Mica bisogna essere "amici dei mafiosi" per accorgersi degli eccessi del 41 bis di Maurizio Tortorella Tempi, 11 dicembre 2016 Secondo la Cassazione ai detenuti per mafia è legittimo limitare il diritto a essere genitori. Giusto. Ma lo è anche dal punto di vista dei figli? Un caso a Trieste. Questa rubrica si è già occupata del 41 bis: il cosiddetto regime carcerario "duro", riservato ai mafiosi e ai detenuti ritenuti particolarmente pericolosi. Lo abbiamo scritto in luglio, poco prima che Bernardo Provenzano morisse in cella anche se da tempo totalmente incapace d’intendere e di volere: se sono più che giustificate le regole che cercano d’impedire contatti esterni a chi dal carcere potrebbe condizionare o guidare gli affiliati di un’organizzazione criminale, pare assai meno corretto imporre altre norme, del tutto vessatorie, che con quella logica non hanno nulla a che spartire. Per esempio il divieto di cucinare. O l’obbligo di andare in bagno sempre e soltanto sotto l’occhio vigile di un agente di polizia penitenziaria. O anche l’isolamento nelle cosiddette "aree riservate", dove i "41 bis" non possono nemmeno rivolgere la parola agli agenti. Hanno senso? Perfino la presidente della commissione Antimafia, Rosi Bindi, che non ha mai avuto particolari propensioni garantiste, si è posta il problema, sia pure a livello squisitamente teoretico: "Sul 41 bis - ha detto - siamo disponibili a fare tutte le valutazioni per capire se ci sono regole non rispettose della dignità della persona". Questa rubrichetta si è permessa anche di criticare, ma una volta o due soltanto, la Corte di cassazione per alcune sentenze almeno apparentemente illogiche. Ecco, in questo caso i due temi si fondono insieme. Perché una recentissima sentenza della prima sezione penale della suprema corte (la numero 47939 dell’11 ottobre 2016) ha rigettato il ricorso di un boss della camorra, in carcere a Trieste per una sfilza di reati lunga così. Che cosa succede? Che il boss è separato dalla prima moglie e ha avuto una seconda compagna (mai sposata) in Spagna, dove a lungo è stato latitante ed è stato catturato nel 2012. Da entrambe le relazioni il boss ha avuto figli, e dalla seconda in particolare è nato un figlio che è ancora minorenne. Per questo il recluso ha chiesto di poter dialogare telefonicamente una volta al mese con il ragazzino. Ma il Tribunale di sorveglianza di Trieste ha respinto la richiesta e stabilito che, in base al 41 bis, il recluso abbia diritto a un solo colloquio telefonico mensile con un familiare. Questione chiusa. O forse no - Così il boss ha sollevato una questione di legittimità costituzionale, lamentando che fossero stati violati gli articoli 3, 29 e 30 (uguaglianza, rapporti familiari e doveri paterni all’educazione), perché la legge fondamentale non prevede "un numero di colloqui maggiore per i detenuti che abbiano figli nati fuori dal matrimonio". Il Tribunale ha respinto l’eccezione, sostenendo che la vera ragione per cui gli veniva rifiutato il colloquio fosse da cercare nelle "difficoltà logistiche derivanti dal suo essere dimorante in Spagna". Il boss ha quindi fatto ricorso in Cassazione. Che ha respinto la richiesta. Confermando che il 41 bis, laddove limita a una sola telefonata mensile i rapporti familiari del recluso, non viola alcun suo diritto costituzionale: "La norma - scrivono i giudici - ha ripetutamente superato il vaglio di legittimità in considerazione delle esigenze di ordine e di sicurezza che giustificano le limitazioni previste". E pertanto è legittimamente limitato anche l’esercizio del diritto a essere genitori. Fine della questione. Tutto bene, tutto giusto. E nessuno prova particolare simpatia per un boss della camorra, ci mancherebbe. Ma i supremi giudici, così come la Corte costituzionale nelle valutazioni pregresse cui fa riferimento la Cassazione, hanno visto la questione dal punto di vista di un bambino? Hanno provato a immedesimarsi nella sua lontananza da un padre? Chissà… Carcere e servizio sociale di Sara Della Cioppa (Assistente Sociale) Ristretti Orizzonti, 11 dicembre 2016 Pierre Bourdieu ed i concetti di "capitale" ed "habitus" come guida nei percorsi di rieducazione ed integrazione sociale dei detenuti. La verità non è un’evidenza, tutt’altro. È spesso qualcosa che tutta la società, o almeno quel fondamentale momento del potere che è la comunicazione, si accorda per censurare. Ci sono verità che sollevano problemi senza soluzione, che presuppongono un cambiamento radicale della società fino dalle sue fondamenta. Il carcere è una di queste verità. Esso infatti riguarda non soltanto coloro che lo vivono, ma tutti quanti. Il carcere è un luogo di dolore, solitudine e abbrutimento. Non ha nulla a che fare con l’espiazione della colpa né tantomeno con la redenzione del prigioniero. Come tutte le verità, anche questa non necessita di essere dimostrata. Tutto tende a dimostrare il contrario, ovvero che si tratta di un luogo perfettibile ma strutturato da una tensione di giustizia. Ma si tratta di un’idea soltanto ripetuta, non certo realizzata. Chiunque si prenda la briga o abbia la disgrazia di conoscere il carcere non ha bisogno di dimostrazioni o prove, sa della falsità di ciò che viene detto e della verità di ciò che non viene detto. Come reagire al carcere è il problema concreto di chi deve confrontarsi con esso, dall’interno o dall’esterno - come l’assistente sociale. La maggioranza dei toccati finisce per soccombere: subisce l’abbrutimento, si adatta, vittima e complice al tempo stesso. Le stesse Istituzioni Pubbliche e molte Organizzazioni di Volontariato, che pure profondono energie e risorse per programmi di rieducazione, formazione professionale ed inserimento sociale dei detenuti, si accontentano spesso dei risultati che vengono mostrati sulla carta - nei bilanci o nei giornali - senza curarsi poi del destino degli uomini e delle donne imprigionati, che anche uscendo dal carcere spesso restano condannati ad un futuro di recidive, di carcere, droga, emarginazione… L’attuale situazione delle carceri italiane, su cui non mancano le denunce e le statistiche, non induce all’ottimismo. La popolazione carceraria conta più di cinquantamila detenuti, di cui oltre un terzo tossicodipendenti, e un altro terzo di cittadini extracomunitari, con un indice di recidività oltre il 75%, che di fatto rende inefficaci le norme e le procedure trattamentali che dovrebbero accompagnare e sostenere i detenuti nel loro percorso di reinserimento sociale, affinché il carcere e la pena non siano più e solo strumento di punizione e di esclusione dalla società ma possano portare a quella presa di coscienza da cui dipende ogni speranza di reinserimento e liberazione. Una guida allora per un operare efficace del Servizio Sociale - sia istituzionale che del privato sociale - può essere trovata nell’opera e nelle concezioni di Pierre Bourdieu, (Denguin, 1º agosto 1930 - Parigi, 24 gennaio 2002), allievo di Lèvy-Strauss all’École Normale Supérieure di Parigi, sociologo, ma anche antropologo e filosofo, il cui lavoro investì un’ampia gamma di argomenti, quali l’etnografia, l’arte, la letteratura, la pedagogia, il linguaggio, il costume… Il testo più importante di Bourdieu è La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, 1983, cui faremo riferimento, e definito dall’Associazione Internazionale di Studi Sociologici come uno dei dieci lavori di sociologia più importanti del XX secolo. In particolare, ci possiamo rifare a Bourdieu ed ai suoi concetti di "capitale" ed "habitus" per riconoscere e superare i limiti di un operare limitandosi solo all’aiuto economico e all’integrazione lavorativa (comuni sono i corsi di formazione all’interno del carcere, e le stesse borse lavoro per i detenuti a fine pena o in misure alternative alla detenzione), di cui l’attuale situazione carceraria denuncia la drammatica inefficacia, specie riguardo al problema delle recidive. Per promuovere l’autonomia e la valorizzazione delle risorse personali e sociali dei cittadini in condizione di vulnerabilità e di disagio, come i detenuti, occorre allora, a parere della scrivente, mettere in relazione gli utenti con le risorse istituzionali e solidaristiche per cercare di dotarli di vari tipi di "capitale", riconoscendo con Bourdieu: a) capitale economico (denaro, lavoro, mezzi di produzione) b) capitale sociale (reti e relazioni sociali) c) capitale culturale (le capacità intellettuali, i titoli scolastici, lingue, way of life, gusto, ecc.) d) capitale simbolico (simboli di legittimazione). Questi tipi di capitale sono convertibili l’uno nell’altro, nel senso che chi ha la cultura (capitale culturale) o relazioni sociali (capitale sociale) può tradurla in denaro (capitale economico), e soprattutto la legittimazione e l’inserimento sociale (capitale simbolico) dipendono dalla somma delle tre prime forme di capitale, dando ragione delle differenti traiettorie di vita e delle differenti pratiche economiche e sociali che caratterizzano gli individui, servendo al contempo per posizionarli nello spazio sociale ed in una determinata struttura di potere. Concretamente allora, il Servizio Sociale, in carcere e per il carcere, dovrà sempre più impegnarsi nel dotare gli utenti di un adeguato capitale culturale (che non è costituito semplicemente dal titolo di studio, ma riguarda l’insieme dei beni simbolici trasmessi dalle varie agenzie educative, anzitutto la famiglia, ma anche la scuola, il contesto sociale, ecc.). Esso determina il livello culturale globale dell’individuo e, allo stesso tempo, le sue possibilità di successo e integrazione positiva nella società. Per questo il capitale culturale è anche capitale sociale, ossia un insieme di opportunità che la rete sociale rende disponibile all’utente in termini di relazioni e frequentazioni, dello stile di vita, delle maniere e dei gusti, per cui egli può, più agevolmente e largamente, acquisire e consolidare conoscenze, informazioni e rapporti sociali. Una vera e propria forma mentis insomma, un’impostazione indispensabile del pensiero che ha il valore di un’identità e un’appartenenza. E insieme a queste forme di capitale, il concetto di "habitus", definito da Bourdieu come sistema di disposizioni durature e trasmissibili, principi organizzatori e generatori di pratiche e rappresentazioni, insieme di schemi cognitivi, di percezione e valutazione, prodotti della storia e delle esperienze interiorizzate, quindi storicamente e socialmente situati e dotati di una certa costanza e regolarità nel tempo necessaria a garantire la vita sociale. Secondo Bourdieu l’habitus funziona come principio unificatore di quasi tutte le scelte e pratiche sociali realizzate da un attore. La totalità di tali pratiche costituisce uno stile di vita che costituisce uno schema di percezione e di valutazione attraverso cui distinguere e classificare i membri di un gruppo sociale e il cui senso deriva dalla posizione in un sistema di opposizioni e di correlazioni. L’habitus è un modo collaudato di farci strada nello spazio sociale in cui siamo inseriti, corrisponde alle nostre "disposizioni più durevoli". Per tutti gli individui esistono principi di disposizione inconscia interiorizzata riferibili ad un gruppo sociale. Tali principi si formano attraverso la socializzazione e la partecipazione a modi di vita particolari. Compito del servizio sociale allora è operare per modificare l’"habitus" del detenuto, le sue vecchie disposizioni, per consentirgli di muoversi per orientarsi al meglio nel mondo sociale, e insieme di "abitare" le istituzioni, sentendosene finalmente protagonista e non vittima… Operare allora, come Assistenti Sociali, e seguendo Bourdieu, per dotare i detenuti di queste forme di "capitale" e di un adeguato "habitus", proponendo così nuovi approcci di orientamento, sostegno e formazione delle persone detenute nel segno di un saper fare ed un saper essere, intesi come acquisizione guidata di strumenti tecnici, culturali e morali per il cambiamento verso nuovi scenari di vita all’insegna della legalità e del lavoro. E insieme, con Bourdieu, un’interrogazione sulle tematiche sociali della detenzione e la condizione umana del carcere, a parole nei pensieri di tutte le forze politiche e sociali, nella realtà troppo spesso consegnate ad un limbo senza nome, senza fondi, senza prospettive… E una riflessione su come questo sistema potrebbe essere aiutato e migliorato per il raggiungimento dei suoi scopi: non più momento distruttivo della persona e perpetuatore dell’errore, ma percorso di speranza, solidarietà, redenzione e risocializzazione. Alessandria: "Ci vuole rispetto", in carcere un reading contro ogni forma di violenza alessandrianews.it, 11 dicembre 2016 Nella Giornata Internazionale dei Diritti Umani, Zonta Club Alessandria è tornato in carcere per includere i detenuti nella mobilitazione che per 22 giorni ha parlato alla città e non solo. Otto letture, di cui due proposte dai detenuti, hanno toccato il tema dello stupro, della violenza domestica, della tratta, ma anche del valore dell’istruzione, dello sfruttamento nei luoghi di lavoro, degli stereotipi e delle discriminazioni di cui le donne sono vittime Nella Giornata Internazionale dei Diritti Umani, Zonta Club Alessandria è tornato in carcere per includere i detenuti nella mobilitazione che per 22 giorni ha parlato alla città e non solo (Zonta Club Alessandria è stato anche protagonista alle Nazioni Unite di Ginevra contro l’infibulazione) di violenza sulle donne e di come combatterla partendo dal rispetto verso l’altro. Questo è ormai un appuntamento annuale, grazie alla sensibilità del Direttore della Casa di Reclusione, Domenico Arena e alla collaborazione di Piero Valentini, capo area educativa, che il 25 novembre hanno fatto osservare a tutti un minuto di silenzio in ricordo delle donne vittime di violenza. Con il reading "Ci vuole rispetto" Zonta ha coinvolto la Consulta Pari Opportunità della Città di Alessandria e il Conservatorio Musicale "A. Vivaldi", per offrire un’occasione di incontro efficace. Otto letture, di cui due proposte dai detenuti, hanno toccato il tema dello stupro, della violenza domestica, della tratta, ma anche del valore dell’istruzione, dello sfruttamento nei luoghi di lavoro, degli stereotipi e delle discriminazioni di cui le donne sono vittime, di uomini che insultano, maltrattano, uccidono senza chiedersi neppure perché, di un finale tragico sempre in agguato quando non c’è rispetto per l’altro. Letture che avevano al centro "la scelta", il rispetto delle scelte altrui, oppure la scelta di negare, giustificare, minimizzare i problemi. Scegliere è un diritto, ma fare la scelta sbagliata può condizionare le scelte degli altri. Non solo le letture hanno fatto riflettere su parole quali insieme, crescere, rispetto, parità, coraggio; anche le canzoni proposte da Cecilia De Lazzaro, accompagnata al piano da Tommaso Di Muzio, hanno avuto il loro ruolo: La Donna Cannone, Only Women Bleed, Gli uomini non cambiano, Endangered Species hanno toccato i cuori e le menti dei settanti detenuti presenti all’incontro con Zonta. La collaborazione tra Zonta Club Alessandria e Casa di Reclusione di San Michele prosegue dal 2012 e questa mattina sono state poste le basi per nuove iniziative perché il recupero della popolazione carceraria passa anche attraverso momenti di confronto come questi. Alcune delle partecipanti hanno anche portato indumenti e altri prodotti di prima necessità per rispondere alle esigenze di chi non ha nessuno, fuori dal carcere, ad occuparsi di loro. Cuneo: il Sottosegretario Ferri "padiglione di Saluzzo emblema nuove opportunità" Agenparl, 11 dicembre 2016 "Questo nuovo padiglione, che ho l’onore di inaugurare oggi, è l’emblema non solo di un nuovo spazio fisico a disposizione dei detenuti, ma anche di nuove opportunità, rieducative in primis, della possibilità, in altre parole, di attivare nuovi percorsi di vita all’interno di uno spazio, il carcere, che deve aprirsi all’esterno e non chiudersi in se stesso. Ci saranno aree per i colloqui tra detenuti e familiari, spazi che garantiscono e rafforzano il rispetto della dignità umana, che non può venir meno con la privazione della libertà. Parliamo di spazi nuovi e moderni, efficaci ed essenziali per rieducare, per garantire sicurezza e certezza della pena ma anche per creare quel ponte necessario e fondamentale tra il carcere e la società civile. Ringrazio di cuore il personale, il direttore e il comandante della polizia penitenziaria. E ringrazio anche tutti coloro che ogni giorno contribuiscono a migliorare la qualità della vita dei detenuti, dagli educatori al Garante, al mondo del volontariato". Lo ha dichiarato il sottosegretario al ministero della Giustizia con delega all’edilizia carceraria, Cosimo Maria Ferri, inaugurando il nuovo padiglione dell’istituto penitenziario "Rodolfo Morandi" a Saluzzo. Udine: la raccolta differenziata arriva anche in carcere, coinvolti 140 detenuti udinetoday.it, 11 dicembre 2016 Firmata una convenzione con la Net. La direttrice dell’istituto di via Spalato: "Una lezione di civiltà, perché la legalità inizia dal rispetto delle piccole regole". 140 detenuti del carcere di Udine formati alla raccolta differenziata. La legalità inizia dal rispetto delle regole di base, anche quelle piccole come gettare le cartacce nel cestino giusto. Lo sa bene la direttrice del carcere di Udine, Irene Iannucci, che ha firmato una convenzione con la Net per la raccolta differenziata, puntando a "una scelta di civiltà" che coinvolgerà circa 140 detenuti. La società di gestione integrata dei rifiuti, guidata da Massimo Fuccaro, con i suoi esperti darà alcune lezioni in aula di formazione ambientale, fornendo materiale informativo a partire dal personale. I detenuti nell’istituto di media sicurezza di via Spalato sono per la metà condannati definitivamente, il 50% del totale è straniero; quanto mai preziosa, quindi, secondo la direttrice, la collaborazione della Net e il suo intervento in ambito scolastico "ai fini di un’educazione anche ambientale a persone di nazionalità e culture diverse dalla nostra". Nei giorni scorsi la Net ha effettuato un sopralluogo per conoscere le caratteristiche strutturali delle aree di produzione dei rifiuti della casa circondariale; a breve consegnerà in comodato gratuito contenitori di varie capacità e dimensioni per migliorare ed ottimizzare la raccolta differenziata del carcere, che da oggi diverrà più "spinta". I contenitori saranno posizionati vicino alla porta carraia pedonale nella cucina dei detenuti (plastica, legno sfuso, organico, stagnola) e nelle loro camere ed aule, nella mensa, nel bar e nelle aree comuni. Nelle giornate dedicate la NET provvederà a ritirare e a svuotare i bidoni ubicati nelle arre di prelievo in via Spalato, compreso pile, bombolette gas, imballaggi, e ovviamente l’indifferenziata. Milano: Consorzio Viademille, regali originali e solidali dal primo polo di economia carceraria di Andrea D’Agostino Avvenire, 11 dicembre 2016 Il Consorzio Viademille prodotti ad alta tecnologia e artigianali prodotti dai detenuti delle quattro carceri milanesi. L’inaugurazione del primo polo italiano dell’economia carceraria a Milano in via dei Mille, dove è possibile trovare regali originali fatti da cooperative sociali che operano nei carceri milanesi. L’inaugurazione del primo polo italiano dell’economia carceraria a Milano in via dei Mille, dove è possibile trovare regali originali fatti da cooperative sociali che operano nei carceri milanesi. È trascorso poco più di un anno da quando a Milano veniva inaugurato il primo polo di economia carceraria. Oggi il Consorzio Viadeimille (in via dei Mille 1) è in piena attività: vi si possono acquistare tessuti, capi di abbigliamento e accessori, tutti prodotti originali realizzati dai carcerati - una sessantina quelli coinvolti nel progetto, nato da un’idea del Comune di Milano e del Provveditorato alle Carceri - per chi vuole scegliere un regalo natalizio diverso dal solito. Nello spazio dietro piazzale Dateo, ampio 200 metri quadrati, lavorano cinque cooperative sociali da tempo impegnate nelle carceri milanesi di Bollate, Opera, San Vittore e Beccaria: "Alice" (sartoria), "Estia" (falegnameria e produzione teatrale), "Opera in Fiore" (vivaismo e tessile), "Bee4" (che realizza servizi manifatturieri per conto terzi) e "Zerografica (che è la tipografia nel carcere di Bollate). Tra gli obiettivi, mettere in commercio e far conoscere alla cittadinanza quanto di meglio viene realizzato e prodotto dai detenuti, ma anche per agevolare i contatti tra imprese carcerarie e imprese esterne, nell’ottica di considerare le carceri come dei veri e propri "siti produttivi" e incubatori d’impresa. Come ha spiegato ieri l’assessore del Comune allo Sviluppo economico Cristina Tajani (che l’anno scorso aveva partecipato al taglio del nastro dei locali) "la collaborazione con quegli imprenditori che scelgono di produrre all’interno delle carceri consente di ampliare i percorsi di riqualificazione professionale per i detenuti, aumentandone le competenze tecniche e favorendo il loro rientro nel mercato del lavoro come valido strumento di riscatto sociale". Catania: partita di calcetto a Piazza Lanza, i figli dei detenuti a fare il tifo di Dario Azzaro cataniatoday.it, 11 dicembre 2016 All’interno del carcere si è svolto un match al quale hanno potuto assistere, per la prima volta, le famiglie e i figli dei reclusi. "Domani mio papà gioca a pallone", sono state queste le parole di un bimbo alla notizia che avrebbe visto suo padre giocare a calcetto all’interno della struttura penitenziaria dove è rinchiuso, a Piazza Lanza. Tutto parte dal progetto di "Bambinisenzasbarre" Onlus, facente parte della rete europea Children of Prisoners Europe di Parigi che in Italia è presente da dieci anni e che opera in stretta collaborazione con Università e Ministero della Giustizia. Questa mattina all’interno del carcere di piazza Lanza si è svolto un incontro di calcetto tra due formazioni di detenuti al quale hanno potuto assistere, per la prima volta, le famiglie e i figli dei reclusi. Una giornata all’insegna della tutela del diritto del bambino allo scopo di rendere possibile la continuità del legame affettivo. Applaudono i bimbi, gridano, incitano i loro papà. "Bellissimo, quando mi hanno telefonato, non credevo alle mie orecchie" - dice Jessica compagna di uno dei detenuti impegnato nella partita mentre tiene forte tra le braccia la loro piccola di appena tre anni. "Cose di questo genere ci vorrebbero più spesso, lui è felicissimo" - aggiunge Loredana che rincorre suo figlio per tutto il campo, lui ha quattro anni. "I detenuti, in questa struttura sono circa 400 - afferma la direttrice della struttura penitenziaria catanese, Elisabetta Zito - piazza Lanza ne potrebbe ospitare 302, ma la capienza delle nostre celle permette un’oscillazione variante dai 350 ai 400 detenuti quindi nessuna violazione dei parametri europei. Questa casa circondariale risulta ristrutturata anche negli spazi dedicati alle attività non detentive. Noi possiamo vantare una struttura che negli ultimi anni ha visto l’eliminazione dei banchi durante i colloqui, che ha inserito la prenotazione via telematica del giorno e ora della visita in carcere al proprio caro, eliminando quelle fastidiose code e capannelli in piazza Lanza, dodici classi per la scuola - continua la direttrice Zito - abbiamo anche già rimodernato un piano di questa struttura che permetterà un allargamento per le detenute mamme con un nido". "Questo progetto permette ai bimbi che hanno i genitori in carcere di vivere il loro rapporto genitoriale, trovare dei momenti e degli spazi - parla Maria Chiara Salemi, operatrice della rete Bambinisenzasbarre - facilitati dagli educatori di un progetto che ha visto varie tappe in diverse strutture penitenziarie d’Italia". Presente al match anche una delegazione dei Lions Catania porto Ulisse con la rappresentante dell’International Services Cristina Grasso che si occupa di violenza sulle donne e abusi sui minori attraverso un osservatorio a difesa dei più deboli. Benevento: "Un goal per la vita", al carcere XIV edizione torneo organizzato dalle Acli ottopagine.net, 11 dicembre 2016 Lo sport che rende liberi, insegna il valore delle regole ed esalta lo spirito di condivisione. In una gelida giornata di sole il calcio regala le ali per volare ai detenuti della casa circondariale di Benevento. Quattordicesima edizione per "Un goal per la vita", il tradizionale torneo di calcetto presso la struttura di Capodimonte ha visto in campo tre formazioni, due composte da reclusi ed una terza da componenti del comitato organizzatore, formato da Acli provinciali di Benevento ed Unione Sportiva di Benevento, con il patrocinio dell’Us Acli nazionale. "Un appuntamento longevo - evidenzia il direttore del penitenziario Maria Luisa Palma - che ha anticipato i tempi considerando che solo da poco tempo è stata sottoscritta una convenzione del Ministero della Giustizia con le Acli e il Coni. Un momento dalla valenza sociale profonda in cui le persone libere dedicano una mattina ai detenuti. Quest’anno sono stati coinvolti i detenuti del circuito di alta sicurezza in questa giornata in cui lo sport significa coinvolgimento a tutti i livelli e senza nessuna differenziazione". "Aggregazione ma anche il mantenimento dell’equilibrio psicofisico" su questo punta Danilo Parente, presidente provinciale Acli che cita papa Francesco e ricorda "se è impossibile cambiare il passato, il passato non deve condizionare il futuro". "A questa partita cercheremo di aggiungere altri appuntamenti" ha evidenziato, invece, Michele Fusco, presidente provinciale Unione Sportiva Acli. "Le prossime attività saranno con l’associazione Rugby e proveremo a replicare il corso di arbitri che co la sua notevole finalità educativa: attraverso un’attività formativa, infatti, incentiva al rispetto delle regole della società civile". "È un modo per integrare il Sannio con una zona di frontiera che è il carcere. Simo stati dei pionieri con l’Us Acli ma questa è una manifestazione che non invecchia. Oggi, nel giorno della dichiarazione dei diritti dell’uomo siamo qui a portare solidarietà a chi ha sbagliato ma va ricondotto ad una nuova comunità". Si è aggiudicata la coppa della 14esima edizione dell’evento la squadra dei detenuti La Mondiale che ha trionfato su quella delle Acli con sette a zero. Per la prima partita, invece, in campo l’altra squadra di detenuti: I Fuggitivi. Ad arbitrare il match Vincenzo Caldora, ex presidente Aia, che si impegna nell’appuntamento sin dalla prima edizione. In campo, tra gli altri, Don Saverio Goglia, parroco di Massa di Faicchio; il volontario del servizio civile e musicista del gruppo RhNegativo, Umberto Pepe e altri membri dell’Us Acli: Giuseppe Barbato, Mauro Vecchiolla e Carmine Corda. Ad organizzare le squadre Alessandro Pepe, candidato presidenza Us Acli. A bordo campo il coordinatore Provinciale Acli Achille Antonaci e il vicepresidente vicario Angelo Pica. Al momento delle premiazioni presente Alessandra Iandiorio, vicecomandante polizia penitenziaria casa circondariale e Pina Pedà (Us Acli e consigliere comunale). Venafro (Is): convegno sul reinserimento dei detenuti e il giudice Girolamo Tartaglione di Antonella Iammarino colibrimagazine.it, 11 dicembre 2016 Lunedì 12 al Castello Pandone di Venafro il ricordo del giudice Girolamo Tartaglione ucciso dalle BR per aver promosso il reinserimento dei detenuti nella società. Si terrà nella splendida cornice del Castello Pandone di Venafro il convegno organizzato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Isernia per lunedì 12 dicembre. Al centro di una riflessione arricchita da esperti ed istituzioni di alto livello ci sarà il reinserimento dei detenuti nel tessuto sociale, in memoria del Giudice Girolamo Tartaglione che fu ucciso alle 14 del 10 ottobre 1978 sulle scale di casa mentre rientrava dal Ministero. Tre uomini gli spararono a morte, l’omicidio portava la firma delle Brigate Rosse. Vero uomo del dialogo, figura di alto spessore umano e culturale, terziario francescano, il giudice Tartaglione si adoperò moltissimo per il reinserimento nella società delle persone provenienti dalla realtà del carcere e portò avanti con coraggio il messaggio d’amore di Cristo, fino a dare la vita. Lo ricorda Alessandro Capone, commercialista di Isernia che ha organizzato con l’Ordine l’evento. "Mio zio - ci spiega - aveva improntato la sua vita e la sua professione a ridurre la distanza fra il mondo del carcere e quello delle persone integrate nella società. Con un volantino fatto pervenire alla sede romana del Corriere della Sera le BR affermarono i motivi del crimine. Sul volantino si leggeva: Relatore di prim’ordine a tutti i convegni e seminari nazionali ed internazionali, ha ricoperto incarichi sia all’ONU che in seno al Consiglio d’Europa; ha fatto parte della Commissione ministeriale che studia la riforma dei Codici, era segretario della sezione criminologica del Centro di prevenzione e difesa sociale; ha prodotto decine di pubblicazioni". Proprio i valori della convivenza civile, dunque, il motivo dell’odio nei suoi confronti. Tartaglione è oggi l’esempio dal quale partire per provare a costruire una società integrata nella legalità e nei principi della cristianità. "Prendendo spunto dalla sua testimonianza di vita - aggiunge Capone - l’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Isernia ha voluto organizzare questo convegno che ha l’obiettivo di divulgare alcune misure che permettono da un lato alle imprese di utilizzare queste persone in attività lavorative usufruendo di alcune agevolazioni, e nel contempo, di aprire il carcere all’esterno dando una speranza, uno scopo a chi oggi non ne ha". Col patrocinio del Ministro di Grazia e Giustizia il convegno mira all’utilizzo delle norme esistenti per il reintegro lavorativo dei detenuti, portando la testimonianza di imprenditori che già lo fanno e di figure istituzionali che in tal senso già si sono mosse. Ariano Irpino (Av): Buon Natale dietro le sbarre, gli auguri dai detenuti di Pino Ciociola Avvenire, 11 dicembre 2016 Giacomo: "Ma un augurio col sorriso. A tutti, ricchi, poveri e chi più ne ha, più ne metta". Non sarà un gran Natale per quasi tutti loro. Ma agli altri tutti augurano che lo sia, qualcuno pensando innanzi tutto alla gente colpita dai terremoti nel Centro Italia. I detenuti del carcere di Ariano Irpino (Avellino), quelli seguiti dalla Caritas diocesana, si emozionano parlando del Natale. Hanno sbagliato, stanno pagando. "Adesso ho un figlio, non lo vedo da due anni - dice Gennaro - devo cambiare, anzi voglio cambiare". Giacomo si è già fatto otto anni: "Per me e quelli come me è bello, ma porta anche tanta malinconia, tanta solitudine, perché non puoi stare con le persone che ami". Dietro le sbarre - spiega Giovanni - "è sempre lo stesso giorno, è tutto scuro": lui quest’anno, dopo sette trascorsi in cella, avrà una licenza e il Natale lo trascorrerà a casa e allora stavolta "è un’emozione bella". Hanno frequentato in carcere quasi tutti il liceo artistico e adesso lavorano nel laboratorio della cooperativa "Ceramica arianese libera". Proprio qui dentro tutt’intorno ci sono presepi e statuine in terracotta, Lello invece sta rifinendo un volto di Cristo. E Giuseppe il suo augurio di "buon Natale" vuole darlo "prima ai terremotati e poi anche alla gente del mondo, voglio dire loro che Dio ci proteggerà sempre". Lello dice che "per me Natale rappresenta tutto, stare insieme alla famiglia…" e qui gli si spezza la voce, non riesce ad andare avanti. Secondo Giuseppe "il vero Natale è quando sei bambino", perché fra i grandi "ci sono troppe persone che soffrono". Così "magari per noi il Natale è bello, però per tanti altri è brutto". Forse per questo Giacomo fa "un augurio di cuore per un buon Natale a tutte le persone. Ma un augurio col sorriso, un buon Natale col sorriso. A tutti, davvero tutti quanti, ricchi, poveri e chi più ne ha, più ne metta". Carcere di Procida, un libro racconta memoria e sofferenze di Pasquale Raicaldo La Repubblica, 11 dicembre 2016 Il carcere di Procida Memoria e sofferenza, prigionia e bellezza. Riaperto al pubblico dallo scorso 4 novembre, Palazzo D’Avalos - che domina Terra Murata raccontando la sua fascinosa storia ultrasecolare - torna protagonista domenica 11 dicembre (alle 17.30 nella chiesa di Santa Margherita Nuova), con la presentazione di "Carcere di Procida", appena pubblicato da Edizioni Fioranna. La penna è quella di Giacomo Retaggio, che dell’istituto di pena è stato il medico per 25 anni e che oggi snocciola aneddoti e suggestioni, dal suono della sirena del carcere, "lugubre, lungo e penetrante, in grado di spargersi per tutta l’isola", allo sbarco dei detenuti, che scendevano "a due o tre per volta, legati fra di loro da una catena, le grosse catene ai polsi". Le mille storie del carcere, chiuso dal 1988, rivivono in una narrazione viva e densa, tra le cui pieghe prendono corpo e consistenza personaggi quasi letterari come ‘O califfo, "un detenuto grande e grosso, coperto di tatuaggi, che menava alla cieca: era una sorta di capo-rais, lo chiamavano così perché pare che dalle sue parti avesse una specie di harem". E - racconta Retaggio - urlava contro le guardie: "Curnute! A me me c’hanno purtato ccà dint, vuje ce site venute! Site carne vennuta!". Ad accompagnare il racconto gli scatti di Luigi Lauro, fotografo trentino, già autore di una personale sul carcere di Procida nel 2013. "Da piccolo - racconta - quando la nave che mi portava a Ischia attraccava a Procida e vedevo scendere i detenuti in catena, restavo sconvolto, impossessato da un desiderio enorme di visitare quel luogo di sofferenza". Lo ha fatto, poi, catturando l’anima di un luogo che rivela ancora angoli miracolosamente intatti, tra macchine da cucire e balle di cotone, scarpe da lavoro e divise impolverate, telai metallici e le cancellate che affacciano sul Golfo di Napoli, la bellezza a un passo eppure non poterla toccare. Alla presentazione del volume, moderata da Guglielmo Taliercio, interverranno con gli autori il sindaco di Procida Dino Ambrosino, gli assessori Antonio Carannante e Nico Granito, la responsabile editoriale di Fioranna Marina Lebro e il direttore artistico dell’Ischia Film Festival, Michelangelo Messina, che per l’occasione presenterà "L’odore del mare", un documentario che fa parte della trilogia "Carceri sul mare" (sugli istituti di pena di Tallin e di San Quintino, negli Stati Uniti, gli altri lavori in programma), realizzato quando la struttura di Terra Murata era ancora in fase di abbandono. Isole e prigionia: una lunga storia senza tempo, di cui Procida è sempre più attenta custode. Robinù e i suoi fratelli. Quanti film sui ragazzi di Napoli di Alessandro Chetta Corriere del Mezzogiorno, 11 dicembre 2016 Scugnizzi o baby boss imperversano sul grande schermo (e in tv). Racconti ben fatti ma ripetitivi. Ricorrono interviste e scelte stilistiche spesso similari. Con diverse eccezioni. I film sui ragazzi di Napoli non passano mai di moda, sovente interessanti ma pure ripetitivi. Guardate il trailer di Largo Baracche di Gaetano Di Vaio (è su YouTube) e poi alcune sequenze di Robinù, il film di Michele Santoro in questi giorni nelle sale. Panoramica stretta, in entrambi i casi, sui tetti dei Quartieri Spagnoli e sulle cupole dei Decumani; nessuna inquadratura del mare, corsa sul motorino in soggettiva giù per via De Deo, via Nicotera, via San Mattia. Grammatica simile, poi i racconti prendono strade diverse. Nell’obiettivo però c’è sempre la meglio gioventù più indagata dal nostro cinema del reale (per tacere della tv, le inchieste anni 70 di Joe Marrazzo sui muschilli e sui procacciatori di lucciole per i ‘mericani ai servizi della trasmissione Le Iene). Quei guaglioni che oggi ci piace etichettare "paranza dei bambini", baby boss, baby gang, gomorrini. È da quarant’anni esatti, dal tragico Gennarino di Sinite parvulos - episodio del film Signore e signori buonanotte - che registi e giornalisti prestati alla pellicola si concentrano sul rompicapo, croce di sociologi e politici in buona fede: perché si comportano così? Dov’è l’errore? Per quale motivo fallisce ogni rimedio? Da Gennarino ai bambini del fuocarazzo - Santoro, insieme alle co-sceneggiatrici Maddalena Oliva e Micaela Farrocco, cavalca la tigre, il tigrotto và, dei teenager criminali stregati da Emanuele Sibillo, leader del Rione San Biagio ucciso a 19 anni (trasfigurato, è il Nicolas protagonista del nuovo romanzo di Saviano). Li intervista in carcere, in primissimo piano. Senza giudicare, è chiaro, ma ben sapendo che lo faranno gli spettatori. Abel Ferrara in Napoli Napoli Napoli (2009) affrontò le giovani detenute del carcere di Pozzuoli. Anche qui i volti freschi stanno a tu per tu con lo schermo. Pure in Largo Baracche (2014) i quindicenni dei Quartieri si esprimono a ruota libera e i temi gira e rigira si rassomigliano nella carica anarchica, antagonista. Nel gruppo s’agita Carmine Monaco, che poi sarà ‘O Track nella serie tv Gomorra. Tutti questi racconti "documentali" sono ben fatti ma mettono sul piatto ripetutamente il medesimo fado. Quello dei ragazzi di grande umanità rimasti fuori dalla Storia, dei genitori intrappolati nel senso di colpa e degli episodi di vita scellerata che sembrano gemelli diversi, peculiari ma accomunati. Il tracciato di Robinù e dei suoi fratelli maggiori è una costante K, sempre orizzontale. Passi avanti - perché è bene sapere, interrogare - ma pure cinematograficamente fermi. Ci sono eccezioni. Fortemente contemporanea, quasi istantanea, è la "webcam" che due anni fa i videomaker Cyop&Kaf hanno puntato sui protagonisti de Il segreto. Non c’è camorra eppure i nuovi scugnizzi, leggeri, operano spesso oltre la legalità. Lo scopo è appiccare un fuocarazzo, volatile palladio di quartiere. La forma è pura come un video sui social network, intermediazione zero. Chi guarda non ha bussola però è davvero lì in mezzo a loro, vive la reiterazione del reale e può finanche concedersi il lusso di annoiarsi. Un altro punto di vista diverso ce lo hanno regalato Agostino Ferrante e Giovanni Piperno ne Le cose belle. Le storie di quattro ragazzi di Ponticelli riprese nel ‘99 e poi nel 2014. Quindici anni di distanza ossia l’alba delle speranze e un tramonto che dà i brividi perché siamo di fronte a persone vere non ad attori. La (intensa) parentesi siciliana, poi Capuano e Loy - Il filone filmico partenopeo s’è gonfiato come una pizza fritta a partire dal 2006, anno di Gomorra libro. La Napoli under 18 e criminogena è tornata sul set scalzando Palermo, che tra 80 e 90 s’era presa la scena, alla grande, con Mery per Sempre e Ragazzi Fuori, dittico di Marco Risi. Nello stesso periodo discendendo per li rami arriviamo al Golfo, a Vito e gli altri di Antonio Capuano e a Scugnizzi di Nanni Loy su soggetto di Elvio Porta. Loy fa perno sul carcere di Nisida e sulla figura davvero "baby" di Cazzillo, al secolo Giacomo Colella. Si tratta di lavori fiction, non documentari, però importante fu soprattutto il contributo di Capuano a sfumare il naturalismo. Vito e company pestiferi oltre ogni sopportazione sono anime salve grazie al tocco lirico del cinema cosiddetto d’autore. Lo stesso incantamento de L’intervallo di Leonardo Di Costanzo, scritto con Maurizio Braucci: il clan ingabbia gli adolescenti Mimmo e Veronica costipandoli al ruolo di carceriere e prigioniera. Un destino da guardie e ladri rifiutato con schifo dal fratello di Michele, uno dei dannati di Robinù. Ha abbandonato il far west, fa il pizzaiolo a Parigi. Si chiede, con serietà solenne: "Finisci in galera, ti sparano, muor’acciso, quando invece si può lavorare, stare senza questi stress in una bella città. Io non capisco perché esiste ‘a malavita a Napoli". Migranti, l’Italia sorpassa la Grecia di Viadimiro Polchi La Repubblica, 11 dicembre 2016 Quasi tremila rifugiati in più nel 2016: è l’effetto dell’accordo tra Ue e Turchia che ha chiuso la rotta balcanica. Le organizzazioni umanitarie puntano il dito: più attenzioni ad Atene da parte di Bruxelles, Roma lasciata sola. L’Italia stacca la Grecia: il nostro Paese conquista il primato tra le mete dei flussi migratori nel Mediterraneo. Il sorpasso è nei numeri degli ultimi giorni: 174.962 i rifugiati arrivati quest’anno via mare sulle coste italiane, contro i 172.160 sbarcati in Grecia. E così il nostro Paese si conferma in prima linea a fronteggiare l’ondata migratoria, mentre l’accordo Ue-Turchia di marzo scorso ha quasi azzerato i flussi verso Atene e chiuso la rotta balcanica. Un passo indietro. Nel 2015, oltre un milione di migranti ha raggiunto l’Europa via mare: un record senza precedenti. Il flusso più imponente quello diretto verso la Grecia: oltre 850mila rifugiati che, attraverso la rotta balcanica, sono arrivati nel cuore del Vecchio Continente. Nel 2015, l’Italia ha invece registrato 153.842 arrivi. L’Europa sotto pressione ha deciso di porre un argine ai flussi balcanici: il 20 marzo scorso è entrato in vigore l’accordo con la Turchia, in base al quale Ankara si impegna a bloccare le partenze e a riprendersi gli irregolari partiti dalle proprie coste. Il risultato? Crollo dei migranti sbarcati nel 2016 in Europa: finora sono "solo" 352mi1a. Insomma ben al di sotto del record 2015. Ma la contrazione è tutta a vantaggio della Grecia, che dopo l’accordo con Ankara ha visto frenare i flussi. Un esempio: a novembre 2016 Atene ha registrato solo 1.991 sbarchi (rispetto ai 150mila del novembre 2015 ). L’Italia invece è tornata a farla da padrone: 174.962 i migranti arrivati finora (secondo i dati Unhcr, il Viminale aggiorna il numero a 175.295). Ben più di quanti sbarcati nel corso di tutto il 2015 (153mila ) e perfino dell’anno record 2014 ( 170.100). Numeri che si traducono anche in un diverso peso che grava sui due Paesi. "Oggi la Grecia accoglie circa 58mila rifugiati e lì abbiamo un piano alloggi da 20mila posti finanziato dalla Commissione europea - spiega Carlotta Sami, portavoce Unhcr per il Sud Europa - mentre l’Italia ospita oltre 176mila migranti". Eppure la politica europea pare non accorgersene: "Mentre la Grecia continua a godere di una giusta attenzione da parte dei partner europei, l’Italia è lasciata più sola - sostiene Christopher Hein, consigliere strategico del Cir (Consiglio italiano rifugiati) - perché mentre da noi crescono sbarchi e richieste d’asilo, il resto del Continente vede diminuire il numero dei migranti, anche grazie alla chiusura di alcune frontiere proprio con l’Italia, come quelle di Ventimiglia, Chiasso, Brennero". Non solo. Diverse restano anche le provenienze dei due flussi: siriani e afgani in prevalenza sulla rotta verso la Grecia, quasi solo africani invece verso l’Italia ( 21% dalla Nigeria, 12% dall’Eritrea, 7% da Guinea e Costa d’Avorio, 6% da Gambia e Senegal, 5% da Mali e Sudan). Anche per questo, il commissario Ue, Dimitris Avramopoulos, l’8 dicembre scorso ha spiegato che "se confrontiamo Italia e Grecia, vediamo che fino all’80% dei migranti che attraversano il mar Egeo sono profughi, mentre la maggioranza di quelli che arrivano in Italia dal Mediterraneo centrale, anche in questo caso 1’80%, sono irregolari". Non si arresta infine la conta delle tragedie del mare nel 2016: più di 4.700 sono le persone morte o disperse finora nel Mediterraneo. Migranti. I dannati nei ghetti pugliesi dello sfruttamento di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 11 dicembre 2016 Geografia politica dello sfruttamento. Una forza lavoro governata dal sistema produttivo e da quello criminale. Il "ghetto" nelle campagne pugliesi è un sistema concentrazionario di nuovo tipo dove una moltitudine di braccianti di ogni nazionalità arrivano e ripartono in ogni stagione della raccolta dei prodotti della terra. È un dispositivo di governo della forza lavoro gestita, in maniera opaca, ma sotto gli occhi di tutti, dal sistema produttivo e da quello criminale. Si specula sulla quota di affitto per un posto letto, sul trasporto per condurre i braccianti nelle campagne. Il ghetto è una fabbrica dove ciascuno ha il suo ruolo: chi lavora, chi paga, chi sfrutta, chi lucra. Sono stati ideati da mediatori e caporali, per nascondere manodopera "mobile", che si muove a seconda della richiesta dei cicli produttivi stagionali, in pochi luoghi lontani dalle comunità. In Puglia sarebbero 55, sostiene il terzo rapporto sull’agricoltura e il lavoro migrante della Flai Cgil (2015). Una regione che conta su oltre 180 mila braccianti, un quinto dell’intero paese. I braccianti stranieri sono 40mila, assunti registrati, ma innumerevoli altri sono quelli che lavorano in nero. Impossibile per un bracciante straniero che guadagna 15-20 euro al giorno poter prendere una casa in affitto. I ghetti suppliscono anche a una sistematica carenza di politiche alloggiative. I più noti sono quelli di Rignano Garganico, una zona franca dove vivono braccianti, prostitute e caporali. Fino a 800 nel "ghetto Ghana"; mille nel "ghetto dei bulgari" teatro dell’ultima tragedia. È la parte emersa del sistema della "mediazione da lavoro (la possiamo chiamare Mafia Caporale!) che si regge sulla domanda di servizi originata dagli stessi migranti che sfrutta. È una tangente per restare in vita, per non ammalarsi, per non morire" scrivono Leonardo Palmisano e Yvan Sagnet nel libro-inchiesta "Ghetto Italia" (Fandango). Turchia. Erdogan "blinda" la svolta autocratica di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 11 dicembre 2016 Prima Erdogan ha chiesto "oro alla patria" e di convertire i depositi in valuta in lire turche per sostenere una moneta che affonda, poi - ieri - ha messo a segno il suo colpo da maestro presentando in Parlamento la riforma costituzionale:?abolita la figura del primo ministro, il presidente, affiancato da due vice, avrà poteri sempre più ampi e pervasivi sulla politica ma anche sulla vita quotidiana dei suoi concittadini. La riforma dovrà passare con due terzi dei voti e poi essere sottoposta a referendum, forse già a marzo: dato il clima che si vive in Turchia, quello di un "uomo solo al comando", al momento appare improbabile che Erdogan faccia la fine del britannico Cameron con la Brexit o dell’italiano Renzi con la riforma del Senato. Inoltre in Parlamento il partito di maggioranza Akp conta su 320 deputati e l’alleato Mhp, i Lupi Grigi dell’estrema desta, su altri quaranta: un numero di consensi sufficiente a superare la soglia dei 330 voti necessari. Nonostante le difficoltà economiche e finanziarie di un Paese che ha visto la valuta perdere in un anno il 18% del valore e diminuire del 33% le presenze del turismo straniero, con una revisione al ribasso del Pil da +4 a 3,2%, Erdogan sta mettendo politicamente a profitto un anno che poteva essergli fatale. Nell’era seguita al fallito colpo di stato del 15 luglio scorso prima ha fatto fuori migliaia di funzionari pubblici, militari, poliziotti, magistrati e giornalisti, sospettati di essere seguaci dell’imam Fetullah Gulen, e adesso prova a portare a casa il risultato che gli preme di più: una repubblica presidenziale di cui lui dovrà essere il capo fino al 2023, anno del centenario dello stato fondato da Kemal Ataturk sulle ceneri dell’Impero Ottomano. La concreta possibilità che Erdogan, rieletto nel 2014, ottenga ancora più poteri di quelli di cui gode oggi, preoccupa parte dell’opinione pubblica turca e occidentale, così come i partiti di opposizione, i filo curdi dell’Hdp e i kemalisti del Chp, che denunciano gli eccessi autoritari di Erdogan, soprattutto dopo il fallito golpe. Il presidente, che controlla magistratura polizia ed esercito, ha fatto mettere in carcere una dozzina di deputati curdi tra cui il leader del partito Salhattin Demirtas. "Non si può fare una nuova costituzione nella cucina di un solo partito", ha detto il leader del Chp, Kemal Kilicdaroglu. "La riforma - ha aggiunto il capo del partito repubblicano - minaccia una tradizione parlamentare di 140 anni e anche l’eredità delle riforme realizzate dopo la caduta dell’Impero Ottomano". Il rischio è quello di una "sultanizzazione" della politica turca. Ma una parte altrettanto importante e consistente della classe politica e dell’opinione pubblica conservatrice e ipernazionalista del Paese, forse anche eccitata dalle avventure militari in Siria e in Iraq che rinverdiscono nella retorica le conquiste ottomane, sostiene invece che un sistema fortemente presidenzialista è necessario per garantire la sicurezza della Turchia sotto attacco del terrorismo di matrice islamista e separatista curdo, e per affrontare la crisi economica. "Il sistema presidenzialista permetterà di mettere fine alla stagione delle coalizioni di governo e dare alla Turchia un esecutivo forte", ha affermato il primo ministro Binali Yildirim. Peraltro l’Akp stravince tutte le elezioni dal 2002 e soltanto nel giugno 2015 ha perso la maggioranza assoluta per poi riconquistarla pochi mesi dopo alle elezioni anticipate del 31 ottobre. Per ottenere la maggioranza di due terzi alla Camera (formata da 550 deputati) l’Akp, il partito della Giustizia e dello Sviluppo di Erdogan, ha raggiunto un accordo con la formazione di destra Mhp, un chiaro segnale che da diverso tempo il presidente turco, oltre agli appelli all’Islam, sta puntando sulle corde più sensibili dei turchi, sfruttando i sentimenti nazionalisti sia per reprimere, oltre al terrorismo, la legittima rappresentanza politica curda che per amalgamare intorno alla sua figura i consensi della Turchia profonda e conservatrice. La svolta autocratica era prevedibile. Il sistema politico Akp modellato su schemi occidentali era un mezzo, non uno scopo: "La democrazia è un tram, va avanti fino a quando vogliamo noi e poi scendiamo", ha detto una volta Erdogan. Ed è quello che sta puntualmente accadendo in Turchia. Israele. Mohammed Abu Sakha da un anno in carcere senza processo di Michele Giorgio Il Manifesto, 11 dicembre 2016 I giudici della Corte suprema israeliana hanno respinto l’istanza di scarcerazione per l’insegnante della Scuola del Circo Palestinese fermato nel dicembre 2015 e da allora detenuto senza aver mai saputo le ragioni del suo arresto. Dopo quasi un anno trascorso in carcere senza essere stato processato e senza conoscere le ragioni della sua detenzione, Mohammed Abu Sakha, 23 anni, insegnante alla Scuola del Circo Palestinese (Scp) di Bir Zeit, resterà dietro le sbarre. La Corte Suprema israeliana ha respinto l’istanza di scarcerazione presentata dai suoi avvocati, sulla base della vaga motivazione presentata nel dicembre 2015 dal procuratore militare, secondo la quale Abu Sakha sarebbe "una minaccia alla sicurezza". Inutili le proteste della Scp che in questi 12 mesi ha portato il caso di Abu Sakha in varie sedi internazionali e avviato una campagna per la sua liberazione immediata. Ogni sforzo è stato inutile come inutili sono state in questi anni le denunce della "detenzione amministrativa" praticata da Israele, una sorta di arresto cautelare che può essere rinnovato all’infinito dalle autorità militari. Vana è stata anche la partecipazione all’udienza della Corte Suprema di rappresentanti dell’Unione europea a Gerusalemme, del Consolato generale belga, della Rappresentanza diplomatica svizzera presso l’Anp, di Amnesty International e di Terre des Hommes Italia. Abu Sakha è specializzato nell’insegnamento a bambini con difficoltà di apprendimento. Il 14 dicembre di un anno fa venne fermato a un posto di blocco militare israeliano mentre andava a far visita ai genitori e imprigionato prima a Megiddo, nel nord di Israele, e poi nel carcere di Ketziot nel Negev. Prima dell’estate era respinto un altro appello per la sua scarcerazione. Il centro per i diritti umani Addameer calcola in circa 7.000 i prigionieri politici palestinesi, 720 dei quali in detenzione amministrativa. Anche un ricercatore e giornalista di Addamer, Hassan Safadi, è in carcere senza processo da diversi mesi. Le critiche e le esortazioni a rispettare le leggi internazionali e la Convenzione di Ginevra nei Territori palestinesi occupati non scuotono le autorità israeliane. Soprattutto quando si parla di colonizzazione. L’ennesima colata di cemento si annuncia in Cisgiordania. Altri 770 alloggi per coloni sorgeranno nell’insediamento di Gilo a sud di Gerusalemme, dove un mese fa era stata annunciata la costruzione di 181 nuove case. Appena qualche giorno fa la Knesset ha approvato in prima lettura il disegno di legge relativo alla "sanatoria" per gli avamposti coloniali in Cisgiordania sostenuta da buona parte del governo di destra. La legge, se approvata in via definitiva, permetterà la confisca di circa 800 ettari di terre private palestinesi e la legalizzazione di 55 piccoli insediamenti coloniali costruiti senza l’autorizzazione del governo.