizzati intimando loro di non parlarmi. Io di giorno pescavo e lentamente li ho convinti a venire da me la sera. Gli insegnavo inglese e spiegavo loro cosa succedeva nel mondo al di la dei nostri confini". Ciò nonostante sembra che tutto il male gli sia scivolato addosso, sorride e continua ad essere ottimista: "Non ho mai pensato né di abbandonare i mio Partito, né, tantomeno di lasciare le isole dove la mia famiglia da generazioni vive". Tiene conferenze su temi ambientali. Famiglia facoltosa, la sua. Con un padre proprietario di navi mercantili e atri tre fratelli: "Abbiamo studiato tutti all’estero, ma io sono stato il primo a voler rientrare e non immagino nessun ‘altra vita oltre a quella che ho sempre fatto, combattere per la democrazia e i diritti del mio popolo". Il ventitreesimo compleanno Nasheed lo trascorse in carcere. Per aver scritto e denunciato su suo settimanale Sangu i soprusi dell’allora dittatore. "Tre anni in prigione e diciotto mesi di confino". Non si scoraggia, torna a lavorare in una radio che trasmette in Sri Lanka. I suoi temi sono sempre democrazia e tutela dell’ambiente. Rientra in patria finisce di nuovo in carcere. E così è stata la sua vita, fuori e dentro. Fino a diventare prima membro del parlamento tra le file dell’opposizione. E poi Presidente. Ha ricevuto innumerevoli riconoscimenti per il suo impegno a favore dell’ambiente e della pace. Qualche giorno fa è stato inserito nel consiglio direttivo di "Freedom Now". Nel 2009 il Time l’ha dichiarato "Eroe dell’ambiente", nel 2010 Newsweek l’ha inserito nella lista dei migliori dieci leader del mondo e l’Onu l’ha premiato come "Hero of the environment". Ambiente che pare invece non interessare assolutamente agli attuali governatori che continuano a cementificare e a fregarsene di barriere coralline distrutte e flora e fauna marina compromesse. Nonostante abbiano introdotto loro stessi una tassa ecologica che frutta alle casse statali 48 milioni di dollari. Da Presidente, Nasheed si è concentrato su quattro cose: "I trasporti fra le isole che non c’erano e quindi confinavano a vita gli abitanti. La scuola, il sistema sanitario che era inesistente e le pensioni". Poi le tasse, su turismo (con la pesca prima fonte di reddito del paese), e importazioni. Tra i suoi progetti più significativi la costruzione di social house per la sua gente, che guadagnando salari molto bassi riusciva ad avere una casa solo a fine vita. Dagli investitori stranieri, prevalentemente occidentali che chiedevano la concessione di isole, anziché farsi pagare l’affitto ha preteso l’impegno a edificare case e infrastrutture per il popolo. È il caso di Christophe Groh, svizzero, già proprietario di due alberghi, di cui uno, il Barefoot Hotel è tra i pochi eco-resort dell’arcipelago. Groh ha ottenuto le isole Dhapparoo e Dhiffushimadhoo. Cinquant’anni di concessione e l’impegno a costruire reti fognarie in tre villaggi e 1250 case popolari. Investimento che finora è costato 32 milioni di dollari. Spiega l’imprenditore: "Credevo nel progetto e ho anticipato tutti i soldi, tantissimo lavoro ed energie. Ora alle Maldive non posso entrare perché c’è il pericolo che mi trattengano. I cantieri sono stati saccheggiati, e le case pronte non sono state pagate né tantomeno date in uso alla gente". L’unica è andare in un arbitrato internazionale a Singapore. Lungo e costosissimo. Come hanno fatto gli indiani di Gmr, società che si occupa di costruzione e gestione di aeroporti. Via Nasheed i nuovi hanno tolto tutte le licenze. Mossa che è costata cara al governo attuale, che ha dovuto risarcire il danno con 271 milioni di dollari. Come Groh sono decine gli investitori che oltre al profitto hanno pensato di dare anche un contributo al paese. E se tutti si rivolgessero al giudice il debito sovrano diventerebbe mostruoso. Nashhed sogna di tornare e rivincere le elezioni nel 2018: "Se rientro ora mi arrestano. Ma tornerò per le elezioni prossime. L’autocrazia non porta da nessuna parte, ma bisogna che il mondo sappia e intervenga".