"Troppi divieti insensati", le richieste al governo per un 41 bis più umano di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 aprile 2016 Il cosiddetto "carcere duro" è diventato in molti casi troppo duro, ben oltre l’esigenza di tagliare e impedire i rapporti tra i detenuti e la criminalità organizzata di appartenenza. Ecco perché la Commissione Diritti umani del Senato, al termine di quasi due anni di indagine conoscitiva sull’applicazione dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario introdotto dopo le stragi di mafia del 1992, in una relazione approvata ieri a maggioranza (favorevoli tutti i gruppi tranne Forza Italia e Movimento 5 Stelle) affida a governo e Parlamento una serie di raccomandazioni. Tra le quali spicca la necessità di sorvegliare con maggiore attenzione la proroga di un regime di detenzione speciale che "dovrebbe essere applicato solo eccezionalmente e per limitati periodi di tempo", mentre c’è la preoccupazione che attraverso una "prassi della proroga" troppo disinvolta e routinaria, si finisca per non rispettare la ratio della legge. In particolare ci vorrebbe "una più accurata istruttoria" nei confronti delle persone "incapaci di intendere e di volere". La commissione ritiene necessario "adeguare alcune strutture a standard minimi di abitabilità", nonché "rivedere le limitazioni al possesso di oggetto nelle camere detentive", cioè le celle, "riservandole a ciò che ha effettiva incidenza sulle possibilità di comunicazione con l’esterno". L’organismo presieduto dal senatore Luigi Manconi ha visitato molti degli istituti dove sono rinchiusi i 729 carcerati al "41 bis" (tra cui 7 donne, i dati risalgono al 31 dicembre), raccogliendo indicazioni su quello che lo stesso Manconi definisce un "surplus di afflizioni, privazioni e restrizioni che non sembra avere ragion d’essere nella logica, prima ancora che nella legge". La relazione evidenzia che "c’è un limite preciso ai capi di biancheria che possono essere tenuti in cella, in molti casi considerato insufficiente; in alcuni istituti i sandali non possono essere indossati prima del 21 giugno", e se fa caldo prima pazienza. "Non si possono indossare abiti "firmati" perché potrebbero portare a episodi di conflittualità tra detenuti, ma non è chiaro in base a quale criterio si possa stabilire quando un abito sia o meno "firmato"". A un anziano detenuto con l’hobby della pittura "è stata negata l’autorizzazione a tenere in cella tela e colori, e può dipingere solo un’ora al giorno nella stanzetta della socialità", mentre uno che s’è laureato discutendo la tesi attraverso il vetro divisorio si lamenta che il tempo passato al computer venga sottratto all’ora d’aria. E ancora: "Alle pareti non è possibile tenere fotografie o altre immagini: in moltissimi casi questo divieto è stato presentato come esempio di una eccessiva rigidità e di una certa volontà punitiva". Tra i reclusi al "carcere duro" 29 lo sono da più di vent’anni (compresi i capimafia Totò Riina e Leoluca Bagarella), 161 fra dieci e venti, 321 fra i quattro e i dieci anni, e 204 da meno di quattro anni. I tre quarti (73,1 per cento) hanno almeno una condanna definitiva, e poco meno (70,8 per cento) sono in galera per il secondo comma dell’articolo 416 bis del codice penale: organizzatori e capi delle varie associazioni mafiose; il 21,3 per cento sono invece mafiosi "semplici", cioè partecipanti (non promotori) all’organizzazione criminale; l’1,6 per cento sono accusati "solo" di omicidio, lo 0,3 per strage e l’1,3 di estorsione. Tra le mafie di appartenenza spicca la camorra (40,3 per cento), seguita da Cosa nostra (27,6) e dalla ‘ndrangheta(21,7). I terroristi sono soltanto sei. "Su questa norma faremo le barricate, se qualcuno pensa di fare cortesie a qualche amico capomafia si sbaglia", tuona il grillino Giarrusso. Ma la commissione non mette in dubbio la legittimità del "carcere duro"; si tratta solo, spiega Manconi, "di verificare che rimanga nei limiti previsti dalla legge, senza sconfinamenti ingiusti e inutili". L’ex pm Sabella: proporzionalità e umanizzazione della pena base del sistema carcerario agensir.it, 8 aprile 2016 Proporzionalità e umanizzazione della pena. Sotto la guida di questi principi il sistema penale si dovrebbe reggere in Italia, secondo Alfonso Sabella, magistrato e già sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo guidato da Gian Carlo Caselli, intervenuto oggi al convegno sul tema delle carceri e la funzione della pena promosso dall’Università Europea di Roma. Ai principi, inoltre, non dovrebbe mancare la discrezionalità del giudice: "Applicare la legalità rigida - ha spiegato Sabella - senza la discrezionalità del giudice non porterà mai a una rieducazione dell’individuo. Ma secondo il nostro codice, secondo una norma ferma al fascismo, il giudice è ancora sottoposto all’obbligo di motivazione della discrezionalità". "Nella mia esperienza palermitana - ha ricordato - mi sono accorto che l’istituto dell’ergastolo deve essere mantenuto perché, d’altra parte, preferisco che lo Stato investa su chi effettivamente può essere rieducato". Riguardo al tema del sovraffollamento negli istituti detentivi, Sabella ha affermato di essersi opposto al Piano carceri in passato: "Non capisco perché si debbano spostare i detenuti da un carcere all’altro in base alla disponibilità di posto invece di costruirne dove c’è più bisogno - ha commentato, in questo modo si dividono le famiglie e non si permette alcun reintegro nel contesto sociale". Il magistrato ha infine criticato la scelta compiuta da Rai uno di trasmettere l’intervista al figlio di Toto Riina, ospitato dal programma Porta a Porta. "La Rai - ha concluso - dovrebbe assolvere alla funzione di servizio pubblico, in questo caso minata perché si offre un modello sbagliato alla società e al pubblico che allontana dalla riabilitazione". Reni (Prison Fellowship): la situazione delle carceri italiane è penosa "Oggi la situazione delle carceri è penosa, sono affollatissime". Lo ha detto oggi Marcella Reni, presidente dell’Associazione Prison Fellowship, a margine del convegno organizzato dall’Università Europea di Roma dal titolo "Funzione della pena, giustizia riparativa e amministrazione del sistema carcerario". "Dopo la sentenza Torreggiani della Corte di Strasburgo del 2013 - ha proseguito - la condizione era migliorata, ma ora siamo di nuovo a soglie che forse ci porteranno ad avere di nuovo problemi in Europa". Secondo la presidente della onlus, attiva in tutta Italia nell’osservazione della condizione carceraria e promozione di progetti per la riabilitazione sociale dei detenuti, quello che dovrebbe essere rivisto è il sistema di sanzione non più e non solo basato sulla detenzione ma anche su pene alternative. "Esistono reati - ha spiegato - che non devono essere puniti con il carcere ma con pene alternative, come le comunità e le strutture adeguate. Penso, ad esempio, alle case dedicate alle donne detenute con figli. In Italia ne contiamo una sola a Milano, per il resto, dobbiamo ammettere che sono rinchiusi molti minori innocenti in tutte le carceri". Nel Paese, ha concluso, "spendiamo una cifra sbalorditiva per le carceri, solo la metà potrebbe essere sufficiente per un sistema di pena differente e alternativo". La democrazia senza morale di Stefano Rodotà La Repubblica, 8 aprile 2016 Per chiedersi quale significato possa essere attribuito oggi a parole come "onestà" e "corruzione" bisogna partire dall’articolo 54 della Costituzione, passare poi ad un detto di un giudice della Corte Suprema americana e ad un fulminante pensiero di Ennio Flaiano, per concludere registrando il fatale ritorno dell’accusa di moralismo a chi si ostina a ricordare che senza una forte moralità civile la stessa democrazia si perde. NEL marzo di trentasei anni fa Italo Calvino pubblicava su questo giornale un articolo intitolato Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti. Vale la pena di rileggerlo (o leggerlo) non solo per coglierne amaramente i tratti di attualità, ma per chiedersi quale significato possa essere attribuito oggi a parole come "onestà" e "corruzione". Per cercar di rispondere a questa domanda, bisogna partire dall’articolo 54 della Costituzione, passare poi ad un detto di un giudice della Corte Suprema americana e ad un fulminante pensiero di Ennio Flaiano, per concludere registrando il fatale ritorno dell’accusa di moralismo a chi si ostina a ricordare che senza una forte moralità civile la stessa democrazia si perde. Quell’articolo della Costituzione dovrebbe ormai essere letto ogni mattina negli uffici pubblici e all’inizio delle lezioni nelle scuole (e, perché no?, delle sedute parlamentari). Comincia stabilendo che "tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi". Ma non si ferma a questa affermazione, che potrebbe apparire ovvia. Continua con una prescrizione assai impegnativa: "i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore". Parola, quest’ultima, che rende immediatamente improponibile la linea difensiva adottata ormai da anni da un ceto politico che, per sfuggire alle proprie responsabilità, si rifugia nelle formule "non vi è nulla di penalmente rilevante", "non è stata violata alcuna norma amministrativa". Si cancella così la parte più significativa dell’articolo 54, che ha voluto imporre a chi svolge funzioni pubbliche non solo il rispetto della legalità, ma il più gravoso dovere di comportarsi con disciplina e onore. Vi è dunque una categoria di cittadini che deve garantire alla società un "valore aggiunto", che si manifesta in comportamenti unicamente ispirati all’interesse generale. Non si chiede loro genericamente di essere virtuosi. Tocqueville aveva colto questo punto, mettendo in evidenza che l’onore rileva verso l’esterno, "n’agit qùen vue du public", mentre "la virtù vive per se stessa e si accontenta della propria testimonianza". Ma da anni si è allargata un’area dove i "servitori dello Stato" si trasformano in servitori di sé stessi, né onorati, né virtuosi. Si è pensato che questo modo d’essere della politica e dell’amministrazione fosse a costo zero. Si è irriso anzi a chi richiamava quell’articolo e, con qualche arroganza, si è sottolineato come quella fosse una norma senza sanzione. Una logica che ha portato a cancellare la responsabilità politica e a ridurre, fin quasi a farla scomparire, la responsabilità amministrativa. Al posto di disciplina e onore si è insediata l’impunità, e si ripresenta la concezione "di una classe politica che si sente intoccabile", come ha opportunamente detto Piero Ignazi. Sì che i rarissimi casi di dimissioni per violato onore vengono quasi presentati come atti eroici, o l’effetto di una sopraffazione, mentre sono semplicemente la doverosa certificazione di un comportamento illegittimo. Questa concezione non è rimasta all’interno della categoria dei cittadini con funzioni pubbliche, ma ha infettato tutta la società, con un diffusissimo "così fan tutti" che dà alla corruzione italiana un tratto che la distingue da quelli dei paesi con cui si fanno i più diretti confronti. Basta ricordare i parlamentari inglesi che si dimettono per minimi abusi nell’uso di fondi pubblici: i ministri tedeschi che lasciano l’incarico per aver copiato qualche pagina nella loro tesi di laurea: il Conseil constitutionnel francese che annulla l’elezione di Jack Lang per un piccolo sforamento nelle spese elettorali; il vice-presidente degli Stati Uniti Spiro Agnew si dimette per una evasione fiscale su contributi elettorali (mentre un ministro italiano ricorre al condono presentandolo come un lavacro di una conclamata evasione fiscale). Sono casi noti, e altri potrebbero essere citati, che ci dicono che non siamo soltanto di fronte ad una ben più profonda etica civile, ma anche alla reazione di un establishment consapevole della necessità di eliminare tutte le situazioni che possono fargli perdere la legittimazione popolare. In Italia si è imboccata la strada opposta con la protervia di una classe politica che si costruiva una rete di protezione che, nelle sue illusioni, avrebbe dovuto tenerla al riparo da ogni sanzione. Illusione, appunto, perché è poi venuta la più pesante delle sanzioni, quella sociale, che si è massicciamente manifestata nella totale perdita di credibilità davanti ai cittadini, di cui oggi cogliamo gli effetti devastanti. Non si può impunemente cancellare quella che in Inghilterra è stata definita come la "constitutional morality". In questo clima, ben peggiore di quello degli anni Ottanta, quale spazio rimane per quella "contro-società degli onesti" alla quale speranzosamente si affidava Italo Calvino? Qui vengono a proposito le parole di Louis Brandeis, giudice della Corte Suprema americana, che nel 1913 scriveva, con espressione divenuta proverbiale, che "la luce del sole è il miglior disinfettante". Una affermazione tanto più significativa perché Brandeis è considerato uno dei padri del concetto di privacy, che tuttavia vedeva anche come strumento grazie al quale le minoranze possono far circolare informazioni senza censure o indebite limitazioni (vale la pena di ricordare che fu il primo giudice ebreo della Corte). L’accesso alla conoscenza, e la trasparenza che ne risulta, non sono soltanto alla base dell’einaudiano "conoscere per deliberare", ma anche dell’ancor più attuale "conoscere per controllare", ovunque ritenuto essenziale come fonte di nuovi equilibri dei poteri, visto che la "democrazia di appropriazione" spinge verso una concentrazione dei poteri al vertice dello Stato in forme sottratte ai controlli tradizionali. Tema attualissimo in Italia, dove si sta cercando di approvare una legge proprio sull’accesso alle informazioni, per la quale tuttavia v’è da augurarsi che la ministra per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione voglia rimuovere i troppi limiti ancora previsti. Non basta dire che limiti esistono anche in altri paesi, perché lì il contesto è completamente diverso da quello italiano, che ha bisogno di ben più massicce dosi di trasparenza proprio nella logica del riequilibrio dei poteri. E bisogna ricordare la cattiva esperienza della legge 241 del 1990 sull’accesso ai documenti amministrativi, dove tutte le amministrazioni, Banca d’Italia in testa, elevarono alte mura per ridurre i poteri dei cittadini. Un rischio che la nuova legge rischia di accrescere. Ma davvero può bastare la trasparenza in un paese in cui ogni giorno le pagine dei giornali squadernano casi di corruzione a tutti livelli e in tutti i luoghi, con connessioni sempre più inquietanti con la stessa criminalità? Soccorre qui l’amara satira di Ennio Flaiano. "Scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: "Ah, dice, ma non sono in triplice copia!"". Non basta più l’evidenza di una corruzione onnipresente, che anzi rischia di alimentare la sfiducia e tradursi in un continuo e strisciante incentivo per chi a disciplina e onore neppure è capace di pensare. I tempi incalzano, e tuttavia non vi sono segni di una convinta e comune reazione contro la corruzione all’italiana che ormai è un impasto di illegalità, impunità ostentata o costruita, conflitti d’interesse, evasione fiscale, collusioni d’ogni genere, cancellazione delle frontiere che dovrebbero impedire l’uso privato di ricorse pubbliche, insediarsi degli interessi privati negli stessi luoghi istituzionali (che non si sradica solo con volenterose norme sulle lobbies). Fatale, allora, scocca l’attacco alla magistratura e l’esecrazione dei moralisti, quasi che insistere sull’etica pubblica fosse un attacco alla politica e non la via per la sua rigenerazione. E, con una singolare contraddizione, si finisce poi con l’attingere i nuovi "salvatori della patria" proprio dalla magistratura, così ritenuta l’unico serbatoio di indipendenza. Il caso del giudice Cantone è eloquente, anche perché mette in evidenza due tra i più recenti vizi italiani. La personalizzazione del potere ed una politica che vuole sottrarsi alle proprie responsabilità trasferendo all’esterno questioni impegnative. Alzare la voce, allora, non può mai essere il surrogato di una politica della legalità che esige un mutamento radicale non nelle dichiarazioni, ma nei comportamenti. I messaggi del "clan": quella nomina di Delrio per il porto di Augusta di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 8 aprile 2016 Pressioni su altri ministri per ottenere nomine e appalti. Riunioni segrete per favorire Finmeccanica ed Eni nella spartizione della torta da oltre cinque miliardi di euro stanziati per la legge navale. Gli atti processuali dell’inchiesta di Potenza svelano, tra sms e telefonate, gli altri lavori sui quali il "comitato d’affari" di cui fa parte Gianluca Gemelli, il compagno del ministro Federica Guidi, aveva messo le mani. Tanto da riuscire a orientare le scelte di governo e Parlamento come la designazione dell’autorità portuale di Augusta effettuata dal titolare delle Infrastrutture Graziano Delrio e altri provvedimenti su cui sostengono di aver ricevuto promesse da Maria Elena Boschi. Sulla designazione è stata presentata una interrogazione dal parlamentare Pd Claudio Fava e Gemelli si sfoga: "Fava è amico della Chinnici, sono tutti questi dell’Antimafia, sai tutti questi… eh il giro quello è… Antimafia praticamente, perché questi qua… guarda quelli che utilizzano i cognomi dei martiri per fare carriera, fanno ancora più schifo degli altri… l’ho sempre dichiarato, lei, la Borsellino, questa è gente che proprio andrebbe eliminata… però dicono sono bravissime persone… e va beh, se lo dite voi!". Delrio e il porto - È maggio 2015, il "clan" si muove per far rinnovare al vertice del Porto di Augusta Alberto Cozzo. E chiede al vicepresidente di Confindustria Ivan Lo Bello di intercedere con il ministro Delrio. Annotano gli investigatori: "È di rilevante contenuto una conversazione tra Nicola Colicchi e il Capo di Stato Maggiore della Marina Giuseppe De Giorgi proprio in merito all’intervento di Lo Bello, ai rapporti esistenti tra quest’ultimo ed il ministro Delrio (che su invito del primo avrebbe addirittura dato indicazioni al Vice Capo di Gabinetto di strappare un decreto già predisposto, lo stesso decreto, probabilmente, cui facevano cenno Cozzo e Gemelli e che avrebbe previsto la nomina di Macauda a capo dell’Autorità Portuale, in attesa che si attuasse la riforma definitiva) ed alla possibilità di far divenire "operativo" quel medesimo rapporto a proprio vantaggio". Boschi e Madia - Il controllo sul porto di Augusta pare strategico per il gruppo. Dice l’ammiraglio De Giorgi: "La Pinotti nel frattempo… chiesto a… Gabinetto di Marina di preparargli uno studio sull’accorpamento delle Capitanerie di Porto, allora il vulnus sta nel fatto che Graziano imporrebbe sicuramente collegamenti tra trasporti e Marina… tramite la ministra in questo momento, incazzata com’è sulla vicenda del Libro Bianco, direbbe senz’altro di sì. Allora, noi dobbiamo… cioè fare in modo, devono essere loro che… la Madia, come mi aveva promesso la Boschi, ha detto che si doveva rivedere la questione del mare…". "Legge firmata!" - Le mire del gruppo sugli appalti per la Difesa hanno origine già nel 2014. La mattina dell’11 dicembre Gemelli riceve dall’utenza in uso a Nicola Colicchi, il seguente sms: "Gianluca per favore potresti chiedere a Federica se firma il documento legge navale? È ancora li…". Lui risponde: "Non dovrebbe esserci, mo’ mi informo". Poco dopo "Gemelli dice di aver mandato un WhatsApp a Federica per chiedere lumi sulla questione, perché lei gli aveva detto che c’erano a questo punto un sacco di cose da ristampare, 14 pagine per ogni cosa. Afferma che tuttavia la stessa non l’ha ancora letto". Ma nel pomeriggio arriva il via libera. Colicchi manda tre sms: "Firmata legge navale!!! Firmata legge navale!!! Vito ha chiamato Berutti un paio d’ore dopo il WhatsApp dicendo che "finalmente era riuscito a far firmare il provvedimento"… "Facce di culo". La partita è strategica per il governo. E infatti è uno dei principali motivi di guerra tra Guidi e il suo viceministro Claudio De Vincenti. La riunione con De Vincenti - Il 24 novembre 2914, sfogandosi con Gemelli, Guidi dice che "l’appuntamento di stasera era stato convocato giovedì alla presenza del ministro, e che nonostante abbia comunicato impegni per quella data, comunque la riunione si è tenuta alla presenza del vice ministro. Si lamenta delle risposte imbarazzanti date dalla segreteria di Pier Carlo (ministro Padoan)". Annotano gli investigatori: "La riunione cui fa riferimento la Guidi, tenutasi al ministero per l’Economia, atteneva al piano Finmeccanica. Guidi fa riferimento agli amici di Gemelli "…dì ai tuoi amici che mi sono accorta che ho un pezzo di m… non è che facciamo un favore a De Vincenti allora stiamo meglio tutti, hai capito?… Io stasera ho avuto la riprova che il famoso piano Finmeccanica, va bene, quello di cui tu, anche tu mi hai scritto, a mia richiesta stasera no, perché non posso, lo facciamo in un altro momento, nessuno, compresa la segreteria di Piercarlo ha avuto il coraggio di dirmi che in realtà l’incontro era in corso, e sai chi c’è andato: De Vincenti! Senza dirmi niente, al ministero non sa niente nessuno che De Vincenti ci sia andato… E poi De Vincenti, Claudio De Scalzi (amministratore delegato di Eni) che mi dice che venerdì mattina è al ministero per parlare con De Vincenti che lo ha convocato per parlare di cose di cui Claudio De Vincenti non dovrebbe neanche parlare…". Missili e soldi - De Giorgi segue l’iter parlamentare per lo sblocco dei fondi e racconta: "Alfano (il sottosegretario Gioacchino Alfano) è stato ricondotto apparentemente a miti consigli da Pinotti, che finalmente gli ha dato un cazziatone, gli ha tirato, gli ha fatto scrivere cosa leggere: l’ha letto. E quindi si è rimangiato tutto". Il gruppo ha raggiunto un accordo con la Regione Campania e si accorda "con Santangelo, segretario particolare di Caldoro, così da presentare tutta la documentazione. Il tema è: "Sistemi di Difesa e Sicurezza del territorio", dove all’interno verrà inserita anche la videosorveglianza ai missili. Si tratterebbe di un programma che prevede un accordo tra i vari ministeri (Interni, Difesa, Economia e Sviluppo Economico) e una rete di Imprese". Il governo dei mille quartierini di Andrea Colombo Il Manifesto, 8 aprile 2016 Trivellopoli. Federica Guidi collabora con i magistrati di Potenza ed esce dall’interrogatorio come "parte lesa". Renzi ne approfitta per assolvere se stesso: non siamo servi delle lobby. Eppure l’inchiesta rivela lo scontro tra diverse cricche. Arriva in procura, a Potenza, senza avvocati ma scortata da quattro consulenti. Si trattiene tre ore. Esce con l’espressione sollevata, ringrazia i magistrati per la tempestività con cui la hanno convocata, quindi si dichiara affrancata da ogni ombra e ogni sospetto: "Dal punto di vista giuridico ho appreso definitivamente di essere parte offesa". Federica Guidi ha accettato di rispondere a tutte le domane, anche quando avrebbe potuto rifiutarsi, a proposito cioè del congiunto Gianluca Gemelli. I particolari sono ignoti, essendo l’interrogatorio stato secretato, e i pm si sono complimentati con l’ex ministra per aver rispettato rigorosamente la proibizione. Più discretamente, fanno sapere di essere assolutamente soddisfatti per la piena e totale collaborazione della signora, che in tutta evidenza ha scelto di dire tutto il dicibile e di tirarsi così fuori il meglio possibile dalla vicenda. È comunque chiaro che la modifica della posizione di Federica Guidi, entrata in procura come "persona informata dei fatti", uscitane come "parte lesa", dovrebbe comportare un peggioramento in quella dell’uomo che una settimana fa lei stessa dichiarava di considerare "a tutti gli effetti mio marito". A questo punto lo stesso capo d’accusa a carico di Gemelli, al momento "traffico di influenze illecite", potrebbe cambiare, naturalmente in peggio. È infine quasi certo che, dopo averlo ascoltato nei prossimi giorni, i magistrati di Potenza torneranno a chiederne l’arresto. Aldilà della posizione penale, l’ex ministra non ci fa proprio una bella figura, con quell’affannarsi ad accontentare le richieste sempre più pressanti di Gemelli. Ma questi sono in fondo affari suoi. Il punto è che dalla vicenda, e dalle intercettazioni che escono a valanga, a fare una figura molto peggiore è il governo nel suo complesso. Quando lo definiscono "un comitato d’affari" i pentastellati esagerano per difetto, non per eccesso. Sarebbe più preciso definirlo un agglomerato di comitati d’affari in competizione tra loro. Il commento del leghista Roberto Calderoli in questo caso è impeccabile: "Questa vicenda sta rivelando che nel monolitico governo Renzi si insultavano, tramavano, addirittura si producevano dossier e soprattutto facevano a gara per poter essere gli interlocutori dei cosiddetti poteri forti". Ci sono la aziende per conto delle quali Gemelli perseguitava con la sua insistenza la potente compagna, così danneggiandola e facendone una "parte lesa". C’è "Valterone", al secolo Valter Pastena, costretto a lasciare la direzione dell’ufficio centrale del Bilancio per limiti d’età e che Gemelli insisteva per piazzare in postazione privilegiata nel ministero della Guidi. C’è la "cricca dei furbetti", come lei stessa la definisce, di cui fa parte il fidanzatissimo, ma sono "cricche", sempre stando alla signora Guidi, anche quelle che hanno piazzato il potente ministro dell’Economia Padoan e il sottosegretario a palazzo Chigi Claudio De Vincenti: "Pedine in mano al quartierino". Il presidente del Consiglio ci fa a sua volta una pessima figura, soprattutto perché sotto i suoi occhi si sviluppano le trame delle varie cricche senza che lui si avveda di niente, come un qualsiasi Ignazio Marino alle prese con le manovre di Carminati e Buzzi a Roma. Anzi peggio perché Marino di qualcosina almeno si era accorto. D’altra parte, la linea di condotta consistente nel favorire i poteri economici, in questo caso i petrolieri, parte proprio dal vertice del governo. Ovvio che poi la filiera di comando si uniformi. L’emendamento che premiava Total sbloccando Tempa Rossa formalmente è davvero del tutto lecito: nessuna legge vieta di presentare al senato una norma dichiarata inammissibile alla camera a notte fonda, né di ficcarla in una legge votata sotto il ricatto de voto di fiducia. Ma le considerazioni penali sono una cosa, quelle politiche un’altra. Renzi, che per ora non riempirà la casella del Mise, assolve l’ex ministra e se stesso: "Guidi ha sbagliato ma non c’è illecito. Dire che noi siamo il governo delle lobby è una barzelletta". La quale però non lo fa affatto ridere, anche perché il nesso con il referendum sulle trivellazioni è evidente. Al senato Sinistra italiana, a firma della capogruppo De Petris, ha presentato un’interrogazione basata su uno studio del Wwf dal quale si evince che quasi la metà delle piattaforme che trivellano i mari italiani non è stata sottoposta alla Valutazione di impatto ambientale e che oltre la metà ha più di quarant’anni, ed è quindi in condizione di assoluta obsolescenza con conseguente impennata dei rischi. Lo schieramento del governo nel referendum rientra nella medesima categoria del famigerato emendamento: è un favore ai petrolieri. La recidiva soccombe davanti al pentito Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2016 Corte costituzionale - Sentenza 7 aprile 2016 n. 74. La collaborazione può prevalere sulla recidiva. Almeno in materia di reati di droga. La Corte costituzionale, sentenza 74/2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione del principio di ragionevolezza, dell’articolo 69, quarto comma, del Codice penale nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante della collaborazione del reo nei reati di droga (articolo 73, comma 7, del Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti) sulla recidiva reiterata prevista dall’articolo 99, quarto comma, del Codice penale. In tal modo si attribuisce, infatti, "una rilevanza insuperabile alla precedente attività delittuosa del reo - quale sintomo della sua maggiore capacità a delinquere - rispetto alla condotta di collaborazione successiva alla commissione del reato, benché quest’ultima possa essere in concreto ugualmente, o addirittura prevalentemente, indicativa dell’attuale capacità criminale del reo e della sua complessiva personalità". Il caso era quello di un uomo condannato in primo grado a quattro anni e otto mesi di reclusione per detenzione illecita di un chilogrammo di marijuana e 85 grammi di cocaina. Proposto ricorso, l’imputato aveva lamentato la mancata considerazione della "completa, vasta ed incondizionata collaborazione dopo la sentenza di primo grado" e la Corte di appello di Ancona nel rimettere la questione alla Consulta aveva affermato che "l’ampiezza e la intensità della collaborazione" indurrebbero a ritenere l’attenuante ad effetto speciale prevalente sulla recidiva. Tesi poi accolta dalla Consulta. Stupefacenti, la collaborazione del reo può prevalere sulla recidiva reiterata di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2016 Corte costituzionale -?Sentenza 7 aprile 2016 n. 74. La recidiva reiterata nei reati legati agli stupefacenti non può battere a tavolino l’atteggiamento collaborativo del condannato (o imputato). La Corte costituzionale, sentenza 74/2016, ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione del principio di ragionevolezza, dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante della collaborazione del reo, prevista dall’articolo 73, comma 7, del Testo unico in materia di stupefacenti (Dpr 309/1990), sulla recidiva reiterata, regolata dall’articolo 99, quarto comma, del codice penale. In tal modo, infatti prosegue la Corte, si attribuiva "una rilevanza insuperabile alla precedente attività delittuosa del reo - quale sintomo della sua maggiore capacità a delinquere - rispetto alla condotta di collaborazione successiva alla commissione del reato, benché quest’ultima possa essere in concreto ugualmente, o addirittura prevalentemente, indicativa dell’attuale capacità criminale del reo e della sua complessiva personalità". Il caso era quello di un uomo condannato in primo grado a quattro anni e otto mesi di reclusione per detenzione illecita di un chilogrammo di marijuana e 85 grammi di cocaina. Proposto ricorso, l’imputato aveva lamentato la mancata considerazione della "completa, vasta ed incondizionata collaborazione" prestata dopo la sentenza di primo grado e la Corte di appello di Ancona, nel rimettere la questione alla Consulta, aveva affermato che "l’ampiezza e la intensità della collaborazione" indurrebbero a ritenere "l’attenuante ad effetto speciale prevalente sulla recidiva" con un forte abbassamento della pena. Ma a ciò fino ad oggi ostava il divieto posto dal codice. Per il Giudice delle Leggi la circostanza prevista dall’articolo 73, comma 7, è espressione di una scelta di politica criminale di tipo premiale, volta a incentivare, mediante una sensibile diminuzione di pena (dalla metà a due terzi), il ravvedimento post-delittuoso del reo, "rispondendo, sia all’esigenza di tutela del bene giuridico, sia a quella di prevenzione e repressione dei reati in materia di stupefacenti". Tuttavia, prosegue la sentenza, quando nei confronti dell’imputato viene riconosciuta la recidiva reiterata, "la norma censurata impedisce alla disposizione premiale di produrre pienamente i suoi effetti e così ne frustra in modo manifestamente irragionevole la ratio, perché fa venire meno quell’incentivo sul quale lo stesso legislatore aveva fatto affidamento per stimolare l’attività collaborativa". Inoltre, argomenta la Consulta, "anche se l’attenuante non richiede la spontaneità della condotta collaborativa e non comporta necessariamente una resipiscenza, perché può essere il frutto di un mero calcolo, è vero anche che si tratta in ogni caso di una condotta significativa" che sovente espone il reo "a pericolose ritorsioni". Infine, conclude la sentenza citando un proprio precedente (183/2011), la rigida presunzione di capacità a delinquere desunta dall’esistenza di una recidiva reiterata "è inadeguata ad assorbire e neutralizzare gli indici contrari, che possono desumersi, a favore del reo, dalla condotta susseguente, con la quale la recidiva reiterata non ha alcun necessario collegamento. Mentre la recidiva rinviene nel fatto di reato il suo termine di riferimento, la condotta susseguente si proietta nel futuro e può segnare una radicale discontinuità negli atteggiamenti della persona e nei suoi rapporti sociali", rendendo privo di ogni razionale giustificazione l’effetto preclusivo riconosciuto alla recidiva reiterata. Non è diffamazione parlare di "Sicilia mafiosa" nei libri di testo di Francesca Malandrucco Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2016 Corte di cassazione - Sentenza 6785/2016. Non è diffamazione parlare di Sicilia mafiosa nei libri di testo, né tantomeno usare "espressioni e giudizi generali perentoriamente negativi sulla realtà socio-economica di un’intera regione". Lo ha stabilito la Cassazione respingendo il ricorso del governatore della Sicilia contro la casa editrice Principato e gli autori del libro "Geo Italia, le regioni", destinato agli studenti delle scuole medie inferiori, in cui compaiono giudizi molto negativi sulla realtà dell’isola. Così, mentre è bufera sulla Rai per la discussa intervista al figlio del boss mafioso Totò Riina, mandata in onda da Porta a Porta, i giudici supremi della terza sezione civile hanno emesso una sentenza (la 6785/2016) destinata a fare giurisprudenza nel mondo della scuola. La Cassazione ha affermato che citare la presenza del potere mafioso in Sicilia e l’esistenza di un intreccio corruttivo tra forze politiche e criminalità rientra nella piena libertà di insegnamento, garantita dall’articolo 33 della Costituzione. A patto, però, che i giudizi espressi nel libro di testo siano "articolati nel rispetto della correttezza formale e con sufficiente richiamo ai contesti storici e di cronaca". Dagli autori, poi, non si esige nessuna autolimitazione purché giudizi e toni siano "oggettivamente corretti e rispondano almeno in linea di massima a fatti storicamente veri". La casa editrice Principato e gli autori del libro "incriminato", Alida Ines Ardemagni, Francesco Mambretti e Giovanni Silvera, erano stati condannati in primo grado dal tribunale di Milano a risarcire alla Regione Sicilia 50mila euro per i giudizi negativi espressi nel libro di testo che la presidenza della regione considerava assolutamente diffamatori. La sentenza di primo grado, inoltre, vietava alla casa editrice di ristampare il libro con i passi messi sotto accusa. La Corte d’Appello nel 2012, invece, aveva ritenuto i giudizi espressi nel libro sia leciti che obiettivi, ribaltando la sentenza di primo grado. Giudizio confermato ora dalla Cassazione. Sono quattro i passaggi "incriminati". Alla pagina 15 del libro di testo, gli autori citano un non meglio precisato sondaggio in cui gli Italiani riterrebbero la Sicilia come una delle regioni da evitare. Più avanti, poi, esprimono giudizi decisamente negativi. "Oggi la Sicilia è una regione autonoma con ampi poteri, che riceve dallo stato più di quello che dà e consuma più di quello che produce (pag. 196)". E ancora "Il potere mafioso ha stabilito sull’isola un clima di violenza che avvelena i rapporti tra la gente, dissangua ogni attività economica e impedisce di governare per il bene della collettività (pag. 196)". Alla pagina 201 del testo si citano le periferie, "questi quartieri sono diventati inferni urbani, dove la criminalità non ha freno", mentre alla pagina 202 si fa riferimento all’economia dell’isola basata sull’assistenza dello stato, dove "la spesa pubblica, però, più che dare un impulso produttivo, ha alimentato un intreccio di corruzione tra forze politiche e criminalità". Per i giudici della Suprema corte "l’inserimento di tali espressioni e giudizi in un libro di testo per la scuola media inferiore corrisponde all’esercizio della libertà di insegnamento, a sua volta riconducibile a quella più ampia di manifestazione del pensiero, non solo degli autori del libro….ma anche dei professori o docenti che ritenessero di adottarlo quale strumento di sviluppo del loro programma". In nome di Regeni, il reato di tortura di Roberto Saviano L’Espresso, 8 aprile 2016 Chiediamo all’Egitto verità per Giulio. Ed è sacrosanto farlo. Ma siamo l’unico Paese d’Europa a non avere una legge contro le brutalità di Stato. Quanti modi ci sono per dire che un uomo o una donna sono stati vittime di tortura? Infiniti. Ma potremmo, volendo, anche omettere la parola tortura. E potremmo, volendo, anche far passare quella tortura per un atto legittimo in determinate condizioni. E potremmo, volendo, anche far finta che il reato di tortura non esista. O potremmo, volendo, far arenare la proposta di legge sul reato di tortura in Parlamento, in modo che il reato non esista davvero. Potremmo però utilizzare il termine tortura perché ci piace pensarci in prima linea nella difesa dei diritti delle persone. Potremmo fare del nostro essere un Paese civile solo una questione di parole, che però dietro non hanno nulla. Non hanno leggi che le sostengano, non condanne che facciano giurisprudenza. Esistono atti internazionali che molto chiaramente sanciscono come torturare inteso nei suoi più diversi significati (infliggere dolore fisico per estorcere informazioni o confessioni, commettere su una persona atti brutali e sadici, procurare dolore fisico prolungato) sia un reato da giudicare e punire con procedure e sanzioni sue proprie. Dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, ratificata dal nostro Paese nel 1988, ci troviamo al cospetto di atti che proibiscono la tortura ma che farebbero esplicito rimando all’esistenza di un testo che fornisca strumenti idonei a ogni singolo paese per prevenire e punire efficacemente chiunque abbia commesso questo genere di reato. "Ciò che è accaduto attiene a una pagina nera nella storia del nostro Paese. E se vogliamo affrontare quella pagina nera, la prima cosa da fare è introdurre subito il reato di tortura". La pagina nera è l’irruzione della polizia alla Diaz durante il G8 di Genova e questa dichiarazione è di Matteo Renzi. Parole pronunciate un anno fa, quando la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per gli orrori di Genova imponendo, e non solo invitando, l’introduzione nel nostro codice penale del reato di tortura. Di fatto è rimasta l’Italia a non avere in Europa nel proprio codice penale un testo che riguardi il reato di tortura. In Inghilterra, Francia, Austria, Belgio, Danimarca, Olanda, Polonia, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera e finanche in Turchia, il reato esiste e come tale è punito. E in Germania non sarebbe del tutto corretto dire che non esista, perché come lessi qualche anno fa sul "Sole24ore" ci sono "norme assimilabili alla fattispecie. In particolare i maltrattamenti fisici e psichici in generale sono puniti con la reclusione fino a 3 anni - elevata a 5 per fatti gravi - che passa da 1 a 10 se compiuti da un pubblico ufficiale". Quindi davvero siamo il fanalino di coda, ultimi quando si tratta di far rispettare la dignità delle persone qui da noi, pronti a temporeggiare e a trovare giustificazioni e scappatoie, e sempre in prima linea quando accade, invece, che un paese straniero si comporti come noi. Scoviamo mille differenze pur di marcare la distanza. Giulio Regeni è stato torturato in Egitto e ucciso. Regeni è stato torturato e ucciso come un egiziano in Egitto, ma anche come è accaduto ad alcuni italiani in Italia. Mi si dirà: in Egitto è prassi, qui da noi non lo è. Qui da noi può capitare e il numero di persone torturare è infinitamente più esiguo. Ma a me non interessa quante persone sono state vittime di tortura, a me interessa che fino a quando non esisterà un reato di tortura, non esisterà nemmeno tortura. Ecco perché chiedere giustizia e verità per Giulio Regeni vuol dire anche fare del nostro finalmente un Paese civile. Facciamo pressione, ma pressione vera, sul Parlamento perché passi in tempi record questa legge, soprattutto se vogliamo far valere i diritti violati dei cittadini italiani al di fuori dei confini nazionali. Verità per Giulio significa verità anche per chi non sa che nome dare a ciò che ha vissuto. Significa tutelare le forze dell’ordine e la loro funzione che è di protezione dei cittadini. Significa isolare chi ha commesso un reato e non schermarlo, e non nasconderlo dietro l’inesistenza di quel reato. Se torturare è reato, facciamo in modo che il reato esista perché se la situazione dovesse, nonostante gli atti gravissimi che sono accaduti nel nostro Paese, nonostante la condanna di Strasburgo, rimanere invariata, vorrà dire che torturare sarà considerato un modo solo un pò scorretto di risolvere certe situazioni, un metodo poco ortodosso, ma non condannabile. E la volta buona, chi sa quando sarà. Uno non sa, l’altro non dice, il terzo non vede: l’Affaire Basilicata di Valter Vecellio L’Opinione, 8 aprile 2016 I giornali, che sono per loro natura un qualcosa di fondamentalmente deteriorabile e raccontano (dovrebbero raccontare) la verità del momento, a volte comunque assolvono una funzione ulteriore, e non irrilevante: quella di contribuire ad una memoria di fatti, episodi, cose, che altrimenti verrebbero diluite, scolorite nella memoria, fino a perdersi. Sarà per esempio divertente (amaro divertimento, o se si preferisce amarezza divertita) sfogliare le cronache di questi giorni. Si apprende, leggendo una lettera inviata al "Corriere della Sera" (non, dunque, un qualcosa detta soprappensiero, sfuggita dal seno come la celebre "voce"), che una posata signora che ha la ventura di fare il ministro dello Sviluppo Economico ha una lecitissima relazione sentimentale con una persona che considera suo marito. Un legame, si immagina, di una certa concretezza, se è vero che con questa persona, il ministro ora non più ministro, ci ha fatto un figlio. È poi, quel considerarlo come marito, al di là del vincolo ufficiale… Invece no. Passa qualche giorno e colui che si considera come marito si trova declassato: intanto non si è mai veramente convissuto. Non solo letti separati, anche appartamenti separati; ma anche quel figlio: sì, c’è, ma per le sue esigenze ci ha sempre e solo pensato la madre, e la di lei famiglia, che è decisamente ricca. E quel che si considerava "marito" qualche giorno prima diventa persona frequentata una volta la settimana, se non ogni quindici giorni. Ciò non impedisce comunque di informare questa persona che un certo emendamento che lo interessa e riguarda personalmente (interessi corposi, riguardano il petrolio) è stato inserito nella Legge di Stabilità varata dal Governo di cui l’oggi ex ministro fa parte; e questa comunicazione fa bella mostra in una intercettazione che viene ovviamente resa nota urbi et orbi. Non è la sola intercettazione: che l’ex ministro ad un certo punto ha una crisi di nervi, e rimprovera il "marito" di usarla, in altre occasioni sembra piangere; e insomma: senza addentrarci nei risvolti penali che possono esserci oppure no, per quel che riguarda il costume, c’è molto di che obiettare e restare perplessi. L’ex ministro, quand’era in carica, si trovava in evidente situazione, come s’usa dire, di "conflitto d’interessi". Ed è grave, non c’è bisogno di dirlo. Ma ancor più grave se non si è resa conto di trovarsi in questa situazione e se non ha considerato e calcolato rischi e conseguenze di questo conflitto, destinato a venir fuori, prima o poi, inevitabilmente. Ma ci sono anche altri "effetti collaterali". Il Presidente del Consiglio rivendica la paternità politica dell’emendamento in questione; e il ministro che deve mantenere i Rapporti con il Parlamento fa sapere che comunque quell’emendamento è giusto, legittimo, e lo ripresenterebbe tale e quale; e anche lei, data la funzione che ricopre, ne rivendica diciamo così, la "maternità", essendo donna. Nulla da eccepire. Ignorando completamente la polpa della questione, si prende per buono e per positivo il contenuto di quell’emendamento. Però: è da credere che il Presidente del Consiglio nulla sapesse di questo conflitto di interesse, e neppure il ministro per i Rapporti con il Parlamento. Se è una presunzione fallace, se cioè ne erano a conoscenza, la cosa è grave senza bisogno di spiegare perché. Ma se lo ignoravano, la gravità decuplica, e anche qui non c’è bisogno di spiegare perché. L’ignoranza non dovrebbe essere ammessa. Ma se l’ignoranza c’è, la colpa aumenta. A meno che non si voglia rispondere come Bill Clinton, scoppiato il caso della sua relazione con la stagista: "Mai fatto sesso, con Monica Lewinsky… Solo relazioni inappropriate". Già, basta intendersi su cosa sia "fare sesso". C’è poi un corollario, che non è esattamente un qualcosa di secondario. Un signore che vive in Basilicata, un vero, autentico rompiscatole che si chiama Maurizio Bolognetti e che da anni da sempre denuncia le cose che emergono in questi giorni. È uno che ha la tessera radicale da decenni, da sempre Marco Pannella è il suo Mahatma. I vari potentati locali lo conoscono bene perché non c’è scempio ambientale e speculazione che non lo veda implacabile censore. A queste vicende Bolognetti ha dedicato anche un paio di libri: "La peste italiana. Il caso Basilicata. Dossier sui veleni industriali e politici che stanno uccidendo la Lucania" (del 2011, cinque anni fa!) e "Le mani nel petrolio. Basilicata coast to coast, ovvero da Zanardelli a Papaleo, passando per Sanremo e Tempa Rossa" (2013). Possibile che non una copia di questi due libri, in tutti questi anni, non sia finita sulla scrivania di nessun magistrato? Ma è pur vero che la giustizia italiana ha i suoi tempi, che notoriamente non sono esattamente veloci… Ma è comunque straordinaria (e non priva di significato) questa lunga, interminabile catena di "non so" in cui ad ogni passo ci si imbatte. Salute e carceri in Toscana: meno assistenza se gli psicologi sono "stabilmente" precari di Maria Antonietta Lettieri* quotidianosanita.it, 8 aprile 2016 Gentile direttore, mentre si disserta sulla stabilizzazione dei precari nella sanità, Le vorrei segnalare come le Aziende Asl della Regione Toscana stanno affrontando il tema della Salute in Carcere utilizzando, dal lontano 2010, psicologi specializzati attraverso contratti libero-professionali che vengono rinnovati ogni 12/6 mesi. Nello specifico, l’ex Azienda 11 di Empoli, (dal 1 Gennaio 2016 accorpata all’Asl 10 di Firenze) particolarmente zelante nel rispettare le procedure di trasparenza, sottopone ogni 6 mesi i consulenti psicologi che collaborano con l’Azienda presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino, ad un Avviso pubblico per titoli e colloquio, finalizzato alla verifica periodica delle competenze professionali di tali specialisti. Tale procedura, presentata dai vertici amministrativi come garanzia di trasparenza e necessaria per l’espletamento delle prove concorsuali, di fatto comporta un’interruzione del Servizio di Assistenza Psicologica, interruzione che oscilla mediamente da uno a tre mesi. In pratica, gli utenti cioè i pazienti, ancora internati presso la struttura, ogni 6 mesi si trovano "scoperti" sul piano assistenziale e psicoterapeutico. È pur vero che anche nel territorio la continuità assistenziale è carente e pertanto il vuoto di Servizio che si viene a creare in un Opg (tra l’altro prossimo alla chiusura) non indigna e non preoccupa nessuno, né tantomeno i vertici Aziendali nonostante dichiarino costantemente l’importanza della centralità dell’utente. Nel contempo anche gli specialisti si trovano periodicamente a dover fronteggiare la sospensione dell’attività professionale per un tempo imprecisato. Doppiamente instabili in una condizione di cronica precarietà. Viene il dubbio che dietro questo "affaccendarsi" dell’Azienda ci sia di fatto una strategia ben precisa e finalizzata a scoraggiare qualsiasi rivendicazione di una possibile stabilizzazione contrattuale. In questa cornice, di inattaccabile legittimità, si nasconde la trappola per il lavoratore che, privo di qualsiasi tutela, è costretto ad accettare rapporti di collaborazione che non solo ledono la dignità professionale, ma rappresentano un serbatoio di manovalanza intellettuale da poter utilizzare, disinvoltamente al bisogno e a basso costo. *Dr.ssa Maria Antonietta Lettieri, Psicologa-psicoteterapeuta Opg Montelupo Lombardia: ricerca su ex internati Opg "se trattati non c’è più rischio di violenze" ilfarmacistaonline.it, 8 aprile 2016 "Se il paziente è trattato, il suo passato violento non è un fattore di rischio significativo". È questo l’esito dell’analisi finanziata dall’Irccs Fatebenefratelli e dalla Regione Lombardia su 82 pazienti affetti da disturbi mentali gravi e ricoverati in strutture residenziali. Al via la seconda fase dello studio per capire se simili considerazioni si applicano anche a pazienti a rischio di violenza seguiti ambulatorialmente". "Numerose ricerche condotte a livello internazionale negli ultimi 20 anni hanno dimostrato che vi è un contenuto rischio di violenza associato ai disturbi mentali gravi, come i disturbi psicotici. Tale rischio però può essere prevenuto e contenuto". Ad evidenziarlo sono gli esperti dell’Irccs Fatebenefratelli, che oggi a Brescia hanno presentato i risultati del progetto Viormed, finanziato insieme alla Regione Lombardia, per valutare il rischio di aggressività nei pazienti ricoverati nelle strutture di psichiatria forense della Provincia Lombardo-Veneta dei Fatebenefratelli (Brescia, San Colombano al Lambro, Cernusco sul Naviglio, San Maurizio Canavese). Dallo studio è emerso infatti che "aver commesso atti di violenza in passato non costituisce dunque un fattore di rischio, purché il paziente psichiatrico sia trattato in una struttura idonea, che garantisca assistenza e supporto, e prevenga fattori di rischio di particolare importanza per i comportamenti violenti, come l’abuso di sostanze e di alcool". Ma "questa importante considerazione viene spesso dimenticata quando si parla di OPG, di Rems (le strutture di piccole dimensioni che hanno sostituito, e stanno sostituendo gli OPG) e in generale di psichiatria forense", evidenziano gli esperti del Fatebenefratelli. Che mettono accendono però i riflettori su una criticità: il passaggio dagli Opg alle Rems e ai DSM, "richiedono una diversa responsabilità legale degli operatori sanitari e richiede una differente organizzazione degli stessi servizi di salute mentale". Ma "ripetendo purtroppo gli errori già commessi con la legge 180/1978, non si è affrontato il nodo della formazione del personale, con il rischio di compromettere il disegno complessivo della riforma e soprattutto di negare, o limitare, a questi pazienti psichiatrici il diritto costituzionale alla salute (articolo 32)". I dettagli dello studio - Nel dettaglio, lo studio, il primo in Italia nel suo genere, ha preso in esame 82 pazienti affetti da disturbi mentali gravi (per due terzi sofferenti di un disturbo schizofrenico) e ricoverati in quattro strutture residenziali del Nord Italia (tra i quali circa metà con un passato di ricovero in Opg o di in carcerazione), tutti con una storia significativa di comportamenti violenti (documentati a livello clinico). Questi pazienti sono stati valutati con un sofisticato set di strumenti clinici e neuropsicologici (ciascun paziente è stato valutato mediamente per circa 8 ore). Tali pazienti sono stati comparati a 57 pazienti simili per età, sesso e diagnosi, ma che non avevano mai commesso gesti violenti. Tutti sono stati quindi seguiti per un anno, e valutati ogni 15 giorni per rilevare l’eventuale occorrenza di episodi di aggressività verbale o contro gli oggetti, di auto-aggressività o di violenza contro le persone. Il risultato che ne è emerso è che "tra i due gruppi non sono emerse differenze di rilievo nelle caratteristiche cliniche, psicopatologiche e cognitive, con la sola eccezione di una maggiore frequenza di sintomi cosiddetti negativi in quei pazienti affetti da un disturbo psicotico. I sintomi negativi, infatti - spiegano gli esperti del Fatebenefratelli, rappresentati da inibizione, abulia, ritiro sociale, anaffettività, erano meno frequenti e gravi tra i pazienti che, durante l’anno di follow-up, facevano registrare una minore frequenza di comportamenti aggressivi. Ma il risultato più importante è che tra i due gruppi non si sono registrate differenze significative nell’emergenza di comportamenti violenti, se non per una lieve prevalenza di aggressività verbale nel primo gruppo, limitata alle prime settimane di valutazione. Pertanto i pazienti con storie di violenza, che però sono ospiti di strutture residenziali, in cui sono seguiti ed aiutati, non manifestano tassi di aggressività o violenza più elevati di quelli riportati da pazienti che non hanno mai commesso violenze nel loro passato". Studio Viormed, al via la fase II - Ma lo studio non si concluderà qui. È ora in corso la seconda parte della ricerca che coinvolge 250 pazienti seguiti dai Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) di Brescia, Garbagnate, Legnano e Monza: "Questa parte del progetto consentirà di capire se simili considerazioni si applicano anche a pazienti a rischio di violenza seguiti ambulatorialmente; per costoro l’aderenza al trattamento non è garantita, come in struttura residenziale, e fattori di rischio importanti, quali l’abuso di sostanze e di alcool non sono automaticamente garantiti come nel setting residenziale". Umbria: Stefano Anastasia eletto Garante regionale dei diritti dei detenuti umbriaon.it, 8 aprile 2016 Con quattordici voti favorevoli, alla terza votazione, il consiglio regionale dell’Umbria ha eletto ieri il nuovo Garante dei detenuti, il professor Stefano Anastasia. Curriculum Ricercatore di filosofia e sociologia del diritto nell’Università di Perugia, Anastasia è stato tra i fondatori dell’associazione Antigone, della quale è stato presidente dal 1999 al 2005, quando è stato eletto presidente della Conferenza nazionale del volontariato della giustizia. Tra il 2003 e il 2006 ha collaborato alla istituzione del primo ufficio per la tutela dei diritti dei detenuti voluto da un comune italiano, cioè quello di Roma ai tempi in cui era sindaco Walter Veltroni. Nel 2006, durante il II governo Prodi, assume le funzioni di capo della segreteria del sottosegretario alla giustizia con delega all’amministrazione penitenziaria. Elezione Da tempo sollecitata, l’elezione del garante era stata inserita all’ordine del giorno dei lavori in aula martedì, slittata poi a mercoledì per via del bilancio e ricalendarizzata oggi, a 24 ore di distanza dall’ultima votazione a maggioranza qualificata necessaria fino alla quarta chiamata al voto. Campania: 2mln di € per collegare il carcere di S.M.C.V. alla condotta idrica cittadina Il Velino, 8 aprile 2016 "Dopo lunga battaglia, portata avanti con il Provveditore regionale all’Amministrazione penitenziaria, il Dap e fatta propria dal Ministero della Giustizia, la Regione Campania, ha stanziato 2 milioni di euro per il collegamento del carcere di Santa Maria Capua Vetere alla condotta idrica della città. Attualmente l’acqua è fornita al carcere da pozzi ed è assolutamente insufficiente, specialmente d’estate, in cui si provvede anche con serbatoi e bottiglie di acqua potabile". Così la Garante dei detenuti della Regione Campania, Adriana Tocco, commenta positivamente la decisione della Giunta regionale di stanziare 2 milioni di euro per finanziare la realizzazione di quattro chilometri di condotta idrica, che trasporteranno l’acqua all’Istituto penitenziario di Santa Maria C.V. "All’impegno istituzionale - prosegue Tocco - hanno partecipato con vivo interessamento della parlamentare Camilla Sgambato, della Consigliera regionale Enza Amato e, appena assunto il ruolo di Sottosegretario alla Giustizia, del deputato Gennaro Migliore, che desidero ringraziare nella mia qualità di Garante dei diritti dei detenuti". "L’impegno della Giunta era stato assunto - ricorda - nel tavolo istituzionale convocato presso il Ministero della Giustizia, il 25 gennaio 2015. Spero dunque che in tempi ragionevoli, si dia inizio ai lavori, così da risolvere una situazione pesante, che penalizza - conclude Tocco - chi in quel carcere è detenuto e chi ci lavora". Lombardia: sette giorni di sport nelle carceri, un "assist" per la speranza di Antonio Ruzzo Il Giornale, 8 aprile 2016 A Bollate, Opera e Beccaria oltre mille detenuti coinvolti Tornei di calcio, tennis e atletica: in campo anche gli agenti. "Difficoltà con i detenuti? Nessuna, anzi. L’unica vera difficoltà sono i fondi perché queste attività un costo ce l’hanno. Anche se devo ammettere che Regione e Comune ci aiutano parecchio sia per quanto riguarda il carcere di Opera e Bollate, sia per il Beccaria...". Michele Manno, presidente del comitato milanese della Uisp, l’Unione italiana sport per tutti, fa un pò il bilancio della "Settimana dello sport in carcere" che si concluderà domenica. Ed è un bilancio più che positivo se si considera che sono più di 500 gli sportivi detenuti delle carceri milanesi e oltre un migliaio i detenuti coinvolti in questa manifestazione con tornei di calcio, gare di atletica, tornei di tennis e attività in palestra. Sfida nelle sfida perché è ovvio che lo sport in carcere è tante altre cose insieme: "Certo è un’opportunità importante per il benessere psicofisico dei detenuto - spiega Manno - ma anche un momento importante per scaricare le tensioni e per favorire l’aggregazione, anche perché molto spesso le attività sportive coinvolgono anche le guardie penitenziarie". E così in questi giorni nelle carceri di Opera, Bollate e al Beccaria si sono svolte gare di atletiche, mezze maratone, tornei di calcio e anche di tennis coordinati dagli istruttori della Usipe e dai giudici di gara delle varie Federazioni. "Sono 26 anni che facciamo sport nelle carceri - spiega Renata Ferraroni, responsabile del progetto carceri della Uisp - Quest’anno gli istituti penitenziari coinvolti nell’iniziativa sono 26 in tutta Italia, ma il nostro lavoro non si ferma certo a questa settimana, siamo attivi tutto l’anno per quanto ci è possibile, perché lo sport è un diritto di tutti, nessuno escluso". Le gare podistiche sono parte del progetto Uisp Vivicittà, iniziativa che coinvolge 43 città in tutta Italia e 18 nel mondo, oltre a 26 istituti penitenziari. Ma l’idea di portare lo sport in carcere per una settimana segue un’iniziativa analoga che la Lombardia ha già sperimentato con "oltre il Muro", porte aperte alla speranza che ha coinvolto i 14 istituti di detenzione della Regione. Lo sport strumento perfetto per trasmettere i valori fondamentali del vivere civile, il rispetto delle regole con l’unico limite di dover coniugare l’attività sportiva con le disposizioni delle carceri e le misure di sicurezza. Di questo e di altro si parlerà oggi a Palazzo Pirelli, sede del Consiglio regionale, in un incontro, aperto a tutti, dedicato allo sport in carcere che vedrà tra i relatori alcuni rappresentanti della Polizia penitenziaria lombarda, Luigi Pagano, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Antonio Iannetta, direttore Uisp Milano, Antonio Rossi, assessore regionale allo Sport, Fabio Pizzul consigliere regionale del Pd e Lucia Castellano, Dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria. Roma: la "Casa di Leda", storia di un progetto antimafia di Francesca Danese (ex assessore alle Politiche sociali e abitative) Corriere della Sera, 8 aprile 2016 La struttura per madri-detenute dovrebbe essere realizzata in una villa confiscata, ma ancora non è stata aperta. Fa più rumore un bambino che gioca, di un mafioso che fa affari. Succede a Roma, dove un progetto per l’istituzione di una Casa famiglia protetta, in un bene confiscato alla mafia, suscita proteste che arrivano fino in Parlamento. La ricostruzione dei fatti è un pò noiosa, ma serve a dire che tutto è stato fatto secondo le regole. Su invito del Tribunale di Roma, la Giunta capitolina, nel maggio 2015, ha espresso interesse per l’assegnazione in comodato d’uso gratuito delle ville di via Algeria e di via Kenya, sottratte alla Mafia. L’obiettivo era realizzare una struttura per madri detenute con figli, ai sensi della legge 21 aprile 2011 n. 62. In giugno il tribunale ordinario di Roma ha consegnato gli immobili. È stato quindi firmato il protocollo d’intesa tra ministero della Giustizia, Comune di Roma e Fondazione Poste insieme onlus, per l’attivazione della casa famiglia. Nell’ottobre 2015 il Dipartimento amministrazione penitenziaria ha dichiarato l’idoneità della villa di via Kenya 72, e successivamente ha istituito il Tavolo di coordinamento di quella che nel frattempo è stata chiamata Casa di Leda, in ricordo di Leda Colombini. Nel gennaio 2016, sempre il Dap, per conto del ministero della Giustizia, ha sollecitato la realizzazione della Casa famiglia protetta. A febbraio la direzione dipartimento Politiche sociali del Comune di Roma, ha approvato la lettera invito per l’acquisizione delle candidature ai fini dell’assegnazione dei locali (determinazione dirigenziale n. 433 del 04/02/2016). La lettera è stata pubblicata sul sito ed inviata alle associazioni che lavorano nel carcere di Rebibbia, regolarmente iscritte all’albo specifico. Questi i fatti. La casa famiglia non è ancora aperta. Ospiterà sei mamme con i loro bambini. Roma diventa così la prima città in Italia che realizza un progetto che rispetta i diritti dei bambini e offre alle mamme una concreta possibilità di recupero per un futuro reinserimento nella società. Tutto questo in ottemperanza ad una legge nazionale. Nel frattempo cinque detenuti - tre uomini e due donne - che hanno ottenuto il permesso al lavoro, sono impegnati per la pulizia e il riordino del giardino e per piccole manutenzioni interne. Non appartengono a nessuna cooperativa, ma sono stati selezionati dal Dap e dalla direzione del carcere. L’altro immobile, quello di Via Algeria, è attualmente in attesa del cambio di destinazione d’uso, che è stato regolarmente richiesto, e sarà messo a disposizione del Comune di Roma che vi riallocherà alcuni servizi già in essere, risparmiando così sui costi dell’affitto di altre sedi. All’obiezione che questo progetto potrebbe avere un impatto negativo sulla sicurezza del quartiere, rispondo che la presenza di esponenti mafiosi sul territorio non era certo rassicurante. A chi teme che un progetto di civiltà come questo possa svalutare il valore degli immobili, ricordo una vicenda di 25 anni fa, quando monsignor Luigi Di Liegro, con il quale collaboravo, progettò di aprire una Casa di accoglienza per persone affette da Aids a Villa Glori. Gli abitanti fecero una lunga battaglia per impedirlo. La Casa è stata aperta, non ha mai creato problemi, gli immobili dei Parioli sono cari oggi più di allora. Credo fortemente in questo progetto: questa è davvero Antimafia Capitale, questi sono gli anticorpi di cui Roma ha bisogno. Ringrazio quindi tutti coloro che hanno collaborato a questo progetto e che ancora lo stanno portando avanti. o in Parlamento. La ricostruzione dei fatti è un po’ noiosa, ma serve a dire che tutto è stato fatto secondo le regole. Milano: i familiari delle vittime in carcere con i detenuti "così superiamo l’odio" di Claudia Zanella La Repubblica, 8 aprile 2016 "È un dolore immenso, che non se ne andrà via, ma incontrare i detenuti mi ha aiutato". Così racconta Pina T., madre di un ragazzo ucciso perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. "L’ho scoperto guardando il telegiornale. Avevano ammazzato due imprenditori e una terza persona. Sapevo che era mio figlio perché era con loro". Pina non prova rabbia, ma un grande dolore. Tre anni dopo le è stato proposto di partecipare a otto incontri tra detenuti e familiari delle vittime. Tra loro non c’era l’assassino di suo figlio, ma gente che scontava pene per reati gravi di vario genere, dall’omicidio al narcotraffico. Agli incontri partecipano gruppi di una ventina di persone: dieci familiari e dieci carcerati. "Per ogni vittima di un reato c’è un detenuto che l’ha compiuto, ma non sappiamo chi di loro l’ha fatto. Lo intuiamo perché durante il primo incontro ci mettiamo in cerchio e ognuno racconta la propria storia". Inizialmente Pina era scettica, poi ha deciso di aderire all’iniziativa. Ora è già al terzo ciclo di incontri. Ultimo a luglio, nel carcere di Opera, dove "un detenuto si è alzato ed è venuto da me e da un’altra madre di una vittima a dare un bacio e a chiedere perdono in nome di chi ci ha fatto del male". Secondo Pina, "vedendo il nostro dolore i detenuti capiscono il male che hanno fatto e questo li aiuta a riflettere e a cambiare". Così come per i carcerati, anche per le vittime è un’occasione per confrontarsi con il lato umano di chi ha commesso un crimine. "Molti si sono pentiti. Diversi provengono da contesti difficili e non hanno avuto la nostra stessa fortuna di avere una famiglia alle spalle che si prendesse cura di loro". Con alcuni si è anche instaurato un rapporto che è proseguito per via epistolare nel tempo. "A volte aspetto con ansia le loro lettere e provo sollievo a sapere che stanno cambiando e che io sto facendo qualcosa per loro". Pina è una dei famigliari delle vittime che hanno partecipato al progetto Sicomoro, un progetto di giustizia riparativa promosso dall’associazione Prison Fellowship Italia. Il primo carcere italiano ad aderire è stato quello di Opera nel 2010. Ha riproposto un ciclo di incontri l’estate scorsa e, a breve, ce ne sarà un terzo. Solo così molti familiari delle vittime riescono a superare l’odio verso i loro carnefici. "Vogliamo dare stabilità al progetto - spiega Giacinto Siciliano, direttore del penitenziario, che durante la sottocommissione Carceri di ieri in Comune ha raccontato l’esperienza. Con molti detenuti ci sono stati ottimi risultati, prendono coscienza di ciò che hanno fatto e questo avvia un processo di cambiamento impossibile da avviare in altro modo". Sondrio: l’obiettivo primario da tutelare sono i diritti delle persone detenute di Stefania Mussio (direttrice della Casa circondariale di Sondrio) La Provincia di Sondrio, 8 aprile 2016 Ho incontrato il signor Racchetti solo alcune volte durante i mesi del mio lavoro e da ultimo nei primi giorni di marzo, quando gli ho chiesto di raggiungermi in ufficio perché volevo informarlo del nuovo clima della Casa circondariale, dove gli operatori si sentono più partecipi e dove le persone detenute sono più coinvolte nei progetti e nelle nuove attività che si stanno avviando. Rocchetti per parte sua mi ha parlato, ancora, della sua unica preoccupazione di non voler effettuare i colloqui nella sala riservata a magistrati, avvocati, a me stessa quando faccio udienza e dunque anche all’autorità del Garante, esprimendo il suo disappunto sulla modalità organizzativa dei colloqui. Gli ho anche riferito che vi sono intese con il territorio per un’attività di tipo artigianale, ma la cosa invece non è stata approfondita. Non mi ha fatto alcun cenno della sua volontà di dimettersi, né ha condiviso alcun argomento di quella che sarebbe stata la sua lunga relazione di li a breve esposta nelle sale comunali. Eppure bene avrebbe potuto, essendo quella la sede istituzionale più adeguata. Non ho memoria, in questi mesi, di aver ricevuto alcun progetto da poter esaminare con gli operatori che coinvolgesse le persone detenute: eppure arrivo da una esperienza dove ho collaborato a lungo e proficuamente con il Garante, a Lodi, il dr. Muzzi, persona con cui ho condiviso e intrapreso numerose attività nel rispetto dei ruoli e delle prerogative che le norme ci riconoscono. Ancora oggi, sul mio tavolo la relazione di Rocchetti non è pervenuta. Eppure so che ne ha fornito velocemente una copia ai giornali. Credo che i confronti istituzionali delibano avvenire nelle sedi istituzionali e se qualcuno mi chiederà spiegazioni, in quelle sedi esporrò ogni questione, anche se per parte mia ho già fornito alcuni chiarimenti. Non voglio alimentare alcuna polemica né desidero essere coinvolta o strumentalizzata in questioni che riguardano le aspettative di taluni e la volontà di non approfondire di altri. Se davvero alcune affermazioni fossero attribuibili al signor Racchetti, posso solo dire che non gli farebbero onore né come persona né come autorità e dunque preferisco non averne pensiero. Arrivata a Sondrio, il mio primo interesse per la comunità è stato affiancarmi al territorio, che/ino ad oggi è stato solerte, generoso, attento, molto partecipe e davvero di grande aiuto. Come direttore ho cercato di far comprendere che i diritti delle persone detenute, delle quali quotidianamente ci occupiamo, sono il nostro primo obiettivo da tutelare. Gli operatori tutti della Casa circondariale hanno visto un nuovo stile di lavoro e ho raccolto in loro entusiasmo e voglia di fare, benché le risorse siano limitate e gli equilibri non sempre facili da moderare. Insomma, una realtà positiva che non vorrei fosse adombrata da questioni che sembrano non essere orientate per il benessere dei detenuti. Certamente non mi ha fatto piacere sentire il signor Racchetti che avrebbe dichiarato che vorrebbe ritornare al tempo di dieci mesi fa: mi è spiaciuto perché in quel tempo ancora vi era un direttore presente una volta alla settimana per poche ore, lasciando cosi inevitabilmente un vuoto e una presenza non costante, anche se molto è stato fatto e su quel terreno abbiamo operato. Probabilmente altri si sono sentiti di occupare quel posto, pur mossi da intenti forse positivi ma oggi non riescono a guardare avanti. Mi auguro invece, in questi mesi, di avere rispettato il ruolo e le prerogative del Garante e spero che si comprenda bene, se si vuole, che l’istituzione penitenziaria è e deve essere aperta verso la società tutta e che dunque ogni lavoro che si conduce insieme nell’interesse delle persone detenute dà il senso al nostro lavoro, sempre proteso a costruire. Le responsabilità però sono diverse, cosi come i ruoli e in questo ognuno dovrebbe bene avere chiaro il proprio mandato perché è proprio dai ruoli che derivano le responsabilità. Le novità introdotte sono tante e apprezzate, di Paolo Giarrizzo Progettualità è la parola chiave per le attività che sono studiate e che si svolgono in carcere, calibrate sulle necessità reali dei detenuti. Cosi, nella palestra rinnovata negli scorsi mesi, hanno preso avvio un corso di pilates e uno di ginnastica di tonificazione. Tra le novità, anche le lezioni di elettrotecnica che hanno raccolto l’adesione entusiasta di quasi venti detenuti. A breve partiranno anche le lezioni di educazione civica, mentre "è in animo - spiega la direttrice Stefania Mussio - l’avvio di un laboratorio artigianale e stiamo ricatalogando i volumi per inaugurare presto la rinnovata biblioteca". Grazie alla presenza di docenti del Centro Provinciale Istruzione Adulti di Morbegno sono stati attivati corsi di alfabetizzazione, che permettono ai detenuti di migliorare la loro condizione personale e ridurre, quindi, il rischio di recidiva al termine della pena. In tal senso è stato pensato l’aumento di autorizzazioni sulla base dell’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario, che attualmente permette a sette detenuti di uscire dal carcere nelle ore diurne per poter lavorare. Diversi detenuti, nelle prossime settimane, lavoreranno all’interno della struttura stessa. quando saranno rifatti i bagni delle celle e queste saranno ridipinte. Tutti questi - spiega la direttrice - sono "elementi di assoluta novità", resi possibili grazie "al buon lavoro del personale di Polizia, dell’area amministrativa e del cappellano". La direttrice tiene anche a sottolineare che "fino ad ora non ci sono stati fatti di pregiudizio per la sicurezza, né di pregiudizio per i detenuti. E anche questo è un fatto positivo". Firenze: storia di N. "Io, internato. Tra dolore, studio e speranza" di Ylenia Cecchetti La Nazione, 8 aprile 2016 Parla un viareggino 24enne. "I miei genitori non devono soffrire più". Il suo è un nome importante, portarlo è una grossa responsabilità. "Vengo da una famiglia molto religiosa: i miei mi hanno cercato tanto, sono arrivato solo dopo un pellegrinaggio a Lourdes, da qui la scelta del nome". Ha inizio così la storia di N. che con i suoi 24 anni è uno dei più giovani detenuti dell’opg di Montelupo. Jeans larghi e una t-shirt per un ragazzone alto e robusto che si aggira nella sala colloqui. "In serate come questa il pregiudizio lo temi - confessa a denti stretti - La gente si sta sensibilizzando sulle vicende giuridiche dell’opg. Ma chissà cosa pensa di noi". "Lo chiamiamo tutti lo studente qui - interviene una delle educatrici. Quando ci ha chiesto di iscriversi all’università non eravamo convinti, ma poi è arrivato il primo 30…". Lo studio per N. è la possibilità di riscattarsi. "Nella vita - dice- può capitare un momento di sbandamento. L’importante è investire in un percorso di recupero. Studiare è un’opportunità per crescere, ho ancora una vita davanti e voglio guadagnarmi la possibilità di cambiarla". Cosa studi? "Ho scelto l’indirizzo in progettazione e gestione di eventi e imprese dell’arte e dello spettacolo. Vengo da Viareggio che sul turismo punta molto. Uscito di qui mi piacerebbe lavorare alla Proloco". Pensi mai agli errori che hai commesso? "Gli sbagli si fanno, bisogna cercare di superarli. E sì, ci penso spesso. I luoghi di detenzione servono anche a farti riflettere". Che aria tira in questo periodo in Opg? "Io sono arrivato nel 2014, nel pieno della fase ci cambiamento. Dall’ottimismo iniziale siamo passati all’attesa estenuante. Sono condannato a due anni di reclusione, a breve dovrei entrare in una comunità terapeutica". Sei informato sulla questione Rems? "Ne parliamo in cella, eccome. Io alloggio nella sezione Torre, divido la stanza con un signore più anziano. Mi ci trovo bene ma la convivenza forzata è uno degli aspetti della detenzione che mi piace meno". Come trascorri le tue giornate? "Ci si annoia ma lo studio mi aiuta a spezzare la monotonia. Ascolto la radio, gioco a calcio balilla". Di cosa hai paura? "Delle udienze, ogni volta in tribunale la certezza di uscire sbiadisce. Quando hai toccato il fondo cerchi solo di risalire, non sai come andrà ma cerchi di restare ottimista". Hai rapporti con la tua famiglia? "Mamma viene a trovarmi 6 volte al mese. Mi è vicina in questo periodo buio, ma avrei dovuto essere io il bastone della sua vecchiaia". Cosa sogni per te? "Una vita normale, una famiglia, un lavoro lontano dai problemi di tossicodipendenza che mi hanno fatto fare tante, troppe cavolate". Roma: Commissario Tronca "le aree pubbliche saranno pulite e recuperate dai detenuti" Askanews, 8 aprile 2016 "Non amo fare citazioni, ma in un libro di Victor Hugo che ho letto di recente, ho letto che colui che apre una porta di una scuola, chiude una prigione. Parafrasando possiamo dire che chiunque apre una porta della società chiude la porta di una cella". Lo ha detto il Commissario straordinario di Roma Capitale Francesco Paolo Tronca, alla presentazione di un protocollo tra il Ministero della Giustizia e Roma Capitale su progetti di lavoro di pubblica utilità per i detenuti. "Abbiano già qualche idea - ha continuato Tronca - si potrebbe cominciare a far lavorare queste unità che andranno a crescere, nell’ambito del decoro urbano. Abbiano immaginato aree d’intervento come il Colle del Gianicolo, i giardini di via Garibaldi e Villa Sciarra. Nella seconda fase, che verrà tarata e perfezionata sulla base della prima, potremmo intervenire sui giardini di piazza Vittorio. Come terzo momento pensiamo di lavorare sui giardini di Carlo Felice, di San Giovanni, e a Santa croce in Gerusalemme, che necessitano di continua manutenzione per restituire alla città quel decoro che i romani ci chiedono". È un modo moderno di approcciare questi problemi, ha aggiunto Tronca "sia di manutenzione di una metropoli come Roma capitale, sia di rinserimento sociale". "L’amministrazione capitolina e io - ha sottolineato il Commissario - siamo molto orgogliosi di aver sviluppato questa esperienza progettuale con Orlando e la riteniamo un segnale forte per tutta la società. La convenzione aperta che ci accingiamo a firmare traccia un percorso, un contenitore che va riempito di iniziative importanti e utili, al detenuto e alla Città di Roma, e immagina un percorso che va a calare il reinserimento dei detenuti nella parte più viva della città, quella della manutenzione e del decoro. Il lavoro è fondamentale, lo dice la Costituzione, perché è anche stimolo per una ricostruzione etica dell’uomo". Questo progetto, ha concluso Tronca "offre un’opportunità lavorativa importante e un impegno che vede questi uomini calati nella quotidianità, in un’opera che i romani vedono, aspettano di cui hanno bisogno in un contesto urbano che necessita di interventi. Questo progetto significa anche pieno recupero della legalità generale e diffusa, coniugata alla solidarietà verso chi ha davvero bisogno di sentirsi al centro della società civile e non l’ultimo". Savona: Melis (M5S) "urge una nuova Casa circondariale per il territorio savonese" savonanews.it, 8 aprile 2016 "La chiusura del Sant’Agostino ha obbligato gli agenti penitenziari a lunghi trasferimenti di detenuti verso Genova o Imperia. Ciò implica tempi e costi maggiori e lascia sguarniti i presidi di polizia locale". "Con la chiusura dell’istituto penitenziario Sant’Agostino, Savona è rimasta l’unica provincia ligure sprovvista di un carcere. Una lacuna inaccettabile per un territorio come questo e che comporta pesanti conseguenze in termini di costi, efficienza e disagi per cittadini e agenti di polizia penitenziaria". Cosi commenta Andrea Melis, portavoce MoVimento 5 Stelle in Regione Liguria. "Per questo abbiamo deciso di rivolgerci direttamente al Questore, al Viceprefetto e al Comandante provinciale dei Carabinieri di Savona con una lettera aperta in cui chiediamo chiarimenti sul tema e sollecitiamo iniziative per garantire lo stato di sicurezza del territorio, in un’ottica anche di risparmio economico". "In particolare, la chiusura del Sant’Agostino ha obbligato gli agenti penitenziari a lunghi trasferimenti di detenuti verso Genova o Imperia. Ciò implica tempi e costi maggiori e lascia sguarniti i presidi di polizia locale". "Nel corso della lettera, indirizzata alla Prefettura, abbiamo voluto anche sondare lo stato dell’arte sull’ipotesi dell’apertura di una nuova casa circondariale, su cui sarà decisivo l’intervento del Ministero di Grazia e Giustizia". "Qualche anno fa era stata avviata una valutazione per l’eventuale apertura di un carcere in località Passeggi, poi non se ne fece nulla. Ma, a prescindere di quale sarà il luogo scelto e al di là di qualche proposta controproducente degli ultimi tempi (vedi Cairo Montenotte, all’interno della Scuola Penitenziaria), è chiaro che l’apertura di una nuova casa circondariale nella provincia savonese sia urgente e non più rimandabile" conclude Andrea Melis, portavoce MoVimento 5 Stelle in Regione Liguria. Foggia: "L’altra possibilità", racconto per immagini e testi sul mondo penitenziario Corriere del Sud, 8 aprile 2016 Giovedì 14 aprile, alle ore 10.30 nella galleria della Fondazione Banca del Monte di Foggia (Via Arpi 152) è in programma l’inaugurazione della mostra intitolata "L’altra possibilità". L’evento è stato organizzato dalla Fondazione Banca del Monte di Foggia e dal Csv (Centro Servizi per il Volontariato) di Foggia, in collaborazione con la Casa Circondariale di Foggia, l’Uepe (Ufficio per l’esecuzione penale esterna) di Foggia. Si tratta, come racconta il sottotitolo dell’iniziativa -"Un reportage sul mondo penitenziario"- dell’esposizione dedicata alle foto di Giovanni Rinaldi e al racconto della giornalista Annalisa Graziano: immagini e testi raccolti in parallelo, con le interviste realizzate ai protagonisti ritratti nelle foto, che documentano la vita nella casa circondariale di Foggia, soprattutto in relazione alle attività di rieducazione e reinserimento sociale attuate, sia all’interno che all’esterno dei luoghi di detenzione, dall’Amministrazione penitenziaria in collaborazione con istituzioni statali, enti culturali e associazioni di volontariato e del Terzo Settore. Sono attività che coinvolgono sia i detenuti che quelli che usufruiscono di pene alternative al carcere. Come ricorda il suo presidente della Fondazione, Saverio Russo, nell’introduzione al volume che accompagna la mostra: "La Fondazione Banca del Monte di Foggia già da tre anni affianca l’UEPE, il Carcere, il Ce.Se.Vo.Ca. - oggi CSV Foggia - e le altre associazioni di volontariato che operano dentro e attorno al mondo penitenziario della Capitanata, nel tentativo di contribuire a realizzare l’articolo 27 della Costituzione, che insiste sulla necessità di rieducare il condannato, di offrirgli un’altra possibilità. In questi anni abbiamo cercato di sostenere l’attivazione delle misure alternative al carcere, di alleviare il dramma delle famiglie dei detenuti, di fare in modo che la detenzione non sia solo segregazione vuota ed alienante o, peggio, scuola del crimine, ma sia ripensata per ricostruire legami positivi con il mondo esterno, di offrire occasioni di riflessione, rieducazione e reinserimento. E quest’anno cercheremo di fare di più, non solo attraverso la mostra e il volume che la documenta, con le fotografie di Giovanni Rinaldi e i testi e le interviste di Annalisa Graziano, ma anche con il finanziamento di altre attività che potranno rendere più solido il progetto di recupero e reinserimento". Nella prefazione al volume, il noto scrittore marchigiano Angelo Ferracuti, ha rilevato che "L’intreccio tra reportage di scrittura e quello fotografico non cede mai alla spettacolarizzazione del disagio o del male. il fotografo Giovanni Rinaldi è fedele al reperto esistenziale in pubblico, racconta ciò che è visibile ma nel visibile anche l’invisibile, mentre Annalisa Graziano usa la parola e scava anche nei vissuti, cerca di portare alla luce con pudore dalle segrete di ogni detenuto la piccola scatola nera di memoria che contiene. Così questo luogo altro, spesso demonizzato, questo mondo nel Mondo, ci appare umano e troppo umano attraverso le vite di riserva che lo abitano, interrotte per quanto dura la pena, vissute a ingannare il tempo in una attesa che sospende temporaneamente la ripresa della quale non conoscono gli sviluppi, ma di cui temono la prova decisiva della libertà. Anche gli oggetti di questi luoghi assumono un significato e un ruolo diversi da quelli che popolano le nostre abitazioni. Con le carte, i libri, le fotografie, gli utensili, il cibo si stabilisce un rapporto di necessità più forte, così come con la scrittura calligrafica di cui questo mondo resta forse l’ultimo avamposto, la tradizionale lettera un segno distintivo di un luogo dove si perde temporaneamente la libertà, e l’espressione di sé, come la convivenza forzata, è mediata dalle molte coercizioni". All’inaugurazione è previsto l’intervento delle autorità e dei rappresentanti istituzionali degli enti partecipanti all’iniziativa. La mostra rimarrà aperta fino al 29 aprile 2016, dal lunedì al sabato, dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 17 alle 20. Cagliari: al carcere di Uta un sopralluogo del Provveditore regionale Veneziano castedduonline.it, 8 aprile 2016 In visita il provveditore regionale Maurizio Veneziano per valutare le problematiche: infiltrazioni e problemi strutturali nel carcere. La segnalazione dei riformatori Sardi. "Ho avuto assicurazioni dal Ministero e dal Dipartimento, a cui avevo inviato una segnalazione, che la questione del numero inadeguato di Direttori nelle carceri sarde è considerata ormai improcrastinabile. Confido quindi in una rapida soluzione del problema in modo da garantire condizioni di maggiore efficienza all’intero sistema". Lo ha detto il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Maurizio Veneziano, in visita ufficiale stamattina nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta, in un breve scambio di battute con la presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" Maria Grazia Caligaris. Accompagnato dal Direttore Gianfranco Pala, dalla Vice Comandante Barbara Caria e dal responsabile dell’Area Educativa Claudio Massa, il Provveditore ha visitato le diverse aree del Villaggio Penitenziario ubicato nell’area industriale di Cagliari a 23 chilometri del capoluogo, prendendo atto delle condizioni delle singole sezioni e dei problemi strutturali. "Il sopralluogo a Cagliari - ha sottolineato - segue quelli effettuati a Sassari-Bancali e Oristano-Massama per valutare le problematiche dei singoli plessi. Abbiamo verificato che, come negli altri Istituti, ci sono delle infiltrazioni d’acqua che, sebbene in buona parte sanate, richiederanno negli anni a venire importanti interventi di manutenzione da parte dell’Amministrazione. Nel complesso tuttavia le condizioni sono buone, a parte il Padiglione destinato ai detenuti in regime di 41 bis che è del tutto in alto mare, essendo sottoposto a sequestro da parte dell’autorità giudiziaria". "La presenza del Provveditore Veneziano a Uta - afferma Caligaris - è un significativo segnale di attenzione nei riguardi degli operatori penitenziari e dei detenuti. Un’occasione per rendersi conto delle difficoltà di gestione di una struttura dispersiva e dislocata in un territorio privo di infrastrutture e senza adeguati collegamenti. Nell’esprimere apprezzamento per la disponibilità manifestata anche nei confronti dei volontari, auspichiamo che il forte impegno assunto per colmare i vuoti nella dirigenza degli Istituti possa concretizzarsi al più presto, come del resto aveva assicurato alcune settimane orsono anche il Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Novara: i detenuti, coordinati da Assa, ripuliscono il parco di via Boggiani novaratoday.it, 8 aprile 2016 L’intervento è stato svolto nella mattinata di mercoledì da nove detenuti in permesso premio che, coordinati da Assa, hanno effettuato una serie di lavori per rimettere a nuovo l’area verde. Nuovo intervento di pulizia straordinaria della città grazie all’impiego dei detenuti del carcere di via Sforzesca. Nella mattinata di ieri, mercoledì 6 aprile, i nove detenuti usciti in permesso premio hanno sistemato i giardini di via Boggiani, nel quartiere Sacro Cuore. L’intervento rientra nell’ambito del protocollo delle "Giornate di recupero del patrimonio ambientale" sottoscritto da Comune, Casa circondariale, Magistrato di sorveglianza, Uepe ufficio esecuzioni penali esterne, Atc e Assa. I nove detenuti, accompagnati dagli agenti della polizia penitenziaria, sono stati coordinati da Assa che ha effettuato anche il supporto logistico e operativo. Il parco è stato rimesso completamente in ordine, in particolare è stata ripristinata la staccionata, che è stata sostituita completamente sul lato di via Torelli e risistemata nella parte perimetrale restante. Sono inoltre state carteggiate e riverniciate le panchine, è stata tagliata l’erba ed è stato sistemato il tappeto antishock sotto ai giochi. Pisa: "Come sabbia sotto al tappeto", scatti in bianco e nero che raccontano il carcere di Teresa Valiani Redattore Sociale, 8 aprile 2016 Tutta al femminile la squadra che ha centrato gli obiettivi non solo sugli ambienti ma anche sui volti e sugli sguardi dei reclusi. La mostra si apre il 20 aprile. Anteprima venerdì 8 nell’ambito del convegno "Alternative al carcere o carcere alternativo?". Si chiama "Come sabbia sotto al tappeto" il reportage tutto al femminile che venerdì 8 aprile, con una anteprima dell’omonima mostra fotografica, apre al pubblico le porte del carcere di Pisa. Scatti in bianco e nero da un mondo rinchiuso, che hanno chiamato a raccolta forza, determinazione e sensibilità per mostrare il vero volto del carcere: quello senza veli, senza ritocchi e senza pregiudizi. "Per informare e sensibilizzare sui problemi legati alla detenzione - spiegano le organizzatrici - che ancora oggi sono fraintesi e sottovalutati, nonostante l’attenzione politica e mediatica degli ultimi anni dovuta all’emergenza del sovraffollamento. Parlare del carcere è scomodo e fastidioso: comunemente non si comprende perché le condizioni di detenzione debbano essere migliorate visto che è pensiero diffuso che chi si è macchiato di un reato debba solo soffrire al fine di espiare la propria colpa". Un anno fa l’idea, poi i mesi che passano seguendo il ritmo dei complessi passaggi per i permessi di entrata e per le autorizzazioni. Infine il tempo che improvvisamente scala una marcia, fino a fermarsi nelle immagini catturate dagli obiettivi delle tre fotografe: Serena Caputo, avvocato penalista del foro di Pisa, segretario della Camera penale (promotrice del progetto), Veronica Croccia, co-direttrice della scuola di fotografia Fotografando di Montopoli in Val d’Arno, e Francesca Fascione, una laurea in ingegneria edile-architettura e la passione per la fotografia urbana. Una anteprima degli scatti verrà presentata venerdì pomeriggio all’auditorium Toniolo Opera Primaziale Pisana, in piazza Arcivescovado, nell’ambito del convegno "Alternative al carcere o carcere alternativo?", che vedrà, tra gli altri, la presenza di Massimo De Pascalis, vice capo del Dap, di Pietro Buffa, direttore generale del personale e delle risorse del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e di Giuseppe Martone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria. L’incontro è promosso dall’associazione Prometeo in collaborazione con la Camera penale, l’Ordine degli avvocati e la casa circondariale di Pisa che sarà rappresentata dal direttore, Fabio Prestopino. Mentre la mostra vera e propria aprirà i battenti il 20 aprile nella sede comunale "Sopra le Logge", in corso Italia, dove rimarrà a disposizione dei visitatori fino a sabato 30, con ingresso gratuito. "È stata un’esperienza particolare e intensa. Le foto sono state scattate in un’unica giornata, lo scorso 9 luglio. - sottolinea la fotografa Veronica Croccia - L’impatto è stato molto forte: aria pesante, senso di occlusione (soprattutto nei primi due piani del reparto maschile e nella palazzina del reparto femminile), apatia, noia. Come se il tempo si fosse fermato, come se in quel luogo le leggi della fisica fossero modificate: all’uscita dopo una giornata là dentro sembrava fosse passato molto più tempo". "La procedura per entrare è stata molto lunga, ma grazie alla determinazione dell’avvocato Caputo e alla collaborazione del direttore della Casa circondariale di Pisa alla fine ce l’abbiamo fatta", ricorda. Il reportage ha interessato la Palazzina della sezione femminile (2 piani, struttura a ballatoio) dove è presente anche il Centro diagnostico terapeutico femminile, la Palazzina del Centro clinico maschile (reparto di degenza distribuito su due piani, noi ne abbiamo visitato solo uno) e la Palazzina del reparto Giudiziario, organizzata su tre piani. Ritratti non solo gli ambienti, ma anche volti e sguardi. "Diversi detenuti sono stati molto accoglienti e ci hanno permesso di riprenderli nelle foto, dopo la firma di una liberatoria. - spiega Croccia - Altri invece sono risultati schivi e hanno preferito declinare l’invito. Grazie al consenso di alcuni di loro la mostra risulta composta non solo da luoghi e oggetti, ma anche da persone vere". "La Palazzina del reparto Giudiziario sembra un susseguirsi di gironi che culminano al terzo piano con la sezione Prometeo, dove troviamo il Paradiso. La sezione Prometeo infatti è strutturata in modo del tutto nuovo rispetto alla tradizionale detenzione: oltre ai locali per il pernottamento ci sono cucina, sala da pranzo, laboratori (informatica, pittura, lingue straniere, attività sportive, falegnameria, sartoria), uffici per gli operatori, infermeria". "La Camera penale di Pisa - spiega l’avvocato Serena Caputo - ha da sempre denunciato le condizioni di degrado in cui versano le carceri italiane, lottando contro i pregiudizi, provando a superare il solo concetto retributivo della pena a vantaggio della sua funzione preventiva che si concretizza nella finalità rieducativa. Una pena che riesca a ricondurre il condannato sulla via della legalità è senz’altro preferibile a quella che semplicemente e meramente lo punisca. Le fotografe Veronica Croccia e Francesca Fascione sono riuscite a fornire un resoconto dettagliato delle difficoltà di chi deve espiare la propria pena in spazi ristretti e con gravi carenze strutturali e hanno tradotto negli scatti realizzati la solitudine e lo smarrimento di chi si sente abbandonato dalla società, come sabbia sotto al tappeto". "Mastica e sputa", di Pino Roveredo di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 8 aprile 2016 Lo scrittore oggi a Padova per raccontare un libro fatto di incontri. È di casa a Padova, Pino Roveredo, scrittore triestino con un premio Campiello in tasca (l’ha vinto nel 2005 con "Mandami a dire"), personaggio anche televisivo e persona assai speciale. Che le sue mani e il suo cuore continua ad affondare nelle realtà marginali, lavorando al Sert, facendo incontri delle scuole, bazzicando ex strutture psichiatriche e anche, da due anni, facendo il garante dei diritti per i detenuti del Friuli Venezia Giulia. Ha un ufficio per tale ruolo, ma lì non ci sta mai, se ne va in giro per le carceri, incontra detenuti e storie, scala montagne. Perché, tanto per essere chiari, "la legge continua a non essere uguale per tutti, chi ha possibilità si salva, i poveracci no. Questo è", spiega Roveredo "del carcere non se ne occupa nessuno, è impopolare: eppure, anche facendo il conto del bottegaio, impiegare minime risorse per migliorare le condizioni dei detenuti, perché in carcere possano lavorare e imparare mestieri utili che una volta fuori diano loro una possibilità, sarebbe un investimento per la società. Ci sarebbero meno detenuti recidivi". Pino, fresco sessantenne, sigaro in bocca, una traboccante scorta di ironia e la battuta che corre, ha avuto negli anni giovani o giù di lì una vita fatta di "capriole in salita" (come il titolo di un suo libro): alcol, devastazione, carcere, autodistruzione e via soffrendo. E facendo soffrire. È stato anche lui tra gli ultimi, quelli che ora racconta e ai quali vuole ostinatamente dare voce. E di quella sua vita sghemba qualcosa gli è rimasto appiccicato addosso, un’anomalia che lo rende speciale e prezioso. Si intitola "Mastica e sputa" per Bompiani il suo libro appena pubblicato, non racconti ma "piccoli romanzi, ché mica un romanzo deve essere necessariamente di 300 pagine. Sono stati d’animo, sono incontri-scontri: io sono un autista di parole, trasporto sulla carta le persone e le storie che incontro", spiega. Persone e storie alle quali restituisce qualcosa: giustizia, memoria, amore. Come per la ragazzina di "Polvere", una vita in manicomio, sola, piccola, definita ritardata, e lei voleva solo un abbraccio. Per tutta la sua esistenza rinchiusa e maltrattata, ha chiesto, disperatamente, solo un abbraccio. Quando Roveredo ha trovato la sua scheda clinica in un polveroso archivio, se l’è messa sotto la giacca, se l’è tenuta stretta e l’ha portata fuori. L’ha abbracciata e poi l’ha raccontata. Ma ci sono anche storie leggere, divertite e divertenti in "Mastica e sputa", titolo còlto da De André. Pino, un "irregolare della scrittura" definizione che qualcuno gli ha dato e che lui si è appuntato come una medaglia, sarà a Padova alla "formadelibro" in via XX Settembre 63, venerdì 8 aprile alle 21. Con lui, a leggere pagine del libro, Mario Grasso, attore della compagnia Instabile, altra creatura di Roveredo. "Manuale dei diritti Fondamentali e desiderabili", di Riccardo Arena di Paola Severini Melograni Sette - Corriere della Sera, 8 aprile 2016 Pannella e quei detenuti ignoti. Art. 3 Diritti paradossali: "Diritto a una rieducazione umana". Riccardo Arena, "Manuale dei diritti Fondamentali e desiderabili", Oscar Mondadori. Contro le pene degradanti e per un nuovo concetto di rieducazione, si è levata alta e forte (e molto spesso solitaria) una voce, da ben più di mezzo secolo: quella di Marco Pannella. Abbiamo più volte ribadito che i Diritti fondamentali si stanno evolvendo verso quelli che potremmo definire i "Nuovi diritti umani" e, per questi ultimi, il vero paladino è stato proprio lui. Ricordiamo quattro scottanti emergenze per coloro che sono detenuti: la limitazione della custodia cautelare, l’abolizione dell’ergastolo, la responsabilità civile dei magistrati, la separazione delle carriere degli stessi. Il risultato negativo (non fu raggiunto il quorum) dell’ultimo referendum sulla "Giustizia giusta" indetto dai radicali nel 2013 non ci deve far credere che questi interrogativi fossero sbagliati, anzi. Si verificò allora uno di quei casi che Gustav Le Bon, nel suo Psicologia delle folle, descriveva come una folla per la quale ogni tentativo di ragionamento ha l’effetto di stimolare impulsi bestiali (e ciò è purtroppo vero nei confronti di alcuni atteggiamenti verso le persone detenute). Ascoltando i messaggi di auguri al "nostro Gandhi" da parte di carcerati sconosciuti che in questo periodo Radio Radicale ha mandato in onda, si sono sentite voci rotte dall’emozione, frasi sgrammaticate e pur così appassionate. Noi non possiamo che ricordare la frase di Pannella: "lo non mi batto per il detenuto eccellente, mi batto per la tutela del diritto della vita nei confronti del detenuto ignoto". Assistendo alla processione di politici al suo capezzale non possiamo però non chiederci dov’erano questi quando, per tutto il mondo dei diritti, sarebbe stato un segnale giusto e opportuno riconoscergli il seggio di senatore a vita. Salvo Riina a "Porta a Porta". La Presidente Maggioni "da Vespa ha parlato un mafioso" di Agnese Ananasso La Repubblica, 8 aprile 2016 Oggi l’audizione in commissione Antimafia per la discussa puntata di ieri. Il dg Dall’Orto: "Contributo al dibattito sulla mafia". Rosy Bindi: "Ha negato l’esistenza della mafia, lanciando messaggi inquietanti". Grasso: "Più rispetto per lui che per me". Il conduttore: "Per i vertici dell’azienda niente da riparare". Il giorno dopo la bufera sulla Rai per la scelta di mandare in onda ieri sera l’intervista di Salvo Riina, figlio del boss Totò, a Porta a Porta, i vertici dell’azienda cercano di difendersi davanti alla commissione Antimafia, convocata subito dopo l’annuncio della decisione. Riina La presidente Rai Monica Maggioni rivendica la posizione dell’azienda ma non il contenuto dell’intervista né come è stata condotta da Bruno Vespa: "Nell’atteggiamento della Rai non c’è nessun tipo di negazionismo come dimostra la programmazione quotidiana da decenni. Poi però accade quello che è accaduto ieri", ha risposto la presidente in commissione Antimafia". Dobbiamo tenere conto del contesto e delle responsabilità del servizio pubblico. La ferita mafiosa" per l’Italia "non è il passato, è l’oggi, è il presente. E inoltre: nella nostra programmazione quotidiana la vittima e l’aguzzino non devono avere la stessa dignità di racconto", ricorda Maggioni. E aggiunge: "Ci siamo posti il problema di un intervento a priori che avrebbe avuto le caratteristiche, per come era stato costruito, della censura. È difficile accettare e applicare la censura a qualcuno che ha una lunga storia professionale. Ma poteva anche avere un senso". La presidente della Rai dice a proposito della trasmissione di ieri sera: "Quel racconto ha moltissime cose che lo rendono insopportabile. Prima di tutto non rinnegare il padre e dare dall’inizio alla fine un’intervista da mafioso. Quale è". Campo Dall’Orto: "Contributo alla conoscenza della mafia". "È stata sicuramente una decisione delicata" ha detto il direttore generale della tv pubblica Antonio Campo Dall’Orto difendendo in tutto e per tutto la scelta della Rai. "Dopo un confronto con il direttore editoriale dell’informazione Rai Carlo Verdelli, lui ha ritenuto che fosse giornalisticamente difendibile e potesse contribuire ad aumentare il dibattito rispetto al racconto intorno alla mafia. Il mio compito non è essere censore né l’ultimo decisore di tutto, ma l’ultimo decisore solo quando serve". Ha puntualizzato che Riina jr non ha preso compensi e che "la liberatoria è stata firmata alla fine ma le domande sono state fatte in libertà". Infine ha annunciato: "Questa è una fase di transizione, prima abbiamo deciso di occuparci della informazione giornalistica in senso stretto, cioè delle testate, e poi dal primo settembre bisognerà riuscire ad avere una supervisione anche lavori sui contenuti giornalistici ovunque essi siano. Da quel momento si dovrà decidere insieme". Bindi: "Messaggi inquietanti". Parla di "messaggi inquietanti" la presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi: "Non ho visto la trasmissione ieri sera per non alzare lo share. L’ho vista stamattina e non è stata un’intervista del figlio sul padre ma del figlio di un capo di Cosa Nostra che ancora mesi fa dal carcere mandava messaggi di morte. È evidente che il perimetro delle domande sia stato fissato da Riina e dall’editore (del libro scritto da Riina jr, occasione dell’intervista, ndr), non si è toccato la vera realtà di Cosa Nostra. Riina ha negato l’esistenza della mafia lanciando messaggi inquietanti. Non possiamo non chiederci se in questa fase di riorganizzazione della mafia le sue parole non siano indirizzate ai clan e ad altri interlocutori. Vespa domandava, domandava, ma lui non rispondeva, io non sono giornalista ma dico che l’intervista poteva finire lì. Era chiaro che era lui che conduceva la partita. Ha firmato la liberatoria perché quello era il messaggio che voleva mandare". E giudica la puntata "riparatrice" di oggi un ulteriore danno. "L’annuncio di una puntata riparatrice fa passare un messaggio gravissimo: che ci possa esser par condicio tra mafia e chi la combatte, tra vittima e carnefice. Ci nasce questa domanda: se la trasmissione di questa sera possa essere un rimedio peggiore del danno". Vespa: "Per i vertici Rai niente da riparare". "La Rai ha chiarito che non c’è niente da riparare" afferma Bruno Vespa, intervenendo subito dopo il ministro dell’Interno Angelino Alfano che, presente in studio per un’altra puntata dedicata al tema della mafia, tiene a precisare di "non essere qui per partecipare a una trasmissione riparatoria", rispetto a quella andata in onda ieri. Grasso: "In Rai più rispetto per lui che per me". Il presidente del Senato Pietro Grasso, che ieri aveva detto che non avrebbe visto l’intervista, fa notare che l’intervista non ha dato nessun contributo a conoscere il fenomeno mafioso e invita a non banalizzare un argomento così delicato e doloroso come la mafia: "Io penso che il servizio pubblico non debba avere limiti all’informazione, ma deve imporre un diverso grado di responsabilità e di serietà. Che contributo hanno dato le parole di Riina a una maggiore conoscenza del fenomeno mafioso? Non si può banalizzare la mafia, non si ci si deve prestare a operazioni commerciali e culturali di questo tipo, e una puntata riparatoria non giustifica, anzi sembra mettere sullo stesso piano il punto di vista della mafia e quello dello Stato". E aggiunge: "Quando sono andato alla Rai la liberatoria me l’hanno fatta firmare sempre prima, anche quando abbiamo fatto delle registrazioni. Ho sentito che lui ha firmato dopo aver visto il filmato", segno del "grande rispetto anche da parte della Rai... forse lui aveva timore che gli fosse sfuggito qualcosa di compromettente...". Emigrare? Diritto per noi, rovescio per altri di Gian Antonio Stella Sette - Corriere della Sera, 8 aprile 2016 Nell’Enciclopedia di Polizia del 1952, che pure riflette un’Italia oscurantista, era scritto: "Il legislatore può regolarlo, non sopprimerlo". Ce lo siamo dimenticato. "Il principio della libertà di emigrazione è stato sempre considerato come un diritto naturale riconosciuto all’individuo, alla famiglia, al nucleo di persone, che intendano lasciare la Patria per stabilirsi o trasferirsi temporaneamente in altro paese, spinti da scopi di varia natura. (…) Il legislatore di un Paese può regolarlo, non sopprimerlo". "E chi l’avrà scritta mai, questa esaltazione del principio della libertà di emigrare?", si chiederanno Matteo Salvini e i suoi leghisti più muscolari e fedeli alla "cattivismo" invocato a suo tempo da Roberto Maroni. L’avrà scritta qualche vescovo terzomondista? Qualche prete operaio incanutito? Qualche comunistone rimasto devoto all’internazionalismo proletario? Macché: sono parole testuali prese dalla Enciclopedia di Polizia, curata da Luigi Salerno e pubblicata dalla Hoepli nel 1952, "ad uso dei funzionari e impiegati di P.S., ufficiali e sottufficiali dei carabinieri, degli agenti di polizia e della guardia di finanza, magistrati, avvocati, sindaci e segretari comunali". Nella prefazione Michele Petrone, Presidente di Sezione della Corte di Cassazione, spiega che l’opera "oltre a contenere insegnamenti tecnici e pratici, attinenti all’azione della polizia, tratta, con competenza, problemi di medicina legale, antropologia, diritto costituzionale, internazionale, marittimo, commerciale, sindacale; insomma vi è esposta ogni nozione pratica e scientifica, indispensabile per quelli che abbiano necessità di conoscere ed applicare le numerose norme interessanti la complessa attività della polizia". L’Italia era appena uscita dalla guerra e da un ventennio di dittatura fascista, le questure e le caserme dei carabinieri, i Comuni e i tribunali traboccavano di poliziotti e militari, assessori e magistrati che dopo essere stati mussoliniani erano sopravvissuti alle epurazioni. E l’enciclopedia riflette in mille cose una Italia bigotta e oscurantista. Alla voce "aborto" c’è scritto: "Il nuovo codice pone l’aborto sotto il titolo "dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe" in quanto che ogni atto diretto a sopprimere o isterilire le fonti della procreazione rappresenta un attentato alla integrità e quindi alla vita stessa della razza…". La voce "adulterio" parla solo della donna: "L’elemento morale del delitto di adulterio consiste nel contatto carnale da parte di una donna maritata con un uomo che non sia il marito…". E rincara più avanti: "Una moglie tradita, dice il Moggione, può essere compianta, un uomo ingannato è ridicolo se ignora, disonorato se sopporta, vituperevole se accetta cinicamente il suo stato…". Quanto alla voce "Fellismo": "Si dà tale nome ad atti abbominevoli e ributtanti di libidine, consistenti nel coito boccale". E così via… A farla corta: l’Enciclopedia di Polizia del 1952 è esattamente ciò che dice di essere: una "Enciclopedia di polizia" del 1952. Piena zeppa di pregiudizi, di maschilismo, di disprezzo per le donne, di visioni apocalittiche del peccato: "Masturbazione: vizio funesto che ha tanta nefasta influenza sul fisico e sul morale e che talvolta conduce precocemente alla morte". Due pesi e due misure. Eppure esalta fino in fondo, incredibile ma vero, il diritto di ogni uomo a emigrare per cercare fortuna altrove. Di più. Teorizza che questo diritto "si sopprime da sé per impotenza senile, quando un Paese è colpito da decadenza. L’espansione di un popolo è come l’istituto di riproduzione nell’uomo. Voler sopprimere l’emigrazione è come voler sopprimere con una legge l’amplesso. Vana legge è quella che (per) regolare l’emigrazione, miri a sopprimerla o ad amputarla". E cita Francesco Crispi: "L’emigrazione è un fatto che non si ha il diritto di sopprimere, e che non si hanno i mezzi di impedire". Ma allora, diranno i nemici acerrimi di ogni apertura, eravamo noi a emigrare! È ovvio che fosse esaltato questo nostro diritto! Appunto… Due pesi, due misure. Profughi, ecco il muro nel cuore d’Europa: dodici varchi in 430 chilometri di Corrado Zunino La Repubblica, 8 aprile 2016 Cento poliziotti e mille riservisti inviati per presidiare l’intera frontiera. Ventisettemila rifugiati solo nel 2015. Il cancelliere austriaco, Werner Faymann, lo aveva detto al premier italiano Matteo Renzi lo scorso 12 febbraio, guardandolo negli occhi: "Al Brennero rimettiamo la frontiera". Dopo ventun anni di libera circolazione. L’Unione europea era stata avvertita lo scorso settembre: "Facciamo tutto senza violare il Trattato di Schengen", si era affrettato a dire il cancelliere. Il ministro degli Esteri austriaco, Sebastian Kurz, aveva anche indicato il tetto massimo sopportabile per l’Austria: 37.500 richiedenti asilo in un anno, il 2016. Ma quella cifra Vienna è convinta di averla raggiunta dopo soli tre mesi, così adesso arrivano gli ultimatum: "L’Austria ha ospitato 120 mila profughi, ora chiudiamo tutto con l’esercito". Su otto milioni e mezzo di abitanti è, tuttavia, l’1,4 per cento. Al Brennero, oltre i cento poliziotti che domenica scorsa hanno respinto i "no borders", sono arrivati anche cento militari. Per il controllo dei blocchi su tutto l’arco alpino il governo ha già impiegato 992 riservisti, di cui 206 volontari di una milizia confluita in un battaglione di cacciatori. Sono stati schierati al confine sloveno in Stiria e a Sillian (confina con la Val Pusteria) e a Nauders (Passo di Resia). Sono dodici i varchi austriaci da difendere e solo il confine con l’Italia si sviluppa per 430 chilometri. È di queste ore il ritiro di cento uomini da alcuni "punti controllati" con la Slovenia, dove la situazione è tornata a livelli standard: è probabile che questo personale attrezzato sarà spostato al valico, appunto, del Brennero-Brenner. Gli aspiranti volontari austriaci crescono ogni giorno: devono dare la disponibilità a una ferma di 60 giorni, guadagneranno 2.770 euro al mese. Arrivano dalla capitale e Salisburgo, da Bassa e Alta Austria, dalla Stiria. Per ora, il servizio è previsto fino al 29 aprile. Nei piani del governo austriaco il posto di blocco del Brennero sarà ripristinato con un vero e proprio check point: lì i gendarmi austriaci dovranno controllare i documenti di chi passa, smistare gli stranieri con le carte in regola e gli sprovvisti. Il piano, di cui ha già parlato L’Adige, prevede la creazione di una carreggiata stradale di controllo, costeggiata di container: auto, pullman e Tir potranno percorrerla a 30 chilometri l’ora. Il territorio - il passaggio del Brennero è uno stretto imbuto a 1.375 metri d’altezza - non aiuta la costruzione di una vera e propria recinzione, ma le reti metalliche restano ancora una delle ipotesi possibili. Nel momento in cui l’ordine del ministero dell’Interno partirà, ricorda il capo della polizia del land del Tirolo, Helmut Tomac, la "nuova frontiera" di Brenner potrà essere operativa in 8-10 settimane. Dal Valico del Brennero, dice la recente storia alimentata dalla guerra in Siria, passano coloro che sbarcano nel Sud dell’Italia e vogliono raggiungere il Nord Europa. Eritrei, somali, nigeriani, gambiani, maliani, soprattutto siriani, afgani e pachistani. Prima della grande crisi lo attraversavano millecinquecento migranti l’anno, nel 2014 si è saliti a 4.700 persone. Solo trecento, di queste, hanno chiesto asilo in Austria. Nel 2015 il numero dei profughi è quintuplicato: 27.311 (sui 190 mila che hanno attraversato i confini italiani). E questi sono solo i dati di chi è stato contabilizzato, i numeri reali non li conosce nessuno. In questi primi giorni dell’anno si contano in media cinquanta passaggi quotidiani: "Ma ad aprile, con il ritorno della stagione calda, ci aspettiamo 300-400 profughi al giorno", spiega Andrea Tremolada, responsabile di Volontarius, associazione che mette in campo al confine 350 assistenti (ai migranti) e un centro di prima accoglienza con trenta letti. Duello con l’Austria su Brennero e migranti di Marco Zatterin La Stampa, 8 aprile 2016 Riflettori su Italia, Austria e Brennero. La ministra dell’interno austriaca, Johanna Mikl-Leitner, dopo giornate passate a costruire una incomprensibile linea dura per la difesa del Brennero, in prospettiva anche coi militari, e la chiusura delle frontiere interne alla zona Schengen, arriva a Roma per incontrare Angelino Alfano e parlare di migranti. Si cerca una soluzione per un dissidio che Vienna alimenta con piacere, sostenuta dai tedeschi, cugini che diventano fratelli ogni volta che fa loro comodo. La signora Mikl-Leitner si è fatta precedere da una dichiarazione in cui prevede che il numero dei migranti che attraverso il Mediterraneo raggiungono l’Italia potrebbe raddoppiare dai 150mila dello scorso anno a 300mila. È un rischio serio, ora che la rotta balcanica è blindata. Cosa fa però il governo austriaco? Invece che considerarsi un partner europeo e immaginare di identificare una soluzione comune e comunitaria per un paese, il nostro, che suo malgrado è arrembato da Sud, annuncia che sigillerà i suoi confini qualora il flusso dei passaggi fosse giudicato improprio. Con dei governi così, si capisce perché i cittadini perdono fiducia nel progetto europeo. Sono sempre in meno i disposti a dare una chance alla convinzione che l’Unione possa fare la forza. È un atteggiamento che fa mal sperare per la costruzione futura, per l’approvazione definitiva delle proposte già messe in tavola dalla Commissione Ue con l’approvazione dei leader, come per il nuovo piano di riforma dell’asilo e del regolamento di Dublino. Bruxelles cerca di mediare e di salvare Schengen. "L’Austria vuol far saltare tutto per ragioni di politica interna? Non glielo permetteremo", dice un pezzo grosso dell’esecutivo Ue. Speriamo. Vienna minaccia la chiusura della frontiera sul Brennero Vienna aumenta la pressione sull’Italia, nel timore di un’esplosione del flusso dei migranti nel corso della primavera: le stime degli esperti prevedono fino a 300 mila arrivi nella penisola, sulla rotta del Mediterraneo, e l’Austria ribadisce l’intenzione di introdurre controlli sul Brennero, per mettersi al riparo da una nuova emergenza. È questo il messaggio che la ministra dell’Interno Johanna Mikl-Leitner consegnerà domani al ministro Angelino Alfano, in un incontro a Roma. Mentre la Tiroler Zeitung, per i suddetti controlli, indica una data: fra fine maggio e inizio giugno. La tensione sale, proprio nelle ore in cui Erdogan ha minacciato a chiare lettere che la Turchia "potrebbe non attuare il patto se l’Europa non mantenesse le sue promesse". Si tratta dell’intesa che ha visto i suoi primi risultati lunedì scorso, con l’arrivo in Europa di 43 profughi legali, mentre Ankara si è ripresa 202 migranti dalla Grecia. Qui la situazione umanitaria continua ad essere molto pesante: è di oggi l’appello dell’Unicef, che ha denunciato 22 mila bambini bloccati nella penisola ellenica. "L’Italia non può contare sul fatto che il Brennero resti aperto se il flusso sarà incontrollato", ha detto Mikl Leitner, in un’intervista alla vigilia della bilaterale con il collega italiano, rilasciata all’agenzia APA. In pressing anche il capo della diplomazia, Sebastian Kurz, che ha chiesto a Roma di "fermare il lasciapassare", incontrando i governatori di Alto Adige e Trentino, a Bolzano. "L’Austria non può permettersi - ha spiegato - un nuovo 2015. Quando ha accolto 90 mila migranti". In proporzione, ha aggiunto per dare il senso dello sforzo di Vienna, è come se l’Italia ne avesse accolti 600mila. Il giovane ministro degli Esteri è però convinto che i controlli sul Brennero si "possano ancora evitare". Il senso della missione della Mikl-Leitner non potrebbe esser più chiaro: "Come fatto coi Paesi della rotta Balcanica, Slovenia, Croazia e Macedonia, vogliamo informare anche l’Italia delle misure che intraprenderemo, se vi sarà un flusso incontrollato verso l’Austria". Vienna vuole informazioni anche sulla tenuta degli hotspots, allestiti nel sud Italia, promettendo sostegno su questo fronte, se necessario. A paventare una nuova Idomeni nel cuore dell’Europa è la tedesca Frankfurter Allgemeine Zeitung, che in un’analisi sferzante, sottolinea che l’Italia potrebbe evitare questa situazione, "se si attivasse" concretamente nelle politiche di accoglienza. Fino ad oggi, è il succo di un articolo di Tobias Piller che lascia capire gli umori di Berlino, Roma si è limitata all’"autocompiacimento", a fronte di un atteggiamento nei fatti "ambiguo" nelle politiche migratorie. Il severo giornale di riferimento dei conservatori concede all’Italia il merito dei salvataggi in mare, ma rinfaccia ai governi del passato di aver consentito ai profughi approdati sulle coste di dileguarsi, e di riversarsi nel nord Europa e in Germania. Richiami che si inquadrano in un contesto nazionale complicato: il mezzo annuncio del ministro dell’Interno Thomas de Maiziere di una possibile sospensione dei controlli sulle frontiere tedesche a partire dal 12 maggio, ha provocato una nuova insurrezione dell’alleato bavarese Horst Seehofer, che ha fra l’altro promesso un sostegno a Vienna proprio sul Brennero. Ad agitare gli animi dei conservatori è la paura dell’avanzata della destra estrema: secondo l’ultimo sondaggio di Ard, dopo l’affermazione alle regionali nei tre Laender del 12 marzo scorso, Alternative Fuer Deutschland esplode al 14%, distanziando di soli 7 punti i socialdemocratici che crollerebbero al 21. Un clima che non favorisce un confronto disteso sul rischio della rotta che potrebbe portare centinaia di migliaia di nordafricani in Europa. Tortura, nel cuore di Roma il "rifugio" per i migranti che l’hanno subita La Repubblica, 8 aprile 2016 L’esperienza della tortura lascia segni indelebili nelle vite di molti dei migranti che arrivano in Italia per chiedere asilo. Traumi e violenze che rischiano di aggravarsi in assenza di adeguati percorsi di cura e integrazione sociale. Medici Senza Frontiere ha aperto, nel cuore di Roma, un centro dedicato alla riabilitazione delle vittime, che parte dagli ambienti stessi. Volte a botte controsoffittate, pareti di vetro e arredamento minimalista ma caldo. Il nuovo centro di riabilitazione per sopravvissuti alla tortura di Medici Senza Frontiere ha qualcosa dell’ambulatorio medico e qualcosa dell’ufficio, senza assomigliare a nessuno dei due. Negli spazi, a pochi passi dalle basiliche capitoline, dallo scorso 4 aprile convivono medici, psicologi, mediatori culturali, fisioterapisti, operatori legali e assistenti sociali, riuniti attorno a persone che portano con sé le ferite, visibili o sotterranee, di violenza e torture. Nuovo centro, già cinquanta casi. "Il progetto esiste da ottobre 2015", spiega il coordinatore Gianfranco De Maio, "ma eravamo in affitto e gli ambienti non erano adeguati, così abbiamo progettato questo nuovo centro". Cinquanta persone, di 18 nazionalità diverse, sono state seguite nei primi sei mesi, in "percorsi di lunghezza variabile, il cui fulcro è la presenza di diverse professionalità che lavorano a stretto contatto, svolgendo colloqui e incontri congiunti con i pazienti" e, al contempo, affiancando e cercando di stimolare i servizi del territorio, dalle Asl ai centri d’accoglienza. Dalle vittime ai carnefici. "Riabilitare le vittime di tortura", racconta la psicologa Lilian Pizzi, che ha da poco integrato l’equipe del progetto, "significa fare un viaggio nella mente dei carnefici, perché i sintomi che la persona porta riconducono lì, al metodo della tortura, il cui scopo è sempre quello di isolare la persona, tagliarla fuori dalla società". Un itinerario difficile, che tocca inevitabilmente zone grigie della geografia contemporanea, dai regimi autoritari di Eritrea, Etiopia ed Egitto agli sconfinati territori senza padrone percorsi da chi attraversa il Sahara, diretto in Libia, cadendo spesso vittima degli estesi network criminali che si contendono la regione. Percorsi di riabilitazione impegnativi. "Se un paziente soffre di problemi di memoria", continua Pizzi, "probabilmente chi lo ha torturato voleva spezzare il suo legame con la storia, con una storia collettiva in cui la persona era agente di cambiamento". Legami che si possono ricostruire, se la persona trova un contesto positivo, facendo sì per esempio che "chi si occupava di politica nel proprio paese torni a farlo a distanza, o se lo vuole dia un contributo alla nostra società, impegnandosi per la difesa dei diritti umani". Percorsi impegnativi, che mirano innanzitutto a rielaborare una rabbia "accresciuta dal fatto che i crimini subiti rimangono impuniti, il che, nei sopravvissuti, rafforza sentimenti di odio e sfiducia verso il genere umano". Ambienti progettati ad hoc. Proprio gli spazi hanno un ruolo centrale e nascono, come ci spiega l’architetta Elena Rizzica, "dalla condivisione con medici e psicologi, che hanno raccontato le forme di tortura più praticate". Le fonti luminose sono ad esempio "ben distribuite e mai dirette, per evitare l’effetto abbagliamento che è diffuso nelle carceri e nelle stanze dei torturatori, che lasciano le persone per giorni sotto lampadine accese". Per non riprodurre poi gli ambienti chiusi in cui le vittime sono state interrogate e trattenute, le stanze sono separate da pareti in vetro opacizzato, "che fanno respirare ma, grazie a un doppio strato rinforzato, garantiscono il silenzio e la riservatezza dei colloqui". Le responsabilità di un’Europa che chiude le frontiere. Secondo il Consiglio Italiano per i Rifugiati (di cui abbiamo pubblicato un articolo firmato dalla direttrice Fiorella Rathaus) e l’associazione Centro Astalli, almeno il 30 per cento dei migranti che chiedono asilo in Italia ha subito torture o violenze che la Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo definisce "trattamenti inumani o degradanti". Numeri drammatici, se pensiamo che nel 2015 più di 80mila persone hanno chiesto asilo in Italia, mentre a fine gennaio 105mila migranti erano inseriti nelle misure nazionali di accoglienza. Una conseguenza, denuncia il capomissione di Medici Senza Frontiere Tommaso Fabbri, "della chiusura di vie di accesso legali all’Europa, che obbliga chi fugge ad esporsi ad abusi che, come quelli che si registrano in Libia, possono sfociare ina patologie gravi". Curarsi con gli spazi e la parola. Più della metà dello staff del centro è costituito da mediatori culturali, alcuni dei quali, come Ahmad Al Rousan, lavorano da anni con l’organizzazione umanitaria. "Come gli spazi sono importanti per creare un’ambiente consono alla riabilitazione", sottolinea il mediatore, "così lo è la parola, che è quella del torturatore - ad esempio ho imparato a non usare l’arabo ajlis, ovvero "siediti", che per gli eritrei è associata alle continue detenzioni subite in Libia - ma può tornare a essere la parola della persona, con la sua identità, rappresentata anche da una lingua che porta affetti e memorie positive". Dall’accoglienza alla riabilitazione. "Ad accedere al centro", spiega il coordinatore De Maio, "sono persone segnalate dagli operatori dell’accoglienza, della rete Sprar o dei centri straordinari istituiti tramite le Prefetture, con cui come prima cosa facciamo un incontro di gruppo, con più professionalità". Da qui iniziano i percorsi, che vedono coinvolti anche i Medici Contro la Tortura, storica associazione di Roma, e l’Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione, che mette a disposizione consulenti legali, per far emergere l’esperienza della tortura, spesso rimossa, nel momento dell’audizione per la richiesta d’asilo. "Un progetto [per ora di tre anni, ndr] che", conclude De Maio, "non è solitario, perché per fortuna ci sono altre realtà di cura a Roma e in Italia, ma che vuole essere da stimolo per affrontare in modo organico gli effetti di un crimine fra i più odiosi". Egitto: caso Regeni, al via il vertice. Ma il dossier è incompleto di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 aprile 2016 Cinque ore di incontro tra investigatori italiani ed egiziani a Roma. Oggi le conclusioni. Insoddisfacente il faldone nel quale mancherebbero tabulati e video richiesti da Roma. "Documentazione incompleta, non soddisfacente e non corrispondente al materiale garantito". Non è una dichiarazione ufficiale ma non lasciano spazio ad ottimismi, gli umori che si registrano a fine giornata tra gli inquirenti italiani che hanno preso parte alla prima tranche del vertice con la delegazione di investigatori egiziani. Cinque ore di faccia a faccia, dalle 10 del mattino alle tre del pomeriggio di ieri, nella Scuola superiore di polizia di via Guido Reni, a Roma. Non una parola ufficiale, perché la due giorni programmata per fare il punto delle indagini sull’omicidio di Giulio Regeni non è libera dalla zavorra diplomatica e politica. Non a caso, "una fonte giudiziaria" cairota ha lasciato trapelare sul quotidiano filogovernativo Al Masry Al Youm la "probabilità che qualche componente della delegazione egiziana incontri la famiglia di Giulio Regeni per presentare condoglianze e rispondere a tutte le domande che essi desiderino porre". I genitori della vittima, però - secondo quanto riferito dal loro legale, Alessandra Ballerini - "non sono stati in alcun modo contattati, per un incontro, dagli inquirenti egiziani in questi giorni in Italia". E invece, dal punto di vista prettamente investigativo, il vertice romano potrebbe non aver superato la prova richiesta dal ministro Gentiloni che aveva auspicato un "cambio di marcia" nella disponibilità alla reale collaborazione da parte del regime di Al Sisi. Sembra infatti che siano confermate le indiscrezioni anticipate dal sito dello stesso Al Youm, secondo il quale nel corposo dossier di due o tre mila pagine (quasi tutte in arabo) che il team egiziano ha portato con sé mancherebbero almeno due delle cinque richieste formulate da tempo dalla procura di Roma. Le più importanti, quelle ritenute dai magistrati romani indispensabili per la ricerca della verità: i tabulati delle celle telefoniche e i video delle telecamere di sorveglianza di metropolitane e negozi del quartiere nel quale Giulio è sparito il 25 gennaio scorso e della zona dove il suo corpo è stato ritrovato il 3 febbraio. Oltre alle spiegazioni sul ritrovamento insolito dei suoi documenti, custoditi per due mesi, evidentemente, nelle stesse mani di chi li ha fatti rinvenire due mesi dopo. Per esserne certi, però, bisognerà attendere il pomeriggio di oggi quando, al termine dei lavori che riprenderanno questa mattina, dovrebbe essere divulgato un comunicato, annunciato come "congiunto". Di sicuro, ieri mattina il procuratore capo Giuseppe Pignatone, il pm Sergio Colaiocco, il comandante del Ros Carabinieri, generale Giuseppe Governale e il direttore dello Sco Polizia, Renato Cortese hanno riferito ai colleghi i dettagli dell’analisi del computer di Giulio (consegnato agli italiani dalla famiglia Regeni) e illustrato il referto dell’esame autoptico romano - dal quale emergono particolari che l’autopsia egiziana non aveva rivelato - insieme al professor Vittorio Fineschi che lo ha eseguito. Dall’altra parte sarebbero arrivati innanzitutto gli aggiornamenti delle indagini svolte dopo il 14 marzo, giorno della trasferta degli italiani al Cairo. Con particolare riguardo - e cinque ore sembrano perfino poche - alla falsa pista della banda di rapinatori accreditata dal ministro dell’Interno Ghaffar e ai documenti di Regeni riapparsi, chissà come, in uno dei covi dei criminali indicati come responsabili dell’omicidio di Giulio ma uccisi dalla polizia cairota. Non sarà stato facile, per la delegazione egiziana composta da due magistrati (il procuratore generale aggiunto Mostafa Soliman e il suo segretario Mohamed Hamdy El Sayed) e da quattro militari (il responsabile della sicurezza nazionale Adel Gaffar, il vicedirettore della polizia criminale del Cairo Mostafa Meabed, l’ufficiale della polizia centrale Ahmed Aziz, e il vicedirettore della polizia di Giza, Alaa Azmi, la cui presenza, inizialmente non prevista, è molto importate perché è fa parte dello staff del generale Khaled Shalaby, colui che da subito tentò di depistare le indagini ed è indicato dall’ex generale Omar Afifi, oppositore di Al Sisi, come il mandante dell’omicidio Regeni). Secondo alcuni media egiziani il dossier conterrebbe addirittura "prove materiali" che "determinano nel dettaglio la maniera in cui è stato perpetrato il crimine senza però poter giungere al criminale". In ogni caso, invece, secondo Al Masry Al Youm la delegazione egiziana avrebbe ribadito che le indagini, da parte loro, non sono ancora concluse. D’altronde, il rompicapo è di difficile soluzione. Scriveva ieri il quotidiano arabo edito a Londra Al Quds in un editoriale: "L’unico scenario che resta al governo del Cairo per scagionare le più alte autorità è attribuire tutta la responsabilità dell’omicidio di Giulio Regeni al generale Khaled Shalabi". Egitto: il triangolo di al-Sisi… Esercito, Interni e Servizi segreti di Chiara Cruciati Il Manifesto, 8 aprile 2016 Egitto. Il generale, salito al potere come un’ombra, controlla oggi i tre apparati della repressione dopo aver messo gli uomini giusti al posto giusto. A pagarne le spese è la società civile. Il Nadeem Center resiste alla chiusura, ma la scure governativa egiziana pesa ancora sull’organizzazione che tutela le vittime delle torture di Stato. Intanto i leader del Movimento 6 aprile celebrano l’anniversario in prigione, appena condannati a tre anni per proteste non autorizzate e possesso di volantini anti-governativi. E centinaia di altre organizzazioni rischiano di finire strangolate dal disegno di legge sulle Ong che dà al governo il controllo sui finanziamenti e il potere di dichiarare illegale qualsiasi associazione. Ma, ne sono convinti in molti, la firma sotto quel disegno di legge è quella della Nsa, la National Security Agency. Di certo si sa che la Nsa ha formulato "raccomandazioni". Come si sa che su 109 Ong pesa, da marzo, l’accusa di aver ricevuto fondi dall’estero per sabotare l’immagine dell’Egitto (reato per cui si rischia la prigione, dopo la modifica dell’articolo 78 del Codice Penale). Sono seguite inchieste, congelamento delle proprietà, divieti a lasciare il paese, interrogatori. La risposta è univoca: "un assalto orchestrato sulla società civile", scrivevano pochi giorni fa 17 organizzazioni. Per questo aumentano anche le proteste: secondo l’Arabic Network for Human Rights Information, ce ne sono state 23 a febbraio e 37 a marzo. A preoccupare è il ruolo sempre più preponderante dell’Nsa. Ha cambiato solo il nome: prima del 2011 era noto come Ssis, State Security Investigations Service. Tra i principali target della rivoluzione di Piazza Tahrir, è stato abolito nel marzo 2011 per ricomparire come Nsa. Eppure nelle strade egiziane lo slogan risuonò a lungo: "Servizi segreti, siete i bulli, siete i ladri dello Stato". Oggi a capo del Ministero degli Interni - e quindi dell’Nsa - c’è il braccio destro del presidente golpista, Magdy Abdel Ghaffar: dopo 31 anni nel Ssis, oggi controlla 100mila uomini dell’intelligence responsabile di repressione, torture e sparizioni. Ghaffar, con rimpasti con cui ha assegnato posti chiave a uomini di fiducia, ha fatto dei servizi un apparato comprensivo che si occupa di anti-terrorismo come di sicurezza politica. Perché nell’Egitto di al-Sisi le opposizioni (lo sanno bene i Fratelli Musulmani) impiegano poco a finire nel calderone delle organizzazioni terroristiche. Così il presidente golpista ha costruito una strategia ampia che soffoca la società civile dietro la giustificazione della minaccia terroristica. Per ottimizzare la performance, al-Sisi ha messo gli uomini giusti al posto giusto. Non solo Ghaffar: nello stesso giorno in cui il presidente Morsi finiva in prigione, il 3 luglio 2013, il generale nominava a capo del Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni) il suo mentore, Mohammed Farid al-Tohamy. Un messaggio al paese e all’esercito, il braccio su cui al-Sisi fonda la sua legittimità, privo di una forza politica parlamentare alle spalle. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa) e Gis. Da eminenza grigia a nuovo faraone: la scalata del generale è un percorso di doppi giochi, ali autorevoli sotto cui porsi e tradimenti al momento giusto. Restando nell’ombra: quando Morsi, primo presidente democraticamente eletto in Egitto, lo nomina capo dell’esercito e ministro della Difesa, buona parte degli egiziani ignora chi sia. Da lì al-Sisi ha oliato la macchina del golpe, mostrandosi fido consigliere per la sua preda. E si realizza quello che scriveva nel 2006 nella sua tesi di laurea all’Us Army War College, mentre dissertava del concetto di democrazia in Medio Oriente: "Non c’è garanzia che la polizia e le forze armate si allineeranno con i partiti di governo emergenti". A sostenerlo è l’enorme autorità dell’esercito. Sotto Mubarak al-Sisi cresce, si muove nelle reti di alleanze egiziane (addestrato da britannici e statunitensi e poi addetto militare a Riyadh), scala i vertici militari grazie a Tantawi, alla Difesa dal 1991 al 2012 e presidente del Consiglio Supremo delle Forze Armate, il governo di transizione post-rivoluzione. Il governo in cui al-Sisi, cresciuto in una famiglia molto religiosa, entra con il compito di stabilire contatti con la Fratellanza, primo passo verso il golpe. Mauritania: l’ostaggio che l’Italia ignora, da otto mesi in arresto di Chiara Giannini Libero, 8 aprile 2016 Cristian Provvisionato, 42 anni, è bloccato in Mauritania dall’agosto scorso per una presunta truffa informatica. Non c’è soltanto il caso dei marò a tenere in tensione costante la diplomazia italiana. C’è infatti un altro cittadino italiano - si chiama Cristian Provvisionato, è milanese (risiede a Comaredo) e ha 42 anni - che dall’agosto dello scorso anno è di fatto tenuto in ostaggio dal governo della Mauritania. A confermare la storia sono sia la madre dell’uomo, Doina Coman, di origini rumene, che la stessa Farnesina. "Provvisionato - spiegano dal ministero degli Affari Esteri - è stato arrestato a Nouakchott lo scorso agosto. n suo caso viene costantemente seguito dall’ambasciata italiana a Rabat [per la Mauritania è delegato il corpo diplomatico in Marocco, ndr]. Il connazionale - si prosegue - fu infatti fermato dalle autorità mauritane a Nouakchott dopo circa due settimane dal suo arrivo nel Paese, dove si era recato per conto di una società che commercializza prodotti tecnologici per le intercettazioni e il controllo remoto di dispositivi elettronici". La società in questione, spiega la madre di Provvisionato, è la "Vigilar" di Milano, "e mio figlio fu contattato per partire dal figlio del proprietario, Davide Castro". Da allora, come detto, l’uomo è trattenuto in Mauritania con l’accusa - certo piuttosto indefinita - di far parte di una banda internazionale finalizzata alla truffa informatica ai danni dello Stato mauritano nel settore della sicurezza. "A ottobre scorso - dicono ancora dalla Farnesina - ha avuto luogo una missione del console italiano a Rabat, missione che ha consentito di accertare le condizioni in cui si trova il connazionale, che è detenuto non in un carcere comune, ma all’interno di un’accademia di polizia". La madre spiega che il figlio "è diabetico, e quindi necessita di insulina e medicinali specifici. Nel corso di questi mesi ha perso numerosi chili. A febbraio scorso, con mio marito, ci siamo recati in Mauritania per andarlo a trovare, ma stava così male che lo abbiamo riconosciuto soltanto quando si è alzato in piedi. Chiediamo al governo di quello Stato di rilasciare nostro figlio quanto prima, prima di tutto perché è innocente, e poi anche perché le sue condizioni di salute si stanno aggravando. Noi siamo certi che sia stato messo di mezzo". Lo scorso gennaio anche l’ambasciatore Natali ha fatto visita a Provvisionato e ha appreso che la legge della Mauritania impone che l’uomo debba essere trattenuto durante lo svolgimento delle indagini, ma che la detenzione potrebbe durare molto tempo. La Farnesina specifica anche che lo scorso 11 marzo "il direttore generale Ravaglia ha convocato l’ambasciatore della Mauritania a Roma, signora Aoufià, la quale ha anticipato che presto potrebbe essere celebrato il processo, cosa che stupisce molto dal momento che a Provvisionato non è stata mai notificata alcuna accusa". La madre dell’uomo ha anche inviato una lettera al presidente della Mauritania e l’avvocato che i genitori di Provvisionato hanno preso in loco, il legale Boumiya Hamoud, ha presentato la richiesta di libertà provvisoria, purtroppo rigettata. Ciò che stupisce è che Cristian era andato in quel Paese per un lavoro assegnato dalla sua agenzia, ma di fatto ha sostituito un professore - personaggio di cui al momento non si conosce il nome - che a quanto pare aveva subito lo stesso trattamento. Quasi fosse una sorta di scambio di ostaggi, insomma. A occuparsi del caso sono gli avvocati milanesi Vinicio Nardo e Giovanni Pasceri. "Stiamo adottando iniziative giudiziarie - spiega Nardo - per avviare un procedimento penale in Italia volto ad accertare che il trattenimento di Cristian Provvisionato, al di fuori di ogni elementare principio di civiltà, possa costituire un reato perseguibile anche in Italia, individuando i responsabili che lo hanno messo in questa condizione. Anche alla luce di quello che dice l’avvocato mauritano - conclude - abbiamo appreso che la forma di trattenimento è contraria a ogni principio giuridico. Provvisionato non è mai stato interrogato alla presenza di un avvocato e non è mai comparso davanti a una corte in 8 mesi. Questo più che un processo sembra un sequestro di persona di cui deve rispondere chi lo ha mandato in quel Paese". Nei prossimi giorni è prevista un’altra missione diplomatica italiana in Mauritania allo scopo di individuare la miglior strada per liberare Cristian dalla sua prigionia.