Intercettazioni e prescrizione, il governo prepara un disegno di legge di Claudio Marincola Il Messaggero, 9 aprile 2016 Per uscire dall’impasse il governo pensa a un disegno di legge che cambi le regole su prescrizione e intercettazioni. Un cambio di rotta dettato dallo stallo in cui entrambe le materie sono cadute. "Materie" incandescenti, da maneggiare con cura, dati i tempi. L’esecutivo aveva previsto di inserirle nel ddl del processo penale il cui testo, dopo essere stato approvato alla Camera, giace in commissione Giustizia in Senato da più di un anno. Ma ora non c’è tempo da perdere. Il grande orecchio rischia di finire fuori controllo. Un esempio su tutti: il caso del perito dell’inchiesta Why not Gioacchino Genchi. Aveva creato negli anni un archivio segreto. Tredici milioni e mezzo di cellulari schedati. I giudici lo hanno condannato in 1° grado insieme al sindaco di Napoli Luigi De Magistris per abuso d’ufficio salvo assolvere entrambi in appello. Ma il garante per la privacy Antonello Soro ha inflitto al perito una sanzione pecuniaria di 192 mila euro riaffermando così il principio che spiare dalla cornetta gli italiani e conservare i tracciati in un date base sia per lo meno da multare. Mai come in questo caso assoluzione e condanna stanno agli antipodi. Li separa la zona grigia in cui ristagna la riforma delle intercettazioni. Il Guardasigilli Andrea Orlando di recente ha riconfermato la volontà di mettervi mano. Ma la strada non sarà riformare il processo penale lasciando al governo la delega sulle intercettazioni e la prescrizione. Perché la riforma è al palo. E perché all’interno della maggioranza coesistono punti di vista diversi tra Pd e Ncd. Come uscirne? Matteo Renzi aveva chiesto di accelerare i tempi. Secondo alcuni avrebbe voluto affrontare e chiudere il discorso già nel 2015. Il caso-Boschi, le dimissioni del ministro Guidi, le tensioni con gli alleati sulle unioni civili, hanno convinto il premier che sarebbe stato meglio lasciare il testo in stand-by al Senato. Nel frattempo le procure italiane hanno iniziato ad autoriformarsi. Pignatone a Roma, Spataro a Torino, Colangelo a Napoli. Ognuno s’è fatto la sue circolari per tutelare la privacy ma salvaguardare uno strumento "insostituibile per le indagini". "Il caso del perito informatico condannato dall’Autority non è solo emblematico ma anche inquietante - osserva Alessia Morani, vice Capogruppo Pd alla Camera - l’idea che qualcuno possa disporre a suo piacimento di intercettazioni che non hanno alcuna rilevanza penale dà da pensare. Una palese violazione del sacrosanto diritto di riservatezza. Viene da chiedersi continua la Morani - come sia stato possibile che realizzare un archivio di quel tipo abbia comportato solo una sanzione". Per la Morani non è discussione l’evidente "inopportunità" della telefonata in cui il ministro Guidi rassicura il suo compagno, "ma la soap-opera a puntate a cui stiamo assistendo da giorni". Intervenire "è indifferibile". "Se ci chiedono di sederci intorno ad un tavolo noi ci stiamo apre Francesco Nitto Palma, ex ministro della Giustizia del governo Berlusconi - ma il problema è complesso. Le esigenze di sicurezza sono un tema serio come lo è il diritto alla privacy. La politica vuole farsene carico o no? Si sente libera dalle pressioni dei magistrati? Inutile girarci intorno il punto è questo". Qualcosa si potrebbe già fare: l’udienza filtro, la distruzione degli ascolti irrilevanti, vietare le cosiddette intercettazioni "a strascico", rafforzare le norme previste dall’art. 268 di procedura penale. Ma c’è chi vorrebbe lasciare tutto come ora, "Facciamo lavorare la magistratura senza mettere i bastoni tra le ruote - sostiene Mario Giarrusso, senatore M5S, membro della commissione Giustizia di palazzo Madama - non vedo usi impropri delle intercettazioni che in definitiva sono sotto il controllo di giudici mica di un vigile urbano". L’attacco di Renzi ai pm: "stop alle intercettazioni, serve una nuova legge" di Goffredo De Marchis e Emanuele Lauria La Repubblica, 9 aprile 2016 Duro sfogo del premier in consiglio dei ministri sulle toghe di Potenza. Orlando: subito il testo del Senato. Adesso è tutto più chiaro. Matteo Renzi Renzi gioca a carte scoperte e l’irritazione manifesta dei primi giorni si trasforma in un duro sfogo contro la magistratura o meglio contro la Procura di Potenza. L’occasione è il consiglio dei ministri convocato per approvare il Def. Nel mirino ci sono le intercettazioni sul caso Tempa Rossa, "una vicenda condotta in modo incredibile con pezzi dell’inchiesta fatti filtrare un po’ alla volta". E l’audizione dei pm con il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi. "Un attacco a tutto il Parlamento. Due testimoni interrogati prima degli arrestati, una cosa assurda. Non è accettabile che i magistrati convochino un ministro esercitando una sorta di sindacato sull’azione legislativa". Il nervo è scoperto. Lo si era ben capito nei passaggi precedenti, con attacchi e retromarcia. Ora tutto è più illuminato nella sala di Palazzo Chigi dove Renzi prende la parola per primo. "Non si può più andare avanti così. Ci sono elementi di inopportunità politica e istituzionale. E ci sono intercettazioni che hanno a che fare con la vita privata senza alcun nesso con l’inchiesta". Attacca a testa bassa, consapevole che l’inchiesta di Potenza è stata un colpo pesante per il governo e rappresenta una delle fasi più delicate del suo mandato. L’indagine lucana viene demolita, quasi pezzo per pezzo. "Intercettare il capo della Marina rappresenta un pericolo per la sicurezza nazionale. Non solo. Diffondere quelle conversazioni nel bel mezzo di una crisi internazionale peggiora la situazione". I ministri ascoltano. Renzi li invita a tenere il profilo basso, di non alzare i toni con la magistratura. Ma lui non segue il consiglio. Chiede una reazione: "Ora le cose devono cambiare", dice concludendo lo sfogo. Sono parole che chiamano in causa il Guardasigilli Andrea Orlando. Il ministro della Giustizia condivide, occorre accelerare. Spiega anche che questo sarebbe il momento migliore per farlo. "Tante procure hanno adottato un codice di autodisciplina sulle intercettazioni. Lo ha fatto Spataro, lo ha fatto Pignatone...". Due magistrati tra i più conosciuti a capo di procure importanti come Torino e Roma. Insomma, spiega Orlando, questa è l’occasione per una riforma condivisa, senza strappi con la magistratura. Però non basta. Non basta lamentarsi che "scappano conversazioni private da tutte le parti mentre la riforma è ferma al Senato da otto mesi. Non basta dire che i processi devono essere più veloci quando il processo breve è bloccato a Palazzo Madama sempre da otto mesi". È un richiamo, quello del Guardasigilli, anche agli equilibri del governo, al veto dell’Ncd sulla prescrizione. Ma la revisione di un sistema non argina quello che emerge da Potenza e gli effetti sul governo. "Trovo gravissimo anche il dossieraggio contro Delrio", dice Renzi che ha ben chiari i rischi che sta correndo l’esecutivo con gli atti dei pm lucani: ministri contro, fazioni, liti. Anche per questo bisogna andare cauti con alcune nomine sollecitate dai dicasteri. La ministra della Difesa Pinotti vorrebbe sostituire subito l’ammiraglio De Giorgi e avviare così il risiko delle nomine nelle poltrone della sicurezza. Ma Renzi difende pubblicamente il capo della Marina e sembra deciso ad attendere. La polemica, intorno alle indagini su affari e petrolio, comunque non si arresta e in Parlamento raggiunge toni mai così aspri. I 5stelle chiedono le dimissioni dell’intero governo additando "una nuova Tangentopoli" e scrivono a Mattarella chiedendo di essere ricevuti con urgenza. La speranza è dare un colpo prima del referendum sulle trivelle. Il Pd passa alle vie giudiziarie e denuncia per diffamazione Carlo Sibilia, membro del direttorio pentastellato, "per le gravissime dichiarazioni rilasciate nei confronti di chi riveste ruoli istituzionali". Il riferimento è alla frase di Sibilia: "Nessuna differenza fra ministri e camorristi". Chiede di essere sentito dai pubblici ministeri il Capo di stato maggiore della Marina Giuseppe De Giorgi. Lo stesso fa Gemelli, l’ex compagno di Federica Guidi. Ma le parole di Gemelli "sull’Antimafia che fa schifo" e sulla Borsellino "da eliminare" hanno suscitato sdegno. La figlia di Paolo Borsellino, il giudice ucciso dalla mafia nel 1992, dice di non volere commentare "parole meschine" ma a chi le sta vicino racconta tutta la sua insofferenza: "Non capisco perché mi continuino a mettere in mezzo". Che cosa manca per cambiare davvero la giustizia italiana di Piero Tony Il Foglio, 9 aprile 2016 Riforme e modifiche quasi all’ordine del giorno, ma serve un’operazione complessiva su obbligatorietà e separazione delle carriere. Picchia e mena, picchia rimena e ripicchia finalmente qualcosa si è mosso. È passato nemmeno un anno e a me pare ieri quando fui bersaglio di una fatwa da parte della sezione toscana dell’Associazione nazionale magistrati (severissima e indignata per la ritenuta infondatezza delle mie osservazioni) per avere io scritto, oltre a tutto il resto, sapete cosa? cose da sempre sotto gli occhi di tutti ma per genetica riservatezza di casta di solito ritenute non criticabili se non a voce bassa, con qualche contorsione di terzo tipo e in corridoi fuori mano e che comunque non siano di passaggio. Avevo scritto che in Italia l’unico vero processo è quello mediatico-giudiziario sentenziato con stuzzicanti bignè di prima pagina, ad arte sempre farciti di voci… dal sen illegalmente (artt.114, 115, 329 cpp, 621, 622, 684 cp) fuggite; che per via della lentezza della Giustizia le indagini si sono snaturate e da "preliminari" che dovrebbero essere secondo il codice - ossia giusto quel poco necessario al pm per decidere se chiedere archiviazione o giudizio - sono divenute l’essenza centrale e definitiva del procedimento; che troppo spesso si percepisce l’autoreferenzialità di una magistratura indivisa quanto alle carriere e sensibile più al tornaconto della propria immagine e della propria categoria che alla necessità di ottimizzare organizzazione ed efficienza del sistema giustizia. Ho detto prima che finalmente qualcosa si è mosso perché dopo codeste mie osservazioni e codesta fatwa sono sopravvenute alcune importanti e utili novità - non accampo diritti di copyright, sia chiaro, non fosse altro perché si tratta di criticità in parte segnalate, seppure con toni più istituzionali, anche da altri più valenti magistrati del calibro del primo presidente della Corte di cassazione Giorgio Santacroce - che grazie a Dio paiono voler ovviare alle drammatiche disfunzioni di cui avevo scritto irritando gli ex colleghi. Ne ricordo qualcuna. Stanno finalmente e felicemente decollando l’applicazione della sospensione con messa alla prova introdotta poco tempo fa con l’art. 168 bis cp e la legge sulla responsabilità civile approvata dal Parlamento agli inizi dell’anno. Sono poi entrati in vigore dal 2 aprile 2015 il nuovo art. 131 bis cp in materia di non punibilità di fatti particolarmente tenui e occasionali, dal 6 febbraio 2016 i decreti legislativi n. 7 e 8/2016 sulla depenalizzazione di circa 40 reati, dal 25 marzo 2016 il nuovo reato di omicidio stradale (artt. 589 bis, 590 bis cp). Non solo: il 25 marzo scorso il Consiglio dei ministri ha approvato, pur dopo indugi durati più di sette anni, il regolamento di attuazione sulla banca dati del Dna voluta dal trattato europeo di Prüm e già da tempo operante in molti paesi della Ue. Non solo: gli indagati/imputati in attesa di un primo giudizio sono passati dai quasi 12.000 di due anni fa agli 8.700 di oggi (verosimilmente grazie al pleonasmo normativo recentemente introdotto a ulteriore ennesima precisazione, che le esigenze cautelari devono risultare concrete e attuali… ma va?) e la complessiva popolazione carceraria è scesa a poco più di 50.000 detenuti anche in virtù di un incremento dell’esecuzione delle pene lievi all’esterno del carcere e dunque in linea con la previsione rieducativa dell’art. 27 Cost. Non solo, bollono in pentola altre importanti riforme: quella in materia di intercettazioni e quella della sezione disciplinare; infine quella proposta dalla commissione per la riforma del Consiglio superiore della magistratura che tra l’altro, con il senno e le ansie del poi, intenderebbe limitare i danni del correntismo politicizzato e delle esiziali logiche elettorali con procedure elettive tanto prudenti e arzigogolate da apparire, a dir il vero e per quel poco che oggi è dato sapere, davvero strampalate oltre l’accettabile. E ancora, senti senti: all’inaugurazione dell’Anno giudiziario il procuratore di Palermo e il presidente della Corte d’appello di Firenze hanno tuonato proprio con quelli che sono i miei temi preferiti, quelli condannati dalla fatwa per intenderci, che per amore e rispetto verso la magistratura avevo scritto e detto fino alla noia; il primo, il procuratore di Palermo, criticando le enfatizzazioni giudiziarie e la frequente rincorsa alla patente di anti-mafiosità, il secondo stigmatizzando la celebrazione di pseudo-processi mediatici che non solo annullano qualsiasi forma di pietas e calpestano la presunzione costituzionale di non colpevolezza ma spesso, per la lentezza e il tempo trascorso tra fatto e processo, finiscono per rendere centrale la fase delle indagini preliminari. Stupendo, vale la pena… non poter tacere, visto che se prima semini dopo raccogli! Altra novità non trascurabile quella delle direttive 20 gennaio 2016 impartite dal Parlamento europeo in uno con il Consiglio dell’Unione europea sulla necessità di tutelare i procedimenti penali dalle interferenze mediatiche. Non solo, non posso nemmeno trascurare la sconvolgente notizia che la commissione di ben 17 esperti e magistrati, capeggiata da Michele Vietti per nomina governativa del 12 agosto 2015, ha in questi giorni trasmesso al ministro Orlando una corposa proposta di modifica dell’ordinamento giudiziario rappresentando - vedi intervista a Vietti sul Foglio del 26 marzo scorso - conclusioni tanto rivoluzionarie che dir "copernicane" è poco: si è concluso, in sostanza, che l’assetto del sistema va impietosamente capovolto, Giustizia come servizio ai cittadini e non più come gratificazione a giudici e pm, nell’organizzazione del sistema Giustizia prevalenza delle esigenze funzionali riferite all’utenza rispetto a quelle carrieristiche riferite ai magistrati. Ma dai! Ma allora certe critiche non erano del tutto sballate! Comunque chapeau, lo dobbiamo dire, molto è stato fatto ed è dovere di animo gentile complimentarci ma… ma si tratta di modifiche frammentarie, manca ancora molto. Perché la riforma del codice penale è ancora in alto mare. Così come quella della prescrizione, impantanata tra chi pensa che ogni reato prescritto è un’alzata di mani per resa e chi, invece, ritiene che un presunto non colpevole non possa sotto la spada di Damocle aspettare tutta la vita che il pm riesca a provare la sua responsabilità. E perché dovrebbe senz’altro essere rivisitata la nuova normativa sulle nomine dei vertici degli uffici giudiziari; tanto birbona, per via di rarefatti criteri di valutazione che portano a discrezionalità pressoché assoluta, da esaltare ancora di più il peso delle correnti e da consentire di conseguenza il conferimento di incarichi direttivi di presidente e procuratore anche a magistrati senza alcuna specifica esperienza, cioè a chi nella sua vita professionale mai ha diretto alcunché, al limite a chi si è dedicato soprattutto a politiche associative e/o incarichi fuori ruolo. Ma manca soprattutto un’operazione complessiva che imposti i fondamentali del processo accusatorio, ridefinendo il precetto dell’obbligatorietà dell’azione penale e soprattutto affrontando il problema della cd separazione delle carriere. Forse il nostro attuale premier - alla cui sopraffina intelligenza, indubbia, non può sfuggire l’importanza vitale della questione - ritiene che oggi manchino le forze politiche necessarie visto che a tutti è noto che solo una modifica costituzionale consentirebbe di riconsiderare l’obbligatorietà (art. 112 Cost.) e reimpostare le carriere (anche se a tale ultimo proposito non sono il solo a pensare che si tratterebbe di modifiche solo ordinamentali da affrontare con leggi ordinarie, ma il discorso - che si incentrerebbe soprattutto sul ragionato raffronto tra gli artt. 97 c. 1, 101 c. 2, 105, 107 c. 4, 112 della Costituzione - sarebbe troppo lungo per questa sede). Ma ciononostante il nostro attuale premier dovrebbe quantomeno tentare codesta operazione complessiva perché l’ideale Giustizia va inseguito e incalzato comunque e a prescindere dai conteggi. Perché in ogni modo dimostrerebbe a tutti, compresa l’Europa, rassicurante sensibilità politica nei confronti dei valori fondamentali. Perché, essendo un corollario del processo accusatorio, di fatto la separazione delle carriere venne già decisa allora. Perché processo accusatorio con giudiziario indistinto non solo costituisce in astratto un obbrobrio giuridico e logico ma, nella quotidianità delle aule, spesso può generare mostri. L’equidistanza si misura e non si immagina, rispetto al giudice il pm è contiguo mentre la difesa è lontana, per ragioni transitive di appartenenza qualche volta di fatto quasi antagonista di entrambi. Non è solo questione di principio, come sostiene qualcuno. La "terzietà" del giudice, così come esplicitata nel 1999 dall’art. 111 Cost., è valore storicamente universale che già era presente in Costituzione nella sintesi degli articoli 3 (uguaglianza), 24 (inviolabilità del diritto di difesa) e 25 (sovranità del giudice naturale precostituito per legge) nonché nella Cedu (art. 6) e infine nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 6 n. 10). Terzietà non è oggetto misterioso ma condizione di chi in un rapporto giuridico è estraneo rispetto alle altre parti in causa e dunque, a esse equidistante, può tentare una decisione imparziale e giusta. Ineludibile in un giusto processo accusatorio ma da noi ancora inesistente dopo quasi 30 anni dall’introduzione del nuovo rito. Da quasi 30 anni il prodotto della nostra giustizia penale appare spesso fuorviato da tale inesistenza, gli avvocati protestano sempre più veementemente di fronte a decisioni che qualche volta sanno di scuderia, l’Europa anzi il mondo ci guarda arcigno, i mostri giudiziari si moltiplicano e da noi si continua a fare orecchie da mercante. Come se fosse normale accettare giudice e pm appassionatamente avvinti dalla e nella stessa carriera, stessa casa e organizzazione, stesso Csm, stessa autorità disciplinare, stessa quotidiana familiarità. Come due bancari che operano in due sportelli diversi. Come se Giovanni Falcone già allora non avesse ravvisato il pericolo di codesta parentela, "il pm non può essere un para-giudice" diceva. Come se non fosse di solare evidenza che nel rapporto di colleganza non possono non fiorire dinamiche incompatibili con il valore della terzietà: malinteso senso di lealtà nei confronti di un collega che nelle indagini si è prodigato allo spasimo, timore di guastare la complessiva immagine del sistema Giustizia, di tradire anzi rinnegare le aspettative dell’indagine, di smentire un’attività anch’essa giudiziaria. Come se le stesse dinamiche potessero fiorire anche con l’altra parte, la difesa, qualche volta di fatto relegata nel ruolo di convitato di pietra. C’è infine da chiedersi se la magistratura requirente sia o non sia o quanto sia d’accordo sulla separazione delle carriere. Non sono in grado di rispondere se non sul punto che le perplessità si fondano sul timore di perdere autonomia e indipendenza, ossia su un processo alle intenzioni e quindi su un timore a mio parere ingiustificato, almeno allo stato, e comunque politicamente governabile. Ecco, a me pare che sia arrivato il momento di rompere gli indugi, dello stop waiting and start acting direbbero altrove: si decida una buona volta per separazione di carriere e di organizzazioni e di Csm, a meno che non si voglia ricambiare il codice e ritornare al sistema inquisitorio o misto. Mi permetto infine di far presente ai nostri governanti che la casa si costruisce mattone su mattone ma partendo dalle fondamenta. E che il sistema giudiziario sta ineluttabilmente veleggiando verso un processo europeo che, prima o dopo e nonostante diffuse preoccupazioni di sovranità, ci costringerà a omologarci al resto del mondo. Per cui sarebbe bene prepararci con scelte di civiltà anticipando l’evento e non farlo in ritardo, obtorto collo e mugugnando senza una pur sempre opportuna eleganza istituzionale. Concludo ricordando che l’Unione camere penali, esasperata e incavolatissima per tale stato di cose - come risulta dall’agenzia di stampa del 14 marzo scorso - sulla separazione delle carriere intende sia lanciare un referendum sia attivare una proposta di legge di iniziativa popolare, al più presto. Formulo sentiti auguri. Dove nasce la corruzione di Alfio Mastropaolo Il Manifesto, 9 aprile 2016 Affari e politica. Forse siamo più corrotti degli altri paesi, oppure la differenza sta nei diversi riti di espiazione. E nel diverso senso dello Stato. La cura andrebbe trovata nei contrappesi capaci di separare affari e politica, pubblico e privato. Come antidoto servirebbe un moto della pubblica opinione. Stefano Rodotà è una delle - poche - figure di riferimento di quella che potremmo definire la pubblica opinione democratica. È apparsa ieri su la Repubblica una sua drammatica denuncia sullo stato della moralità pubblica nel nostro paese. È uno stato disastroso. Ciclicamente, possiamo aggiungere, divampano fiammate moralizzatrici e innovatrici, ma subito si estinguono senza effetti di rilievo. Il confine tra moralizzatori e corrotti è permeabile. Lo si è visto nel caso dell’antimafia - e non c’è segmento della vita pubblica che sfugga. Rodotà ha ragione. Ma quando si osserva un fenomeno così vasto e pervasivo, se si vuole provare a curarlo, bisogna anzitutto intendere le ragioni. Che sono sociali. Ne culturali, né individuali. Secondo Rodotà, l’Italia è un caso unico. In altri paesi per minime manchevolezze si è estromessi dalla vita pubblica. E pertanto il livello di moralità pubblica è ben più elevato. Mi permetto di dissentire. Altrove vigono regole diverse. In America ad esempio i finanziamenti privati alla politica sono pienamente legittimi. Il più accreditato concorrente alla candidatura democratica è una signora che è stata a lungo a libro paga delle maggiori istituzioni finanziarie del paese. Il predecessore di Obama ha destabilizzato il Medio Oriente, e ormai anche l’Europa, a servizio della Halliburton e dei petrolieri texani. In secondo luogo, gli scandali non difettano neanche altrove: in Francia, in Inghilterra, in Germania, dove restò impigliato perfino Kohl, senza perdere tuttavia l’etichetta di padre della patria. È forte dunque il sospetto che altrove si faccia solo meno clamore, mentre di quando in quando si celebra un rassicurante rito d’espiazione, con la conseguente fuoruscita del personaggio coinvolto. In Italia, secondo Rodotà, si esibisce invece la più spudorata indifferenza, malgrado il frastuono che certe vicende suscitano. In realtà, anche l’Italia celebra i suoi bravi riti di espiazione. Li celebra solo in maniera più vistosa. Tangentopoli e il collasso della cosiddetta prima Repubblica fu uno di essi. Il tramonto, sanguinoso, del berlusconismo, di cui l’ascesa di Renzi è stato lo scampanio, al momento, conclusivo, è stato un altro. In ambo i casi è stata licenziata tutta una classe politica, i cui misfatti hanno pagato, a altissimo costo, gli italiani, ovviamente i più indifesi. Quale delle due liturgie è preferibile? La scelta è ardua. E assai meglio sarebbe curare il male. E qui bisogna chiamare in causa le società in cui viviamo e i principi che le reggono. Anzi il loro principio fondamentale, che è l’acquisizione - privata - di profitti, economici o di potere. Perché se l’economia è fondata sulla privatizzazione del profitto economico, la politica democratica si basa sulla concorrenza per il potere tra imprese politiche, tra cui spiccano i partiti, a cui se ne affiancano molte altre. Si può ricercare il potere per nobilissimi motivi. Per far valere, ad esempio, i bisogni dei deboli e degli emarginati. Sono, questi ultimi, bisogni vastissimi. Ma sono pur sempre gli interessi di una parte a spese di un’altra. Cosa impedisce che in economia e in politica l’interesse privato instauri il duraturo predominio di alcuni a spese dei più? Sicuramente le norme che regolano la concorrenza - in politica la costituzione in primo luogo - le quali, a conti fatti sono quel po’ di interesse generale su cui tutti concordano. Solo che poi viene il problema di chi fa valere le regole. Un po’ le fa valere la concorrenza stessa. In particolare la concorrenza tra politica elettiva, il cui interesse "privato" sono i cittadini, e l’economia, che rappresenta tutt’altri interessi. Un po’ le fanno valere una serie di istituzioni che si identificano con l’interesse generale. Un grande sociologo ha usato la formula dell’interesse "del disinteresse" in riferimento a quelle istituzioni, e quegli uomini, che si sentono obbligati a essere disinteressate, che si pongono al di sopra delle parti, che si identificano con l’interesse generale, o, per usare una parola grossa, con lo Stato. E che per questo ottengono importanti riconoscimenti simbolici. La magistratura è tra queste istituzioni. Ma vi rientrano pure le burocrazie pubbliche, le autorità indipendenti, le corti costituzionali. Il congegno, va da sé, è complesso e delicato e i suoi ingranaggi non sempre funzionano a dovere. In Italia, ad esempio, lo Stato ha sempre manifestato parecchie manchevolezze. Per qualche ragione, non si è riusciti a trasmettere ai suoi addetti una dose sufficiente di "senso dello Stato". Non esageriamo. Nella storia d’Italia non sono mancati servitori dello Stato di altissima qualità, istituzioni devote all’interesse generale. La Banca d’Italia, per fare un solo esempio, ha a lungo goduto di altissima reputazione. Quello che però accade attualmente è che su uno Stato non saldissimo si è abbattuta la tempesta del neoliberalismo, che ha posto sopra ogni cosa l’interesse privato, con la politica (e gli affari) a profittarne per allargare la loro influenza. Anche qui un solo esempio. Un corpo pubblico di elevata professionalità erano fino a non molto tempo fa i segretari generali dei comuni. Erano un principio di contrasto, di tutela della legalità, opposto ai sindaci e alla politica. Oggi i segretari se li nominano i sindaci a loro misura, invocando la preminenza della politica elettiva e il principio di efficienza. I funzionari devono rispondere del loro operato alla cosiddetta utenza, non già sottomettersi a quell’obsoleto impiccio che è la legge. Nell’Italia d’oggi lo Stato non c’è. C’è una pletora di agenzie, che si fanno la guerra, che si incrociano variamente con la politica elettiva e con i potentati economici. Capita pure altrove, ma in Italia forse un po’ di più. Se però non c’è senso dello Stato tra gli addetti allo Stato, come può esserci attenzione alla moralità pubblica in tutti gli altri luoghi della vita associata? A dire il vero, c’è n’è, ma va scemando sempre più. L’altro contrappeso a saltare è la separazione tra politica e economia. Al tempo dei partiti di massa ci si teneva parecchio. Fanfani volle che le imprese pubbliche uscissero da Confindustria. Più tardi il meccanismo è degenerato. Anziché ripristinarlo, dagli anni 70, gli intrecci si sono moltiplicati, fino alle indecorose ammucchiate berlusconiane. Mentre Renzi ha nominato Guidi addirittura ministro delle attività produttive e Poletti ministro del lavoro. Dopo che Colanino Jr. è stato a lungo responsabile economico del Pd. Capita altrove anche questo, ma dappertutto fa danno. Come se ne esce? Forse non se ne esce, perché siamo andati troppo oltre. Forse aiuterebbe una seria legge sul conflitto di interessi. Non fosse che di leggi davvero serie non ce n’è da nessuna parte. Forse però qualcosa si potrebbe fare per ripristinare il senso dello Stato, anzitutto rivalutando simbolicamente i suoi addetti, rispettandoli - altra cosa dalle sbrigative misure introdotte dal ministro Madia -, curandone la professionalità, reclutandoli tramite rigorosi concorsi, investendo davvero nel sistema universitario nazionale, anziché mettere stupidamente in concorrenza gli atenei. Così come potrebbe aiutare la scuola. Il corpo insegnante ha illustri tradizioni, malgrado il poco conto in cui spesso lo si è tenuto. Chi meglio potrebbe contribuire a sviluppare affezione per la moralità pubblica? Niente di tutto questo accadrà. Purtroppo, malgrado le accorate parole di Rodotà, la situazione promette solo di peggiorare. Servirebbe forse un moto della pubblica opinione, dove la domanda di moralità non difetta. Ma a condizione che rifugga il moralismo alla Grillo e che piuttosto torni a incontrarsi con la critica sociale. Lotta ai corrotti, non al mercato di Antonio Polito Corriere della Sera, 9 aprile 2016 La corruzione va combattuta senza quartiere perché è distruttiva dell’economia, ma guai se pensassimo di stroncarla stroncando gli affari: la qualità della nostra vita e il nostro reddito dipendono dal livello di sviluppo e di tecnologia del Paese in cui viviamo. A leggerli così, mescolati in quella secrezione delle nostre vite che sono le nostre peggiori telefonate (tanto quelle belle, corrette, trasparenti, nel faldone di un’inchiesta non ci arrivano, e dunque nessuno le conoscerà mai) viene da pensare che gli affari siano sempre affarismo. Non è vero. E dovremmo dirlo, perché già viviamo in un Paese pieno di pregiudizi contro il business. Già sembriamo una repubblica di Banana (Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything) ostile a ogni calcestruzzo, in cui la produzione di qualsiasi forma di energia, dal nucleare alle pale eoliche, dal gas agli inceneritori, solleva proteste e veti ecologisti. E invece tutte quelle parole che ci fanno sobbalzare nelle intercettazioni, contratto, gara, appalto, soldi, non sono lo sterco del demonio, non sono sinonimi di imbroglio e truffa. Gli affari fanno girare il mondo, o non lo fanno girare. Quando a fine anno piangiamo per lo scarso Pil o la forte disoccupazione, quando ci lamentiamo perché il Sud è vent’anni indietro, non facciamo altro che tirare le somme di troppi pochi affari, transazioni, vendite, acquisti, opere pubbliche e private. Per questo è difficile dare torto a Renzi quando rivendica al governo, con quell’aria di sfida ai magistrati di Potenza, la responsabilità politica di sbloccare gli investimenti, accelerarne l’iter, produrre lavoro. La corruzione va combattuta senza quartiere e senza riguardi, perché è distruttiva del mercato. Ma guai se pensassimo di stroncarla stroncando gli affari. La qualità della nostra vita e il nostro stesso reddito dipendono dal livello di sviluppo e di tecnologia del Paese in cui viviamo. Non diamo alibi a chi sogna di sostituire il mito del regresso a quello del progresso. Però proprio un governo che vuole finalmente rompere il tabù degli affari deve cercare antidoti più forti all’affarismo. Non basta la giustificazione del "fare" per esorcizzarlo. L’inchiesta di Potenza, facendoci guardare dal buco della serratura nelle stanze dove si decide, demolisce l’idea che centralizzare e personalizzare il potere possa tagliare le unghie all’affarismo. Se mai c’è stata, l’illusione dell’uomo solo al comando della nave si è dimostrata incapace di eliminare il caotico affollarsi degli interessi giù nella sala macchine, dove ministri, sottosegretari e capi di gabinetto restano esposti, e forse anche più esposti quanto minore è la loro personalità e il loro peso nella collegialità del governo, alla pressione delle lobby. E così finiscono per combattersi, rubarsi competenze, costruire cordate, perfino in un governo del premier, virtualmente monocolore, come è quello Renzi. C’è poi una seconda lezione da apprendere. La riduzione del Parlamento a votificio non semplifica le cose. Tutti gli emendamenti ad progettum, aziendam o personam, cercano disperatamente un treno legislativo su cui saltare, e di solito finiscono per trovarlo nel maxi emendamento alla legge di stabilità, patchwork che la maggioranza deve approvare in pochi minuti, in piena notte e a occhi chiusi. È vero che le Camere sono un ricettacolo di clientele, e l’assalto alla diligenza di un tempo non era preferibile, ma il Parlamento è anche un filtro degli interessi. Sempre meglio farli passare allo scrutinio di una commissione, che trovarseli riversati sul tavolo di un ministero, dove si decide certamente con maggiore opacità e discrezionalità, e dove il potere di un funzionario vale più dell’opinione di un deputato eletto dal popolo. Infine bisogna regolamentare il lavoro dei gruppi di pressione. Questo Gemelli era un lobbista? Allora doveva essere iscritto a un registro della professione, dichiarare i propri interessi, e il ministro con cui conviveva doveva a sua volta dichiarare il legame al momento di assumere un incarico nel governo, e il presidente del Consiglio doveva sapere che il suo ministro dello sviluppo economico aveva questo ulteriore interesse, diciamo così, familiare. L’esito più infausto del clamore di questa storia, insomma, sarebbe un ritorno al passato, quando non si combinava niente e si corrompeva anche di più. Ma per evitarlo non ci sono scorciatoie autoritarie o dirigiste, bisogna seguire la strada maestra di una democrazia funzionante, fatta di pesi e contrappesi, check and balance; e adeguarsi così, un po’ alla volta, agli standard etici dei Paesi puritani. L’Ue e le procedure penali per i minori di Caterina Chinnici L’Unità, 9 aprile 2016 A marzo il Parlamento europeo ha approvato la direttiva sulle garanzie procedurali per i minori penalmente indagati o imputati: una svolta storica nella legislazione. Circa un milione di minori ogni anno in Europa entra formalmente in contatto con le forze dell’Ordine e con la giustizia penale. Sono molti: il 12% del totale della popolazione coinvolta in procedimenti penali. E come tutti i minori, ma ancor di più, proprio perché in conflitto con la legge, sono particolarmente fragili e vulnerabili, specie nel contesto di una vicenda, il processo, che hanno difficoltà a comprendere e decifrare. Per questo motivo, come l’esperienza italiana ha dimostrato, un sistema giudiziario a misura di minore è nella maggior parte dei casi la condizione indispensabile per il reinserimento sociale dei ragazzi autori di reati e, quindi, per la prevenzione delle recidive. Una necessità, questa, alla quale l’Unione Europea ha risposto con la nuova direttiva sulle garanzie procedurali per i minori penalmente indagati o imputati, dossier di cui sono stata titolare come relatrice nell’ambito del Parlamento Europeo e che a marzo ha ottenuto l’approvazione finale della plenaria, ponendo fine a una diffusa disarmonia tra le normative nazionali in questo settore. Di fatto, è la nascita del giusto processo penale minorile europeo. Sul piano giuridico e dei diritti della persona, si tratta di un atto di maturità e di una svolta storica nella legislazione dell’Ue, perché per la prima volta viene introdotta una disciplina specifica dei procedimenti penali nei confronti di minori. Un grande risultato, nel quale si riflette in buona parte il modello italiano e che è frutto di un ampio dibattito al quale hanno contribuito con sensibilità e idee sia gli attori istituzionali in sede di negoziato, ovvero Commissione Europea e Consiglio dell’Unione Europea, sia le parti sociali. Un risultato di cui possiamo andare fieri. La direttiva è un catalogo di diritti e garanzie procedurali elevate che colma le distanze tra gli ordinamenti nazionali delineando un modello condiviso in cui poter bilanciare l’esigenza di accertare i fatti di reato, con le relative responsabilità, e quella di tenere nella dovuta considerazione gli specifici bisogni dei minori. Proprio il superiore interesse del minore è posto al centro del sistema. Sono fissati importanti punti fermi tra i quali, innanzitutto, la necessaria assistenza di un difensore, da me fortemente voluta e finora non sempre riconosciuta dalle legislazioni interne, il principio della detenzione separata rispetto agli adulti e, ancora, la formazione specialistica sia dei magistrati che degli altri operatori coinvolti nel procedimento, fin qui prevista solo in sei stati membri. La nuova legge afferma anche il diritto del minore a una valutazione individualizzata, il cui esito va documentato e messo a disposizione dell’autorità procedente affinché abbia informazioni sulla personalità del minore, sulla sua condizione familiare e socio-economica così come su tutti gli altri elementi utili per capire quale grado di consapevolezza del reato abbia avuto, quale misura cautelare sia più opportuna, quali siano le prospettive di rieducazione. A tutti i minori ai quali venga applicata una qualunque restrizione della libertà personale dovranno essere inoltre assicurati l’assistenza medica necessaria e il diritto di incontrare prima possibile il titolare della responsabilità genitoriale. I governi nazionali dovranno garantire al minore anche la possibilità di essere informato sui propri diritti e di partecipare attivamente al procedimento. Altro elemento essenziale è l’obbligo a carico degli stati membri di assicurare ai minori detenuti l’educazione, la formazione e il regolare esercizio delle relazioni familiari, il tutto nel pieno rispetto della libertà religiosa e di pensiero. La direttiva sul giusto processo minorile rappresenta anche un importante passo verso l’ampliamento dello spazio europeo di giustizia, che favorirà il mutuo riconoscimento delle decisioni giurisdizionali tra i paesi membri dell’Unione, in attuazione della road map decisa dal Consiglio nel 2009. A decorrere dalla pubblicazione in gazzetta ufficiale, preceduta da un ultimo passaggio confermativo proprio in Consiglio, gli stati membri avranno 36 mesi di tempo per uniformare la normativa interna. Il lavoro dei detenuti non deve avere carattere punitivo, ma riabilitativo di Diana Cavalcoli Corriere della Sera, 9 aprile 2016 Meno di un pacchetto di sigarette, poco più di un caffè. È quanto vale in Italia un’ora di lavoro di un carcerato. Due euro e cinquanta centesimi di retribuzione denunciati da Carte Bollate, periodico d’informazione della II Casa di reclusione Milano-Bollate. "Dal 7 agosto 2015 la quota giornaliera di mantenimento che un detenuto deve allo Stato è più che raddoppiata", spiega la redazione, "Le buste-paga dei lavoratori detenuti non sono aumentate in proporzione e di colpo hanno subito una svalutazione di circa il 25 per cento". Un provvedimento messo nero su bianco dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) che ha deciso di portare la quota a 3,62 euro al giorno (ovvero 108,6 euro al mese). Accade così che la "mercede" del personale addetto alle pulizie passi da 220 euro netti mensili a 150. Una svalutazione del lavoro carcerario in contrasto con l’idea che proprio un impiego e un salario dignitoso possano favorire la riabilitazione dei detenuti. L’inserimento lavorativo consente infatti l’abbattimento del tasso di recidiva dei condannati, che passa dal 78 per cento al 10. Il che si tradurrebbe in un risparmio per le casse dello Stato e in un importante passo avanti per la gestione delle carceri italiane. Il lavoro penitenziario, come stabilito dall’ordinamento nazionale e dall’Onu che nel 2015 ha approvato le Mandela Rules, non deve avere carattere punitivo ma riabilitativo. Secondo il report degli Stati generali dell’esecuzione Penale nel 2014 hanno lavorato 14.450 detenuti circa il 27 per cento del totale. Per avere un quadro delle mansioni svolte basta guardare i numeri. L’85 per cento dei lavoratori è stato impiegato dall’Amministrazione penitenziaria e solo 2.323 detenuti hanno prestato servizi per privati. Tra questi il 46 per cento ha lavorato all’interno del carcere, il 27 per cento all’esterno e il 25 per cento in semilibertà. La maggior parte del lavoro penitenziario è quindi costituito da "servizi d’istituto" come la manutenzione delle strutture e la pulizia dei reparti. Per un detenuto che voglia lavorare la graduatoria è tutto. Il collocamento al lavoro è gestito da una commissione interna in cui siede anche un rappresentante dei carcerati. Il problema sono i posti disponibili: circa 12 mila detenuti si ripartiscano 4 mila posti di lavoro in Italia. Un cortocircuito legato soprattutto alla mancanza di fondi. "Dal 1991 al 2014 la voce di bilancio dedicata al lavoro penitenziario è stata tagliata del 26 per cento, passando da 61 a 45 milioni di euro. Ciò nonostante", sottolinea lo studio, "nello stesso arco temporale il numero dei lavoratori-detenuti è rimasto quasi lo stesso". L’impasse del sistema è organizzativo. La gestione delle lavorazioni è in mano all’Amministrazione penitenziaria che ha poche competenze in materia di impresa e di mercato del lavoro. L’offerta non riesce quindi a soddisfare la domanda anche perché la priorità nelle carceri italiane resta il mantenimento della sicurezza degli istituti. Uscire dalle mura carcerarie per qualche ora al giorno. Significa questo per molti detenuti la legge Smuraglia che dal 2000 stabilisce le norme per favorire le attività lavorative dei reclusi. Una tappa quello del lavoro "oltre le sbarre" quasi sempre preceduta dall’assegnazione a lavori interni al penitenziario e dalla concessione di permessi premio. Ma chi potrebbe offrire lavoro ai carcerati? Per incentivare i privati è stato introdotto un sistema di sgravi fiscali e contributivi per le aziende. La legge è chiara: "Alle imprese che assumono, per un periodo di tempo non inferiore ai trenta giorni, lavoratori detenuti o internati o che svolgono attività formative nei loro confronti, è concesso un credito di imposta mensile nella misura massima di settecento euro per ogni lavoratore assunto". Peccato che al termine degli sgravi le assunzioni restino poche. Nel 2014 appena 500 detenuti sono stati assunti dalle cooperative. Così, scontata la pena, l’ex-detenuto rientra in quel circolo vizioso, fatto di precarietà e scarse prospettive, che può portare alla recidiva di reato. Per contrastare questa situazione sono nati diversi progetti. Il più recente è "Sprigioniamo il Lavoro" del carcere di Parma, avviato nel marzo 2016 e pensato per mettere in contatto detenuti e imprese. Un’iniziativa che segue la strada tracciata da attività come Bee.4, una cooperativa che opera a Bollate dal 2013 selezionando il 90% del personale tra i detenuti. Grazie a un call-center nella sezione maschile e un laboratorio per il controllo qualità nella sezione femminile il lavoro è garantito a più di venti persone. Università Europea di Roma: dal sistema penitenziario una risorsa di speranza di Carmine Alboretti La Discussione, 9 aprile 2016 "Funzione della pena, giustizia ripartiva e amministrazione del sistema carcerario" è il tema del convegno che si è appena tenuto all’Università Europea di Roma. L’incontro è nato per iniziativa degli studenti della stessa università ammessi, per meriti di studio, nelle Eccellenze Accademiche del Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza, sotto il coordinamento del Prof. Aniello Merone. Il convegno, aperto da un saluto del Prof. Emanuele Bilotti, coordinatore del Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza, è stato moderato dal Prof. Carmelo Leotta, ricercatore di Diritto penale nell’Università Europea di Roma. Fra i vari interventi Silvana Sergi, Direttore della Casa Circondariale Regina Coeli di Roma, ha ricordato che "se il sistema penitenziario fosse un apparato dedicato alla sicurezza, un contenitore di nemici da neutralizzare, difficilmente l’obiettivo potrebbe essere raggiunto. Senza un contenuto rieducativo e risocializzante la pena perderebbe la sua funzione". "Nell’amministrazione del carcere - ha spiegato Silvana Sergi - sicurezza e trattamento rieducativo costituiscono un circolo virtuoso ed accompagnano il detenuto. La rieducazione non è un astratto percorso comportamentale, bensì una crescente consapevolezza del danno individuale e sociale del proprio comportamento, che non ha solo prodotto una violazione della norma penale, ma ha offeso la vittima e la stessa comunità. Solo comprendendo ciò il sistema penitenziario si trasforma da contenitore senza spazio e senza tempo, in una preziosa risorsa, che, con la pluralità di figure professionali e la ricchezza di contributi del volontariato e della comunità esterna, ricompone il cammino di una società, interrotto da avvenimenti di violenza e di dolore". Marcella Reni, Presidente di Prison Fellowship Italia Onlus, ha parlato delle iniziative per la rieducazione dei carcerati. Fra queste, il Progetto Sicomoro, che, senza fare sconti di pena, fa incontrare detenuti e vittime di reati all’interno del carcere in un percorso di riumanizzazione perché assieme percorrano un cammino di risocializzazione secondo i concetti di responsabilità, confessione, pentimento, perdono, riconciliazione, riparazione, attraverso l’abbandono del contesto criminale e per un nuovo senso di giustizia. Il programma ha effetti profondi sulle vittime e i colpevoli. Molte vittime hanno riferito di aver ricevuto un processo di guarigione dal dolore morale e dalle paure dovute alla violenza subita. Gli autori dei reati sono accompagnati a confrontarsi, molte volte per la prima volta, sul danno procurato ad altre persone dalle loro cattive azioni. "Le vittime - ha spiegato Marcella Reni - hanno bisogno di vedere riconosciuto, in concreto, che hanno subito una ingiustizia e i detenuti hanno bisogno di essere riconosciuti nella loro dignità di uomini, prescindendo dal loro crimine. La dottrina della "giustizia riparativa" sottolinea la necessità della riparazione del danno causato dal comportamento criminale ed è realizzata attraverso processi di cooperazione che includono tutte le parti interessate perché i tanti assetati di giustizia - di una giustizia giusta, una giustizia che giustifichi e renda giusti rapporti che non lo sono stati - possano trovare ristoro". "Addiopizzo" per la certezza della pena: la petizione in Parlamento e su change.org di Michele Cucuzza Corriere della Sera, 9 aprile 2016 Niente sconti di pena, né riti abbreviati o patteggiamenti per i condannati per i reati più gravi, quelli che turbano maggiormente l’opinione pubblica (omicidio, terrorismo, mafia, violenza sessuale, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina). Condanne più severe per chi viola le norme dei codici nella pubblica amministrazione (dalla corruzione all’abuso d’ufficio). Nessun beneficio per i recidivi, i latitanti e gli evasi nuovamente catturati. Tutto questo allo scopo di rendere più difficile la consuetudine per cui chi si macchia delle colpe più frequenti e intollerabili riesca rapidamente e puntualmente a uscire di prigione, facendola sostanzialmente franca. È la "certezza della pena", così come la invoca "Addiopizzo", associazione di volontariato antiracket di Catania (oltre 100 tra imprenditori, commercianti e professionisti che pubblicamente hanno dichiarato di non pagare la mazzetta alle cosche, interventi nelle scuole e nelle case famiglia, murales in città per diffondere tra i giovani la memoria delle vittime di Cosa nostra). Una proposta di riforma di diverse norme dei codici che è già stata appoggiata da singole personalità come Manfredi Borsellino, Sonia Alfano, il vicepresidente della commissione antimafia Claudio Fava, l’attore siciliano Leo Gullotta e che la presidente di "Addiopizzo", l’avvocata Chiara Barone, ha depositato in Parlamento, secondo la norma della Costituzione che prevede petizioni dei cittadini alle Camere: la speranza è che adesso i parlamentari delle commissioni competenti decidano di esaminarla, eventualmente modificarla e portarla, in tutto o in parte, in aula per il voto. "Oggi", allarga le braccia Barone, "subisce la cosiddetta misura cautelare, cioè il carcere prima del processo solamente chi rischia non meno di 5 anni, anche se colto in flagranza di reato: è una pena altissima, che lascia in libertà moltissimi imputati, compresi coloro che devono rispondere di abuso d’ufficio, truffa, usura. Secondo noi si dovrebbe scendere a 3 anni. Non solo: diciamoci la verità. Anche dopo la condanna, chi ha commesso un omicidio, grazie a benefici vari, rimane generalmente in carcere per non più di 8-9 anni. È giusto? Non solo così non c’è nessun effetto deterrente, ma la società deve anche assistere passiva al paradosso per cui le vittime dei reati più gravi e le loro famiglie sono meno tutelate dei criminali che li commettono. Bisogna cambiare: andremo da tutti i gruppi politici, le istanze dal basso devono essere trasformate in legge dai nostri rappresentanti". "Addiopizzo" non si nasconde il rischio di essere etichettata come "manettara": "Hanno già cominciato a darci dei "giustizialisti". In realtà crediamo fortemente nella rieducazione del condannato, conquista fondamentale in un paese civile come il nostro, sempre che costui sconti effettivamente la pena. Facciamo sì, allora, che i sistemi rieducativi dentro le carceri funzionino veramente, che ci siano gli assistenti sociali, gli psicologi: investiamo nella rieducazione dei colpevoli". Altra obiezione: l’Italia ha un serio problema di sovraffollamento delle carceri, la Corte europea dei diritti dell’uomo ci ha condannati: "Ampliamo la capienza delle carceri" è la risposta. "Si può fare riutilizzando o recuperando le strutture in disuso ma già esistenti. E poi bisogna firmare accordi bilaterali con gli stati esteri perché gli extracomunitari, che in gran numero riempiono gli istituti penitenziari, scontino la pena nei loro paesi di origine. Altra misura, sempre invocata ma mai adeguatamente realizzata, l’incremento del personale nei tribunali, dai magistrati ai cancellieri, per accelerare i tempi dei processi. Le strade percorribili sono diverse: l’importante è non rassegnarsi a subire le carenze del sistema per giustificare il fatto che sempre meno condannati scontino il carcere". La proposta di "Addiopizzo" per la certezza della pena sarà nei dettagli on line, su change.org. A un anno dalla strage a Milano la sicurezza nei tribunali una priorità per il ministero di Andrea Orlando (Ministro della Giustizia) Corriere della Sera, 9 aprile 2016 Caro direttore, la sparatoria di un anno fa nel palazzo di giustizia di Milano costò la vita a tre persone: il giovane avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani, colpito dai primi spari esplosi dall’assassino; Giorgio Erba, coimputato dell’autore della strage nel processo per bancarotta fraudolenta, e il giudice Fernando Ciampi, raggiunto nel suo ufficio dopo la prima sparatoria. Alle loro famiglie va il pensiero in questa giornata nella quale sì rinnova un dolore inaccettabile. Altre due persone rimasero ferite. I fatti destarono grande impressione nell’opinione pubblica: non solo per la loro gravità, ma anche per il luogo in cui accadevano. Si amministra la giustizia, infatti, non per altro che per spegnere la violenza. In uno dei miti fondativi della nostra civiltà, l’Orestea di Eschilo, l’istituzione del tribunale di Atene da parte della dea mette fine a una lunga spirale di vendetta e ai suoi tragici spargimenti di sangue. I Tribunali sono luoghi di lavoro, frequentali ogni giorno da migliaia dì persone, ma sono anche obiettivi particolarmente sensibili, che richiedono un impegno particolare in termini dì sicurezza. Per questo motivo, ho posto l’esigenza di una compiuta rivisitazione della disciplina in materia dì sicurezza degli uffici giudiziari. Abbiamo bisogno di superare la frammentarietà della normativa attualmente vigente e soprattutto la complessa stratificazione di competenze, che ne rende complicata l’attuazione e, a volte, facilita il rimpallo di responsabilità. Ho avviato nei mesi scorsi una accurata riflessione, insieme con i Capi degli Uffici Distrettuali, a cui ho chiesto di contribuire individuando modelli, integrati e flessibili, che tenessero conto delle diverse caratteristiche dei relativi uffici. È evidente infatti che le esigenze di sicurezza di un grande palazzo dì giustizia, come quello di Milano, che peraltro adotta misure di protezione assai avanzate, sono diverse da quelle di un piccolo Tribunale. Questo è tanto più necessario, in quanto dal settembre dello scorso anno le spese di funzionamento degli uffici sono state trasferite al Ministero, con importanti economie dì spesa, ma anche con inediti profili organizzativi. Il recente regolamento di Organizzazione del Ministero ha istituito infatti nuove articolazioni amministrative decentrale, le "Conferenze permanenti", alle quali riconosce attribuzioni funzionali allo svolgimento delle attivitàdegli uffici, e compiti anche in merito all’individuazione dei fabbisogni legati alla sicurezza. Di regola, le misure organizzative non destano la stessa attenzione che viene solitamente riservata ai piani alti della legislazione. Eppure sono fondamentali, per il buon funzionamento del servizio giustizia. Per questo, voglio assicurare che su questo versante l’impegno del Ministero e mio personale è costante. Siamo del resto riusciti, per la prima volta dopo anni, a invertire la tendenza alla riduzione degli investimenti, reperendo nuove risorse per il supporto all’organizzazione. Molto, ovviamente resta da fare, ma possiamo e vogliamo farlo, per usare anche noi le parole con cui Eschilo celebra l’istituzione del tribunale e l’amministrazione della giustizia ad Atene: "Mi è cara questa comunità, amo questa città". La memoria dei tragici fatti dello scorso anno va custodita, io credo, dentro queste semplici parole. Stefano Anastasia nuovo Garante dei detenuti in Umbria da Forum Droghe fuoriluogo.it, 9 aprile 2016 Il Presidente della Società della Ragione, Stefano Anastasia, è stato nominato ieri dall’Assemblea Legislativa Umbra nuovo Garante regionale delle persone private della libertà personale in sostituzione del prof. Carlo Fiorio. Laureato in Scienze politiche nell’Università degli studi di Bari, ha conseguito il dottorato di ricerca in "Diritto europeo su baste storico-comparatistica" nell’Università di Roma Tre. I suoi interessi scientifici vertono principalmente sulla teoria e la storia dei diritti umani, sul rapporto tra potere e legittimità e sull’esecuzione penale e la privazione della libertà. È attualmente ricercatore di Filosofia e Sociologia del diritto presso l’Università di Perugia, Anastasia insegna Filosofia del diritto nell’ambito dei Corsi di laurea in Scienze dei servizi giuridici e per funzionario giudiziario e amministrativo attivati presso la Facoltà di Giurisprudenza. Iscritto all’albo dei docenti dell’Istituto superiore di studi penitenziari (Issp) del Ministero della giustizia, è condirettore di Antigone. Quadrimestrale di critica del sistema penale e penitenziario e fa parte della direzione di Democrazia e diritto, della redazione di Studi sulla questione criminale, del Comitato scientifico internazionale della rivista Critica penal y poder (Barcellona, ES). Esperto del Consiglio d’Europa a supporto del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene inumani o degradanti, è è Presidente de La Società della Ragione Onlus e Presidente onorario dell’associazione Antigone, per i diritti e le garanzie nel sistema penale, e componente del Comitato scientifico internazionale dell’Osservatorio sul sistema penale e i diritti umani istituito presso l’Università di Barcellona (Spagna). È stato presidente della Conferenza nazionale del volontariato della giustizia, organismo rappresentativo del volontariato penitenziario. Dal 2001 al 2006 è stato Direttore del Centro di studi e iniziative per la riforma dello Stato in Roma, di cui attualmente è responsabile delle attività editoriali. Autore di articoli, saggi e interventi in materia di politica del diritto e della giustizia per giornali, riviste e volumi collettanei, ha pubblicato L’appello ai diritti. Diritti e ordinamenti nella modernità e dopo (Torino, 2008), Patrie galere. Viaggio nelle carceri italiane (con P. Gonnella, Roma 2005) e Il caso Venezia. Una estradizione a rischio capitale (Roma, 1996). Ha curato, con F. Corleone, Contro l’ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione, la dignità della persona (Roma, 2009), con P. Gonnella, Inchiesta sulle carceri italiane (Roma, 2002) e, con M. Palma, La bilancia e la misura. Giustizia, sicurezza, riforme (Milano, 2002). La sua ultima monografia è Metamorfosi penitenziarie. Carcere, pena e mutamento sociale (Ediesse 2012). Insieme a Luigi Manconi, Valentina Calderone e Federica Resta ha pubblicato nel 2015 per Chiarelettere il volume Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini. A Stefano Anastasia, collaboratore fisso di sito e rubrica di Fuoriluogo vanno i complimenti della redazione di Fuoriluogo e dell’Associazione Forum Droghe. Gorizia: nel carcere aperta una "Sezione omosessuali" di Roberto Covaz Il Piccolo, 9 aprile 2016 I tre detenuti devono stare sempre in cella per problemi di sorveglianza. Presenti 28 agenti su un organico previsto di 43. Rischio paralisi. Apre la sezione omosessuali, unica nel Friuli Venezia Giulia, e il carcere di Gorizia rischia la paralisi. Complice anche la drammatica situazione dell’organico privato di almeno dieci agenti e gravato da diverse assenze lunghe per malattia. Nella sezione omosessuali ci sono tre detenuti, provenienti da Trento e da Bolzano. Dal capoluogo altoatesino è giunto Cleto Daniel Tolpeit, 45 anni, che lo scorso 24 gennaio ha ucciso la madre di 86 anni con una trentina di coltellate. La tragedia si è consumata a San Lorenzo di Sebato, vicino a Brunico. La conferma che i problemi di gestione del carcere di Gorizia sono gravi arriva dal sovrintendente di Polizia penitenziaria Alessio Macor della Fns-Cisl. La sezione omosessuali è stata istituita senza però dotarla delle necessarie strutture né provvedendo al rinforzo dell’organico. Il risultato è che i tre ospiti dichiaratisi omosessuali - e definiti "problematici" - sono rinchiusi in due celle nell’ala ristrutturata del carcere. In una cella è rinchiuso uno, due nell’altra. Impossibile la convivenza di tutti e tre nella stessa cella. I tre, per mancanza di spazi adeguati e di personale di sorveglianza, non possono mai uscire dalle celle, né impegnarsi nelle attività culturali, scolastiche e lavorative come gli altri detenuti. Una doppia reclusione. Tra i vari altri problemi sul tappeto c’è anche la mancanza di una sala colloqui tra detenuti e avvocati degna di questo nome. La saletta sarà a breve attrezzata ad ambulatorio dove, tra l’altro, si procederà al tampone sui detenuti per la schedatura del Dna. Il quadro che fornisce Macor è di un carcere al limite dell’operatività: "In effetti la situazione si è aggravata a seguito dell’apertura della nuova sezione "omosessuali" che per garantire la piena efficienza deve essere vigilata con continuità e maggior attenzione, cosa assai complessa da attuare con l’attuale organico. Sono stati accorpati molti posti di servizio, pertanto tre uffici, che prevedevano tre unità più i sostituti al momento sono retti da una sola unità e anche gli altri addetti ai servizi fissi sono chiamati a coprire le esigenze del turno e pertanto tutto il personale è allo stremo arrivando a effettuare turni di 8 ore diversamente dalle 6 previste dall’ accordo quadro, raggiungendo anche 40 ore di straordinario mensili. È in questa situazione che il personale si vede tolti i riposi settimanali o viene richiamato in servizio al termine del proprio turno. Così stando le cose, lavoriamo solo sulle emergenze procrastinando attività che in realtà non sono secondarie. Non essendoci un direttore in pianta stabile, la ordinaria gestione amministrativa ne soffre considerando che l’ attività dell’istituto è molto burocratizzata e richiede un enorme dispendio di lavoro ed energie. Attualmente la pianta organica è di 40 unità a fronte delle 43 previste. Ma causa assenze a vario titolo in servizio vi sono 28 agenti". Gorizia: celle solo per i gay, divampa la polemica di Christian Seu Messaggero Veneto, 9 aprile 2016 Nel carcere di Gorizia una sezione per omosessuali: protestano le associazioni Lgbt. Il carcere di Gorizia apre un’area protetta destinata in maniera esclusiva ai detenuti dichiaratamente omosessuali. Un "circuito" - come viene definito nel gergo delle forze dell’ordine - che attualmente ospita tre detenuti, tra cui Cleto Daniel Tolpeit, il quarantacinquenne che lo scorso gennaio ha ucciso la madre di 86 anni con una trentina di coltellate a Brunico. La decisione di attivare la sezione dedicata ai reclusi gay ha scatenato reazioni contrastanti, sia tra le associazioni Lgbt che tra le istituzioni che tutelano i diritti dei detenuti. Nelle scorse settimane il caso è approdato anche in commissione regionale Welfare, con l’audizione di Pino Roveredo, che da alcuni anni ricopre proprio l’incarico di garante regionale dei diritti delle persone in stato di detenzione. La struttura protetta - La sezione è stata attivata a metà agosto su indicazione del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto, che ha competenza sulle carceri di Friuli Venezia Giulia, Veneto e Trentino Alto Adige. Il circuito dedicato agli omosessuali è l’unica struttura nel suo genere aperta nel territorio della circoscrizione ed è tra le poche attive in Italia. A Belluno è invece in funzione una sezione destinata in maniera specifica ai detenuti transessuali. Il primo detenuto gay ha varcato la soglia della cella ricavata al primo piano dell’istituto di pena di via Barzellini lo scorso agosto, seguito da altri tre arrivi: uno degli ospiti, nel frattempo, ha lasciato la struttura circondariale a gennaio, dopo la concessione degli arresti domiciliari. Un mese dopo, la nuova sezione ha accolto il citato Tolpeit, destinato al carcere di Gorizia dopo aver dichiarato la propria omosessualità. Gli spazi riservati ai detenuti gay si trovano al primo piano del penitenziario del capoluogo isontino, "nell’ala appena ristrutturata", come specificato da Alberto Quagliotto, che in queste settimane sostituisce alla guida del carcere la direttrice Irene Iannucci. L’area si estende su una superficie di 63 metri quadri, con due stanze e un bagno: sono state ricavate una zona giorno, con angolo cottura e tavoli, e una zona notte, attrezzata con tre letti. Le problematiche, tuttavia, non mancano: a causa della mancanza di personale e dell’isolamento dell’ala ristrutturata rispetto al resto dell’immobile che ospita il penitenziario, i tre detenuti ospitati nella sezione protetta non possono prendere parte alle attività di rieducazione previste. La posizione dell’Arcigay - "Garantire il benessere della popolazione carceraria dichiaratamente omosessuale è un dovere. Ma non è possibile realizzare un’iniziativa del genere in queste condizioni, in piena carenza di personale e in strutture non adeguate", commenta il presidente di Arcigay Friuli, Nacho Quintana Vergara. "Di per sé l’istituzione della sezione protetta costituisce un passo avanti nella tutela dei diritti degli omosessuali, ma è evidente che la misura risulta inefficace se non viene garantita ai detenuti la fruizione alle attività rieducative". Secondo Quintana Vergara, "i carcerati omosessuali sono più esposti a casi di violenza e pochissimi sono quelli che decidono di dichiararsi, proprio per evitare ritorsioni e atti persecutori". Secondo quanto riferito dall’esponente dell’associazione che tutela i diritti degli omosessuali, "nei penitenziari della regione non si sono registrati casi estremi di discriminazione, ma in altre situazioni le angherie subite hanno portato i detenuti gay anche a tentare il suicidio". Difficoltà di gestione - L’istituzione della nuova sezione ha causato grattacapi anche al personale e alla Polizia penitenziaria, costretta a fare i salti mortali per garantire il controllo costante dell’area distaccata ricavata per accogliere i detenuti omosessuali. La ridistribuzione dei turni ha cancellato in molti casi ferie e permessi per gli agenti: attualmente risultano in servizio quaranta poliziotti, a fronte dei 43 previsti dalla pianta organica. Ma soltanto 28 agenti risultano effettivamente in servizio, a causa di assenze a vario titolo. Personale ausiliario, Polizia penitenziaria e detenuti attendono ora il completamento dei lavori nella struttura di via Barzellini, ancora alle prese con problematiche che saranno superate soltanto quando partirà il secondo lotto dell’intervento di ristrutturazione. Gorizia: il Garante "il reparto omosessuali va chiuso immediatamente" Il Piccolo, 9 aprile 2016 "Calpestati tutti i diritti. Omosessuali privati di ogni libertà di movimento". "La sezione omosessuali va chiusa. Subito. Ma è tutto il carcere che va chiuso. Non si può procedere alla ristrutturazione del secondo lotto alla presenza dei detenuti". Opinione che non si presta ad equivoci quella espressa da don Alberto De Nadai, garante per i diritti dei detenuti reclusi a Gorizia. "Sto ospitando a casa mia - svela don Alberto - un detenuto che era rinchiuso nella sezione omosessuali. Ora deve scontare ancora due mesi di arresti domiciliari e quando ha deciso di prenderlo con me era sull’orlo della depressione. Non è pensabile detenere un uomo in quelle condizioni. Non basta prevedere per legge la sezione omosessuali, o tossicodipendenti, o alcolisti senza provvedere ad un’adeguata organizzazione del servizio. Oggi a Gorizia i detenuti omosessuali hanno meno diritti degli altri detenuti, cioè zero. Inoltre, la nuova sezione ha notevolmente peggiorato il già pesante carico di lavoro della polizia penitenziaria". In via Barzellini sono rinchiuse in questo periodo circa 40 persone, la metà delle quali è di origine straniera. Gli agenti lamentano tra le altre cose la scarsa presenza di mediatori culturali che potrebbero essere molto utili a un miglior inserimento di questi detenuti. Non passa giorno che si verificano episodi di autolesionismo e il taglio delle vene dei polsi è più frequente. Di conseguenza gli agenti devono provvedere a continui trasporti all’ospedale di Gorizia per sottoporre i detenuti alle cure del caso. Quanto al futuro del carcere di via Barzellini don De Nadai è categorico. "Va chiuso il tempo necessario per provvedere alla ristrutturazione completa della seconda ala. È insostenibile per tutti procedere all’intervento in presenza di detenuti e guardie". Palmi (Rc): in carcere col tumore, gli mettono il nipote in cella per accudirlo di Claudia Osmetti Libero, 9 aprile 2016 Lo hanno arrestato nel 2011 perché faceva parte di un clan della ‘ndrangheta calabrese: sono cinque anni che, dietro le sbarre dell’istituto penitenziario di Palmi (Reggio Calabria), convive con un tumore al cervello e un progressivo calo della vista che lo ha reso quasi cieco. Non può quasi più muoversi, non riesce nemmeno a prepararsi il caffè da solo. Ma la "giustizia" non gli concede i domiciliari. Così Francesco Ieraci, 66 anni, ex malavitoso, tutto quello che ha ottenuto ("istanza sopra istanza, rigetto sopra rigetto") è stato un trasferimento: una mattina l’hanno spostato in un’altra cella, quella del nipote, anche lui detenuto, che adesso gli fa da badante. Non serve puntare i pugni sul tavolo, alle volte basta un briciolo di umanità: Ieraci quel cancro se lo porta dentro da quasi dieci anni, è stato seguito anche da un oncologo del San Raffaele di Milano. Che la sua malattia sia cosa seria, insomma, è fuor di dubbio. Il 3 maggio di cinque anni fa, però, è finito in manette con altre 40 persone: "Con la mia libertà è svanito anche il sogno della guarigione" scrive, aiutato dal nipote, al Movimento Diritti Civili di Franco Corbelli, attivista per i diritti degli ultimi in Calabria, al quale si rivolge per chiedere aiuto. "Non chiedo nulla di impossibile, nulla che possa riguardare la mia posizione giuridica, chiedo soltanto di avere, da essere umano, la possibilità di essere curato". Niente da fare. Il fatto che non sia autonomo, che abbia bisogno di assistenza anche per cose banali come l’igiene intima quotidiana, che abbia la vista oramai ridotta al 15% e destinata a calare ulteriormente, che l’emicrania non lo abbandoni mai, giorno e notte, non ha smosso la sua situazione. Quei dieci anni e sei mesi che si è preso in appello (il primo grado era stato anche più severo, gliene avevano dati quasi 16) deve scontarli per forza in cella. Non si possono nemmeno tramutare in arresti domiciliari. Ieraci deve restare in carcere. Dentro, tra l’altro, c’è finito quando la squadra mobile di Reggio Calabria ha scoperchiato un complicato intreccio tra ‘ndrangheta e politica nella cittadina di Marina di Gioiosa Ionica, a pochi chilometri da Locri. Una primavera di qualche anno fa che è stata un vero e proprio terremoto per quel paesino di neanche 7mila abitanti a ridosso del mare: in manette ci sono finiti pure il sindaco, due assessori e un poliziotto. Ieraci era una semplice pedina, un pesce piccolo: ciò non toglie che abbia sbagliato, intendiamoci. Due gradi di giudizio l’hanno già messo nero su bianco. D’altronde è un tema di coscienza ancora poco trattato, quello dei detenuti con gravi problemi di salute che non riescono ad accedere alle cure mediche. Ci hanno provato solo i Radicali a scoperchiare le vergogne di una giustizia dal volto poco umano. Qualche mese fa Rita Bernardini era in sciopero della fame per chiedere la revoca del carcere duro a Bernardo Provenzano, il boss mafioso condannato a tre ergastoli e oramai ridotto in fin di vita: non è servito a nulla. Roma: Giachetti (Pd); reinserimento detenuti volano che fa bene a giustizia e cittadini Agenparl, 9 aprile 2016 "Ho sempre avuto a cuore il tema delle carceri e non sono mai stato d’accordo con chi diceva che quando si mette qualcuno in galera bisogna buttare la chiave. Quella chiave non va buttata mai, perché ogni detenuto che impara un lavoro, che studia, che si impegna nel sociale è un valore aggiunto per tutti. Lo dice la nostra Costituzione. Per questo sono molto contento dell’accordo raggiunto tra il ministro della giustizia Andrea Orlando e il commissario Tronca per l’impiego di cento detenuti nei servizi di pubblica utilità, come la manutenzione delle aree verdi che molto spesso sono lasciate all’incuria, come mi è capitato di vedere in questi mesi di incontri in giro per Roma. Credo che il reinserimento dei detenuti sia un volano che fa bene alla giustizia, al comune e ai cittadini. Roma torna la capitale della solidarietà, ed è una bella notizia per tutti. Questa misura sarà da me confermata e ulteriormente potenziata se dovessi essere scelto come sindaco dai miei concittadini, e così farò ogniqualvolta il commissario Tronca prende scelte nell’interesse di Roma e dei romani". Lo scrive Roberto Giachetti, candidato alle primarie del centrosinistra, su Facebook. Roma: a San Pietro in pellegrinaggio i detenuti a fine pena dell’Isola solidale agensir.it, 9 aprile 2016 In occasione del Giubileo straordinario indetto da Papa Francesco e dedicato alla misericordia, domani si terrà uno speciale pellegrinaggio degli ospiti dell’Isola solidale di Roma, struttura che accoglie detenuti a fine pena o in libertà vigilata. Domani il gruppo di oltre 40 persone dell’Isola Solidale oltre a partecipare all’udienza con il Papa percorrerà tutto l’itinerario giubilare fino a passare sotto la Porta Santa. Al termine è prevista anche una visita guidata alla Basilica Vaticana. "Questo Giubileo speciale - spiega Alessandro Pinna, direttore dell’Isola solidale - si è realizzato grazia alla volontà dei nostri ospiti che ci hanno chiesto di potere trasformarsi in pellegrini almeno per un giorno. Un ringraziamento speciale a monsignor Paolo Lojudice, ausiliare di Roma che li ha preparati a questo importante appuntamento". L’Isola è nata oltre 30 anni fa sull’Ardeatina con lo scopo di accogliere le persone che in uscita dal carcere non hanno nessuna prospettiva di reinserimento o una famiglia a cui fare riferimento. Oltre ad offrire l’ospitalità, la struttura mette a disposizione anche la possibilità di un impegno lavorativo sia nei laboratori interni di falegnameria, restauro e meccanica, ma anche nell’agricoltura negli orti e nelle sere dell’Isola Solidale. "I gesti di Papa Francesco - aggiunge Pinna - nei confronti di chi vive in carcere hanno lasciato una grande segno di speranza e per questo i nostri ospiti, tutti, hanno desiderato di vivere questa giornata per portare il loro saluto ideale in San Pietro al Pontefice". Parma: detenuto in coma dopo pestaggio in carcere La Repubblica, 9 aprile 2016 Dritan Demiraj, condannato all'ergastolo per duplice omicidio, è stato aggredito da un altro carcerato. Dritan Demiraj, il fornaio albanese che sta scontando l'ergastolo per il duplice omicidio della ex Lidia Nusdorfi e dell'amante della donna, Stefano Mannina, è in coma dopo essere stato picchiato da un altro detenuto, un ex pugile romeno, nel carcere di Parma. Demiraj è ricoverato in Rianimazione ed è in gravi condizioni. Non sono ancora chiari i motivi dell'aggressione. La condanna all'ergastolo per i fatti di Mozzate era stata pronunciata lo scorso 14 marzo scorso a Rimini. Firenze: dai i francobolli, ricevi i cd... l’iniziativa per i detenuti gonews.it, 9 aprile 2016 Il Sindaco di Bagno a Ripoli (Fi), in quanto primo Comune d’Italia ad aderire al progetto culturale sul baratto tra materiale filatelico e cd, ha consegnato a Ululati dall’Underground una busta contenente francobolli della corrispondenza cartacea indirizzata all’Amministrazione, raccolti dagli uffici, ricevendo dalle mani di Passarella 50 cd ancora sigillati, che andranno a rimpinguare il patrimonio della Biblioteca Comunale. Ed è solo l’inizio. Da oggi parte l’iniziativa "Più musica grazie ai vostri francobolli": presso l’Ufficio Relazioni con il Pubblico (Palazzo Comunale) e la Biblioteca Comunale di Ponte a Niccheri, i cittadini troveranno una scatola dove potranno portare francobolli e cartoline affrancate per contribuire direttamente all’iniziativa. Il progetto nasce inizialmente come recupero sociale dei detenuti. In seguito, si trasforma in una concreta promozione di giovani musicisti. A chi consegna i francobolli, infatti, la U.d.U. Records regala cd musicali di band o solisti emergenti, favorendone la conoscenza e la distribuzione. Sino ad oggi oltre 400 i cd regalati da U.d.U. Records agli aderenti al progetto. I francobolli sono andati, prima ai detenuti e giovani collezionisti (che hanno chiesto un aiuto concreto), poi gli album classificatori a studenti stranieri e le donazioni di collezioni (tematiche e non) a 4 ragazzi difficili. "Una volta era il postino a portare le notizie ed è un ruolo che ha svolto egregiamente per oltre un secolo! - ha dichiarato Giancarlo Passarella - Da qui l’idea di puntare su un brano come Please Mr. Postman (interpretato anche dai Beatles) per lanciare questo baratto: non importa se il disco vale 100 volte di più di un francobollo usato, perché la nostra iniziativa non ha fini commerciali, ma apre nuove opportunità alla tanta (e buona) musica non conosciuta e nel contempo riporta la filatelia al ruolo di collante culturale. Le scelte speculative degli ultimi decenni hanno penalizzato il collezionismo filatelico, come quello discografico: giusto pertanto che le due realtà collaborino per costruirsi nuove strade comuni…!" "Abbiamo aderito con entusiasmo a questo progetto, che ha la bellezza della semplicità - ha dichiarato il Sindaco -, sia per i risvolti sociali che ha avuto nella sua prima fase di aiuto al recupero dei detenuti, sia per il suo sviluppo in senso artistico-musicale, con l’opportunità data a diverse band e solisti di farsi conoscere in maniera più diffusa e profonda, pur mantenendo comunque l’iniziativa una componente sociale. La musica distribuita non solo ha fatto la felicità di chi l’ha ascoltata, ma ha portato agli artisti coinvolti anche recensioni cartacee e sul web, interviste, serate, promozione. Il tutto attuato con pochi e concreti gesti quotidiani e con una concezione pura del collezionismo, che ha portato Bagno a Ripoli a diventare terra di filatelia interdisciplinare. Da questo nostro entusiasmo l’idea di allargare ai nostri cittadini la possibilità di fare la loro parte portando i loro francobolli usati direttamente in Comune, contribuendo in tal modo allo sviluppo del patrimonio della loro biblioteca". Cagliari: premiata la riproduzione della cella di Gramsci di un detenuto di Assemini di Antonio Pintori L’Unione Sarda, 9 aprile 2016 Ha riprodotto in miniatura, in maniera minuziosa, la cella di Antonio Gramsci in carcere. Per questo il detenuto Luigi Strazzera di Assemini è stato premiato per aver partecipato al concorso "Gramsci visto da dietro le sbarre", aperto ai carcerati di tutta Italia ed organizzato dall’Associazione Casa Natale Antonio Gramsci di Ales. Strazzera ha ricevuto il premio speciale di 500 euro, istituito dalla componente Sel del Gruppo Misto del Senato, nella comunità "Ponte" di Uta dal Senatore Luciano Uras, alla presenza di Alberto Coni e Paolo Zucca, presidente e socio dell’Associazione Gramsci ed il direttore e vicedirettore della comunità Paolo Laudicina e Ninni Sauro. L’opera premiata è ancora esposta nella sala convegni del Comune di Ales con gli altri cento dipinti arrivati da 28 carceri di tutta Italia. La mostra nelle prossime settimane lascerà il paese di Gramsci per essere riproposta a Lecce e poi all’interno del carcere di Tempio. Una bella iniziativa culturale ed artistica che ha favorito il reinserimento sociale dei detenuti. Venezia: il progetto teatrale "Passi Sospesi" di Balamòs presenta "Uomo invisibile" estense.com, 9 aprile 2016 Il testo di Musio esplora il tema dell’invisibilità come condizione nel mondo contemporaneo. Nell’ambito del progetto teatrale "Passi Sospesi" di Balamòs, teatro negli Istituti penitenziari di Venezia, e in occasione delle celebrazioni della 54° giornata Mondiale del Teatro e la terza giornata Nazionale di Teatro in carcere, lunedì 11 aprile alle 16, alla Casa di reclusione femminile di Giudecca (Venezia), sarà presentato lo spettacolo di Paolo Musio "Uomo invisibile". L’ingresso sarà riservato agli autorizzati, sarà completamente gratuito e avrà come obiettivo quello di ampliare, intensificare e diffondere la cultura teatrale dentro e fuori gli Istituti penitenziari di Venezia. Paolo Musio è attore e autore di testi teatrali e docente di recitazione all’accademia Nazionale di Arte drammatica Silvio D’Amico di Roma. Negli anni ha collaborato come attore con molti registi di rilievo come Mario Martone, Luca Ronconi, Theodoros Terzopoulos, Eimuntas Nekrosius, Giorgio Barberio Corsetti, Arturo Cirillo, Luigi Squarzina, Massimo Castri, Giovanni Testori, Werner Waas. Ha partecipato a numerose trasmissioni radiofoniche di Rai 3. "Come in un teatro anatomico esaminiamo i poveri resti dell’identità dell’uomo occidentale o come in un’aula di tribunale ascoltiamo una testimonianza impossibile, o come in un reparto neonatale per adulti tra le macerie della nostra vita attiva, cerchiamo ancora una volta un principio di azione, un senso reinventato di partecipazione, un modo per uscire in strada con una rinnovata volontà di rinascita". Il testo di "Uomo invisibile" esplora il tema dell’invisibilità come condizione nel mondo contemporaneo, attraverso la narrazione del romanzo di Wells ed il commento di Cioran dagli scritti "L’inconveniente di essere nati" e "La tentazione di esistere". "Nel mese di aprile - ha dichiarato l’autore, - con la presentazione dello spettacolo al Teatro scientifico di Verona e a seguire alla Casa di reclusione femminile di Giudecca, avrà inizio il progetto ‘Uomo invisibile tour europeo’. Visiterò teatri e luoghi inusuali, atelier di artisti e appartamenti privati, incontrerò cari amici, persone pensanti impegnate a vario titolo nella società, a vivere da cittadini in modo attivo in Europa oggi. Porterò con me, come per un viaggio in un nuovo medioevo, una sorta di icona portatile, una lastra di vetro trasparente, e un testo poco rassicurante, come uno specchio in cui leggere il nostro presente contraddittorio, in un tentativo di ricomposizione. È un viaggio la cui necessità risiede per me nel desiderio insopprimibile di dare con il mio lavoro una possibilità alla pace, e ad una pace duratura, raggiunta senza far sconti alla nostra coscienza, mentre tutt’intorno c’è incertezza e paura, violenza solitudine ed egoismo". Livorno: i dipinti del carcere di Porto Azzurro restaurati ed esposti al pubblico stamptoscana.it, 9 aprile 2016 La Saci, scuola d’arte americana con sede a Firenze, e i suoi studenti del corso in Conservazione e restauro salvano dal degrado importanti dipinti sei-settecenteschi del carcere di Porto Azzurro dell’Isola d’Elba. L’operazione è stata possibile grazie ad un accordo con la Soprintendenza delle Belle Arti e del paesaggio di Pisa e Livorno. Si tratta di una serie di pitture su tela provenienti dalla cittadella carceraria e in particolare dalla sacrestia e dalla Chiesa di San Giacomo al Forte, fondata nel 1654 e chiusa al culto nel 2005, che era stata al centro della rivolta dei detenuti del carcere nel 1987. Le strutture murarie e il tetto avevano subito gravi danni e le opere d’arte versavano in pessimo stato di conservazione. Complessivamente sono 11 tele di diverse dimensioni di scuola fiorentina, al momento di autore ignoto; alcune sembrano essere pervenute in dono dalla corte granducale toscana. Quattro delle opere, "Madonna incoronata" (XVII sec.), "Madonna fra i Santi Francesco e Luigi di Francia" (XVII sec.), "Le stigmate di san Francesco e i santi Luigi e Chiara" (XVIII sec.), "Madonna del Rosario e i santi Domenico e Caterina" (secolo XVIII sec.) sono state restaurate a titolo gratuito dalla Saci, grazie al lavoro di Roberta Lapucci, responsabile del dipartimento Conservazione Opere d’Arte e di Archeologia, che ha coordinato 8 studenti statunitensi arrivati in Italia per il Programma Post-Baccalaureate della durata di un anno accademico. Fra i restanti 7 sette dipinti, in attesa di passare alla fase di recupero e restauro, anche un prezioso "San Giacomo Matamoros", per il quale si ipotizza un’importante attribuzione ad un pittore fiorentino del ‘600, che sarà confermata a breve. Per il restauro di questo secondo lotto di pitture, la Soprintendenza delle Belle arti e paesaggio di Pisa e Livorno e la SACI sperano nel contributo proveniente da sponsorizzazioni. La Saci dal 1981 ha restaurato gratuitamente migliaia di pezzi di vario genere, fra opere pittoriche, scultoree, pitture murali e reperti archeologici, provenienti da musei, depositi, chiese e istituzioni nazionali e internazionali. Solo per citarne alcune: un cospicuo nucleo di opere provenienti dagli Ospedali di Santa Maria Nuova e di San Giovanni di Dio e dal Museo archeologico nazionale di Firenze, e il Caravaggio maltese "scoperto" nel 2007 proprio nel corso del restauro curato dalla scuola americana. I quattro dipinti restaurati saranno visibili al pubblico il giorno 9 aprile 2016 nell’allestimento che accompagnerà il simposio "Dipinti fuori dal carcere" (aperto al pubblico), in programma dalle 10 alle 17 alla Saci Gallery (via Sant’Antonino 11, Firenze), dedicato a questa straordinaria esperienza di salvataggio artistico. Immigrazione, il bisogno di una scuola europea di Emiliano Sbaraglia Corriere della Sera, 9 aprile 2016 "Una sorta di "altra Resistenza", contro la paura e contro la spinta a chiuderci dentro se stessi, per affrontare problemi che si possono risolvere soltanto attraverso gli strumenti della democrazia, in particolare quelli offerti dalla pubblica istruzione". Così sintetizza la presidente dell’Istituto Alcide Cervi, Albertina Soliani, i contenuti dell’incontro che si terrà nella sede di Casa Cervi a Gattatico (Re) venerdì 8 aprile, dal titolo "Costruttori di ponti - Europa. Italia Francia e Germania a confronto sull’integrazione delle nuove generazioni". Un convegno, è giusto sottolinearlo, pensato e organizzato ben prima degli attentati di Bruxelles, che recupera temi già affrontati lo scorso anno in ambito nazionale, ma che naturalmente assume oggi un significato ancor più profondo. "I fatti accaduti recentemente, da Parigi a Bruxelles, ci hanno fatto drammaticamente aprire gli occhi", prosegue Soliani. "Abbiamo bisogno di confrontare le esperienze nostre con quelle altrui, per capire se c’è un pensiero comune, specialmente sul tema dell’educazione. La nuova Europa nata dopo la Seconda guerra mondiale è un’area politica che aveva l’ambizione di risolvere i problemi a partire dall’educazione. Per questo qui da noi saranno presenti non solo ragazzi italiani, ma studenti di seconda-terza generazione, che arrivano da altre culture, con la speranza e il desiderio di costruire la loro vita". Le varie presenze che si alterneranno, in rappresentanza dei tre Paesi che storicamente costituiscono il cuore dell’Europa, nel corso del seminario proveranno dunque a ragionare insieme su alcune idee già condivise nel passato sul mondo della scuola, tentando di rispondere a domande divenute più che mai urgenti: in quale direzione deve orientarsi un’educazione segnata dalla presenza di cittadinanze multiple? Sono stati compiuti degli errori, ho piuttosto fatti dei passi in avanti? E la cosiddetta "via dell’Intercultura" può ritenersi ancora la più utile da percorrere? E ancora, sarà possibile costruire una visione unitaria europea dell’educazione sul tema della scuola, dell’integrazione e dell’interazione? Su questo ultimo punto sollecitiamo ancora la presidente Soliani "Secondo me può essere possibile, ma dobbiamo lavorare molto in direzione di una unità istituzionale, da realizzare attraverso la figura di un unico Ministro degli Esteri, dell’Interno, e per quanto ci riguarda anche e soprattutto dell’istruzione. Il dialogo di questi anni tra le scuole di Milano, Colonia, Parigi, deve diventare una cosa ordinaria, come se accadesse tra Roma e Palermo, per esempio. E ora più che mai è assolutamente necessario confrontarsi con altre aree calde, solo apparentemente lontane. Bisogna capire quali siano i problemi comuni, e quali soluzioni si possano dare, in modo da sviluppare una scuola europea per una convivenza europea dei prossimi anni, che possa essere più matura e viva, assorbendo il concetto di scambio culturale come fosse la normalità. In fondo è la storia e la tradizione del nostro Continente, di cui mi piace ricordare che la cultura araba per secoli è stata parte, contribuendo alla crescita dell’intera cultura europea, non soltanto in Italia". Torna in mente l’epoca di Federico II, quando il Sud del nostro Paese divenne culla di una civiltà intera, e nutrice della nostra lingua nascente. Oltre alle Crociate, e alle tante guerre del mondo, la Storia ci ha insegnato ben altro, indicando un percorso che può aiutarci a realizzare un futuro migliore. Costruendo ponti, piuttosto che innalzando muri. Droga a scuola: cresce il consumo di eroina tra i 15enni Corriere della Sera, 9 aprile 2016 Dal 2014 al 1015 è raddoppiato mentre è diminuito nella fascia di età fino al 19enni. In leggero calo anche l’uso di cocaina e allucinogeni. In un anno (dal 2014 al 2015) è raddoppiato il consumo di eroina tra gli studenti italiani quindicenni. Secondo l’ultimo rapporto dell’European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs, realizzato insieme all’Istituto di fisiologia clinica del Cnr a Pisa, l’utilizzo di eroina tra gli studenti di questa età è raddoppiato mentre se si considerano tutti gli studenti delle superiori tra 15 e 19 anni si è registrata una leggera diminuzione (dall’1,3% all’1%). L’indagine ha coinvolto circa 30 mila ragazzi italiani tra i 15 e i 19 anni. La stima che se ne ricava è che 650 mila studenti delle superiori (cioè uno su quattro) nell’ultimo anno hanno fatto uso di almeno una sostanza illegale (cannabis, cocaina, eroina, allucinogeni o stimolanti). Eroina - "Il 2% dei maschi 15enni dei circa 5 mila soggetti contattati ha dichiarato di avere consumato eroina almeno una volta nel mese precedente all’indagine", spiega Sabrina Molinaro, ricercatrice Ifc-Cnr e responsabile dello studio. Ed è proprio tra i 15enni che si registra la prevalenza più alta dell’uso di eroina, la droga più popolare dopo la cannabis tra gli adolescenti. Nel 2015, circa 3 mila 15enni maschi hanno sperimentato "la siringa": questa forma di assunzione è riscontrata soprattutto tra i maschi (l’1,4%, contro lo 0,6% delle studentesse) e sempre tra i giovanissimi (dall’1,3% dei 15enni, allo 0,9% dei 19enni).Tra tutti gli studenti esaminati, "l’uno per cento ha fatto uso di sostanze illegali per via iniettiva almeno una volta nella vita, un dato inquietante che dal 2010 non accenna a diminuire", prosegue Molinaro. Altre sostanze - Allucinogeni (dal 2,7% al 2,3%) e cocaina (3% al 2,6%) registrano un leggero calo. In aumento anche l’uso di smart drugs, facilmente reperibili sul web, ad esempio sotto forma di prodotti naturali. La farsa è finita: crisi diplomatica sul caso Regeni di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 aprile 2016 Il procuratore capo di Roma Pignatone dichiara fallito il vertice con gli investigatori egiziani. Stop alla collaborazione a senso unico. Il ministro Gentiloni richiama per consultazioni l’ambasciatore italiano al Cairo. Massari rientrerà probabilmente oggi stesso. Renzi ribadisce: "Ci fermeremo solo davanti alla verità vera". La reazione del Cairo è stupefatta: "Finora non siamo stati informati. Attendiamo il rientro dei nostri investigatori" Stop alla collaborazione a senso unico. Torna in patria per consultazioni l’ambasciatore italiano al Cairo, Maurizio Massari, probabilmente oggi stesso. È stato il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, a dichiarare fallito il vertice con gli investigatori egiziani che avrebbe dovuto dimostrare il "cambio di marcia" auspicato dal governo italiano e promesso dallo stesso generale Abdel Fattah Al Sisi, l’"amico" di Matteo Renzi. Quella collaborazione che è mancata da parte delle autorità cairote fin dal momento della scomparsa di Giulio Regeni, non si è concretizzata nemmeno nel lungo confronto durato due giorni, all’interno della Scuola superiore di polizia di via Guido Reni, attorno ad un dossier annunciato come corposo ed esaustivo di tutte le richieste italiane ma rivelatosi l’ennesima farsa. Pignatone ha detto basta. La decisione del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni è stata immediata: "Ho richiamato a Roma per consultazioni il nostro ambasciatore in Egitto. Vogliamo una sola cosa: la verità su Giulio Regeni". La crisi diplomatica è aperta. La rottura è sancita dalle parole di Matteo Renzi, in conferenza stampa da Palazzo Chigi: "L’Italia ha preso un impegno con la famiglia Regeni, a nostro avviso è fondamentale la valutazione che devono fare gli inquirenti e i magistrati. ll procuratore Pignatone e i suoi collaboratori si sono espressi al termine dei colloqui con gli inquirenti egiziani e la decisione del Governo italiano è arrivata immediatamente dopo. Il richiamo dell’ambasciatore è segno del rispetto dell’impegno del governo italiano: ci fermeremo solo e soltanto davanti alla verità, quella vera". Le prime reazioni dal Cairo - mentre il team di magistrati ed alti funzionari di polizia lasciava Roma per rientrare in Egitto, anticipando il volo previsto inizialmente per oggi - dimostrano l’incredulità di un regime che confidava nella forza degli interessi economici italiani e politico-militari europei: "Il ministero degli Affari esteri - affermava ieri sera, in un comunicato, il dicastero guidato da Sameh Shoukri - finora non è stato informato ufficialmente del richiamo del proprio ambasciatore al Cairo per consultazioni da parte dell’Italia sullo sfondo dell’omicidio di Regeni e delle ragioni di questo richiamo, tanto più che non c’è stato un comunicato sui risultati delle riunioni delle squadre d’inchiesta egiziana e italiana. Il ministero attende il rientro della delegazione degli inquirenti egiziani e attende di ascoltare le loro valutazioni sull’esito delle riunioni". In realtà il comunicato c’è stato, ed è pure "congiunto", come era stato annunciato all’arrivo della squadra egiziana capitanata dal procuratore generale aggiunto Mostafa Soliman. Ma non è altro che un verbale di intendi: ribadita la volontà di dare corso alla giustizia, confermata da entrambe le parti che "nessuna pista investigativa è esclusa", ribadita la piena disponibilità da parte egiziana a una collaborazione che "continuerà attraverso lo scambio di atti di indagine fino a quando non sarà raggiunta la verità". La procura di Roma però, pur mantenendo un aplomb istituzionale, mette a verbale che i magistrati egiziani "hanno riferito le circostanze attraverso le quali sono stati, recentemente, rinvenuti i documenti di Giulio Regeni e che solo al termine delle indagini sarà possibile stabilire il ruolo che la banda criminale, coinvolta nei fatti del 24 marzo 2016, abbia avuto nella morte del ragazzo italiano. La Procura di Roma ha ribadito il convincimento che non vi sono elementi del coinvolgimento diretto della banda criminale nelle torture e nella morte di Giulio Regeni". Incredibilmente dunque, le autorità giudiziarie egiziane puntavano ancora sull’ultima falsa pista, quella accreditata direttamente dal ministro degli Interni Magdi Abdel Ghaffar, per "tranquillizzare" l’alleato italiano. Mentre non c’è traccia del dossier investigativo di duemila pagine annunciato sui media governativi del Cairo: "Sono stati consegnati alle autorità italiane - prosegue il comunicato della procura di Roma - i tabulati telefonici delle utenze egiziane in uso a due amici italiani di Giulio Regeni presenti a Il Cairo nel gennaio scorso, la relazione di sopralluogo, con allegate foto del ritrovamento del corpo di Regeni, una nota ove si riferisce che gli organizzatori della riunione sindacale tenuta a Il Cairo l’11 dicembre 2015, cui ha partecipato Giulio Regeni, hanno comunicato che non sono state effettuate registrazioni video ufficiali dell’incontro". Nient’altro, rispetto a quanto già presentato il 14 marzo scorso durante il primo incontro con gli investigatori italiani al Cairo. Inevasa perfino la richiesta del traffico di celle reiterata da due mesi dal procuratore Pignatone e dal pm Sergio Colaiocco: "L’autorità giudiziaria egiziana ha comunicato che consegnerà i risultati al termine dei loro accertamenti che sono ancora in corso. La Procura di Roma ha insistito perché la consegna avvenga in tempi brevissimi sottolineando l’importanza di tale accertamento da compiersi con le attrezzatura all’avanguardia disponibili in Italia". Parole al vento, destinate a rimanere tali, se non accompagnate da un segno di volontà politica forte del governo italiano. Che finalmente è arrivato. Manconi: "Ora il Governo agisca con più determinazione sul caso Regeni" di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 aprile 2016 Il presidente della commissione Diritti umani: "Irrinunciabile ora - e di certo efficace - dichiarare l’Egitto Paese non sicuro. Il premier eserciti la pressione politica ed economica". Senatore Luigi Manconi, da presidente della commissione Diritti umani, lei ha seguito fin da subito, e a stretto contatto con la famiglia, il caso Regeni. E aveva anche previsto il sostanziale fallimento del vertice tra investigatori, ultima chance della linea attendista del governo Renzi. "Mai come in questo caso aver indovinato una previsione mi lascia un senso tragico di frustrazione. Aver immaginato questo esito non mi dà alcuna soddisfazione, anzi, e mi fa sentire ancora più drammatico il tanto tempo perduto e l’impotenza che in questi due mesi abbiamo dovuto registrare. Non sto accusando alcuno, perché il comportamento del ministro degli Esteri è stato prudente - personalmente l’ho considerato troppo prudente - e tuttavia Gentiloni è stato molto attivo, generoso e costantemente concentrato sulla ricerca di un esito positivo". Si è scommesso sulla trattativa attraverso canali riservati. Che cosa non ha funzionato? "Chiariamo una volta per tutte: una trattativa bilaterale che ruota intorno ad un orribile caso di tortura e omicidio comporta necessariamente il ricorso a canali riservati, a pressioni non pubbliche, a negoziati e a mediazioni continue. Ciò che penso è che questa via obbligata non sia stata finora accompagnata da un adeguato ricorso della forza democratica di cui il nostro Paese dispone. E della pressione politica ed economica che avrebbe potuto, e che ora più che mai deve, esercitare. Mi sembra di aver colto in sostanza, pur all’interno di una strategia razionale quale quella del ministro Gentiloni, qualcosa di simile a un complesso di inferiorità. Quasi che non fossimo noi, in questa circostanza, a trovarci in una posizione di forza". In ballo ci sono gli interessi economici delle nostre imprese. "Lo ripeto: l’Italia è il secondo mercato europeo per i prodotti egiziani, lo sfruttamento del giacimento di gas Zhor interessa il nostro Paese ma altrettanto o ancora di più l’Egitto, e il pil egiziano per il 12,8% è dato dal turismo. Tre strumenti formidabili, democratici e non bellici, e tre leve che avrebbero dovuto essere utilizzate e che mi aspetto vengano messe in moto a partire da oggi". Ma anche l’idea che Al Sisi sia una pedina fondamentale nella guerra contro il terrorismo islamico ha avuto il suo peso. "Non c’è alcun motivo perché si rinunci a quel ruolo che l’Egitto può giocare, ma mi rifiuto di accettare la falsa alternativa tra tutela dei diritti umani e le necessarie relazioni geo-politico-militari. Dunque, il richiamo dell’ambasciatore - richiamo e non ritiro - era ed è l’elementare premessa". Se è una premessa, quali mosse si possono prevedere adesso? "Il richiamo dell’ambasciatore non significa rompere le relazioni ma condurle con maggiore determinazione e con quel tanto di asprezza indispensabile. Ad esempio, dichiarare l’Egitto Paese non sicuro perché non ha offerto garanzie a Giulio Regeni, non le offre a migliaia di anonimi egiziani e stranieri che vivono lì, e non può offrirle a tanti nostri connazionali e a tanti europei che vorrebbero visitare l’Egitto, è una conseguenza irrinunciabile e che può rivelarsi assai efficace". Perché non è bastata l’autorevolezza del premier italiano che peraltro Al Sisi considera suo "amico"? "Perché evidentemente in quell’omicidio emerge la compromissione di segmenti degli apparati statali, e non solo di bassa forza, ai quali Al Sisi non può rinunciare. E dei quali non può liberarsi. In qualunque caso: sia che lo stesso al Sisi conoscesse in anticipo, o che avesse appreso in seguito, quanto accaduto al nostro connazionale". Il premier italiano non poteva immaginare un simile epilogo? "Matteo Renzi è stato vittima ancora una volta, diciamo così, del suo giovanile ottimismo". La barra dritta l’ha tenuta il procuratore capo di Roma. Qual è il ruolo di Giuseppe Pignatone? "Pignatone aveva fatto intendere sin dal primo momento che il suo ruolo era quello del fedele servitore dello Stato, che metteva a disposizione le sue grandi doti anche se in un quadro che riteneva compromesso. Si è comportato così perché gli è stato chiesto dal governo e per carità di patria. Ha resistito fino ad oggi per il suo modo coerentissimo di intendere il proprio dovere. Poi c’è un momento in cui anche il più freddo uomo delle istituzioni perde la pazienza". Stati Uniti: in aumento i detenuti accusati di terrorismo di Fabrizio Di Ernesto lultimaribattuta.it, 9 aprile 2016 Aumenta nelle carceri Usa il numero dei detenuti accusati di terrorismo; in particolare l’aumento dei reclusi dipende dalla volontà statunitense di diminuire il numero dei prigionieri nel carcere-lager di Guantánamo a Cuba. Barack Obama ne aveva promesso la chiusura nel 2008 ma nel 2016 il carcere nell’enclave statunitense è ancora funzionante. Secondo le ultime stime attualmente nelle carceri statunitensi sarebbero presenti 443 terroristi che vengono sottoposti agli interrogatori della Cia, l’intelligence a stelle e strisce, variamente accusati di aver commesso o pianificato attacchi contro gli Usa successivamente agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Tra i detenuti figurano anche Zacarias Moussaoui, il terrorista francese di origine marocchina accusato di essere coinvolto negli attacchi dell’11 settembre, e Dzhokhar Tsarnaev, uno dei due fratelli ceceni che hanno realizzato un attacco terroristico il 15 aprile 2013 a Boston in occasione della maratona in cui sono morte tre persone e più di 260 sono rimaste ferite. Di recente i repubblicani hanno bloccato il trasferimento di circa 10 terroristi detenuti nel carcere di Guantánamo, dove si troverebbero reclusi ancora 89 persone, alle carceri presenti sul territorio statunitense. Durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2008 Obama aveva promesso la chiusura del carcere ospitato dal 2002 in una delle più famosi basi militari Usa. Nel 2003 il mondo scoprì l’esistenza di questa prigione, inizialmente segreta perché coloro che vi veniva rinchiusi solitamente erano sottoposti ad un trattamento non conforme alle norme del diritto internazionale, in special modo quelle della Convenzione di Ginevra. Quell’estate infatti si diffuse la notizia che all’interno di questa base, in una zona speciale chiamata in codice Campo Delta, erano rinchiusi circa 700 detenuti di ben 42 diverse nazionalità. I primi prigionieri giunti qui erano stati rinchiusi nelle gabbie del Campo Raggi X, mentre dall’aprile precedente erano stati spostati in celle in muratura appositamente costruite, più piccole ma più confortevoli, almeno secondo le intenzioni del Pentagono. Il 16 febbraio del 2006 l’Onu, tramite l’allora segretario Kofi Annan, intimò agli Usa di chiudere il carcere. Citando il rapporto stilato da cinque osservatori indipendenti, Leandro Despouy, relatore speciale sull’indipendenza della giustizia, Paul Hunt, salute fisica e mentale, la signora Asma Jahangir, libertà di culto, Manfred Nowak, tortura, e la signora Leila Zerrougui, detenzione arbitraria, il numero uno del Palazzo di vetro chiese a Washington anche di evitare qualsiasi pratica che potesse essere considerata tortura o atto crudele, inumano e degradante. Nel documento di oltre cinquanta pagine, si affermava che il ricorso eccessivo alla violenza o l’alimentazione forzata dei detenuti in sciopero della fame erano comportamenti da considerare come "equivalenti alla tortura". Gli autori precisavano di non aver potuto recarsi nella base ma citavano informazioni secondo le quali, in varie circostanze, i detenuti sarebbero stati vittime di violazioni del diritto della "libertà di culto o di fede". Questo pronunciamento inoltre giungeva dopo la pubblicazione di una serie di foto che documentavano abusi ai danni dei detenuti. All’Onu si aggiungeva subito il Parlamento europeo che rinnovava l’invito alla chiusura. La reazione della Casa Bianca fu stizzita, tanto da polemizzare a distanza con l’Onu, accusata di screditarsi pubblicamente redigendo un simile rapporto. Secondo i dati ufficiali resi noti dal Pentagono dall’apertura della prigione al momento in cui venne stilato il rapporto all’interno di questo carcere speciale erano transitati circa 800 detenuti, e nel 2006 ve erano ancora circa 450; di questi però erano solamente dieci i detenuti formalmente incriminati e rinviati a giudizio di fronte alle Commissioni militari, i tribunali speciali creati dal Pentagono su ordine dell’ex presidente George W. Bush dopo i fatti dell’11 settembre 2001, la cui legittimità è stata però bocciata ben due volte dalla Corte Suprema. Bangladesh: blogger ucciso da Al Qaeda per i suoi post di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 9 aprile 2016 Si chiamava Nazimuddin Samad, aveva 28 anni e studiava Giurisprudenza all’Università. Tre persone che viaggiavano in sella ad una moto, al grido della "solita" espressione Allahu Akbar l’hanno massacrato a colpi di machete per poi sparargli un colpo di pistola alla testa verso le 8 di sera di mercoledì 6 aprile, mentre il giovane tornava a casa accompagnato da alcuni amici, con i quali pochi mesi fa era stato ammesso ai corsi accademici. I colleghi descrivono Nazimuddin come "un libero pensatore coraggioso", che sognava un Bangladesh laico, dove i diritti umani venissero rispettati. Era uno dei membri di un movimento nato nel 2013 con il nome di Gonojagoron Mancha - traducibile come "Piattaforma di Rinascita del Popolo" -, il quale difende la libertà d’espressione dei blogger e chiede che vengano puniti i criminali della Guerra di Liberazione iniziata il 26 marzo 1971 e terminata il 16 dicembre di quell’anno, combattuta tra Pakistan dell’est ed India contro Pakistan dell’ovest: da tale conflitto nacque il Bangladesh indipendente. Se da un lato vi furono le operazioni di guerriglia della Resistenza bengalese formata da militari dell’est, paramilitari e civili, dall’altra l’esercito del Pakistan e gruppi estremisti islamici compirono un genocidio della comunità bengalese. Le modalità dell’omicidio di Nazimuddin Samad si sono già "viste" lo scorso anno con almeno altri quattro blogger, uccisi da integralisti islamici che li bollavano come "atei", "infedeli, "blasfemi", "apostati dell’islam" e via di seguito. Nel febbraio scorso è toccato allo scrittore naturalizzato statunitense Avijt Roy, "caduto" nei pressi dell’Università di Dhaka; a fine marzo, sempre nella capitale bengalese, è stato ammazzato a colpi di machete il blogger Oyasiqur Rahman Babu; due mesi più tardi stessa sorte per Ananta Bijoy Das, ucciso nella città di Sylhet, area da cui proveniva anche Nazimuddin Samad, e ad agosto 2015, in pieno giorno, è accaduto a Niloy Chakrabarti, ucciso davanti alla madre e alla sorella; ancora, il 31 ottobre è stato accoltellato a morte Faisal Arefin Dipan. Inoltre sono stati gravemente feriti a colpi di machete l’editore Ahmedur Rashid Tutul ed i blogger Ranadipam Basu and Tareq Rahim. Già nel 2013 era stato ucciso a Dhaka il blogger Ahmed Rajib Haider. L’agenzia di stampa missionaria Asia News, che ha parlato della drammatica situazione della libertà d’espressione in Bangladesh, ha riportato anche una delle ultime frasi scritte su Facebook dal Nazimuddin:"Non appartengo a nessuna religione". E aveva esternato le sue preoccupazioni per l’avanzata dell’estremismo islamico nel suo Paese "senza" che il governo si preoccupi di contrastarlo. E sono stati proprio questi post a causare la sua morte. È quando sostiene Ansar al-Islam, la divisione del Bangladesh di al-Qaeda nel subcontinente indiano (Aqis) che ha rivendicato venerdì l’omicidio del blogger. Stati Uniti: dopo 37 anni nel "braccio della morte" condannato muore per cause naturali La Repubblica, 9 aprile 2016 È morto per cause naturali all’età di 78 anni, dopo averne trascorsi 37 e mezzo nel braccio della morte in Texas. Jack Harry Smith era stato condannato alla pena capitale nel 1978 per l’omicidio del cassiere di un supermercato. Arrestato per la prima volta nel 1955 per diverse rapine, condannato all’ergastolo per una rapina nel 1957, era stato posto in libertà condizionale nel 1977. Alle sue spalle anche un tentativo di evasione nel 1963. Durante i 37 anni e mezzo trascorsi da Smith nel braccio della morte, in Texas sono stati giustiziati 537 detenuti. Da anni era debilitato e la settimana scorsa il Dipartimento di Giustizia ne aveva disposto il trasferimento dal carcere in una clinica, dove è morto. Medio Oriente: detenuti gravemente malati nelle carceri israeliane di Romana Rubeo infopal.it, 9 aprile 2016 Il detenuto palestinese Yosri al-Masri ha ricevuto un bollettino medico da Israele che conteneva la diagnosi di un cancro con metastasi al fegato, ai polmoni e alla mandibola. Il fratello di Yosri, Yasser, ha dichiarato di aver ricevuto dal servizio penitenziario la convocazione dinanzi alla corte d’appello per il 23 aprile. Ha aggiunto che Yosri ha fatto richiesta di scarcerazione, avendo già scontato due terzi della pena ed essendo affetto da una patologia potenzialmente mortale. Yosri, malato di cancro, sta scontando una pena di 20 anni di reclusione per attivismo contro l’occupazione. Sono bruscamente peggiorate anche le condizioni di salute del prigioniero Azmi al-Nafaa, accusato di aver speronato un veicolo al check-point di Zaatara circa quattro mesi fa. Al-Nafaa è stato trasferito nell’ospedale giudiziario di Ramla. Il detenuto avrebbe bisogno di essere operato d’urgenza alla mascella e alla mano, a causa di gravi lesioni inflitte dai proiettili israeliani. Inoltre, il 16 gennaio 2016, l’intelligence israeliana ha posto il detenuto Abdullah al-Maghrebi in regime di isolamento a Ramla. Apprendiamo dal suo legale che Al-Maghrebi è entrato in sciopero della fame per protestare contro questa decisione: l’uomo, affetto da diabete, ha bisogno di dosi quotidiane di insulina. Congo: nella prigione militare di Angenga sono detenuti 29 minori di Andrea Spinelli Barrile ibtimes.com, 9 aprile 2016 Un peace-keeper della missione Onu denominata Monusco passa accanto a un militare congolese mentre offre servizio d’ordine durante una manifestazione a Beni, nord Kivu. Repubblica Democratica del Congo, 23 ottobre 2014. In un rapporto di Human Rights Watch pubblicato quattro giorni fa la Ong per i diritti umani denuncia la terribile situazione nel carcere militare di Angenga, nella Repubblica Democratica del Congo, dove sarebbero detenuti, tra gli altri, 29 minori tra i 15 e i 17 anni. La prigione militare di Angenga si trova a meno di 20 chilometri a nord della città di Lisala, la città di Mobutu Sese Seko situata sulla riva destra del fiume Congo, in una zona agricola molto remota del grande paese africano. Qui il governo congolese ha trasferito, lo scorso anno, 300 sospetti miliziani delle Fdlr (Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda), gruppo armato ruandese aderente alla dottrina hutu-power i cui leader si sono macchiati di crimini orribili durante il genocidio ruandese del 1994 e che oggi operano nella parte orientale del Congo-Kinshasa. Tra di loro, denuncia Human Rights Watch, ci sarebbero 29 minori e sarebbero tutti detenuti in condizioni terribili dal punto di vista igienico e umanitario, incarcerati senza alcun tipo di atto d’accusa ufficiale e in violazione del diritto internazionale sulla tutela dei prigionieri. Dopo il genocidio del Ruanda centinaia di migliaia di hutu ruandesi hanno lasciato il paese in massa con l’avanzata dei ribelli tutsi di Paul Kagame, oggi al potere: molti rifugiati hutu riversatisi in Burundi e sopratutto in Congo erano persone che avevano partecipato attivamente al genocidio del tutsi e nei campi profughi creatisi lungo il confine Congo-Ruanda si crearono veri e propri campi militari controllati da ex-criminali di guerra hutu, nei quali si preparavano le milizie Fdlr ad attacchi in territorio ruandese e dove si continua ancora oggi a diffondere la filosofia hutu-power. Nel Congo orientale nel 1996 si tenne la prima guerra del Congo, quando l’esercito ruandese formato dal Rpf ha invaso il Congo per distruggere i campi profughi uccidendo migliaia di persone. L’effetto inevitabile fu una retrocessione nelle foreste dei rifugiati scampati alla guerra e la conseguenza a lungo termine, che si riscontra ancora oggi, è che in Congo orientale risiedono decine di migliaia di rifugiati ruandesi senza uno status giuridico preciso: molti di loro si affiliano alle Fdlr incantati dalla filosofia hutu-power, dalla sete di vendetta sui tutsi, dagli stipendi promessi dalle milizie. Milizie che oggi controllano di fatto la politica burundese, dopo che il presidente del Burundi Pierre Nkurunziza li ha chiamati nel paese per coadiuvare gli sforzi repressivi, e c’è chi dice genocidari, delle milizie burundesi hutu-power Imbonerakure. In Africa prigioni come il carcere militare congolese di Angenga sono dappertutto e le atrocità che al loro interno vengono commesse sono quanto di più misterioso e oscuro si possa pensare: sono pochissime le testimonianze di ex-detenuti nelle galere del continente ma quelle che abbiamo potuto ascoltare raccontano regolarmente di una realtà drammatica, spesso inumana, disperante. Secondo Human Rights Watch la missione Onu in Congo-Kinshasa, la Monusco, è al corrente di questa situazione da ottobre ma fino ad oggi non ha fatto nulla né per denunciare le terribili condizioni di detenzione ad Angenga né per persuadere le autorità congolesi al rispetto dei diritti dei prigionieri: addirittura, secondo la Ong 10 dei minori attualmente detenuti nel carcere congolese sono stati consegnati dai caschi blu della Monusco ai congolesi. Ad Angenga le condizioni di vita descritte da Human Rights Watch sono terribili: cibo scarso, promiscuità tra detenuti, acqua fetida, condizioni igieniche inadeguate. Adulti e ragazzi trascorrono il tempo assieme, a far nulla, tutto il giorno, senza alcun tipo di separazione o attività rieducativa - quella della riabilitazione tuttavia è un’utopia in qualsiasi carcere africano e non solo: tra dicembre 2015 e marzo 2016 la Ong ha intervistato 52 detenuti, tra i quali tutti e 29 i minori, diversi funzionari della prigione, 40 tra militari e governativi congolesi, funzionari dell’Onu e operatori umanitari, cavandone testimonianze drammatiche. Secondo le testimonianze raccolte tra febbraio e giugno dello scorso anno le forze di sicurezza congolesi hanno arrestato 262 persone, uomini e ragazzi, nella provincia del Katanga, in nord Kivu e sud Kivu nel Congo orientale: "un numero considerevole di congolesi", ruandesi, burundesi, tutti accusati di essere miliziani hutu-power armati dalle Fdlr. Inizialmente detenuti a Goma sono stati trasferiti via aerea nella prigione militare di Angenga tra maggio e agosto dello scorso anno e a dicembre altri 60 sospetti miliziani li avevano raggiunti. Quattro di loro sono morti di malattie mentre altri due sono stati uccisi il 26 febbraio 2016 al di fuori delle mura di cinta della prigione, in quanto avrebbero tentato di darsi alla fuga. Ovviamente, come tutti i detenuti del mondo, anche loro sono tutti innocenti: dalle testimonianze raccolte da Human Rights Watch la maggior parte degli intervistati, 17 dei quali minorenni, affermano di non avere mai avuto a che fare con le Fdlr, altri sostengono di essere ex-miliziani "riformati" dal gruppo armato e tornati alla vita civile mesi o anni fa e molti dei ruandesi arrestati affermano invece o di essere stati arrestati dietro il pretesto della registrazione presso le agenzie nazionali ed internazionali per i rifugiati o di aver abbandonato la zona di operazioni militari e, giunti in un villaggio "sicuro", arrestati dalla polizia. Otto dei minorenni intervistati hanno invece affermato di essere stati dei bambini soldato affiliati alle Fdlr. Si sarebbero arresi alla missione Monusco nel nord Kivu ma avrebbero dichiarato loro di essere degli adulti venendo così consegnati alle autorità congolesi: secondo il comando dei caschi blu in Congo la consegna sarebbe avvenuta "erroneamente" e che la procedura corretta sarebbe stata quella di inviare gli ex-bambini soldato in un campo di riabilitazione. Va detto che la difficoltà di riconoscere un bambino soldato di 16 o 17 anni non è cosa da poco, soprattutto quando questi si dichiara adulto e maggiorenne: a marzo 2016, quando la missione Monusco ha inviato finalmente una missione per investigare sulle età dei detenuti nella prigione militare di Angenga, i funzionari delle Nazioni Unite hanno intervistato 94 "presunti minori" concludendo che "solo" 22 di loro erano realmente minorenni ma Human Rights Watch ritiene che il numero sia di molto superiore. Certamente nella prigione militare di Angenga sono detenuti alcuni, molti, combattenti delle Fdlr, alcuni dei quali è probabile siano stati coinvolti o si siano macchiati direttamente di crimini di guerra: tuttavia nessuno di loro è stato ancora processato o condannato. "Le autorità congolesi devono lavorare a stretto contatto con la Monusco affinché i minori escano da quella prigione. Loro non dovrebbero essere lì e viste le condizioni disastrose di quel luogo non dovrebbe esserci nessuno" ha dichiarato Ida Sawyer, ricercatrice senior di Human Rights Watch Africa mentre Charles Bambara, capo ufficio stampa della missione Monusco, ai microfoni di Rfi ha negato ogni addebito alla missione dei caschi blu dichiarando inoltre che "all’inizio della prossima settimana [dall’11 aprile 2016, nda] questi 22 bambini saranno scarcerati dalla prigione e consegnati all’Unicef per ricevere il sostegno necessario".